martedì 22 novembre 2011

Un soldino per i tuoi pensieri

Da un po’ di tempo sono diventata amica di uno zingarello; in realtà lo conosco da tre o quattro anni, da quando ne aveva all’incirca otto o nove; bazzica il quartiere dove abito e va in giro a chiedere soldi, a volte in cambio di un lavaggio dei vetri delle macchine, molto più spesso semplicemente in cambio del suo bel visino, dallo sguardo sveglio ed intelligente e dal sorriso disarmante.
Non ha - non ancora almeno - la faccia abbrutita ed insolente dei suoi amichetti più grandi - e ormai mi chiama per nome, mi chiede “come stai?”, “e il cane come sta?mi dai qualche euro perché la prossima settimana parto, sai, torno a casa, in Romania, è morta nonna, e sto mettendo da parte qualche soldo per il viaggio” e poi “non ti ho più vista, ma dov’eri in questi giorni? E tuo marito, com’è che si chiama, non ho più visto nemmeno lui?” e oggi mi ha detto “mi dai dieci euro? Tra poco è Natale ed ho visto un giubbotto che mi piace tanto, costa trenta euro, ma io ne ho solo venti”, e poi ancora “vuoi che ti aiuti a portare le buste della spesa a casa?”.
Insomma, è nata un’amicizia. Della quale non vado affatto fiera. Perché è un’amicizia ipocrita, come ipocrite sono tutte le amicizie in cui sai che non stai facendo ciò che andrebbe fatto, ma solo ciò che acquieta momentaneamente la coscienza.
Io so che quel bambino anziché dei miei dieci euro avrebbe bisogno di andare a scuola, così da potersi rendere un giorno autonomo, in grado di lavorare per mantenersi senza dover chiedere niente a nessuno. E però, come tutti mi rimetto alle istituzioni, mi rassegno all’idea che io da sola non posso combattere contro la cultura rom che manda donne e bambini a chiedere l’elemosina per strada. So che la cultura rom non è solo questo, che non bisognerebbe mai giudicare le culture “altre” con atteggiamento etnocentrico, ma ora sto scrivendo in veste di cittadina semplice che esce per strada e vede queste donne, che mentono, che fingono di essere vecchie e malate, che sfruttano la retorica spezzacuore dei cuccioli - d’uomo e di animale - per intenerire i passanti, che mandano i loro figli a lavare i vetri, a vendere rose, a suonare sulla metro, a rubacchiare o, nel migliore dei casi, a trovare qualche amica disposta sempre ad elargire un soldino e trova che tutto ciò sia indegno di una società cosiddetta civile. E’ difficile esprimersi sulle altre culture perché il rischio di inciampare nei pregiudizi - non conoscendole dall’interno - è sempre dietro l’angolo.
Sotto il profilo individuale non discrimino nessuno, nel senso che non mi sognerei mai di discriminare qualcuno solo perché appartiene ad una determinata etnia o modello culturale. Però è anche vero che ci sono culture che ammiro di più, altre che mi piacciono meno. Ad esempio non mi piace la cultura musulmana estremista, tipica di certi paesi, quella che impone alle donne di indossare il burqa, o che le considera inferiori (beninteso, trovo che sia una forma di subdola schiavitù anche il tacco 12 considerato necessario per sedurre). E così non mi piace quella parte di cultura rom che manda i bambini e le donne per strada ad elemosinare (o gli adulti uomini a rubare, contrabbandare ecc.). 
Sottolineo: non sto dicendo che la cultura rom sia solo questo, io mi riferisco a questi aspetti negativi (così come potrei citarne altri negativi della mia cultura, o di quella americana, canadese ecc.).
Ed è per questo, dicevo, che sento la mia amicizia verso quel bambino - seppure sincera nello slancio - ipocrita perché in quel mio donargli qualche spicciolo fingo un’accondiscendenza verso un comportamento culturale che in realtà dentro di me disapprovo. E allora, se fossi davvero sincera con lui dovrei piuttosto dirgli: “non mi piace che i bambini chiedano l’elemosina, vorrei piuttosto saperti sui banchi di scuola, o anche dentro la tua roulotte ma a leggere un libro”. Ma lui è solo un bambino. E quando, in passato, ho provato a fargli discorsi del genere mi trovava sempre un sacco di scuse: “non posso andare a scuola perché mamma lavora e non ho chi mi accompagna” oppure “ma noi cambiamo sempre casa, oggi siamo qui, domani là”, oppure ancora “le scuole le ho finite”.
