lunedì 25 aprile 2011

Olocausto invisibile (VII)

E' tempo di continuare a parlare di questioni urgentissime ed importantissime.
Quando ho aperto questo blog mi sono ripromessa di porre l'attenzione su questa tregedia - silente ed invisibile - che è lo sfruttamento animale; e mi sono ripromessa di farlo non solo raccontando l'orrore che vi è dietro ma anche tentando di dare una risposta a quelle che sono le obiezioni più frequenti che vengono rivolte a noi antispecisti.
Sono giunta alla conclusione che molte di queste obiezioni nascano dal senso di inadeguatezza da molti provato di fronte alla dimostrazione - tangibile, concreta, provata - che vivere nel rispetto di tutte le forme di vita sia oggi un fatto possibile e non più soltanto utopico: inadeguatezza che scaturisce nel vedere la loro posizione - avvertita come non più difendibile ed ammissibile - vacillare di fronte alla dimostrazione di un vivere sostanzialmente più etico.
La storia dell'umanità in fin dei conti può essere paragonata a l'età del singolo individuo: esiste per tutti un tempo dell'infanzia, in cui si vive in assenza di consapevolezza, perlopiù rispondendo a determinati istinti e pulsioni vitali. Poi si passa attraverso l'ineludibile percorso di formazione, in cui ci si confronta con la realtà esterna e con gli altri e da cui - tramite le esperienze - si apprendono i confini della propria finitezza e ci si assume il peso delle proprie responsabilità e proprie azioni. Si diventa consapevoli di noi stessi come agenti attivi e come individui - dalle cui scelte - derivano effetti e conseguenze spesso inimmaginabili ma, a volte anche, invece, facilmente prevedibili.
In maniera (forse fin troppo ottimistica?) voglio credere che l'età dell'umanità di oggi equivalga a quella dell'adolescenza dell'essere umano. E' un'età in cui si comincia ad acquisire un minimo di consapevolezza (certo, resistono ancora credenze e pensieri di superstizione, frammenti di ignoranza diffusa, manipolazione mediatica e culturale e momenti di oscurantismo tesi a mettere in discussione le certezze scientifiche fin qui acquisite, ma poca cosa in confronto all'oscurantismo della ragione di ben altre epoche), in cui si cominciano ad avere mezzi e strumenti per la costruzione di un minimo di capacità critica, un'età in cui si può cominciare a rendersi conto degli esiti e del valore delle proprie scelte, e soprattutto si può essere in grado di mettere in discussione e ribellarsi a tutto ciò che di fatto inizia a non essere più percepito come scontato o "dato una volte per tutte" in una concezione atemporare, assolutistica, immodificabile, inopinabile (simile a quella portata avanti dalle varie religioni).
Di questo è facile renderci conto anche riguardo la questione dello sfruttamento degli animali. C'è stato un tempo in cui davvero - per quanto gli antispecisti siano sempre esistiti e ce ne sono di notissimi e famosissimi anche appartenenti al passato - parlare dei diritti animali sarebbe sembrata una follia. E del resto - come ho già avuto modo di scrivere in passato - "tutte le grandi rivoluzioni di pensiero conoscono inevitabilmente tre stadi: quello del ridicolo, del dibattito ed infine dell'accoglimento" (J.S. Mill).
Oggi il dibattito è aperto. Noi antispecisti veniamo spesso criticati ed attaccati, anche duramente. Il segnale è quanto mai positivo: significa che finalmente le nostre considerazioni vengono prese sul serio; significa che finalmente qualcosa si sta smuovendo, che la posizione dei cacciatori, degli allevatori, dei vivisettori non è più solida come un tempo.
E non posso fare a meno di constatare quante delle molte obiezioni che vengono rivolte a noi antispecisti non possano che derivare da un autentico sussulto di consapolezza, dal principio di una presa di coscienza che però continua a scontrarsi e ad opporsi a principi ed abitudini ancora fin troppo radicati e resistenti.
Io mi arrabbio moltissimo proprio quando mi trovo di fronte a persone che, pur avendo tutti i mezzi per capire si ostinano a porre resistenza in virtù di alcune scarse considerazioni, le quali - lungi dall'essere elementi dialettici validi - raggiungono a malapena lo status di incongruenti e deboli giustificazioni.
Non mi arrabbio invece - paradossalmente - di fronte all'assenza totale di empatia (sintomo di una manifestazione di sadismo patologico), di fronte ad una forma di egoismo assoluto, di fronte al disinteresse totale camuffato con le più svariate motivazioni (ho cose più importanti a cui pensare, se anche avessi tempo allora mi dedicherei ai bambini che muoiono di fame... come se una scelta poi impedisse l'altra); ho conosciuto diverse persone che hanno avuto il coraggio di ammettere candidamente di non provare affatto pietà per la sofferenza degli animali. Persone così non meritano la mia stima, ma invero stimo la loro onestà intellettuale.
Sono sinceramente stanca invece di tutti coloro che - per restare fedeli alle loro abitudini, per pigrizia, per rassegnazione o per - a loro dire - un non meglio definito "quieto vivere" - si oppongono all'antispecismo (di cui la scelta vegetariana come primo passo e vegana poi come approdo finale, ne è la diretta conseguenza), contro cui riversano giustificazioni e scusanti che non hanno nulla di logico o di seriamente motivabile.
In particolare ultimamente ho notato che l'antispecismo (di cui, torno a ripetere, la scelta vegetariana e vegana è naturale, onesta e logica derivazione) tende ad essere considerato come "uno stile di vita", più simile ad una scelta individuale, ad un capriccio, che non ad una battaglia serissima. Detto in altre parole: sembra che decidere di non mangiare gli animali sia una questione di mero gusto personale, del tipo "io non mangio la cioccolata perché non mi piace, o perché mi fa ingrassare, o perché mi fa venire i brufoli", che non l'inevitabile conseguenza di una scelta essenzialmente etica, che non ha il suo principio ed il suo fine in se stessa ma nell'apertura verso l'altro.
 Io non scelgo di non mangiare gli animali e di non sfruttarli perché è una mia scelta individuale, per un mio capriccio, perché mi va di fare così, bensì perché mi faccio e divengo strumento di chi voce non ha, perché scelgo di lottare al posto di chi non riesce a difendersi da solo, perché mi faccio promotrice e portavoce di una questione di importanza capitale: nulla può essere più importante infatti della salvaguardia dei diritti della vita di tutte le specie viventi, proprio in quanto esseri che vivono, soffrono, amano, sentono ed hanno tutto il diritto di vedere rispettato il loro desiderio di continuare a vivere.
