martedì 8 marzo 2011

Olocausto invisibile (V)

Il termine Tradizione deriva dal latino Traditio, che indica l'atto di tradere, da trans-dare, con il significato di consegnare ed anche “trasmettere”, come un'eredità, una memoria, una notizia, un insegnamento sia a parole che per scritto.
Oggi il termine si usa generalmente per far riferimento a pratiche, usi e costumi del passato che si ritiene utile perpetuare e tenere vivi nel presente perché divenuti simbolo di riconoscimento dell’identità di una nazione (come di un piccolo paese); si ha così l'abitudine di attribuire al termine una valenza positiva: la tradizione diviene allora un valore da non perdere e da rispettare. Inoltre, come simbolo identitario e riconoscitario, di una nazione (o piccolo paese che sia) funziona anche da collante della comunità. Gli abitanti che rispettano le tradizioni si uniscono nel medesimo rituale comportamentale.
Le tradizioni però non sono tutte buone. Esistono anche tradizioni che sarebbe meglio abbandonare: o perché non più al passo con il progresso civile o perché riconosciute come non rispettose di quei valori divenuti oggi principi etici inderogabili ma che nel passato non erano stati ancora definiti o riconosciuti come tali.
Purtroppo molte tradizioni del nostro paese (ma non solo, basti pensare a quella della Corrida in Spagna, estesa anche al sud della Francia) prevedono l’impiego di animali.
E’ di domenica scorsa la notizia di un cavallo rimasto tragicamente ucciso in  seguito ad un incidente (con conseguente lesione della giugulare, quindi la morte della povera creatura è avvenuta per dissanguamento), accaduto durante l’annuale corsa lungo un tragitto cittadino (quindi su un terreno non adatto agli zoccoli dell’animale) che si tiene a Ronciglione (VT). L’animale ferito, sofferente, gemente e morente è stato “provvidenzialmente” coperto con un panno e trascinato via (mentre stava morendo!) affinché gli “spettatori” non restassero turbati dallo “spettacolo”. Alcuni anni fa, sempre nello stesso paese, e sempre nella medesima occasione, accadde un altro evento simile: lo zoccolo di un cavallo che correva rimase impigliato nel sanpietrino (o nella grata di un tombino, non ricordo esattamente) della strada e - poiché l’animale procedeva ad una velocità esasperata (magari era stato persino dopato! Sicuramente era terrorizzato dal trovarsi in un ambiente così lontano e diverso dalle sue esigenze, frastornato dal vocìo incessante e dalle urla di incitamento del pubblico) - mentre lo zoccolo restò incastrato, la gamba gli si spezzò di netto: l’animale cadde a terra, tra urla laceranti e schizzi di sangue dappertutto. Il pubblico rimase scioccato. Dopo parecchi minuti qualcuno propose di sparare al cavallo per porre fine alla sua agonia. Vi rendete conto? Una gamba spezzata di netto! Chissà quanto dolore e spavento deve aver provato quella creatura. Io, sinceramente, provo angoscia profonda al solo pensiero.
Questi due tristi e tragici esempi sono il risultato di una tradizione. La tradizione di far morire creature senzienti affinché qualcuno si diverta. Quale divertimento ci si possa aspettare da questi incidenti (che non sono così rari come si crede ma accadono puntualmente nell’esercizio di simili pratiche) non è dato saperlo.
Come mai è stata abolita la tradizione dell’impiccagione pubblica, se l’orrore è così divertente? Fortunatamente con l’estensione dei diritti umani molti stati hanno proprio del tutto abolito la pena di morte, mentre altri che ancora la praticano (tra cui molti dell’evolutissima America) hanno comunque abolito le pratiche apparentemente più dolorose e disumane e comunque di certo  le esecuzioni non vengono più considerate, da molto tempo ormai, spettacoli di intrattenimento. Quindi l’orrore non è più poi così divertente!
Difficile poter assistere ancora allo spettacolo dei gladiatori, no?
Ma perché la medesima considerazione non viene fatta per gli animali, allora?
Qui non stiamo parlando di finzione, come avviene nei film horror (per cui si esorcizzano le proprie paure nel calore confortevole del divano di casa propria, con la consapevolezza di essere del tutto al sicuro dal Freddy Krueger di turno), qui stiamo parlando di esseri viventi, di creature che soffrono e provano dolore, angoscia, disperazione. Come possiamo divertirci di fronte al dolore di un altro essere (a meno che non si sia affetti da serissimi disturbi di natura psichica)?
Si continua invece a considerare divertenti gli spettacoli in cui animali indifesi vengono barbaramente trucidati.
Cos’è la corrida spagnola, infatti, se non lo spettacolo di un’uccisione in diretta? Oltre tutto anche disonesta, perché i tori vengono previamente imbottiti di calmanti e farmaci che rallentano le loro percezioni e reazioni. Sono semi-addormentati. Mentre il torero - riccamente agghindato - si diverte a conficcargli (o - atto ancor più vile - a fargli conficcare dagli “aiutanti”) coltelli e punteruoli su tutto il corpo,  a schernirlo, umiliarlo, stressarlo, torturarlo, ferirlo, infine ammazzarlo. E’ davvero, come dicono, lo spettacolo che inscena la lotta dell’uomo contro l’animale? La forza umana contro quella animale? No. E’, semmai, la vigliacchieria tutta umana contro l’impossibilità di una creatura, resa previamente inerme, a difendersi. E osiamo portare avanti questa barbarie in nome della tradizione? Allora perché non ripristiniamo anche lo spettacolo dei gladiatori? Sai che accesso di pubblico! Sai quanti soldi!