E poi c’è quella vocina dentro di me che mi ricorda che è davvero pretenzioso pensare di comprendere tutta l’immensa complessità della realtà e che nessuno sa davvero quale sia il bene e quale il male e che se anche un drogato mi chiedesse dei soldi per comprarsi l’eroina ed io, pensando di fare del bene - il suo bene - non glieli dessi, invece magari quel mio non-dare potrebbe provocare una serie di reazioni a catena tutte dirette ad un esito negativo e se invece, al contrario, glieli dessi, qualcuno potrebbe dirmi che ho fatto male, ma io saprei anche che, nell’impossibilità di stabilirlo, forse allora non sarebbe meglio dare a chi semplicemente sta chiedendo aiuto perché tanto, alla fine della fiera, è di questo che si tratta, soltanto di questo, di persone che chiedono e di altre che sono nella possibilità di e che scelgono di dare o non dare dietro l’impulso di un momento?
Perché ogni volta che qualcuno mi tende la mano ho quell’impulso insopprimibile di deviare ed abbassare il mio sguardo pur porgendo quelle quattro monetine sulla sua mano?
Io lo so perché. Perché nel gesto di colui che tende la mano per chiedere io vedo il fallimento della civiltà occidentale. Quella mano tesa è lo specchio in frantumi in cui scorgo le distorsioni provocate dell’avidità dell’essere umano.
E ogni volta non posso fare a meno di pensare che potremmo fare molto di più che dare semplicemente qualche euro, ad esempio ripensare a tutto il nostro sistema e stile di vita che permette una simile sperequazione.
Vorrei chiedervi: con quale disposizione d’animo voi fate l’elemosina, e se la fate?
In quel momento pensate solo al puro gesto di donare perché qualcuno sta chiedendo (potrebbe trattarsi di un sorriso, come di pochi spiccioli, come di un gesto di cortesia qualunque del tipo di far passare avanti una persona in fila al supermercato perché lo ha chiesto), oppure provate pietà, compassione, superiorità, sollievo al pensiero che nonostante tutti i vostri guai almeno voi non siete in quella triste situazione di dover elemosinare, o cos’altro? Rabbia, indignazione, paura?
Ci sono poi anche tutte quelle onlus che chiedono denaro per aiutare i bambini che soffrono la fame ecc., e anche qui io penso che sarebbe più utile consumare (mi rivolgo a chi la mangia, ed auspicabile sarebbe, per motivi etici e di rispetto verso tutte le specie, non mangiarne affatto) meno carne, così da ridimensionare le culture dei cereali destinate ad ingrassare i bovini per favorire invece quelle coltivazioni che potrebbero sfamare direttamente gli esseri umani.
Insomma, dare l’elemosina troppo spesso è un gesto distratto, automatico quasi, dettato dall’impulso del momento di fare del bene, di dare un piccolo aiuto (si fa quel che si può), ma in altre occasioni può diventare un momento di seria riflessione sulla nostra civiltà, sulle nostre scelte, e magari motivo di messa in discussione di tanti atteggiamenti e comportamenti che non sono così granitici come potremmo pensare.
Finisco con una nota positiva: sempre vicino casa mia c’è una signora che ogni sabato si mette a cantare a squarciagola, seduta su un banchetto, chiedendo l’elemosina, e tiene un cartello con su scritto: “sono povera, ma felice”. A me mette alllegria. E penso che sono povera anche io, ma di spirito (anche materialmente, sebbene non quanto lei), perché troppo spesso sono infelice.
Quando lo zingarello oggi mi ha chiesto i dieci euro per comprarsi il giacchetto di Natale ho pensato, in ordine: "in questo periodo ha certamente più soldi lui di me", "è meglio che li dia ad Anna la gattara per comprarci le scatolette per i gatti", "'sto ragazzino si sta approfittando", "è sbagliato dare soldi così, che non risolvono niente, bisognerebbe iniziare seriamente a ripensare questo modello di società, beninteso partendo da me", poi alla fine... mi sa che glieli darò. 
Avrà il suo bel giubbotto nuovo per Natale ed io mi sentirò ipocrita nel vedere per un attimo il luccicchio dei suoi occhi e nel pensare che possa essere abbastanza perché ognuno fa quel che può.
O magari va bene così, che è pretenzioso pensare di abbracciare con un solo pensiero e in un solo gesto tanta complessità di questo nostro misero mondo.