Io lotto per il maiale che sta per venire sgozzato, la mia voce si sostituisce a quella di tutte le creature viventi rinchiuse negli stabulari adibiti all'ignobile pratica della vivisezione, le cui corde vocali sono state recise e le cui urla strazianti non possono giungere fino all'esterno. Il mio urlo di indignazione dei giorni scorsi, ad esempio - contro la tradizione pasquale che prevede il sacrificio di milioni di agnellini - era, ed è, per dare voce a chi non ce l'ha avuta e non una presa di posizione che avviene per capriccio, per hobby, per un gusto "esotico" nell'essere alternativa, né è una moda, come molti purtroppo, tristemente, pensano; né ho smesso di mangiare gli animali per motivi salutistici (che poi l'alimentazione vegetariana e, meglio ancora vegana, sia anche la migliore per preservare un ottimo stato di salute è secondario, è una considerazione utilitaristica che si va ad aggiungere alle altre, ma non è la motivazione cardine), non essendo la "dieta vegetariana" una dieta tra le tante che si può scegliere indifferentemente o sulla base di considerazioni diverse da quelle etiche ed altruistiche che, unicamente, si basano sulla protezione e salvaguardia dei diritti animali.
Gli animali non possono difendersi da soli, sono creature indifese, che nulla possono contro la forza e le armi dell'essere umano. Quindi, quello che facciamo noi antispecisti non è scegliere un menù vegetariano o lottare contro la vivisezione, contro i circhi, contro gli allevamenti per le pellicce ecc., perché "ci gira così", perché "abbiamo questo hobby al posto di un altro", perché vogliamo essere "alternativi", bensì perché ci siamo assunti il compito ed il dovere di difendere chi è indifeso, di stare dalla parte dei più deboli, di porgere aiuto, amore, dedizione a chi è sfruttato e soffre. Perché non ne possiamo più di vedere ovunque sofferenza e dolore e morte e sangue - questo silente, continuo, straziante olocauso invisibile - causati dallo sfruttamento degli animali.
La nostra è una battaglia nobile. Non è un capriccio, un qualcosa per cui gli altri ci fanno il piacere di sopportarci e rispettarci.
Non ne posso più di sentire gente che mi dice: "io rispetto la tua scelta di essere vegetariana", perché io, di questo "rispetto" fatto cadere dall'alto come fosse un piacere, non so che farmene. Non voglio essere rispettata io e la mia scelta, io voglio che ad essere rispettati siano gli animali.  Io non li mangio non per una mia casuale decisione, ma unicamente perché è giusto che continuino a vivere.
 (Che poi, in che senso "rispetti la mia scelta"? Vuoi forse impormi altrimenti di mangiare a forza la carne? Ma che senso ha una frase così. E' priva di senso).
Altri mi dicono, spesso: "ma vedi, io rispetto la tua scelta, ma tu non puoi imporre agli altri questa tua decisione, siamo in democrazia, ognuno è libero di fare come vuole e se vuole mangiare gli animali è liberissimo di farlo".
Io vorrei vedere se la medesima frase fosse stata pronunciata al tempo in cui è stato denunciato e stigmatizzato l'orrore dei campi di concentramento nazisti: "io rispetto la tua scelta di voler salvare gli Ebrei e tutti i prigionieri detenuti nei campi, è una tua scelta, ma tu non puoi imporre agli altri il tuo punto di vista, ognuno è libero di fare come vuole, e se i nazisti vogliono mandare degli esseri umani nei campi di concentramento, dovrebbero poter essere liberi di farlo". Un simile discorso, fortunatamente, è inaccettabile. Oppure anche: "io rispetto la tua scelta di non uccidere i bambini, ma, cribbio, è una tua scelta, siamo in democrazia, se io invece volessi mangiarli a colazione voglio poter essere libero di farlo".
Ecco, chiunque sentisse un discorso del genere inorridirebbe (comprensibilmente), no? Perché è ovvio che quando si tratta del rispetto della vita e dei diritti degli esseri umani a nessuno viene in mente di metterli in discussione. E quindi questo rispetto non è visto come una "scelta" del singolo ma come un valore ed un dovere acquisito dalla comunità sociale tutta.
Al contrario, quando si ha a che fare con gli animali, allora la scelta se rispettare o no le loro vite, diventa un capriccio, "uno stile di vita individuale" che non deve essere sentito come necessario ma come "opzionale".
Ecco, io voglio dirlo una volta per tutte: l'antispecismo (quindi la considerazione del valore inerente di tutte le creature viventi ed il rifiuto della loro strumentalizzazione utilitaristica) NON è una scelta di vita raggiunta in base a considerazioni legate al benessere individuale del singolo che la porta avanti, ma è una battaglia importantissima combattuta consapevolmente per difendere, rappresentare e dare voce a chi non ce l'ha, ad esseri viventi che non sono capaci di difendersi da soli. Se di scelta si tratta quindi, è una scelta di valore etico ed assoluto, raggiunta grazie a percorsi che possono essere stati anche diversi per ognuno - c'è chi da sempre è stato in grado di provare un sentimento di empatia verso tutte le creature, chi ha aperto gli occhi dopo aver raggiunto un certo grado di consapevolezza, chi non sapeva e poi ha saputo, chi ha capito che tacere e restare indifferente era stare dalla parte degli aguzzini ed ha scelto di iniziare così a dare il suo piccolo contributo - ma che ha come unico fine quello di far finire la tragedia dello sfruttamento degli animali.
Quello che non si può più dire, che non si deve più dire è: "io rispetto la tua scelta ma tu rispetta quella dei carnivori", perché non si può rispettare una scelta che implica violenza, sofferenza, dolore fisico e mentale, prigionia, tortura.
Non mi si venga più a dire che: "per quieto vivere si deve essere democratici a tavola e tutti devono essere liberi di mangiare quello che vogliono", perché il costo di questa "democrazia" e "libertà" a tavola comporta il dolore, la sofferenza, la morte di milioni di esseri viventi. E quindi è una scelta profondamente sbagliata.
Io rispetto il mio prossimo nelle sue scelte di non-violenza, ma quando il mio prossimo sceglie di massacrare altri esseri viventi, allora non posso tacere e non posso che dissentire fermamente e criticare, mostrare le contraddizioni, rivelare e mettere a nudo tutta la follia, la pochezza, la miseria e l'inadeguatezza delle misere giustificazioni adottate da chi - per rassegnazione o indifferenza - preferisce continuare a scegliere la morte, il sangue, la violenza. Perché mangiare gli animali è violenza, è morte, è causa di dolore. Sempre. E non c'è giustificazione che regga. Non ci può essere più, in quest'epoca di informazione su quello che avviene e su come avviene a discapito degli animali, giustificazione alcuna.

