martedì 29 novembre 2011

I Giorni Contati di Elio Petri (ed una riflessione sul lavoro)

Cesare (Salvo Randone, eccezionale come sempre), che di professione fa lo stagnaro (termine in romanesco per dire idraulico), un giorno, mentre si trova sull’autobus, assiste alla morte di un uomo, pressapoco suo coetaneo, colto improvvisamente da un infarto. L’evento lo colpisce come una sorta di epifania: resosi conto di aver ormai trascorso buona parte della sua esistenza e di poter anch’egli morire così, di punto in bianco, decide di smettere di lavorare e di godersi il poco tempo che gli resta, tentando di riappropriarsi di quel sacro fuoco della vita che sente ormai spegnersi dentro di sé e di dedicarsi a tutto ciò che aveva trascurato fino a quel momento.
Questo il punto di partenza di uno dei migliori film di Elio Petri, riuscitissimo connubio di neorealismo ed esistenzialismo in una Roma dell’epoca, siamo nel 1962, restituita a partire da tanti piccoli dettagli ma allo stesso tempo trasfigurata oniricamente nell’ottica  deformante del protagonista.
La riflessione esistenziale di Cesare diviene il pretesto per riflettere sulla condizione sociale dell’essere umano, costretto a lavorare per tutta la vita, a veder allontanarsi pian piano tutti gli affetti (cinica la figura del figlio che va a trovarlo solo per chiedergli dei soldi e che si preoccupa della decisione del padre di aver smesso di lavorare solo per paura di doverlo mantenere) per poi improvvisamente giungere al capolinea senza aver avuto il tempo di “vivere” realmente.
Dapprima si pone dunque la questione del lavoro attraverso una scissione dialettica: da una parte ci sono gli amici di Cesare che - da persone pratiche quali sono - lo intendono come mera necessità: “se vuoi mangiare, devi lavorare”; dall’altra c’è la visione esistenziale (“tu sei un esistenzialista senza nemmeno saperlo”, dice un mercante d’arte a Cesare) per cui il lavoro è visto come una sorta di condizione forzata che sottrae il tempo a ciò che realmente si vorrebbe fare e che, distraendo l’essere umano da questioni più filosofiche (“quando lavori non pensi a niente, come distrazione funziona bene”, dirà Cesare ad un certo punto), ne annulla la consapevolezza del vivere.
Il dialogo iniziale evidenzia appieno questa dicotomia: Cesare dice ad un suo amico che vuole smettere di lavorare perché ha visto un suo coetaneo morire e si è reso conto che domani potrebbe toccare a lui; “embeh, pure i neonati muoiono, allora non avresti mai dovuto lavorà”, gli risponde l’amico, come a dire: la consapevolezza della morte, del fatto che tutti siamo destinati a morire, non può essere un pretesto per non lavorare. Lavorare è una necessità dalla quale non si può sfuggire.
Cesare stesso del resto finisce per assumere una posizione ambivalente: avverte quest’esigenza profonda di recuperare il passato, ma pian piano realizza che questo recupero non è più possibile al solo prezzo dell’abbandono del lavoro. Gli amori passati, sono ormai passati ed è impossibile riaccendere vecchie passioni. Il paese natìo è ormai un cumulo di ricordi sepolti da un presente che non gli appartiene più e gli amici di un tempo a stento lo riconoscono, abbrutiti e sconsolati, di una disperazione che è disperazione del vivere, di qualsiasi vivere, a qualsiasi età.
L’arte offre ben poca consolazione, testimone anch’essa del tempo che passa.
Il tentativo di guadagnarsi da vivere ricorrendo agli impicci (truffe, piccoli affarucci illegali) richiede coraggio ed un certo spirito di avventura per il quale bisogna essere nati (e Cesare non possiede né l’uno, né l’altro).
Cosa resta allora se non rimettersi a lavorare, almeno nella certezza di non dover chiedere niente a nessuno e di ingannare così il tempo che passa attraverso la distrazione di giornate piene di lavoro?
E’ un film amaro. Amaro perché ciò che ruba il tempo all’uomo non è solo il lavoro - dal quale pure, volendo e riuscendoci, ci si potrebbe affrancare, ma che si pone comunque nel film come problematica non indifferente - ma il tempo stesso che scorre. La vita, come suggerisce la cupa scena finale, è un cammino che si snoda su un binario limitato, che ha un inizio ed una fine, ed al cui capolinea tutti giungiamo prima o poi. Certo, arrivarci senza alcuna consapevolezza alcuna, dopo una vita di duro lavoro, magari non è il massimo. Ma forse arrivarci consapevolmente è pure peggio. Il momento dell’imbocco del tunnel rimane come visione improcrastinabile ed inevitabile, tutto il resto è ciò che, in qualche modo, è trascorso. Perduto per sempre.
Una delle scene che mi ha intristita di più è quella in cui la figlia della donna presso la quale Cesare sta a pensione, ammettendo la poca voglia di lavorare, dichiara di aver speso i soldi che Cesare le aveva prestato come cauzione per ottenere un lavoro da commessa, per comprarsi una parrucca; Cesare inizialmente la rimprovera, ma poi, seppure con poca convinzione le dice: “ma sì, sì, divertiti pure”. E’ un’incitazione al divertimento connotata però da una nota di profonda amarezza perché tutto è destinato a passare, anche il divertimento. La giovane ragazza è un personaggio tragico perché ha la funzione di ricordare a Cesare quello che egli non è più, ma anche quello che lei diventerà: sono specchi reciproci in cui ognuno vede nell’altro il riflesso del se stesso che è stato o del se stesso che sarà. In entrambe le funzioni c’è il memento del tempo che scorre.
