domenica 29 maggio 2011

Vanity Fair

Questo di oggi è il post numero 30. Bisogna festeggiare.
Scorrendo all’indietro le pagine del mio blog non ho trovato un solo post in cui non abbia parlato, anche solo di sfuggita, anche in riferimento a ciò che altri hanno scritto o realizzato (libri, film), di argomenti piuttosto tristi quali la morte, la malattia, la vecchiaia, la violenza, il male, il dolore, la sofferenza ecc.; così ieri, per la voglia di far emergere - una volta tanto - quei toni decisamente più lievi e frivoli che caratterizzano - anch’essi - la mia vita, ho deciso, per una volta, di calarmi nei panni, per me inediti, di modella, sperando di riuscire a  cristallizzare così un momento di serenità.
Pertanto, con il mio compagno, abbiamo realizzato una serie di scatti, peraltro abbastanza lontani dal quello che è il suo stile abituale, decisamente più inquieto (le sue immagini “allietano” in genere questo blog). Vi propongo il risultato, ammettendo senza nascondermi che si tratta proprio di una fiera della vanità, che, per una volta, per amore mi è concesso; parafrasando al contrario il titolo di un suggestivo testo di poesie composte dalla modella prediletta dei Preraffaelliti, Elizabeth Eleanor Siddal (Miss Lizzie), prima amante e poi moglie di Dante Gabriel Rossetti,  dotata di quella bellezza definita “sovrannaturale” che tanti avranno potuto ammirare nei dipinti di Deverell, Millais (struggente la sua Ophelia), dello stesso D. G. Rossetti e di altri,  e che si chiama appunto “Il vero amore non ci è concesso”. Il testo è edito da Panda Edizioni, 2006 tradotto e curato dal giovane, brillante poeta e scrittore Conny Stockhausen, e mi sento decisamente di consigliarvelo; scopro poi che nel 2010 è uscito anche, per Damocle Edizioni, un altro testo, sempre di C. Stockhausen, ancora ispirato alla vita - romanticamente tragica - di Miss Lizzie, da cui la BBC ha prodotto anche una fortunata serie dal titolo “Desperate Romantics”.
Nella segreta speranza che con questa segnalazione, possa riuscire a farmi perdonare per l’assoluta frivolezza di un post, dedicato, per una volta, a me stessa.










Qui, la Fiera della Vanità seconda puntata. :-)


 

mercoledì 25 maggio 2011

Olocausto invisibile (VIII)

Qualche pensiero sulla vivisezione. Argomento tristissimo, lo so.
Il mio compagno mi dice che dovrei scrivere di argomenti meno pesanti, ché poi la gente non mi legge. Io dico che va bene che mi legga anche una sola persona, e che sia quella su cui magari le mie parole possano incidere. E che comunque io voglio scrivere degli argomenti che più mi stanno a cuore, altrimenti, se mirassi ad un blog di successo, metterei una mia foto con le tette di fuori ;-).
Battuta scema. Per alleggerire un po’.
Iniziamo. Proprio ieri mi è capitato di leggere una discussione a proposito della vivisezione, relativa ad un articolo in cui veniva sostanzialmente smentita l’affidabilità della “sperimentazione” sugli animali, in quanto - tra noi e loro - ci sarebbero troppe differenze a livello organico. Troppa diversità a livello di DNA.
Nella discussione sono intervenuti diversi antispecisti che hanno ribadito detto concetto e che hanno fatto luce sulla mostruosità della vivisezione. Come c’era da aspettarsi sono intervenute anche persone a favore invece della vivisezione (che però chiamano “sperimentazione animale”, come se l’adozione di una terminologia più neutra potesse nascondere l’orrore), sostenendo che la ricerca medica è importante, e che è giusto che muoiano degli animali se può servire a salvare delle vite umane (ovviamente per gli specisti la vita umana è superiore a tutte le altre), e che noi contrari siamo solo quattro esaltati animalisti dalla mentalità retriva poiché contro il progresso e la scienza (retrivi noi??? Mah!), e anche - questa è la più bella - che noi animalisti saremmo egoisti perché portiamo avanti solo i nostri interessi (i nostri? Cioè, mica ci stiamo noi dentro le gabbie a soffrire, mi risulta che purtroppo ci siano i nostri fratelli animali, ai quali però vengono - guarda caso - recise le corde vocali affinché i loro lamenti non possano disturbare gli “operatori”, e di certo non sono capaci di condurre da soli una loro battaglia, e proprio per questo, quindi, interveniamo noi animalisti, per parlare al loro posto, per difendere esclusivamente i loro interessi - NON i nostri -  prestandogli quella voce che non hanno).
Vabbè, la solite cose insomma. Non mi stupisco più. Dell’ignoranza e della disinformazione, e della mancanza di empatia. Nemmeno della follia, se è per questo. Esiste. Ne prendo atto.
Poi però ad un certo punto leggo un commento che - tra tutti - spicca per l’adozione di una terminologia tecnica e puntigliosa; l’autrice del commento afferma di essere una biologa, e sostiene quanto segue: “ (...)è assolutamente errato affermare che il DNA dell'uomo e dei modelli animali utilizzati nelle sperimentazioni non siano paragonabili, tant'è che la percentuale di similarità della sequenza nucleotidica del DNA umano e di quella ad esempio del topo è molto elevata. Addirittura alcuni tratti del DNA umano sono riscontrabili nel DNA procariotico (per intenderci i batteri), quindi figuriamoci se non possiamo considerarci simili agli animali (...).”