lunedì 18 aprile 2011

The Silence of The Lambs

Hannibal Lecter: Dopo l'omicidio di tuo padre eri un'orfana, avevi dieci anni, sei andata vivere in un ranch con pecore e cavalli nel Montana. E?
Clarice Starling: E una mattina sono semplicemente fuggita.
Hannibal Lecter: Non proprio, Clarice. Cosa ti ha spinto? A che ora sei partita?
Clarice Starling: Presto, era ancora buio.
Hannibal Lecter: Poi qualcosa ti ha svegliato, vero? Era un sogno? Che cos'era?
Clarice Starling: Ho sentito uno strano rumore.
Hannibal Lecter: Cos'era?
Clarice Starling: Era... un grido. Una specie di grido come la voce di un bambino.
Hannibal Lecter: E che hai fatto?
Clarice Starling: Sono andata... di sotto, fuori... Mi sono avvicinata furtivamente alla stalla. Avevo tanta paura a guardare dentro, ma dovevo!
Hannibal Lecter: E che hai visto, Clarice? Che hai visto?
Clarice Starling: Gli agnelli. Stavano urlando.
Hannibal Lecter: Stavano macellando gli agnellini?
Clarice Starling: Urlavano come pazzi.
Hannibal Lecter: E sei corsa via?
Clarice Starling: No. Prima ho tentato di liberarli. Ho aperto il cancello del loro recinto, ma non scappavano, rimanevano lì... confusi, e non scappavano.
Hannibal Lecter: Ma tu potevi e l'hai fatto, non è vero?
Clarice Starling: Sì. Ne presi uno e corsi via il più velocemente possibile.
Hannibal Lecter: Dove volevi andare, Clarice?
Clarice Starling: Non lo so, non avevo cibo, non avevo acqua, e faceva molto freddo, molto freddo. Pensavo... che potevo salvarne almeno uno, ma... era pesante. Pesante. Riuscii a fare solo qualche miglio, lo sceriffo mi trovò subito. Il proprietario era così in collera che mi mandò a vivere all'orfanotrofio Luterano a Bozeman. Non vidi mai più il ranch.
Hannibal Lecter: Che ne è stato del tuo agnello, Clarice?
Clarice Starling: Lo uccisero.
Hannibal Lecter: Ti svegli ancora qualche volta, vero? Ti svegli al buio e senti il grido di quegli innocenti.
Clarice Starling: Sì.
Hannibal Lecter: E pensi che se riuscissi a salvare la povera Catherine, potresti farli smettere, vero? Pensi che se Catherine vive, non ti sveglierai nel buio con quell'orribile grido di quei poveri esseri innocenti.
Clarice Starling: Non lo so. Non lo so.
Hannibal Lecter: Grazie, Clarice. Grazie.