21 commenti:

Masque ha detto...

dubbi che ho anch'io... provo simpatia verso i rom e tutte le persone, come si dice, ai margini della società.
se mi mettessi a cercare di capire secondo che criterio do oppure no le elemosina, ne verrebbe fuori un risultato nel quale apparirei schizoide. perché non ho ancora capito se faccio bene oppure no.
come per te, anche a me piace quando la persona a cui do qualcosa si mostra contenta. ma capisco che tutto questo può far parte di una recita. preferirei che una persona non dovesse dipendere da un metodo così insicuro per procurarsi da vivere, ma che acquisisse maggiore indipendenza dal prossimo.
ma mentre lo penso, mi accuso di arroganza, e mi dico che non dovrei giudicare con i parametri a cui sono abituato (stato istruito) persone di una cultura diversa dalla mia (a loro volta istruiti fin dalla nascita). e certamente, non è con il mio eventuale rifiuto di dare qualche soldo, che cambierò le loro tradizioni. ma non sarebbe nemmeno giusto che sia una persona esterna a cambiare quyelle tradizioni. semmai, dovrebbe arrivare dall'interno un cambiamento... se LORO lo ritengono giusto.
situazione complessa...

Rita ha detto...

Esatto. Hai espresso le mie stesse perplessità.
E' che io mi sento contenta nel dare un piccolo aiuto, ma mi rendo conto che si tratta di una contentezza che ha più a che fare con il quietarsi della mia coscienza che non con la reale consapevolezza di essere stata davvero d'aiuto. A volte l'illusione di fare del bene è un potere inebriante. Ci fa sentire indispensabili e migliori. Ma io nel dare l'elemosina mi sento una fallita alla fine. Una fallita perchè se c'è gente che non ce la fa vuol dire che il sistema è fallito ed anche io faccio parte del sistema.
Per essere d'aiuto agli indigenti dovremmo fare il possibile per renderli autonomi, in grado di provvedere a loro stessi senza che siano costretti a chiedere l'elemosina.
Verso gli emarginati provo simpatia anche io, vorrei essere sicura però che sia una simpatia autentica - di persone alla pari - e non derivata da una sorta di pietà, di compassione. Vorrei riuscire ad analizzare meglio certe mie emozioni, renderle il più autentiche possibile, scevre da qualsiasi condizionamento retorico.

Stefano Amato ha detto...

Sottoscrivo in pieno, tutto.

s

Rita ha detto...

Ciao Stefano,
sì, ricordo che tempo fa ti lasciai anche un commento con considerazioni sempre simili a proposito di una tua ammissione di senso di colpa perché nel dare qualche spicciolo ad un ragazzo non l'avevi guardato in faccia. E' che succede a molti di fare quel gesto distrattamente, anche a me talvolta, e invece bisognerebbe che divenisse un momento di riflessione.
Un saluto e grazie per essere passato, mi fa molto piacere :-)

lunariu ha detto...

La cultura Rom non è solo una mano tesa per le strade delle nostre città ma quella mano non potrà mai adeguarsi al nostro stile di vita perchè dietro c'è una precisa volontà di continuare ad elemosinare. La questua per quel tipo di cultura è una cosa normale e sono accettabili anche altre più o meno gravi "espedienti". Io non riesco ad immaginare una soluzione che non passi attraverso l'annullamento della cultura rom per veleggiare verso la nostra fallimentare e crudele cultura occidentale. Perchè non dare 10 euro a fondo perso ( il giubbotto difficilmente sarà acquistato) e pretendere un anno seduto in una scuola è appunto la fine della cultura rom, il problema è quello a mio parere.
Dissento dalla valutazione del tacco 12 come elemento di schiavitù mentale di una donna: il tacco puoi anche non portarlo e sedurre con altri argomenti ma se hai delle belle gambe e le posi su due tacchi 12 sei più affascinnate per il maschio che ha un eecitazione soprattutto visiva. Vogliamo annullare anche questa? Le donne sono convinte di ciò secondo te? Non credo. Altra cosa è la condizione della donna nell'islam e non dirlo apertamente in occidente è solo sintomo di una stronzaggine che io non potrò mai capire. Nei paesi di rigida osservanza musulmana tu come donna non puoi decidere niente! Figuriamoci se indossare o meno il burqa o coprire il viso in pubblico. sinceramente questa è una discussione artificiosa; l'islam è il nostro medioevo lontano e bigotto a mio parere.

Rita ha detto...

Guarda sulla fascinazione del tacco 12 (cioè sull'immagine che un paio di belle gambe siano meglio valorizzate e che il maschio si ecciti di più) ci sarebbe da discutere a fondo.
L'immaginario erotico è una costruzione culturale, che quindi risente di modalità diverse in epoche diverse.
Ci sono state epoche in cui le donne apparivano seducenti con il loro corpo stretto in corsetti mozzafiato e con gonne ampie e lunghissime, piene di trine, veli ecc.. E' la moda che decreta l'abitudine e l'assuefazione visiva ad un certo tipo di indumento e che, di conseguenza, muta e determina l'idea di bellezza e fascino, e con essa di seduzione.
Negli anni '80 noi ragazze ci sentivamo molto sexy ad indossare spalline enormi e a sfoggiare capigliature cotonate, e piacevamo agli uomini e ci trovavano attraenti. Oggi, se uscissimo così, ci troverebbero ridicole.

Tempo fa, a proposito del fascino del tacco alto, ho letto invece una considerazione in chiave psicanalitica molto interessante. Secondo l'autore dell'articolo gli uomini si ecciterebbero al pensiero dell'implicita sottomissione della donna che indossa il tacco alto, perché una donna che, pur di sedurre gli uomini, accetta di sopportare supplizi e dolore (quali inevitabilmente bisogna sopportare per camminare sui tacchi 12, ed è certamente quello che pensano gli uomini), sarebbe una donna disposta a tutto per compiacerli, quindi sotto sotto (perdona il gioco di parole), una che si sottomette volentieri (o anche con pulsioni masochistiche). E infatti l’armamentario dell’abbigliamento sadomaso passa dal collarino, alle scarpe appuntite con tacchi altissimi, bustini aderenti, insomma, tutti accessori non proprio comodi. Pulsioni sadomaso sono latenti e più o meno accentuate in ognuno di noi. Il tacco 12 rimanda a queste pulsioni.
Quindi non si tratterebbe tanto di un fascinazione di tipo visiva (le gambe sono più belle sul tacco 12), ma di tipo più sottile.