Siamo alle solite. Gli animali vengono considerati come oggetti, non dotati di un valore intrinseco ma considerati utilitaristicamente come risorse rinnovabili messe a nostra disposizione affinché ce ne possiamo servire a nostro uso e piacimento.
E così continuano ad esistere Il Palio di Siena, le corse dei cavalli a Ronciglione (e in numerosi altri paesi della nostra bella Italia), le corse dei tori a Pamplona, i combattimenti dei cani, le corse dei cani, la Corrida, i Circhi. Gli zoo (ah sì, adesso hanno cambiato nome, si chiamano bioparchi, ma le reti e le gabbie ci sono ancora, e gli animali - come fenomeni da baracconi, devono sorbirsi i nostri sguardi e le urla continue della gente che - fuori - libera - si sente meno in colpa perché il posto che stanno visitando - per cui pagano - si chiama “bioparco”).
Funzionano per il turismo. Afferma qualcuno. Ripeto, anche lo spettacolo dei gladiatori darebbe una bella sferzata al turismo!
Perché non raccontare ai bambini la verità su come vengono ammaestrati gli animali nei circhi? Come può la natura orgogliosa e possente di un leone o di una tigre eseguire numeri così umilianti e ridicoli in cui viene palesemente sottomessa ad un domatore? Già il termine “domatore” la dice lunga. Come pensate che vengano ammaestrati questi animali? Dandogli uno biscottino come si fa con il proprio cane quando ci riporta la palla? No. Sbagliato. Vengono picchiati e spossati dalla fame e dalla sete (così che diventino del tutto dipendenti ma anche terrorizzati dall’uomo che li “governa”), poi indotti ad eseguire i numeri richiesti sotto minaccia di ulteriori percosse o limitazioni. Il povero animale deve capire subito con chi ha a che fare! Deve temere l’uomo! Quindi giù botte, giù pungoli elettrici per inibire un movimento ed ordinarne un altro! Giù privazioni e maltrattamenti affinché capisca chi è che comanda! Giù percosse e frustate fino a che non farà quello che l’uomo in divisa gli ordina! Senza contare l’orrore di essere privato della libertà, di essere rinchiuso in gabbie per tutta la vita, senza mai vedere un prato, un fiume, un albero.
E tutto questo noi lo chiamiamo “spettacolo”.
Anche io continuo a chiamarlo spettacolo: il triste spettacolo della bestialità e della cattiveria dell’uomo sugli animali.
Ma anche senza arrivare a questi esempi così plateali, la strumentalizzazione dell’animale da parte dell’uomo avviene molto più spesso di quanto ci rendiamo conto.
Comprare un cucciolo di cane in un negozio di animali (si badi bene al termine “comprare”, termine notoriamente riferito agli oggetti, alle cose inanimate) affinché “faccia la guardia” è anch’essa una strumentalizzazione. Un negare il valore intrinseco alla natura di essere vivente che gli appartiene di diritto per ridurlo ad una mera risorsa rinnovabile (quando muore, ne prendo un altro).
Anche espressioni di uso comune come: “il mio cane”, “il mio pesciolino”, “io sono il padrone” sono termini che non fanno che rimarcare ed accrescere la strumentalizzazione implicita ed impedire il riconoscimento di queste creature come “altro da noi”, come esseri dotati di una propria esistenza che non può e non deve in nessuna maniera avere questo rapporto di oggettificazione che invece oggi è socialmente mantenuto vivo proprio dall’uso di questa determinata terminologia. Bisogna imparare ad entrare nell’ordine di idee per cui i cani, i gatti, i pesci rossi ecc. hanno una vita che è loro propria, che gli appartiene, che ha un valore ed un significato indipendente dal tipo di rapporto che noi stabiliamo con loro. E’ vero che ci prendiamo cura degli animali domestici, che li amiamo, che li curiamo e li portiamo dal veterinario quando ne hanno bisogno ma non per questo diventano “oggetti di nostra proprietà”. Allora perché continuare a dire “vorrei comprare un cane?”. Lo so che molti di noi lo dicono ingenuamente, anche in senso affettuoso, così come diciamo “il mio amore”, “il mio maritino”, "la mia ragazza" ecc., ma per quanto riguarda gli animali c’è ancora troppa abitudine diffusa a considerarli come oggetti, come esseri messi a nostra disposizione per noi sul pianeta affinché potessimo servircene (dov’è che ho sentito questa espressione? Ma non è che è stata tradotta ed interpretata male da qualche strano libro esotico? E comunque sia... erano altri tempi) che sarebbe meglio provare a definirli con altri termini.