La cosa che più mi ha fatto incazzare di questo commento è l’espressione “modelli animali”, perché, quel far precedere il termine “modelli”, alla parola “animali” implica un voler ridurre ad elemento astratto chi, a tutti gli effetti, è invece un essere vivente. Implica un voler prendere le distanze in maniera asettica, un rifiuto di considerare l’essere vivente nel suo valore inerente, ma solo per l’uso - “modello” - che se ne può fare. E l’adozione di una simile terminologia è secondo me quanto mai sintomatica dell’incapacità di vedere l’animale come un essere vivente. E questo fatto mi fa orrore. Mi spaventa più di ogni altra cosa. Constatare, giorno dopo giorno, questo atteggiamento culturale che considera l’animale come oggetto mi rattrista sempre più.

Inoltre, la biologa si contraddice. Perché, o si ammette che gli animali hanno davvero un organismo troppo diverso dal nostro (simile ma diverso, e del resto hanno malattie diverse dalle nostre; alcune specie, ad esempio, nemmeno sviluppano il cancro, salvo poi venirgli inoculato artificialmente per fare esperimenti), in tal caso la vivisezione è solo una pratica inutile. Una mostruosità inutile.
O, come afferma la biologa, sono invece tanto simili a noi. Tanto. Ma tanto. E allora, se sono così simili a noi, come accidenti è possibile che continuiamo a trattarli come oggetti privi di un valore intrinseco (ossia, che prescinde dall’utilità che essi possano avere per noi)? Come possiamo trattare (come possono) degli esseri tanto simili a noi come invece fossero oggetti inanimati, incapaci di provare dolore, amore, sofferenza psichica?
In ogni caso, la pratica della vivisezione è una mostruosità.
Poi riflettendo su altri commenti, ho notato che tutte le persone a favore della vivisezione portano avanti la medesima tesi, che sia necessaria ed utile per la ricerca medica, per scoprire nuove cure ecc.. Ora, a parte che ci sono metodi di ricerca alternativi, ossia senza l’uso degli animali, e che sono anche più attendibili perché comunque i test sulla povera bestiola, che vive in uno stato di stress, di dolore, fisico e psicologico, di privazione della libertà ecc. (e non starò a raccontare tutte le mostruosità che vengono fatte agli animali in nome di questa sedicente “scienza” perché il web è pieno di video ben documentati) non può dare che risposte falsate, e poi, mi domando, ma di quale scienza stiamo parlando? E perché in nome della scienza dovrebbe essere permesso tutto?
Ora, io tutto sono tranne che una persona chiusa di mente o dalla mentalità retriva. Mi reputo una donna informata. E aperta di mente. E ritengo l’illuminismo uno dei periodi più belli della storia. Sono a favore delle nuove scoperte, il nuovo, anzi, mi attrae, non mi spaventa. Sono a favore del progresso tecnologico. Non sono insomma una nostalgica dei bei tempi antichi. E però credo che ci siano dei limiti, oltre i quali l’uomo si debba fermare, nel momento in cui superarli significherebbe abdicare alla propria umanità. Perché di questo stiamo parlando.
La vivisezione rende - chi la pratica - pari ad un mostro. Il mito della creatura del Dott. Frankenstein (che tutti chiamano Frankenstein, mentre pochi sanno che quello era il nome del suo creatore, mentre ciò che il Dott. Frankenstein aveva creato si chiamava, semplicemente, la Creatura), vi dice qualcosa?
