martedì 7 giugno 2011

Nemesi di Philip Roth


A volte si è fortunati e a volte non lo si è. Ogni biografia è guidata dal caso e, a partire dal concepimento, il caso - la tirannia della contingenza - è tutto. E’ al caso che ritengo Mr Cantor si riferisse quando vituperava quel che lui chiamava Dio.

La vicenda dell’ultimo romanzo del più grande scrittore vivente (secondo la sottoscritta, almeno) si svolge a Newark (paese natio del suddetto) durante un’estate caldissima del 1944, passata alla storia non soltanto per le vicende belliche che avevano visto partire per il fronte molti giovani, ma anche per una tremenda epidemia di polio che aveva seminato panico e terrore, invalidato ed ucciso moltissimi bambini e ragazzi.
Protagonista è Bucky Cantor, un ragazzo atletico e coraggioso, campione di lancio del giavellotto e ottimo sollevatore di pesi, scalfito nel fisico da una muscolatura possente e nello spirito da un profondo senso del dovere e da un sentimento di responsabilità instillato in lui dal nonno paterno sin dai primissimi anni della sua infanzia; Bucky, affranto per non essere stato chiamato al fronte a compiere quello che egli ritiene il proprio dovere per il proprio paese, a causa di problemi alla vista, resta in città deciso a combattere la sua guerra personale, quella contro l’epidemia di polio, che inesorabilmente, giorno dopo giorno, sta falcidiando i ragazzi del campo giochi estivo in cui è istruttore. Consapevole di essere un punto di riferimento per tutti i “suoi” ragazzi, specialmente in un momento tanto delicato, dilaniato dai sensi di colpa di fronte all’impotenza nel riuscire a proteggerli dal contagio, accecato dal furore contro un Dio inesplicabilmente malvagio per aver dispensato dolore e malattia, incapace di accettare l’incongrua casualità degli eventi, arriva pian piano a farsi carico di una personale responsabilità e a trasformarsi, interiormente e fisicamente, durante un processo che dura una vita, nel capro espiatorio delle iniquità del mondo.

Sono sincera: arrivata oltre la metà del romanzo, mi era sembrato di trovarlo minore rispetto agli altri di Roth. La storia è certamente coinvolgente, ben narrata e documentata, ma la scrittura stavolta mi era parsa meno efficace, meno tagliente, meno caustica ed incisiva (segni distintivi dello stile di Roth sono infatti il tono dissacrante e corrosivo con cui svela e mette a nudo tutte le illusioni ed ipocrisie del vivere cui l’essere umano si affida, salvo poi crollare, nudo ed indifeso, di fronte all’illusorietà e falsità di ogni certezza e ricerca di senso).
Poi, in dirittura d’arrivo, e parlo proprio delle ultime venti o trenta pagine, quando l’intera parabola del protagonista è stata delineata - raccontata da una voce fuori campo di cui solo  alla fine si rivelerà il personaggio cui appartiene - la struttura del romanzo mi è improvvisamente apparsa in tutta la sua stupefacente ingegnosità.

Il disastro che si era abbattuto sul campo giochi della Chancellor e poi su Indian Hill a lui non era sembrato una maligna assurdità della natura, ma un grande crimine a suo carico, che gli era costato tutto quel che un tempo possedeva e gli aveva distrutto la vita. In uno come Bucky il senso di colpa potrebbe sembrare assurdo, ma in realtà è inevitabile. Una persona così è condannata. Niente di ciò che fa è all’altezza dell’ideale che nutre dentro di sé. Non sa mai dove finisce la sua responsabilità. Non accetta i propri limiti perché, gravato da un’austera bontà naturale che gli impedisce di rassegnarsi alle sofferenze degli altri, non riconoscerà mai di avere limiti senza sentirsene in colpa.

In questo idea grandiosa del sé certamente Bucky Cantor mi ha ricordato Lord Jim di J. Conrad, ma se lì è l’ideale romantico a soccombere di fronte alla cruda prova dei fatti di una debolezza congenita, tutta umana, qui siamo all’interno di una concezione del sé che sconfina in una grandiosità sostitutiva di un Dio inappellabile e rifiutato.
Philip Roth, come in ogni sua opera, non solo riferisce - con operazione di astrazione dal particolare all’universale -  di una condizione esistenziale del tutto affidata all’inintelligibilità del caos, ma compie qui un’operazione ancora più radicale,  delegittimando il rifugio nella religione attraverso l’inutilità della simbolica appropriazione - da parte del protagonista - dell’antico rito ebraico del capro espiatorio.
Bucky Cantor, assumendo su di sé le colpe dell’epidemia, ritenendosi portatore sano del contagio, riveste simbolicamente questa funzione espiatoria nel tentativo di portare un popolo alla salvezza. Inutilmente. Fallendo miseramente.
Psicologicamente, assumersi la responsabilità di qualcosa, equivale ad attribuirle un senso, a configurarla in uno schema logico di causa-effetto; che è esattamente anche quello che cerca di fare ogni religione, ossia dare una risposta - comprensibile - al problema ontologico del Male.
Philip Roth, irreligioso, iconoclasta, facendo coincidere le radici del mito ebraico del capro espiatorio nel protagonista di Nemesi, tenta di rispondere all’antico problema (quello dell’origine del Male) secondo una prospettiva laica, nella sola maniera che gli è concessa, ossia scavando nelle dinamiche psicologiche di un uomo - Bucky Cantor, il quale - racchiudendo nella sua parabola esistenziale il destino di una città, di un popolo, dell’umanità tutta - diviene simbolo iconico (e la lunga sequenza descritta nei minimi dettagli del lancio del giavellotto delle ultime pagine rappresenta paradigmaticamente l’essenza di questa figura iconica) - dell’incomprensibilità del caso e del nonsense esistenziale derivato, unicamente, dalla tirannia della contingenza.
Quindi, un romanzo diverso a livello formale, certamente una scrittura più dimessa e semplice, meno cerebrale, ma che nei contenuti si conferma come ennesimo capolavoro riuscito della poetica di questo grandissimo scrittore e di quelle tematiche di cui da sempre si fa portavoce autorevole.