Difficile aggiungere qualcosa a questo struggente dialogo - che ovviamente va letto ricordando le eccezionali interpretazioni dei bravissimi Jodie Foster ed Anthony Hopkins - perché, semplicemente, racchiude già tutto quello che di importante vorrei dire.
Io non ho mai vissuto in un ranch e - fortunatamente - non ho mai assistito dal vivo alla macellazione di un agnellino. Ma le grida, quelle grida, le sento anche io. E so per certo che - trovandomi nella stessa situazione dell’agente Clarice - avrei fatto la stessa cosa: avrei provato a salvarne almeno uno. Consapevole dell’inanità del tutto, poiché nello stesso momento altre creature innocenti sarebbero state uccise e le loro urla strazianti avrebbero continuato a lacerare l’aria della notte.
Penso però che sia dannatamente importante continuare a provarci, a salvarne almeno uno, almeno due, cento, mille, il più possibile, fino a che verrà il giorno in cui non ci sarà più nessun urlo a straziare la notte e nemmeno il giorno.
Mi rivolgo - con questo post - soprattutto a chi ancora mangia gli animali e a chi - sta pensando - per seguire un’ignobile tradizione - di mangiare l’agnello il giorno di pasqua.
Mi rivolgo anche - anzi, soprattutto direi - a coloro che si definiscono credenti.
Io non sono religiosa però so che il giorno di pasqua si festeggia la resurrezione di Gesù Cristo e per questo è considerato un giorno importante, di grazia, di immensa letizia, di pace.
Non voglio entrare in discussioni teologiche perché non ne sarei in grado, vorrei però ricordare a tutti i credenti e praticanti e anche a quelli che magari non sono né l’uno e né l’altro e però festeggiano lo stesso l’evento per “tradizione” e per avere un’occasione di riunire la famiglia, che sarebbe del tutto incoerente ed assurdo andare a messa quella mattina, scambiarsi il segno di pace, gli ulivi benedetti, cantare inni e lodi in nome del signore e sentirsi felici per la sua resurrezione se poi - dopo, a casa - quelle stesse mani che si sono strette in segno di pace verranno sporcate del sangue di esseri viventi. Un essere vivente, un agnellino (del tutto rassomigliante ai cani ed ai gatti che invece vengono trattati amorevolmente magari dalle medesime persone), che per finire sulle tavole di coloro che festeggeranno la pasqua è stato brutalmente strappato alla madre, trattato nel peggiore dei modi, terrorrizzato, spintonato sui camion, trasportato, orribilmente ucciso, scuoiato, macellato, fatto a pezzi e infine mangiato. Fareste questo al vostro cane? Al vostro gatto? A vostro figlio? Ad un bambino qualsiasi? Ma perché non riuscite a vedere che negli occhi terrorizzati ed increduli (perché mi state facendo questo?) c’è il medesimo orrore che leggereste in quelli di un altro cucciolo qualsiasi - che sia di uomo o di cane o di altre specie poco importa?
Ma nei dieci comandamenti - cui diceva di ispirarsi il Cristo, la cui resurrezione state festeggiando - non c’è quel “Non uccidere!” ?
Cari cattolici credenti, cristiani osservanti e praticanti, o solo credenti o qualsiasi cosa vi crediate di essere e pensiate di seguire - il comandamento NON UCCIDERE non specifica CHI non si debba uccidere ma dice proprio NON UCCIDERE in generale; ora, poiché si può uccidere soltanto un essere vivente, è fin troppo evidente che per NON UCCIDERE si intenda proprio NON UCCIDERE nessun essere vivente (compresi gli agnellini!). Altrimenti sarebbe stato ben specificato, come infatti - in altri comandamenti - è stato specificato: “non desiderare la donna d’altri” (e non la zia, o la cugina, o la sorella) - “onora il padre e la madre” (e non lo zio, o il fratello, o il cugino).
Il comandamento non dice “non uccidere gli esseri umani ma gli animali sì”.
Quindi - mi rivolgo sempre ai credenti - se voi davvero ci tenete a rispettare i dieci comandamenti, a festeggiare l’evento della resurrezione ecc., perché non cercate di essere un pochino più coerenti smettendo di uccidere e mangiare gli animali?
Perché non cominciare proprio in questo giorno di rinnovata letizia, rinunciando a comprare l’agnello, a cucinarlo, a mangiarlo?
E vi prego di non commettere lo sciocco errore di pensare: “ma tanto nelle macellerie già li vendono, già sono esposti, ormai sono morti”. E no. Perché magari, diminuendo la richiesta, il prossimo anno ne verrà ucciso qualcuno in meno, magari tra due anni qualcuno ancora in meno, e poi magari, se tutti ci convincessimo che siamo noi maledetti consumatori a fare la differenza sul mercato, tra molti anni a nessuno verrà più in mente di sacrificare un agnello per onorare la resurrezione di Cristo. Cessando la richiesta, cessa anche la vendita.
Che poi, i sacrifici, non li facevano i popoli pagani e considerati “barbari” proprio dai cristiani?
Ma allora, perché continuare  a sacrificare e a mangiare gli agnellini? Ma in nome di quale becera sanguinaria tradizione sacrificale?
E  comunque - visto che il mio post appare con qualche giorno di anticipo - visto che solitamente le persone ordinano l’agnello dal macellaio di fiducia qualche giorno prima - se voi ci rinunciate, optando per altri mille menù gustosi - probabilmente verrà risparmiata una vita, “salvata” una vita, che è esattamente - per parlare la vostra stessa lingua, quella dei credenti - ciò che era nelle intenzioni di Cristo.
Non mangiate gli agnellini. Quel vostro gesto, come quello di Clarice, magari non servirà a molto, ma salvarne anche soltanto uno, almeno uno, è già un principio. Un buon principio. Il miglior augurio pasquale che possiate fare a voi stessi e al prossimo. 