Ne I Giorni Contati questa funzione del tempo che passa - e che muta non solo le persone, ma anche i luoghi - è vividamente resa anche attraverso le riprese della città - una nouvelle vague  tutta romana - vista attraverso il vagabondare di Cesare, a piedi, sui tram, sugli autobus, su una vespa (bellissima la scena in cui sale in sella ad una vespa guidata da un ragazzo e chiede di inseguire una camionetta dei pompieri: c’è molto Godard, ma per approdare ad un contesto sociale neorealistico), una città che scorre all’esterno e che diviene a tratti protagonista, ma di cui i sensi ne percepiscono anche i suoni e ne colgono i colori con una rielaborazione del tutto soggettiva.
Non è un film che però intravede una salvezza nella funzione salvifica del ricordo (che fissa il tempo), ma che anzi ne evidenzia tutta l’illusorietà.
L’aspetto che mi ha più colpita, una volta tanto, non è quello di avere tutti - come dice il titolo - i giorni contati e di essere diretti ad un capolinea inevitabile, quanto quello della questione sociale del lavoro.
Anche io penso spesso che il lavoro - così come è strutturato nella nostra società - sia più una sorta di schiavitù, di prigione ripetitiva di gesti tutti uguali che non una reale affermazione della dignità dell’essere umano. Il lavoro rende liberi, certo, nella misura in cui ti affranca dal dover chiedere l’elemosina e ti permette di mantenerti, ma un lavoro che non piace, lo svolgere di una mansione necessaria al fine di guadagnare è anche una forma di schiavitù.
Trascorrere una vita intera nella rinuncia di ciò che si vorrebbe realmente fare nell’illusione che lavorando - una volta messi da parte i soldi, ed ammesso che ci si riesca -  ci si possa permettere poi di fare quello che si vuole fare, ma sempre con quel tarlo della morte che potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento, a me in realtà intristisce molto perché mi viene da pensare che la vita in fondo è adesso, proprio mentre stiamo lavorando e come la stiamo trascorrendo? Lavorando. E allora mi viene voglia di lasciar perdere tutto.
A meno che a uno non piaccia davvero il proprio lavoro e che trovi quelle ore degne di essere vissute.
In generale, a me fanno pena tutte quelle persone che trascorrono 10 - 12 ore in ufficio con la speranza di mettersi da parte un bel gruzzoletto per godersi la vita in un prossimo futuro o per farsi una bella vacanza all’anno; e se poi quel futuro non ci fosse? E se poi quella vacanza non si potesse più fare perché ci si ammala?
Mi viene in mente un amico di mio padre: una persona molto ricca, che aveva una grande fabbrica e che trascorreva veramente dalle 12 alle 14 ore in ufficio ed il tempo rimanente sempre in giro per banche, avvocati e clienti e attività comunque inerenti il lavoro. Una volta mio padre, vedendolo stanco, gli disse: “ma hai un sacco di soldi, ma fatti una bella vacanza, un bel viaggio, lavora meno, mettiti a riposo, goditi la vita”, e lui rispose: “sì, hai ragione, ho intenzione di continuare così ancora qualche anno, poi mi metto in pensione ed inizio a godermi la vita”. Volete sapere che fine ha fatto? A riposo ci si è messo, ma dentro una bara: morto d’infarto dopo qualche mese da quella conversazione che aveva avuto con mio padre.
Allora, prendendo spunto dal bellissimo film di Elio Petri, è come al solito una riflessione esistenziale che vi chiedo; ma anche sociale. Ferma restando l’inarrestabilità del tempo, la difficoltà di godere pienamente, consapevolmente, lucidamente ogni singolo attimo, l’amara constatazione che abbiamo tutti i giorni contati, ma non si può provare a ripensare questo concetto di società basata sul lavoro? Non sarebbe meglio lavorare tutti meno, distribuire meglio le risorse lavorative? Certo, una soluzione simile non la sto pensando certo io per la prima volta. Mi domando però perché ci debbano essere tante visioni e concezioni esistenziali differenti, perché c’è gente che non capisce che è meglio vivere ora bene, anziché domani - un domani che magari non ci sarà?
Questa visione del sacrificio oggi per un domani migliore sicuramente è stata introiettata nella gente anche dalla religione cattolica.
Secondo me è da rivedere proprio questo concetto - e parlo di rivederlo a livello profondo - sul lavoro inteso come mansione che nobilità l’uomo e fatto passare per valore assoluto.
E’ una necessità. Sì, me ne rendo conto. Ma perché dovrebbe essere anche un valore?
Il senso della mia esistenza, come diceva André Breton, io non lo trovo e non voglio trovarlo nel lavoro. Fossi stata Cesare, il protagonista de I Giorni Contati, forse avrei preferito continuare a vagabondare fino alla fine.