Ti confermo una cosa: fino a qualche anno fa mi sentivo molto sexy quando indossavo i tacchi alti. E li indossavo perché ammetto che mi piace sedurre, essere considerata attraente. Oggi invece, dopo tutta una serie di riflessioni che ho fatto su tutto il meccanismo del sistema moda, del consumo ecc. (mi piace mettere in discussione tante cose), è cambiata anche la mia visione: improvvisamente queste donne che camminano su tacchi 12 (o 10, insomma, alti) mi appaiono ridicole. Ma proprio buffe. Non saprei come spiegarlo. E tanto più buffe proprio perché ne sono inconsapevoli. Come uno che andasse in giro con un cartello appeso dietro alla schiena con su scritta qualche frase buffa senza accorgersene. Ed è in questa mia sopraggiunta visione di ridicolezza che sono divenuta consapevole anche della sottile idea di schiavitù che c'è dietro.
Non schiavitù intesa nel senso del burqa islamico, sia chiaro, ma schiavitù nel senso di aderire a dei canoni di gusto e di trend dettati solo dalla moda, dal giro consumistico del mondo della moda.
Sì, tu dici bene, una donna può rifiutarsi di indossarli e fare leva sul suo fascino legato all'intelligenza, ad altro, ma se tu ad una ragazzina la martelli (attraverso i media, le pubblicità ecc.) facendole credere che con i tacchi sarà più sexy, allora difficilmente potrà farne a meno.
Ho già espresso questo pensiero anche in merito alle pellicce.
Sono una barbarie, ma culturalmente sono state per anni considerate uno status symbol e così molte donne sono state indotte a desiderarle. Ma stiamo parlando in realtà sempre di sovrastrutture culturali.

Grazie per l'intervento :-)

Rita ha detto...

P.S.: (sempre per Lunariu).

Rileggendo un tuo passo credo di essere stata fraintesa.
Quando dici: "Vogliamo annullare anche questa?" a proposito dell'eccitazione visiva maschile.

No, no, per carità.
Sono una sostenitrice del gioco di seduzione tra uomini e donne. Almeno quando è finalizzato a se stesso e non esercitato per secondi fini (tipo per ottenere lavoro). Ci mancherebbe. Il sesso per me è uno dei piaceri primari della vita.

Io parlavo di "schiavitù" nei confronti del sistema della moda e della cultura in cui siamo immersi. E spero di averlo esplicitato nel commento sopra.
Tant'è che il tacco 12 è stato rilanciato negli ultimi anni (ci sono state intere stagioni in cui andava poco di moda) e quindi improvvisamente tutte le donne si sono sentite più belle e sexy ad indossare scarpe col tacco 12.
Parlavo di schiavitù nei confronti di certi canoni e parametri dettati e stabiliti in primo luogo dal sistema del consumismo del settore moda che veicola e a cui soggiace anche l'immaginario erotico.
Insomma, nell'800 il tacco 12 non c'era, è un'invenzione moderna. E gli uomini si eccitavano lo stesso, no? Le donne seducevano lo stesso no?
Volevo solo ribadire quanto sia tutta costruzione culturale.
Infatti in tante culture non è considerato elemento di seduzione.

Ecco, non per essere puntigliosa, ma volevo chiarire che, almeno in questo frangente, non mi riferivo ad una schiavitù indotta dagli uomini, ma dal business della moda che veicola il messaggio che per essere seducenti ecc. ecc..

Emmeggì ha detto...

Le genti Rom elemosinano o si dedicano a faccende poco legali perchè si trovano in una situazione di merda e quelle possono essere delle risposte tradizionalmente diffuse fra le loro famiglie che ormai vivono "di qui" da generazioni senza essere riuscite/aver potuto integrarsi.
Io dico che non bisogna pensare troppo in queste cose e far andare il cuore. Poi certo, come con gli amici, bisogna anche pensare al bene, mettere limiti, dire no, se si ha a cuore il bene dell'altro. Ma credo venga da sè, come dimostri anche tu, cara Biancaneve...Goditi l'amicizia con questo ragazzino, so bene cosa provi, anche a me è successo spesse volte, e consolati (come diceva il nostro buon vecchio Hillman, rip) che non abbiamo tutto questo potere di cambiare in (quale? per chi?) meglio le cose. In altre parole: non è colpa nostra.
Su minigonne e costumi tradizionali io non giudico nessuno, credo che in ogni cultura ci siano motivi e tradizioni che portano a determinati comportamenti. Se una società riesce a esprimere un desidierio di cambiare, cambia, non deve essere nè l'uomo bianco nè quello nero a portare civiltà, valori assoluti e compagnia bella.
Se poi si vuole un mio giudizio sui tacchi e sull'islam, lo posso anche dare visto che conosco abbastanza bene l'uno e l'altro...
Si badi che il mio non è lassismo, faciloneria, idealismo, al contrario: per conto mio, nel mio, le regole morali e di costume ci sono e ci devono essere, e devono pure essere trasmesse ai figli, è un preciso dovere educativo. E' quella, credo, la forza che consente di accettare (o tollerare) ciò che di incomprensibile e terribile può essere nell'altro.