martedì 12 aprile 2011

Quaresima

Ieri sera sono andata ad una festa di compleanno, una di quelle in cui, a parte il festeggiato e pochi altri, ci sono molte persone che non ho mai visto prima.
In situazioni così mi diverto ad osservare chi non conosco, cercando di farmene un’idea approssimativa, consapevole che l’apparenza non di rado inganna (ma qualche volta invece esprime esattamente quel che contiene).
Non posso fare a meno di notare, perché molto appariscente, una bella donna: bionda, fresca di piega dal parrucchiere, molto truccata ma in maniera accurata, non volgare insomma, vestita in maniera elegante, con un abito fine ma anche in grado di valorizzare le forme, sulla quarantina (o forse qualcosa in più ma ben portati, o magari qualcosa in meno ma male portati). Atteggiamento un po’ “snob”, di quelle che ti squadrano dalla testa ai piedi e ci tengono a farsi ammirare. Ma a me solitamente non dà fastidio questo atteggiamento di certe donne rivelatorio di un bisogno di sguardi perché dietro ci scorgo sempre una certa fragilità, una certa necessità di avere conferma che denota poca o scarsa stima di sé. E quindi, le donne così, più che invidia (come spesso pensano gli uomini) mi suscitano molta tenerezza.
Devo aggiungere poi che a me piace guardare le belle donne, così come guardo gli uomini, così come mi soffermo a guardare un bel quadro, un bel mobile, un bel paesaggio, un cane, un gatto, un fiore, una nuvola. A volte mi capita di fare anche delle figuracce perché magari le osservo in maniera forse fin troppo insistente, ma sempre con puro spirito innocente, giocoso.
E' che, semplicememente, mi piace la bellezza.
Peraltro ieri sera ho poi finito praticamente per passare la serata in contemplazione dei numerosi dipinti che erano appesi alle pareti, di notevole valore estetico: una casa che è quasi una pinacoteca.
Ai lati del salone ci sono anche diversi tavoli con molte cose da mangiare, quindi ad un certo punto decido di andare a dare una sbirciatina, anche perché, dopo aver già bevuto un paio di bicchieri di un ottimo rosso, inizia a girarmi la testa.
Passo velocemente in rassegna le varie vivande, sorvolo disgustata sui piatti di salumi, inizio col piluccare qualche patatina e qualche oliva, qualche tartina vegetariana e poi mi avvicino ad un’invitante teglia di pasta al forno che sembra proprio priva di carne; per sicurezza mi metto in cerca della padrona di casa per chiedere conferma, quando, dietro le mie spalle, superando di tono il vocìo in sottofondo sento sopraggiungere una voce squillante a chiedere: “c’è carne in quella pasta? C’è carne? Non c’è carne vero? E’ senza carne vero? Allora posso andare sicura? La posso mangiare tranquillamente?”. Mi volto e mi accorgo che colei che mi ha preceduta nella domanda che anche io stessa stavo per porre è la signora appariscente che non ho potuto fare a meno di notare al mio arrivo e che ho appena descritto sopra. Che bello, penso tra me e me, c’è una vegetariana, un’anima affine, vedi, mi dico, è proprio vero che non si deve mai giudicare dall’aspetto, pensavo che fosse una persona frivola, poco consapevole di sé se non a livello di mera apparenza, un po’ snob, sembrava anche vagamente antipatica (e magari lo è), però almeno non mangia gli animali, e qualsiasi persona che è stata in grado di compiere questa scelta  deve avere sicuramente qualcosa di interessante dentro... e già mi avvicino aprendomi in un mezzo sorriso, contenta di aver trovato - in mezzo a tutte quelle persone che non conosco - un’anima affine, almeno sotto quell’aspetto e sto per dire: “anche io infatti stavo per fare la stessa domanda per sapere se c’è la carne o no “, quando sento una terza persona - un uomo - che, rivolgendosi alla bella donna bionda, mia presunta anima affine, le domanda: “ma perché vuoi sapere se c’è carne o meno, sei vegetariana?”. E la bella donna risponde: “no, no, figuriamoci... sono in QUARESIMA!”.
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Credetemi, se avessi visto Satana in persona me la sarei data a gambe meno velocemente.
Se c’è una cosa che mi ferisce ancor più di vedere una persona che mangia animali è una persona che, periodicamente, rinuncia a mangiarli per assecondare un credo religioso, implicando nell’atto stesso una sorta di sacrificio, di rinuncia - NON per rispettare un altro essere vivente - bensì per rispettare ed onorare un dogma, un credo, un’entità astratta.
Una persona così, come la donna di ieri sera, a me fa veramente paura.
Una persona così, che abdica alla propria capacità di ragionare per seguire i dettami di un credo religioso a me fa veramente paura. Mi fa paura perché sono convinta che un domani - se la chiesa riacquistasse il potere temporale - persone come me verrebbero direttamente messe al rogo da persone come quella di ieri sera. Perché sono convinta che la chiesa non sia per niente pentita del proprio truce passato, con l’inquisizione e le torture e la messa al rogo di persone che la pensavano diversamente, anzi, che pensavano e basta, senza “credere”.
A me fanno paura le persone che decidono di mangiare o non mangiare gli animali in nome di un credo religioso anziché come risultato di una presa di coscienza perché queste stesse persone, qualora il proprio credo chiedesse loro di sterminare... che so, tutti i gatti neri, o tutti i bambini con gli occhi verdi piuttosto che tutte le donne che hanno i capelli ricci, lo farebbero senza esitazione alcuna.
La bella signora bionda ora è in quaresima, quindi non mangia la carne (ma il pesce sì!), perché si avvicina la pasqua e bisogna prepararsi al grande evento della resurrezione. La bella signora poi, la domenica di pasqua, per festeggiare l’avvenuta resurrezione - fiera di aver mantenuto il suo impegno a rinunciare di mangiare la carne fino a quel giorno - affonderà - senza colpa e senza alcun tipo di remora - i denti in un bel cosciotto di agnello. Ecco, a me una persona così fa veramente paura.
Io mi auguro che tra tutte le persone come la bella signora ci possa essere - per qualcuno almeno - una vera resurrezione: quella della propria intelligenza, del proprio spirito ragionante, della propria capacità di pensare.
Non mettiamo a morte gli agnelli, mettiamo a morte i dogmi ed i credi religiosi.

sabato 9 aprile 2011

Jules e Jim di F. Truffaut


M'hai detto: ti amo.
Ti dissi: aspetta.
Stavo per dirti: eccomi.
Tu m'hai detto: vattene.