18 commenti:

Masque ha detto...

Ho letto solo un pezzettino del tuo post, perché penso proprio che questo film me lo guarderò. Non volevo anticiparmi nulla :)

Ho già visto alcuni altri film di Elio Petri e li ho trovati tutti stupendi. In parte per lui, ed in parte per la presenza di Gian Maria Volonté :)

Rita ha detto...

E' un grandissimo regista.
Hai fatto bene a non leggere tutto il mio post, magari poi dopo che lo avrai visto ne riparleremo.
Hai visto Le buone notizie? Io non ancora, però mi dicono sia un capolavoro. Appena mi capiterà l'occasione lo vedrò.
Buonanotte :-)

Masque ha detto...

Di Petri ho visto il documentario sull'omicidio di Giuseppe Pinelli, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto e Todo modo.

Li avevo visti perché stavo cercando tutti i film con Volonté. "La proprietà..." invece, perché avevo letto che completava una trilogia sulle nevorsi iniziata dai due precedenti. :)

Rita ha detto...

Più o meno gli stessi che ho visto anche io (mi manca quello su Pinelli e Todo modo).
Ah, pure La decima vittima non è male.
Ieri sera invece ho visto un film francese di fine anni '50: "Il buco", un capolavoro! Magari ci scrivo qualcosa uno di questi giorni.

La Strega ha detto...