Rita ha detto...

Ciao Emmegì :-)
Io credo che ci sia modo e modo di trasmettere alcuni valori ritenuti universalmente validi, quali il rispetto per la vita, ad esempio: certo, se un determinato popolo in nome di certi valori pretende di agire con la forza - quella che si chiama acculturazione - importando ciò che di valido ritiene debba essere importato (a mo' di crociata religiosa), allora non sono d'accordo; i cambiamenti devono avvenire dall'interno di una cultura, su questo siamo d'accordo; però lottare nel nostro piccolo - anche solo ponendoci domande - per far sì che determinati valori possano venire, magari col tempo - quella che si chiama inculturazione - assimilati, di generazione in generazione, di padre in figlio al fine di rendere una società migliore, allora credo e penso che si possa fare e che si debba provare a farlo.
Dire "non è colpa nostra" conduce ad una sorta di accettazione fatalistica. Capisco cosa vuoi intendere tu quando dici che non abbiamo tutto questo potere rispetto alla complessità dell'esistenza, ma c'è accettazione e accettazione. Se l'accettazione è intesa nel senso di rimettersi a ciò che resta ingovernabile: la malattia, la morte, gli eventi scaturiti dal puro caos, allora è saggezza.
Ma bisogna stare attenti che non diventi ignavia, perché dire "io non ho colpa" può diventare una giustificazione che facilità il gioco degli oppressori e non aiuta gli oppressi.
Non è vero che noi non possiamo fare nulla (già quando parli di regole morali da trasmettere ai figli, stai ammettendo che qualcosa si può fare). Nel nostro piccolo ci troviamo ogni giorno a compiere delle scelte ed è su queste che poi si modella la società.
Di esempi potrei fartene moltissimi, ma penso che non ce ne sia bisogno.
Un saluto :-)

Emmeggì ha detto...

Sì, le NOSTRE scelte, certo, come dicevo, importanti, educative, ferme a volte, altre ambivalenti e mutevoli. Non quelle degli altri. Pasolini lo diceva bene, io l'ho detto male, ma il concetto è quello che contrappone la morale al moralismo. Dire "non è colpa mia" (se effettivamente non lo è perchè, tanto per dirne una a tema con Il Dolce Domani, inorridire di fronte alle fabbriche di carne e poi mangiarsene i prodotti, è un'altra storia un po' più complessa) non significa certo starsene lì a guardare, anzi, forse vuol dire proprio provare a "ridistribuire" le energie in modo più efficace, anche per costruire un mondo un po' migliore.

Rita ha detto...

@ Emmeggì

Comunque mi interessa anche il tuo giudizio sui tacchi e l'Islam, a questo punto sono curiosa :-)

Dinamo Seligneri ha detto...

Come saprai, Biancaneve, Ernesto de Martino parlava di etnocentrismo critico, come contraccettivo contro l'etnocentrismo di cui siamo tutti affetti... sia che siamo zingari, che siamo "autoctoni", che siamo italiani ebrei slavi o birmani. e l'etnocenstrismo critico vuol dire, per lo meno, confronto intelligente.
Penso che tu come "scrittrice" di pensieri su blog pratichi bene questo contro-entocentrismo (che poi ogni etnocentrismo critico sia destinato a fallire è un altro conto).

Il paese dove sono nato, e da cui sono andato via, è un paese del centro-sud. Nel mio paese la comunità zingara non è più comunità nomade, ma da qualche generazione ha avuto case e residenze fisse.
Da sempre malvisti, non si fanno benvedere. Cooptati da organizzazioni criminali, praticano prevalentemente spaccio di droga e usura. Prima rubavano negli appartamenti. Si può tranquillamente dire che la loro ricchezza è di gran lunga superiore a quella degli "autoctoni", (della mia sicuro).
Raramente uno zingaro è preso a lavorare in un ristorante non gestito da altri zingari, raramente il fatto di lavorare presso non zingari è visto bene dalle famiglie zingare che schifano (a ragione) le nostre vite regolate dalla catena di montaggio.
Le famiglie "indigene" (che poi siamo tutti oriundi... chi viene da est chi da ovest) non vedono di buon occhio matrimoni cogli zingari e viceversa (il matrimonio esogamico non piace a nessuno)... a volte succede, e pace... le donne zingare sono bellissime... con o senza tacco...
bello che, nelle regioni vicine, spesso siccome abbiamo "gli zingari in casa" ci chiamano "zingaroni"; forse quelle sono le poche occasioni in cui un maschio normotipo autoctono si sente vicino e solidale agli zingari...

Diciamo quindi che le due comunità convivono malaccio nel loro profondo, arrivando a comportamenti poco urbani, a volte... purtroppo le convivenze non sono facili mai, perché si ha sempre paura di mescolarsi, si ha paura di alterare la normalità. Questo fenomeno è accentuato dal fatto che le identità di queste due culture si definiscono anche attraverso l'opposizione diretta all'altro...