Io “non posseggo” un cane. Io “non ho” un cane, bensì: io sono amica del mio cane, in un mutuo e corrisposto sentimento reciproco. Io convivo con un cane. Io ospito un cane nel mio appartamento. Ecco, sarebbe più appropriato dire così.
Le parole determinano e costituiscono l’idea che ci facciamo della realtà; magari non la colgono davvero ma, come astrazione convenzionalmente stabilita di un significante che sta a significare qualcosa, indicano e formano l’idea e la qualità di qualcosa. A forza di dire “io ho un cane”, “io compro un cucciolo” si rafforza l’idea sbagliata che gli animali siano degli oggetti.
Per l’ennesima volta torno a ripetermi: siamo troppo schiavi della cultura in cui siamo immersi da credere che certi comportamenti siano “naturali”. Dire di un altro essere “è il mio”, non è naturale. Nessuno possiede nessuno. Nè, altre persone, né animali.
Per lottare contro la cultura imperante che vede gli animali come oggetti da usare è importante compiere dei piccoli gesti “trasgressivi” ogni giorno ed in ogni occasione; l’uso di una parola piuttosto di un’altra, a lungo andare, può fare la differenza. Questo discorso vale per qualsiasi altra cosa: visto che oggi è proprio la festa della donna, vorrei ricordare quanti degli stereotipi che per secoli hanno tramandato una concezione errata del valore della nostra femminilità siano stati diffusi e tramandati proprio grazie all’uso continuo di determinate espressioni e parole. E noi abbiamo lottato per sfatare certi miti (formatisi anche - anzi, soprattutto -  attraverso la letteratura, quindi con le parole) e in parte ci siamo riuscite. Quindi ritengo che per distruggere la concezione errata che gli animali siano semplicemente oggetti a nostra disposizione sia utile modificare anche alcune espressioni del linguaggio corrente, che senz’altro - anche se pronunciate ingenuamente - rafforzano l’opinione imperante.
Sarebbe bello non dover sentire mai più qualcuno dire: “ho comprato un gattino per far giocare mio figlio” (purtroppo ho avuto modo di sentire personalmente questa espressione da un conoscente), salvo poi abbandonarlo quando il bambino - abituato a considerarlo alla stregua di qualsiasi altro giocattolo perché è così che i genitori gli hanno insegnato a “vederlo” - si sarà infatuato di un nuovo passatempo.
Non portate i vostri figli nei negozi in cui si vendono animali. Gli animali non sono giocattoli. Un tempo si andava al mercato a comprare gli schiavi. Quel tempo è finito. Fate che finisca anche quello in cui una creatura senziente possa venire acquistata con tanto di gabbietta o vaschetta allegata. Lottiamo tutti insieme per un circo senza animali (la Lav sta portando avanti questa campagna da tempo, sul suo sito ci sono anche delle petizioni da firmare), per l’abolizione dei bioparchi (e non sto parlando delle riserve naturali in cui vengono protetti animali in via d’estinzione, quelle sono una cosa diversa e lodevole perché lì gli animali vivono in libertà), dei delfinari (non è vero che i delfini si divertono a giocare! Sono ammaestrati, eseguono semplicemente gli ordini! Questi luoghi trasmettono un’immagine ben diversa dalla realtà effettiva ed i bambini da soli non possono rendersi conto che dietro c’è comunque coercizione e privazione della libertà).
Riflettiamo sul diritto degli animali a vivere una vita indipendente da quelle che sono le nostre personali esigenze. Ogni creatura esiste per se stessa e non per qualcun altro. L’uso strumentale di chi ci circonda (a due o quattro zampe che sia!) è sempre sbagliato.