Sai (a parte alcuni dilemmi etici di cui abbbiamo già parlato...) a me il mio lavoro piace proprio. Sarà che ho fatto un bel po' di fatica a finire la laurea specialistica mentre già lavoravo, sarà che ho fatto tanta tanta fatica a trovare qualcosa di attinente ai miei studi (che fosse un lavoro pagato e non uno stage senza neanche rimborsi)...
Sarà che quando ero costretta a fare la commessa ci soffrivo tanto, quelle otto ore sì che mi sembravano rubate alla vita.
Come ti ho detto mi occupo di sicurezza alimentare, e, dopo lunghe peripezie e ricerche ora faccio consulenze per piccole aziende agroalimentari.
Noi abbiamo parlato delle realtà più cruente che mi capita di vedere, ma ci sono anche tanti laboratori che fanno le confetture, o le insalate, o il vino! Mi piace stare in ufficio a spulciare tra manuali e normative, mi piace andarmene in giro per le aziende, a volte fermo la macchina per guardare il paesaggio e mi sembra incredibile essere al lavoro e non in vacanza!
Anche se il mio quasi marito fosse ricchissimo non ci penserei nemmeno a non lavorare...

Rita ha detto...

Ciao Streghetta ;-)
Sono contenta per te, sei una delle poche persone fortunate che svolge un lavoro che le piace.
In realtà nel mio post ho voluto più che altro lanciare uno spunto di discussione, ma è ovvio che non si può parlare del lavoro così, in maniera generica, ci sono tantissime eccezioni e tanti tipi particolari di lavoro.
Io mi riferivo più che altro al concetto di svolgere mansioni che proprio non hanno nulla di attinente con la persona che le svolge, diciamo alienanti, oppure che nulla c'entrano con gli studi fatti e le passioni che si hanno.
A quel punto la vita diventa un inferno. Una prigione all'interno della quale hai sì delle ore d'aria (il sabato, la domenica, le ferie), ma comunque pesante da vivere.

Diverso è il discorso di chi svolge una professione che ama, di chi si apre una propria attività e si diverte, ci mette impegno, amore.

Ecco, io, tornassi indietro, magari studierei per diventare veterinaria o etologa, visto il mio amore per gli animali.
Non rinnego gli studi fatti, li ho scelti, li ho amati, mi hanno dato moltissimo, ma non sono riuscita a costruirci un lavoro sopra (colpa mia, eh), poi ho avuto varie peripezie lavorative che nulla c'entravano con questi studi, oggi sono disoccupata e prima o poi (perché non sono nelle condizioni di poter stare ancora senza lavoro) dovrò tornare a fare qualcosa e temo fortemente (e proprio perché è una situazione che ho già vissuto in passato) di dovermi accontentare di qualcosa che mi darà come l'impressione di star sprecando la mia vita.
Ecco, magari nel post ho oggettivizzato un po' quelle che sono in realtà le mie reali problematiche e preoccupazioni, che pure però immagino appartenere a più di una persona.

Poi, e ne avevo accennato giorni fa anche in un altro blog, c'è tutto il discorso della monetizzazione del lavoro, per cui, nella nostra società, viene percepito come "lavoro" solo ciò che è retribuito, mentre se uno (penso alla condizione della casalinga) si sbatte di fatica dalla mattina alla sera però non è pagato, allora non viene considerato socialmente come "lavorante".
Più che altro mi interessava aprire un dibattito su come viene percepito il lavoro socialmente. Ovvio, distinguendo da caso in caso.
Grazie per il tuo commento, che è una bella testimonianza, la dimostrazione che invece si può anche amare il proprio lavoro e non avvertirlo come peso.

Rita ha detto...

Ah, e poi volevo aggiungere un'altra cosa, sempre parlando in generale.

A volte ho come avuto l'impressione che a molte persone il lavoro serva per dare un senso alla vita, e che, senza il lavoro, si sentirebbero perse. Certo, se si è un artista (scrittore, pittore, musicista ecc.) o anche se si svolgono determinate professioni (magari il medico, il veterinario) immagino che si possa arrivare a far coincidere ciò che si fa con ciò che si è e che sia possibile trovarvi una risposta di tipo esistenziale, però se si sta in ufficio 12 ore ad occuparsi della contabilità di una ditta estranea (nel senso non di famiglia) lo troverei un po' triste. E allora mi viene come il pensiero che lavorare tanto sia una maniera per non pensare, per distrarsi, per ingannare un tempo che altrimenti si percepirebbe come vuoto, per evitare che ci si possa confrontare davvero con se stessi e così facendo scoprirsi nudi, vuoti, spogli, inutili.
Il lavoro come un orpello insomma, come una corazza che impedisce (e salva) di scorgere un vuoto altrimenti insopportabile.