Io non mi sono mai fatto problemi con i rom, visto che sono andato a scuola in classi con molti di loro. Parlano una lingua bellissima, che è un misto del vecchio sastico, oggi corrotto coll'italiano, assieme al dialetto locale (visto che da varie generazioni vi sono stazionati)... essendo dei grandi ammaestratori di cavalli, molti termini regionali comunemente usati ci sono stati regalati in origine (secoli fa) proprio dalla loro grande tradizione... lo stesso nella lavorazione del rame. O nel bellissimo lavoro itinerante dei giostrai, portatori d'allegria.

Credo che la loro cultura sia molto forte e radicata nelle persone più che nelle cose, altrimenti non avrebbero potuto farla sopravvivere dopo secoli di migrazioni. Capisco il loro attaccamento agli usi atavici, alle loro costumanze (da noi ancora rispettate); adoro la loro lingua; adoro il loro positivismo, l'allegria nella costruzione della realtà... lo sradicamento dai luoghi, la libertà del loro carattere. Non amo però altre cose del loro mondo, come il maschilismo, le enormi e liberticide limitazioni alle donne, la pacchianeria di molti atteggiamenti, la gerarchizzazione quasi ieratica dei ruoli... la reazionarietà di conservazione di quella cultura, libera all'esterno, chiusa al suo interno, e non facilmente penetrabile.

Insomma, bisognerebbe avere più contatti cogli altri che meno contatti. Questo è quanto. Quindi io credo che meglio tu che parli col tuo amico no quelli che passano e chi s'è visto s'è visto... anche vero che non possiamo fermarci con tutti... siamo limitati.

scusa la penna lunga che ho avuto...
buonanotte

Rita ha detto...

Ciao Dinamo,
che bellissimo ed interessante resoconto che hai buttato giù. Ti ho letto con vero piacere.
Che dire? Io sono una sostenitrice dell'incontro tra culture e mi sforzo sempre di non lasciarmi condizionare dai pregiudizi della mia per far sì che io possa - in maniera critica, beninteso - decidere cosa mi piace o non mi piace delle altre (un po' come avviene con le singole persone).
Ed è vero che ogni cultura - e a maggior ragione quelle che si trovano a contatto - si definiscono anche in opposizione all'altra (così come anche le singole persone, di nuovo).
Insomma, alla fine credo che potrebbe essere d'aiuto rapportarsi alle altre culture esattamente come si fa con le persone appena conosciute: un minimo di diffidenza iniziale ci può stare, ma poi bisogna aprirsi e lasciare che l'altro ci "tocchi", consapevoli del fatto che la conoscenza totale di ciò che è altro da noi resta impossibile.
A me sarebbe tanto piaciuto fare l'antropologa, per dire, proprio per questa mia curiosità innata verso tutto ciò che è nuovo e diverso.

Il racconto della comunità zingara del tuo paese mi ha fatto tornare in mente alcuni ricordi della mia infanzia: abitavo in un piccolo paese dell'alto Lazio e gli zingari arrivavano periodicamente con le giostre. Si appostavano (con permessi del comune) con le loro roulotte, montavano le giostre e per qualche giorno (o settimana, non ricordo) poi si vedevano per le vie del paese le loro donne e bambini che andavano in giro a chiedere qualche cosa (vestiti, soldi). Mia madre coglieva sempre l'occasione per dar via tutti i miei vestiti vecchi (ma ancora nuovi, nel senso che non erano rovinati) e ricordo che una volta, mossa a compassione da una donna che andava in giro a piedi nudi insieme al suo bambino (ma suppongo fosse la loro usanza), la fece entrare in casa, le offrì qualcosa da mangiare e bere, e poi mi disse di regalare qualche giocattolo e qualche mio vestito a questo bambino. Cosa che io feci con molto piacere (ho tanti difetti, ma sono generosa :-)). Poi la sera rientrò mio padre e quando io gli raccontai quella che per me doveva esser stata la novità della giornata, sgridò mia madre dicendole che aveva fatto male a far entrare in casa gli zingari perché avrebbero potuto rubare. Visto che però non era successo nulla, io pensai che fosse esagerato.
Ricordo che trovavo bellissimi i ragazzini e le donne zingare, con quegli occhi così scuri, quei capelli folti, la pelle ambrata. E adoravo il loro modo di vestire, con quelle lunghe gonne colorate, tanti braccialetti e collane che tintinnavano al loro passaggio. E che sognavo di innamorarmi (ricambiata) di qualche ragazzo zingaro e poi di poter fuggire via con lui. E mi sarebbe piaciuto essere come loro.
Evidentemente quella vita nomade esercitava un certo fascino su di me (chissà, se credessi nella reincarnazione, potrei pensare che in un'altra vita... ma io non credo a nulla, fermo restando il mio pensiero che tutto potrebbe essere).
(segue nel commento successivo)

Rita ha detto...