P.S.: vorrei che leggeste questa bellissima lettera scritta in risposta ad un delirante articoletto (di cui troverete il link nella lettera stessa), risalente allo scorso novembre, su Il Giornale: autore della lettera - peraltro, nonostante l'invito a rispondere, mai pubblicata -  è Leonardo Caffo, il cui intelligente ed interessante blog merita di essere visitato.

5 commenti:

Paolo ha detto...

Ecco, queste parole sono una ventata di aria fresca.

Trovo anche io che essere esseri umani non implichi la libertà di giocare con la vita altrui. Anzi, dovremmo saperne afferrare meglio il senso.

Sono del tutto d'accordo. E felice di aver trovato questo posto.

Rita ha detto...

Ciao Luca, mi fa piacere che apprezzi le mie riflessioni.
Sono passata a curiosare sul tuo sito, e... beh, complimenti sinceri anche a te, soprattutto per il dono dell'ironia che riesci sapientemente a mettere al servizio di argomenti molto seri.
Volevo lasciarti un messaggio ma vedo che hai disabilitato l'opzione. E comunque, in merito alla conclusione sul tuo ultimo post, hai proprio ragione... chi era, Laing, se non erro... che diceva che "la famiglia è il crogiolo della schizofrenia", o anche "un covo di serpenti"... ?
Inoltre, sempre sbirciando sul tuo sito, sono venuta a conoscenza del documentario "Earthlings", che non conoscevo... lo guarderò senz'altro, anche se conosco già tutti i meccanismi dello sfruttamento animale da parte dell'uomo.
Purtroppo l'uomo è viziato alla base anche dalla visione antropocentrica, da cui deriva quella specista. Credo che la colpa sia da attribuirsi in grandissima parte alla religione cattolica; al contrario, le religioni orientali, ad esempio, predicano il rispetto per TUTTE le forme di vita.
Magari ci scrivo un post su questo va... anche se sarei la persona meno adatta in quanto le religioni proprio non mi interessano se non come curiosità antropologica... ma più volte mi è capitato di constatare questa presunzione da parte dei cattolici di sentirsi specie superiore sul pianeta con il diritto di sterminare e sfruttare tutte le altre; prendi anche la cultura americana, cos'è se non l'unione del più bieco utilitarismo con il calvinismo più retrivo?
Insomma, si fa un gran parlare di "sacralità" della vita ma senza comprenderne davvero il senso.

Sai che faccio, adesso ti metto tra i miei preferiti ;-)

Claudio ha detto...

La tradizione è male in sé. E' la madre di tutti i mali. Non esistono tradizioni buone: la tradizione è costitutivamente sbagliata, in quanto assoggettamento cieco a dinamiche robotiche e prosecuzione di dialettiche di potere arcaiche. E' quello il primo orrore di cui dobbiamo liberarci.
E mi è piaciuto particolarmente il passaggio sulla differenza tra possesso dell'animale ed amicizia con l'amicizia con l'animale.

Claudio ha detto...

Errata corrige: "ed amicizia con l'animale".
Sono pedantepuntigliosopignolo, lo so.

Rita ha detto...

"Sono pedantepuntigliosopignolo, lo so."

;-) a chi lo dici! Ogni volta che pubblico un mio post poi torno a modificarlo un sacco di volte perché mi saltano agli occhi errori o sviste di digitazione.
Ciononostante, qualcuno resterà pure, il fatto è che bisognerebbe rileggersi dopo un po', lasciare che la propria scrittura si "riposi", altrimenti la mente non "vede" gli errori.
Sono Miss Perfettina anche io, almeno nella scrittura ;-) (in tutto il resto sono una cialtrona incredibile!).