Io non sono mai stata di quelle che dicono: "se non avessi il lavoro non saprei come trascorrere la giornata" perché la mia vita è già tanto piena, ho sempre avuto tantissimi interessi e passioni che forse sono sempre stati più di semplici interessi e passioni, e raramente mi annoio o non so come passare il tempo. Il lavoro quindi l'ho sempre visto come una necessità che mi priva di un tempo prezioso; ma questo sicuramente anche perché non ho mai svolto un lavoro che mi piacesse davvero.

Paolo ha detto...

«Non sarebbe meglio lavorare tutti meno, distribuire meglio le risorse lavorative?»

Io no sto nemmeno a commentare, con me sfondi una porta che non c'è...

Rita ha detto...

:-)

Insomma, c'è lavoro e lavoro, ma un lavoro alienante che finisce per fagocitare l'intera esistenza e per annullare ogni energia per dedicarsi ad altro (a parte l'ottundimento davanti alla tv alla sera) è una vera condanna, per come la vedo io.

Massimo ha detto...

L'alternativa peggiore è quella di avere un sacco di tempo libero perché non si ha lavoro e non si hanno soldi ... La vita è ancora più sprecata nella doppia solitudine di essere buttato fuori da un sistema che neanche ti piace.
Lo dico per esperienza personale.
Il film non l'ho visto, ma Petri mi piace molto.
Bisogna vivere il presente, cosa più facile a dirsi che a farsi.
Anche nella giornata più alienante, ci si può ritagliare un minuto, una manciata di minuti in cui guardare il cielo, o gli alberi, o i tram passare, o la folla multicolore, e in quel momento "esserci" totalmente.

Massimo ha detto...

OOpps, ho dimenticato di salutare...
Ciao Biancaneve ... ma dalla fotina sembri Valentina di Crepax
Massimo

Rita ha detto...

"L'alternativa peggiore è quella di avere un sacco di tempo libero perché non si ha lavoro e non si hanno soldi ... La vita è ancora più sprecata nella doppia solitudine di essere buttato fuori da un sistema che neanche ti piace."

E vero Massimo, quoto e sottoscrivo le tue parole, ma fino ad un certo punto. Perché nessuno mi impedisce, pure se povera ed estromessa dal sistema, di godere comunque della vita (godimento inteso anche nelle manifestazioni cui accenni più sotto: guardare il cielo, o gli alberi ecc.) nella sua pienezza.

Il nocciolo della questione credo sia da ricercarsi nel sistema in cui ci siamo, volenti o nolenti, trovati, ossia quello economico (sistema che poi, appunto, a tanti nemmeno piace). Perché servono i soldi? Certo, per le comodità sociali, le utenze, il gas, la luce, la casa ecc., ma il lavoro ed il denaro secondo me non dovrebbero diventare dei parametri di giudizio per stabilire la pienezza di vita o meno. Sono necessità. E questo è ovvio. La vita però può stare anche altrove. Si può godere del tempo libero anche senza denaro e da poveri. Certo, non sono matta, lo so bene che oggi senza denaro non si può fare praticamente nulla. Almeno nella società occidentale. Ed in questo senso parlavo di rivedere il concetto di società stessa.
Comprare meno e vivere di più. Lavorare di meno e vivere in maniera più rilassata.
Insomma, una distribuzione più equa di doveri e risorse.
Vivere il presente sì, ho presente (perdona il gioco di parole), ma il tempo che scorre lo trasforma velocemente in passato, in qualcosa che una volta andato, è andato. E' difficile impedire che la nostalgia del passato non inquini la certezza del presente. La nostalgia (come indica l'etimo greco) è un dolore lancinante.

Eh, mi piacerebbe assomigliare davvero a Valentina di Crepax. ;-)

Masque ha detto...