Credo però che le comunità nomadi di allora (i giostrai, appunto) e quelle che oggi risiedono nelle nostre città nei cosiddetti campi rom (come avviene a Roma) siano diverse. Probabilmente ci sono diverse etnie.
Oggi purtroppo l'immaginario collettivo è anche tanto influenzato dalla propaganda dei media per cui i rom passano per essere solo dei delinquenti. In alcuni casi lo sono (come lo sono alcuni Italiani, Francesi, Americani ecc.), ma è anche vero, come faceva notare qualcun altro sopra, mi pare fosse Emmeggì, che siamo pure noi che permettiamo che vivano ai margini, in campi organizzati malissimo (la cronaca purtroppo ci ha parlato di casi di incendi dovuti ad incuria), dove anche le elementari norme di igiene non vengono rispettate. Come mi faceva notare il bambino che conosco, costretti poi a spostarsi di campo in campo, anche andare a scuola è difficile. Non si può dare la colpa sempre all'altro. La colpa di ciò che non va, quando due culture entrano a contatto, è di tutti. Giudicare non serve. Bisogna comprendere ed aiutare.
Certo, della loro cultura (dei rom che sono a Roma) rifiuto tante cose: che poi, non è tanto il fatto che non mandino i bambini a scuola (bisognerebbe prima stabilire se l’istruzione è davvero un bene imprescindibile per l’evoluzione della specie umana e se debba passare necessariamente attraverso le istituzioni, le scuole ufficiali, i libri), quanto quello che, legandoli sin dalla nascita a quel tipo di vita, gli rendono forse impossibile affrancarsene. La domanda che mi pongo è questa: se un domani il mio amichetto volesse convertirsi al nostro stile di vita (per certi versi una forma di schiavitù, ch poi appunto, la nostra cultura non è che sia tutto questo massimo, se proprio volessimo ragionare in termini più ampi): casa fissa, lavoro fisso, versamento delle tasse, ossia volesse “integrarsi”, potrebbe farlo? Visto che non è andato a scuola (sa leggere a malapena), che tipo di lavoro potrebbe svolgere?
E poi, come fai notare tu, non mi piace il maschilismo, il modo in cui trattano le donne e tutti gli altri aspetti che hai elencato.
Ma una lista di aspetti positivi e negativi la si può fare di ogni cultura, no?
E quindi il rifiuto in toto è, dal mio punto di vista, sempre condannabile.
Condivido la tua conclusione: bisognerebbe avere più contatti, aprirsi di più, senza timore di perdere le nostre rispettive identità; anzi, dal confronto con le altre culture ne può nascere solo un arricchimento. Non perdita, ma aggiunta.
Così come con il confronto tra i singoli individui.
Grazie mille ancora per il tuo bel commento. E non devi scusarti per aver scritto molto: io stessa amo scrivere e amo leggere gli altri. Le parole scritte non mi hanno mai intimorita ;-)

Dinamo Seligneri ha detto...

Biancaneve, grazie delle belle parole.
Ho sempre voluto scrivere qualcosa sugli zingari, sul loro linguaggio soprattutto (ergo non lo scriverò mai)... c'è tutta una riflessione, immensa, di Deleuze sulla letteratura minore e Kafka, sull'uso minore che si fa di una lingua maggiore. E' complessa, la storia, ma c'è il parallelo, pertinentissimo, tra la lingua di Kafka e quella degli zingari: entrambi farebbero questo (ab)uso in minorità di una lingua maggiore.
Ti do il link, se hai tempo, spariglia molte nuvole:

http://www.sagarana.net/rivista/numero11/ibridazioni3.html

Rita ha detto...

Grazie mille per il link, andrò senz'altro a dare un'occhiata perché l'argomento mi interessa.
E poi è vero che il linguaggio degli zingari è bellissimo, ha una sonorità particolare che già da sola schiude un mondo.
E mi piacerebbe anche conoscere meglio tante letterature minori. Purtroppo nelle librerie convenzionali non si trova nulla (a parte qualcosa di molto commerciale), bisogna girare per biblioteche.

Volpina ha detto...

Ciao carissima!
Io non do quasi mai soldi a nessuno, anche perchè se iniziassi con uno dovrei farlo per tutti.
MI è capitato a volte di regalare la mia colazione o le mie castagne di inverno, quando me le portavo in borsa, calde, mentre andavo a lavoro.
Regalarle a quelle persone che ti guardano con gli occhi pieni di lacrime e ti dicono "ho fame!".
Soldi pochissimi, solo per chi sono matematicamente certa che li userà per mangiare.
A volte mi è capitato di correre a casa, prendere delle crocchette e dell'acqua e di ritornare indietro a lasciarle al cagnolino denutrito del vecchietto che stava sotto l'arco nella via centrale della città...

Ma è vero. A volte sei loro amica solo per finta, ma ti assiuro che non si può fare niente!
Quando ti impunti e cerchi di aiutarli, loro si chiudono, scappano, perchè è la loro natura. Non è colpa loro, semplicemente sono così.
Sono nati e abituati a quella vita, per loro è naturale. Il resto, ciò che è diverso, li spaventa.
Finchè hanno il cuore buono, per me, può andar bene.
Ma quando mi girano intorno con gli occhi malvagi, e mi inseguono chiedendomi soldi in modo insistente...
Mi viene davvero voglia di essere maleducata.

Rita ha detto...