12 commenti:

MrJamesFord ha detto...

Interessante, questo spunto.
Non mi sono mai buttato su Roth, direi che potrebbe essere un incentivo per iniziare.

Rita ha detto...

Allora ti indico quali secondo me sono gli "imperdibili":
- Pastorale americana;
- La Macchia umana (da cui è stato tratto anche il film, ma non all'altezza del romanzo, in quanto si è soffermato solo sulla storia d'amore, che invece è parte dell'ingranaggio della vicenda, ma non ne è assolutamente il fulcro);
- Il teatro di Sabbath;
- Everyman;
- Lamento di Portnoy;

Quella di Roth è una scrittura certamente impegnativa (ecco, forse in quest'ultimo, Nemesi, molto meno elaborata, più diretta, più narrativa e meno speculativa), ma che ti dà anche tanto, che ripaga lo sforzo fatto.
Affronta tematiche esistenziali. Al centro l'uomo e le illusioni in cui si culla dalla nascita, e soprattutto l'impossibilità di acquisire certezze date una volta per tutte. E poi le enormi contraddizioni della vita, il caso che scompiglia ogni piano, i paradossi dell'esistenza.
E ancora, sopra a tutto, la consapevolezza della morte (preceduti dall'invecchiamento ed il decadimento fisico e mentale) ed il tentativo di tenerla lontana attraverso il sesso, che è sempre vissuto e ricercato nei suoi aspetti di pura carnalità con un accanimento quasi ossessivo.
Gli ultimi romanzi, rispetto alla prima produzione, sono più intimisti, più dimessi, meno esuberanti.
Un saluto :-)

MrJamesFord ha detto...

Mi sa tanto che allora dovrò concentrarmi sui primi, di romanzi.
Io sono assolutamente più per la Natura - come dicevamo - e per quell'accanimento che ti sfinisce, ma ti da sempre l'impressione di stare vivendo al massimo.

Rita ha detto...

Allora ti piacerà Il teatro di Sabbath ;-)

Anonimo ha detto...

ogni volta che leggo una tua recensione provo il desiderio di comprare il testo recensito.
mi domando se il motore sia la bontà del libro o quella della recensione.

Anonimo ha detto...

PS: poi finisce che il libro non lo compro, perche concludo che non avrei il tempo per leggerlo. la cosa curiosa (dell'umana debolezza) è che mi ritengo soddisfatto di quell'unico rapporto col testo, avuto tramite la tua recensione...

Rita ha detto...

Ma io penso più che dipenda dalla bontà del libro ;-)
Il fatto è che recensisco quasi sempre solo libri davvero molto belli ed è facile scrivere recensioni accattivanti di libri significativi (ne leggo pure di brutti o insignificanti, ma quelli non li recensisco appunto).
Comunque mi fa moltissimo piacere questo fatto che ti invoglio a comprarli perché mi piace condividere le buone letture.

"la cosa curiosa (dell'umana debolezza) è che mi ritengo soddisfatto di quell'unico rapporto col testo, avuto tramite la tua recensione... "

E questo mi fa ancora più piacere, significa che in qualche modo faccio arrivare qualcosa... ecco, ora so che le mie recensioni hanno un senso (a volte mi capita di pensare che siano inutili).

Sono contenta che sei passato a salutarmi, era tanto che ci dovevamo sentire. :-)

Anonimo ha detto...

macché inutili! sei un ottimo critico e, sì, di senso, ne aggiungi a volontà nelle recensioni; per questo le tue recensioni sicuramente "hanno un senso" :D

circa il sentirci, preferei il vederti: spero che l'ottimo Claudio ti abbia convinto ad essere da noi sabato 1.

Rita ha detto...

Sì, sì, mi accennato qualcosa ieri sera e sarei lietissima di unirvi a voi; non mi ha detto nulla in particolare di sabato, ma dovrei incontrarlo tra poco, quindi chiederò numi. ;-)
A prestissimo allora. :-)

E grazie per i complimenti in merito alle mie recensioni.

Rita ha detto...

errata corrige:
chiederò LUMI, ovviamente. :-D

Anonimo ha detto...

ero ansioso di sapere una tua risposta anche di massima. grazie di avermi soddisfatto. allora ti aspettiamo il primo del prossimo.

Rita ha detto...

OK, a prestissimo allora! Poi mi metto d'accordo con Claudio.
Sono contenta di poterti conoscere. :-)