Parigi, 1907: Jules è tedesco e cerca compagnia, soprattutto femminile; incontra Jim, francese, che diventa suo amico e gli presenta varie donne.
I due danno vita ad un'intensa ed animata relazione amicale, contraddistinta soprattutto da condivisioni ed interessi di natura artistica ed intellettuale ma anche da attività sportive e mondane di vario tipo.
Jim è scrittore e tiene particolarmente al giudizio dell'amico Jules, il quale lo incoraggia e si presta a tradurre i suoi scritti in tedesco. Confabulano di letteratura, arte, poesia, amore, donne.
Durante una proiezione di reperti archeologici a casa di un amico comune si appassionano al volto femminile di una statua che si trova in un sito sul Mediterraneo, quindi, entusiasti, partono per poterla ammirare dal vivo.
Jules et Jim sono dei veri bohémiens che si godono la bellezza della vita sotto qualsiasi forma essa si presenti loro, che si tratti di una poesia, di uno spettacolo offerto dalla natura o dei tratti di un volto femminile in cui percepiscono l'afflato di un mistero.
Un giorno incontrano Catherine e subito i due amici ne sono irrimediabilmente attratti: nei lineamenti della donna rivedono gli stessi della statua che tanto li aveva entusiasmati.
Jules e Catherine iniziano a frequentarsi, dando avvio ad una relazione amorosa, ma rendono partecipe, seppure nel "ruolo" di amico condiviso, anche Jim: ne nasce un triangolo di genuini sentimenti, un inno alla vita spensierata e al piacere di stare insieme. Dapprima Catherine si sposa con Jules, con il quale ha anche una bambina, poi, dopo vari "tradimenti" ed "uscite" dal matrimonio - in mezzo c’è anche la tragedia della prima guerra mondiale, la quale però anziché raffreddare i sentimenti del “trio”, sotterraneamente ne fa emergere ancor di più il prezioso valore -  inizia una relazione amorosa anche con Jim, con il beneplacito di Jules, il quale, sempre innamorato della donna e timoroso di vederla andar via per sempre, ma anche profondamente legato a Jim, accetta di buon grado la "nuova" situazione: "tutto, pur di non perdere Catherine". Poi seguiranno altri "ribaltamenti" amorosi e un finale drammatico.
Il film di Truffaut uscì nel 1962 e, come forse era prevedibile aspettarsi, si gridò allo scandalo. Nel cinema erano già stati rappresentati dei "triangoli" amorosi, ma mai prima d'ora con una donna e due uomini.
A me, tuttavia, sembra estremamente fuorviante parlare di triangolo (figuriamoci di scandalo, poi!), in quanto il termine triangolo, sebbene costituisca un'apertura rispetto al consuetudinario rapporto di coppia, ribadisce comunque anch’esso una chiusura. Un triangolo è una forma geometrica chiusa, delimitata, formata da tre elementi. Nulla potrebbe essere più lontano, metaforicamente parlando, dalla vicenda di Jules, Jim e Catherine.
Innanzitutto abbiamo la relazione amicale tra Jules e Jim, come detto sopra di natura intellettuale, ed è una relazione fluida e aperta vivificata da uno scambio continuo di opinioni ed impressioni, da un costante dare e ricevere di spontanea e genuina condivisione. Quando incontrano Catherine, lasciano che lei entri a far parte del loro "ménage a deux" senza esserne sconvolti più di tanto, vedendola dapprincipio più come l'incarnazione del loro ideale di bellezza scorto ed individuato nel volto della statua ellenica che come una donna reale; a me pare che essi inizialmente si accostino più alla sublimazione di Catherine che non alla donna in carne ed ossa. Ma Catherine è una donna vera, "non particolarmente bella, né particolarmente intelligente, ma vera" - come giustamente dirà un giorno Jules a Jim - ed è di QUESTA donna, vera, volubile, capricciosa e carnale che di fatto si innamorano entrambi.
Si potrebbe allora tentare di vedere qualcosa in più di un semplice “triangolo amoroso”, essendo la stessa Catherine scissa nelle sue componenti carnali e spirituali e venendo a costituirsi una relazione specifica ed autonoma per ciascuno dei tre personaggi che si interfaccia e reagisce con l’altro. C’è Catherine con Jules, che non è la stessa di quando sta con Jim, e ci sono un Jim e Jules che sono diversi da come, singolarmente, autonomamente, si comportano nel loro rapporto con Catherine; e poi ci sono loro tre visti da fuori, “i matti del villaggio”, una componente “altra”, un occhio esterno che va ad aggiungersi ai frammenti della loro scomposta e prismatica relazione comune.
Tuttavia ognuno sembra ricoprire anche un ruolo ben preciso: Catherine è l’elemento volubile, incostante, è colei che assaggia gli uomini con la stessa bramosia e curiosità con cui vorrebbe assaggiare l'universo: ossia per conoscerlo, sondarlo, sentirlo ed infine appropriarsene.
Jules e Jim sono i due intellettuali, coloro che hanno imparato ad apprezzare la vita attraverso il filtro della rielaborazione e rappresentazione artistica. Parlano per citazioni, scrivono, osservano, ammirano l'arte nelle sue varie manifestazioni e concrezioni ma, potrei dire, non sanno vivere che di riflesso. In Catherine, infatti, dapprincipio - come ho già detto - è la straordinaria somiglianza con la statua che scorgono, ma non lei, non la sua carica di dirompente vitalità.
Catherine è il caos che entra nell’ordine costituito. Anche a livello di dinamiche relazionali: è lei il terzo elemento, l’elemento che disturba, e non l’uomo che, a turno, resta esterno alla “coppia etero” che si forma di volta in volta.
E perché non può funzionare oltre un certo punto? Perché sempre, pur nel tentativo di reinventare l'amore, di "piegare le leggi umane" a qualcosa di inedito e di profondamente "vero", autentico, sentito, si innesta il tentativo, l'ennesimo, fallimentare, di chiudere questo libero e spontaneo fluire di sentimenti - che ha un qualcosa di mistico, riecheggiato nelle diverse, bellissime scene girate all'aperto, a contatto con la natura, con il mare, la sabbia, i prati, sotto la pioggia in città - in un circuito chiuso di coppia - prima l'una, poi l'altra, poi di nuovo la prima, ma sempre innanzitutto Jules e Jim, come giustamente si evince anche dal titolo, con Catherine come fattore di rottura - un circuito che diventa corto circuito, autoreferenziale, soffocato in se stesso, privato di quell'ossigeno necessario a tenere un fuoco acceso.
Ma allora, a ben guardare, Catherine, più che elemento di disturbo, come abbiamo detto, è l'unica che sembra percepire questo pericolo di ogni chiusura imminente e sempre infatti interviene a sconvolgere l'equilibrio appena assestato, sempre è disposta a rimettersi in gioco, a rimettere tutto in gioco, a rischiare tutto pur di mantenere viva la carica relazionale di questo rapporto a tre.
Jules e Jim, incapaci di contenere appieno la carica vitale di questa donna che è esubero di puro esprit de vivre da ogni poro, non possono far altro che accogliere e raccogliersi ad ogni suo richiamo.
Catherine rappresenta simbolicamente la vita, quella che fluisce liberamente e che non vorrebbe conoscere argini; lei è il vero, l'autenticità, la grazia, l'assenza di costruzione e di artificio. Nel tentativo di scalfire il procedere ingessato - pura rappresentazione - di Jules e Jim, porterà il disordine - ma anche la vita vera - e infine la morte.
Il sorriso di Catherine allora, come quello della statua, lungi dal racchiudere in sé un mistero, diventa simbolo delle due pulsioni estreme che governano ogni esistere: Eros e Thanatos.