Sai, è difficile capire chi può avere davvero bisogno di soldi per mangiare, e chi li chiede solo per assecondare un vizio.
In zona mia ne girano diversi che non sono senzatetto, sono persone che hanno una casa e prendono pure la pensione, però vanno in giro a chiedere soldi per farsi il cicchetto al bar, per andare a giocare al Bingo o alle corse, o chissà per altro.
Alcuni li conosco. Nel senso che provo a interloquirci e, magari un euro glielo do pure alla fine, però facendogli capire che non sono scema e che mi dicessero la verità, senza stare ad inventarsi balle del tipo "ho fame", "devo prendere il treno, ma non ho soldi per il biglietto".
Il mio pensiero è: se uno mi chiede qualcosa, io, se posso, cerco di aiutarlo. Poi quello che ci fa sono cavoli suoi. E questo perché, come ho scritto nel post, non possiamo sapere quale potrà essere l'esito delle nostre azioni.
Non do soldi invece alle varie associazioni umanitarie (fatta eccezione per qualcuna che conosco bene) perché mi fido poco.
Sostengo la LAV, la LIPU e Greenpeace, ora però Greenpeace dopo quello che è successo se ne va a quel paese (vai sul sito Bioviolenza che trovi qui a destra nella mia lista di siti che seguo e poi capirai).
Insomma Volpina, la realtà è complessa ed è difficile capire come e se si può fare del bene.
Io cerco di seguire soprattutto il mio istinto, il mio cuore.

Lo scorso anno, ad esempio, portai delle coperte ed un giaccone ad un barbone che dormiva al freddo ed era vestito troppo leggero, poi gli comprai un panino, della frutta. E lui mi ringraziò tantissimo. Gli chiesi perché non era andato alla Caritas, e mi rispose che c'era andato, ma i posti erano finiti. Ed è vero, a Roma c'è il cosiddetto turnover: i posti sono pochi e così a rotazione, ogni 15 gg., buttano fuori alcuni e ne fanno entrare altri.
Lui mi fece capire che si era trovato in quella situazione, senza casa e lavoro per una serie di eventi, ma non era un asociale, era uno che disperatamente avrebbe voluto una vita "normale".
In quel caso io credo di aver fatto benissimo a dargli un piccolo aiuto.
In un altro mondo, magari lo avrei fatto salire in casa: ma in passato ho avuto anche spiacevoli esperienze per aver dato aiuto a qualcuno che invece era fuori di testa. Insomma, un limite me lo do anche io.
Ma non vorrei. Vorrei un mondo diverso. In cui poter ospitare tutti i senzatetto e randagi del mondo, uomini ed animali :-)

Eta ha detto...

Sono arrivata qui digitando su google "un soldino per i tuoi pensieri" e sperando di leggere una qualche sorta di "etimologia" dell'espressione, a dita bramanti una nuova storia che sfamasse la mia curiosità.
Invece arrivo qui e non mi stacco, perché leggo che anche tu sei appassionata del sapere, poi - in ordine - trovo e parole "Antispecismo" e "Animalismo", nonché (cade l'occhio) "zingarello", parola che oggi mi è particolarmente vicina.
Ho letto tutto il post e condivido vivamente tutti i dubbi che ti passano per la testa in quell'istante in cui hai quel dannato potere in mano, per così dire.
Rispondo velocemente (perdona la fretta) alla tua domanda (come la vivo io): mi passa per la testa tutto quello che passa a te, credo. Per ora, però, mi trattengo sempre, poichè le monete che ho nel portafogli sono sempre state "non abbastanza mie": troppo facile fare l'elemosina con i soldi dei genitori - così ho sempre pensato. Ho finito i miei studi pochi mesi fa e, per così dire, sto smettendo solo ora di essere disoccupata.
Tra poco, quindi, quei soldi saranno abbastanza miei per decidere che farne.
Credo mi accadrà un po' come a te.
Forse qualche volta la farò, pur pensando sia "sbagliata" per i motivi che citi, ma magari lo farò un po' "ispirata" dalla situazione.
Ecco, forse io darei i soldi alla vecchina felice (geniale!).


Credo tu abbia una nuova follower :)

Rita ha detto...

Ciao Eta,
grazie per il tuo bel commento, sono contenta che ti sia fermata a leggermi e anche che tu mi abbia trovata per "caso" (ma in effetti nelle statistiche vedo che l'espressione "un soldino per i tuoi pensieri" è tra le più ricercate... ed io che pensavo fosse un modo di dire un po' desueto).
Riguardo l'elemosina, penso che sul momento si faccia sempre bene a seguire quel che suggerisce il proprio cuore e poi magari cercare di attivarsi in un secondo momento per capire cosa si potrebbe fare davvero di utile per aiutare le persone bisognose.

Allora congratulazioni per i tuoi studi da poco terminati. :-)
Poi con calma in giornata verrò con piacere a visitare anche il tuo blog.
Un saluto. :-)

Eta ha detto...

Anche io pensavo fosse un'espressione desueta, guarda un po'!

Grazie per le congratulazioni ;)


Un saluto anche a te, e buona Calma (che fa bene)