Non si può andare oltre le leggi della natura. Perchè scavalcarle per perseguire con i mezzi sbagliati un preciso fine, anziché rendere l’umanità più simile ad un Dio, la fa sprofondare nella bestialità più selvaggia (ove, per bestialità, non intendo far riferimento alle bestie, ma ad uno stato di totale mancanza di civiltà e di etica). 
E mi viene da pensare così anche alla hybris nelle tragedie greche del V secolo A.C., a quel peccato smisurato di orgoglio di cui si macchiava l’eroe nel tentativo di sfidare gli Dei. E anche al bellissimo - uno dei più struggenti - canto dell’Inferno di Dante, il XXVI, per l’appunto, in cui la nave di Ulisse scompare tra i flussi “infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”, perché va bene che “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”, ma è anche vero che la conoscenza assoluta e totale dell’universo - ammesso e non concesso che sia possibile - giammai potrà significarne dominio assoluto. Soprattutto se - nel tentativo di perseguire il miraggio di un dominio impossibile - scavalchiamo e calpestiamo parte di questo stesso universo (Ulisse aveva lasciato i suoi affetti, la sua casa, la sua donna, il suo fido cane).
E siamo sempre lì, non ci stiamo, non ci sta la nostra misera specie a rassegnarsi all’idea che siamo creature piccole, finite, caduche, destinate a morire. E allora in passato abbiamo pensato di poter sfidare gli Dei (peccando di hybris), poi, di varcare i limiti del mondo conosciuto fidando nella cieca fortuna, infine, oggi, pensiamo che tutto sia lecito - anche condannare altri esseri viventi ad un inferno quotidiano senza remissione alcuna dal dolore, ché questa è la vita per gli animali negli stabulari della vivisezione - nel tentativo di renderci creature più grandi rispetto a quello che siamo.
E giorno dopo giorno, anziché divenire più grandi, perdiamo un po’ della nostra umanità, rendendoci più simili a mostri che agli Dei di cui vorremmo imitare le gesta.
Allora, anziché condannare i nostri fratelli animali a sofferenze indicibili gratuite, dovremmo riflettere di più sulle nostre paure, e cercare di accettare ciò che è: le malattie esisteranno sempre, si continuerà sempre a morire di qualcosa, perché siamo creature destinate a morire. La scienza non è e non può essere l’unica risposta. Specialmente quando, sotto il suo nome, si nasconde in realtà quella che da sempre è la follia più folle di tutte le follie dell’essere umano. Sconfiggere la morte, divenire immortali, fermare la vecchiaia (non sapete quanti esperimenti vengono fatti sugli animali per studiare la vecchiaia, per testare i cosmetici... cosmetici che ci daranno solo l’illusione di essere più giovani, apparentemente, ma che non fermeranno l’avanzare del tempo e non sconfiggeranno la nostra caducità).
E, soprattutto, dovremmo riflettere su quanto un atto di barbarie gratuita - quale la vivisezione - tutto può essere tranne che scienza. Tutto, tranne che progresso ed evoluzione.
E’ solo orrore. E dall’orrore non potrà che generarsi altro orrore.
E no, non è vero che il fine giustifica i mezzi. Non quando questi mezzi sono creature che soffrono.