sabato 2 aprile 2011

Leslie: il mio Nome è il Male di Reginald Harkema

A volte, curiosando tra gli scaffali delle videoteche - a chi, come me, non scarica i film da internet ma preferisce acquistarli in dvd o prenderli a noleggio - può capitare di scovare piccole gemme escluse dall’ingranaggio della grande produzione; è proprio quando mi imbatto in un nome nuovo, in un titolo mai sentito, in un cast poco noto che la mia curiosità inizia a essere solleticata.  Sono sincera: non sempre questa ricerca casuale di film praticamente sconosciuti produce un buon esito, spesso infatti capita di imbattersi in perle di raro trash, ma qualche volte capita anche il contrario, come è stato ad esempio per Leslie: il mio nome è il male, una produzione canadese diretta da Reginald Harkema. Anche conoscere il paese di provenienza di un film può essere indicativo: a me il Canada fa venire immediatamente in mente Cronenberg, per dire, e quindi è un paese che mi ispira una certa fiducia.
Leslie: il mio nome è il male racconta la stranota vicenda di Charles Manson e dei suoi accoliti, passati alla storia per aver commesso vari delitti, tra cui, il più famoso, quello dell’attrice Sharon Tate, all’epoca dell’uccisione incinta di otto mesi e sposata con il famoso regista Roman Polanski.
Il film ha un taglio originale e creativo: innanzitutto la vicenda è raccontata attraverso il punto di vista di una delle ragazze della “famiglia” di Manson, nel film Leslie, e di quello di un ragazzo, Perry, il cosiddetto bravo ragazzo americano, di famiglia borghese, estremamente religiosa, bigotta e bacchettona, conservatrice e intrisa di valori patriottici, favorevole all’invasione del Vietnam.  
L’intero film però, a ben guardare, si snoda attraverso non un duplice, ma triplice filo: quello di Leslie, quindi, insoddisfatta e annoiata, alla ricerca di un senso più spirituale e più profondo con cui colmare il vuoto esistenziale che avverte dentro sé, quello di Perry, il ragazzo repubblicano, in bilico tra l’adesione ai “valori” inculcategli dalla famiglia e dalla cultura perbenista in cui è stato allevato e il desiderio di sottrarvisi e ribellarvisi, ed infine anche quello della Società che solo apparentemente  assolve alla funzione di sfondo - sociale e culturale - entro il quale si caratterizzano ed avvengono le vicende ma in realtà diventa essa stesso un terzo elemento dialettico, un personaggio simbolico ed emblematico che non solo si contrappone, ma ingloba e fagocita ogni altro elemento da essa derivante, inclusi i personaggi Leslie, Manson e Perry stessi.
Il film è girato in maniera molto originale e curata ed è sostanzialmente ironico, e - un po’ come succede ne L’uomo che ride di Victor Hugo - spesso enuncia esattamente il contrario di ciò che vuole intendere.
La prima parte mette in evidenza i caratteri dei personaggi principali, sempre mostrati sullo sfondo sociale su cui agiscono e si muovono, la seconda racconta il processo per i delitti commessi.
Lo sfondo sociale e culturale entro cui si muovono ed agiscono i personaggi è sempre rappresentato mettendo bene in evidenza la finzione scenografica anche  attraverso l’uso di inquadrature sbilenche, tese a rimandare una prospettiva volutamente errata,  così che la chiesa, la biblioteca, le piazze, le case appaiono  quasi dei non luoghi di cartapesta, tragicamente smascherati per quello che sono,  ossia strutture artificiali ed artificiose - una sorta di Truman Show - in cui le persone - come burattini - sono manovrate e ridotte al mero ruolo di comparse.
Manson e le sue ragazze, durante la parte del processo, vengono additati come il Male assoluto, le mele merce della società da estirpare per ripristinare lo stato di salute sociale. Ma tutta la messa in scena del processo - volutamente teatrale - appare come una sorta di farsa poiché, è evidente a quel punto, e non solo allo spettatore ma allo stesso Perry - divenuto membro della giuria - che Manson,  Leslie e le altre  ragazze lungi dall’essere l’incarnazione del Male sono semplicemente vittime al pari delle stesse persone che hanno ucciso, vittime di un qualcosa che è infinitamente più subdolo ed indecifrabile. Quel qualcosa, e in maniera velata e ironica Harkema ce lo mostra sin dai titoli di inizio, altro non è che la Società, con le sue sovrastrutture culturali e le dinamiche malate e viziose di cui si avvale. La Società come specchio ingrandente di un altro microcosmo, che può essere talvolta ancora al servizio del male e capace di generare altro male da sé, e che è la Famiglia. Nulla sfugge all’occhio critico e spietato del regista, ogni anfratto del sociale, dalla famiglia, alla scuola, alla chiesa, tutti i luoghi preposti all’istruzione e alla cultura, apparentemente sani, sono in realtà sistemi forieri di distorsioni e frustrazioni, di nevrosi e follia. L’essere umano, incatenato sin dalla nascita nelle costrizioni sociali, sembra suggerire Harkema, non ha che due scelte: lasciarsi assorbire e fagocitare dalle dinamiche malate della società, finendo per riconoscervisi, divenendo egli stesso artefice inconscio di un disagio che è male, che è malattia, oppure può ribellarvisi, divenendo un outsider come Manson e Leslie.  