A metà mattino, l’industriale tedesco in vacanza nell’isoletta greca trova l’amico pescatore seduto sulla veranda di casa che osserva il mare e le navi che vi passano lente e silenziose.
- Buon giorno Kiriakos. Non lavori oggi?
- Sì, ho già finito.
- Come, sono appena le nove e mezzo!
- Finito, ti ho detto. Oggi il mare è stato generoso. Ci ho messo poco a riempire la rete.
- Ma quanto pesce prendi?
- Quanto basta alla mia famiglia e per alcuni anziani che non escono più a mare.
- Dovresti pescarne di più.
- Per che farne?
- Per venderlo e guadagnare più soldi.
- E perché?
- Per comperare una barca più grossa, con la quale puoi pescare ancora di più.
- Ah. E perché?
- Così potresti recarti sul continente, vendere ai molti ristoranti e negozi della città. Fare più soldi e arredare la barca ancora meglio. Così guadagneresti ancora di più.
- Ah. E poi?
- Fra una decina d’anni potresti assumere alcuni marinai che lavorano al tuo posto.
- Ed io, che farei?
- Te ne staresti tranquillo in veranda ad ammirare il mare.
- Ah. Ma quello lo faccio già ora!

Masque ha detto...

Tempo fa, avevo fatto delle riflessioni simili sul lavoro:
http://neuroneproteso.wordpress.com/2011/10/03/uno-spettro-si-aggira-per-la-cina/

Una lunga introduzione ad un lungo articolo che avevo letto un anno prima, sugli scioperi in Cina.

Ho appena finito di vedere il film e mi ha trasmesso molta stanchezza e la sensazione di essere imprigionati.

Rita ha detto...

Eh già. Esatto. Credo fosse esattamente l'intento di Petri, trasmettere la sensazione di essere imprigionati. Per questo io ho parlato del lavoro come prigione.
Conoscevo la parabola (si può definire così, no?) del pescatore e dell'industriale tedesco, in effetti è paradigmatica e dà parecchio da riflettere.

Poi verrò a leggere le tue considerazioni sul lavoro sul tuo blog.

Come ci giriamo, ci rendiamo conto di essere dentro una gabbia. Grande, ma sempre gabbia è. Forse hanno ragione i buddhisti, semplicemente è la prigione del corpo, dell'esistenza,

Annamaria Manzoni ha detto...

Un'osservazione vorrei aggiungere a tutte quelle, complesse e composite, già postate. C'è una scena, nel film di Petri, che apre un altro universo ancora: è quella in cui Cesare vede dei cavalli condotti in qualche luogo e si fa ripetere due volte, penso non a caso perchè forse non vuole crederci, la risposta alla domanda dove li stiano portando: al mattatoio . Trovo struggente questa scena: i cavalli vanno, ubbidienti e speriamo ignari, ad essere uccisi.Chi li porta è indifferente, sta eseguendo il suo lavoro, lavoro accettato e, per quanto ne sappiamo, senza sensi di colpa. Forse Petri non era una animalista ante litteram, ma ha mandato un'immagine di dolore, ingiustizia, prevaricazione degna della tragedia non riconosciuta che è in atto. Grande Petri. Ma non è un caso, purtroppo, che la scena venga , come dire, rimossa? filtrata? minimizzata rispetto alle tante realtà proposte? il grande dolore degli animali come sempre resta silenzioso.

Rita ha detto...

Ciao Annamaria, benvenuta e grazie per la tua preziosa osservazione.
Ma lo sai che veramente io quella scena credo di averla rimossa? Non mi stupisce che l'abbia rimossa oggi, in fondo il film l'ho visto ormai mesi fa, ma che non ne abbia parlato quando ho scritto il post, anche perché una scena del genere, di cavalli condotti al mattatoio, non può avermi lasciata indifferente.
Hai ragione, il dolore degli animali nella nostra società è sempre minimizzato, taciuto, negato e mi spiace che in questo caso, in merito a questo film, sia stata proprio io ad aver perso l'occasione di parlarne.
Invece dovremmo denunciare questo orrore ogni qualvolta se ne presenta l'occasione, sempre, perché più se ne parla e più c'è la possibilità che divenga visibile, riconosciuto.
Grazie. :-) Buona domenica.

Annamaria Manzoni ha detto...

Vedo che questo è un blog anche antispecista e animalista: ne sono felice. Grazie di avere accettato le mie riflessioni.