Il Male quindi non è Manson, né la Leslie protagonista, il Male è fuori da loro, il Male è la Società e loro, lungi dall’esserne gli artefici, ne sono semplicemente un prodotto, il prodotto.
Ovviamente Harkema  non intende sminuire o depotenziare la violenza di cui Leslie, Manson e le altre si sono fatti promotori, restano pur sempre assassini e la fine del processo nel film li vede condannati a morte, ma intende semmai mettere a nudo l’altra violenza, quella nascosta, quella non identificata e riconosciuta dall’opinione pubblica: Harkema mette a nudo la violenza insita nel lavaggio del cervello effettuato dai mass media, quella celata nell’oppressione e nelle imposizioni della famiglia, quella di una religione intrisa di sensi di colpa e di mortificazione e soppressione dei legittimi desideri dello spirito e del corpo, quella sottesa alle leggi dell’economia e di una cultura malata e violenta per cui è considerato naturale nutrirsi della carne degli animali: ci sono infatti varie scene in cui vengono mostrati in primissimo piano - a disturbare lo spettatore - lame di coltelli e punte aguzze di forchette che trinciano tacchini ed hamburger e denti che masticano, bocche piene di cibo in maniera rivoltante, chiara condanna della violenza socialmente accettata ed accettabile, quella che l’essere umano esercita nei confronti dei più deboli.
La famiglia in cui cresce Perry è una chiara parodia - molto efficace - della classica famiglia perbenista americana, tutta votata alla chiesa, ai piaceri della carne sì, ma di quella messa nel piatto proveniente dall’uccisione di tacchini, polli ed altre creature viventi, ed alla soppressione di quegli altri piaceri della carne, di quelli che invece scaturiscono dalle pulsioni vitali e sane del sesso; una famiglia che vede di buon occhio l’intervento americano in Vietnam ed incita il figlio ad andare a combattere perché “così vuole Dio”, un “così vuole Dio” pronunciato con una sicurezza da far venire i brividi (la frase esatta, pronunciata dal padre di Perry, è, se non ricordo male: “Dio più o meno la pensa come me”).
Allora, ci dice il regista, dov’ è la violenza vera? Qual è la violenza vera? Qual è il Male vero? In Manson? E’ Manson? O non è forse lui stesso semplicemente un’altra vittima, una delle tante vittime che miete una Società sempre più insana ed ipocrita, intrisa di dis-valori e portatrice di un germe contaminato e violento, vero covo della vera violenza e della vera malattia, che diventa Male?
La risposta la sappiamo.
Manson è una vittima. Una vittima che per non soccombere è divenuta essa stessa carnefice. Fallendo miseramente.
E l’opinione pubblica lo condanna non solo per allontanarlo e per impedirgli di commettere altro Male - com’è nelle norme di prevenzione e giustizia - ma lo stigmatizza soprattutto per tenere lontano da sé, dai propri occhi il riflesso di quella violenza in cui è essa stessa immersa e, fingendo di vederne l’incarnazione in un personaggio bollato come “discutibile”, come “diverso”, come “mostro” si trastulla nell’illusione  di potersene tenere alla larga, di poter stare al sicuro. Additare Manson come Male assoluto in un certo senso porta all’esterno un disagio sociale che è latente in tutti coloro che puntano il dito e che con quel dito lo scaraventano in una sfera di “alterità” fingendo che il Male sia “altro da loro”.
Additare il Male negli altri, senza riconoscere quello che alberga all’interno della società di cui tutti siamo vittime ma anche artefici. Proprio come quello riconosciuto in Manson. Solo che il suo Male non è accettabile, quello della società sì.
E allora, per finire, come non ricordare il bellissimo monologo di Apocalypse Now? “E se lei mi capisce Willard.. lei farà questo per me… noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente… ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere cazzo sui loro aerei… perché è… osceno”). Eccola l’ipocrisia messa a nudo, la stessa che argutamente viene messa a nudo anche in questa piccola “perla cinematografica” che è, appunto, Leslie: il mio nome è il male, di cui consiglio vivamente a tutti la visione.