giovedì 19 maggio 2011

The Tree of Life di Terrence Malick


(come mio solito, non sarò breve)
Da tempo sostengo che Terrence Malick sia uno dei più grandi registi viventi, e sfido chiunque conosca la sua filmografia a darmi torto; certo, può non piacere, de gustibus non disputandum est, oppure si potrà non essere d’accordo con quello che dice, ma difficilmente si potrà restare indifferenti di fronte ai suoi lavori o non riconoscerne la grandezza oggettiva. Intanto è un regista tecnicamente perfetto - anche perché non gli interessa realizzare un film ogni anno e si prende tutto il tempo necessario per portarlo a compimento nel migliore dei modi, ossia secondo quella che è la sua maniera di fare cinema, una maniera che sfiora la perfezione sotto ogni aspetto - e poi affronta sempre tematiche di grande importanza - filosofiche, metafisiche, mistiche - racchiuse in storie di grande suggestione.
Da mesi attendevo l’uscita del suo ultimo film The Tree of Life e infatti non ho perso tempo: appena uscito in anteprima qui a Roma - ieri, per l’esattezza - mi sono precipitata a vederlo. 
Sono andata con animo prevenuto ed esageratamente critico, perché, non volendo commettere l’errore di “farmelo piacere per forza” solo perché è di Malick, ho voluto predispormi con un certo distacco “professionale”.
Il mio giudizio - e ci tengo a ribadirlo e sottolinearlo, scevro da ogni “pregiudizievole simpatia” verso il regista - è che si tratti di un film assolutamente grandioso. A fine visione ricevo un sms dal mio amico Rocco, grande cinefilo - che sarebbe dovuto venire a vedere il film, ma mi ha dato buca  ;-) - il quale mi chiede: “da uno a dieci?”; io rispondo: “per me è un dieci. E’ un film assoluto. Ma in sala c’era anche qualcuno che ridacchiava, a prova del fatto che comunque non è un film che può essere apprezzato da tutti”.
Perché, se innegabilmente chiunque non potrà fare a meno di riconoscere una maestosità tecnica di cui raramente si ha avuto prova nella storia del cinema - mi sento di accostarlo, per eccezionalità della resa filmica, pur con tutte le differenze tematiche e di forma, ad un capolavoro quale 2001: odissea nello spazio di Kubrick - ottenuta tramite un mix di scene girate in Super 8 ed altre realizzate con una cinepresa Imax digitale ed utilizzando uno speciale obiettivo per immagini a infrarossi: tecnologia "spaziale", in ogni senso, in quanto è la medesima con cui è stato realizzato il megatelescopio Hubble che, in uso dal 1990, permette l'osservazione dello spazio, tuttavia il contenuto potrebbe non "raggiungere" ogni spettatore, ma non per una complessità o eccessiva astrattezza della trama (come alcuni critici hanno affermato: e mi domando se davvero abbiano prestato quell'attenzione minima richiesta per la comprensione che un film degno di chiamarsi tale richiede), quanto piuttosto per la predisposizione verso una determinata visione del mondo ed uno specifico "sentire" (specifico in Malick) che potrebbe non essere terreno comune di chiunque. C'è chi infatti ha una visione più materialistica del mondo, chi una più sociale, insomma, non necessariamente è dato che chiunque si trovi a condividere il percorso spirituale che questo regista conduce dagli albori della sua carriera e che, mi sento di dire, proprio in questo suo ultimo lavoro, potrebbe aver portato finalmente a compimento.
Il risultato - la tecnica di cui si avvale per esprimersi contenutisticamente - è a dir poco straordinario: le scene hanno una tale forza visiva che non soltanto restituisce autenticità massima a ciò che viene mostrato, ma che addirittura arriva a colpire e a coinvolgere, per estensione, ogni senso, rendendo lo spettatore partecipe di ogni singolo movimento di macchina e di ogni singola inquadratura con un'amplificazione tale dei particolari - dal raggio di luce, al granello di polvere, alla grana della pelle, al filo d'erba, alla nuvola nel cielo - in grado di sfumare sapientemente dal micro al macro, rendendo possibile abbracciare, cogliere e penetrare con lo sguardo tutto ciò che appare sullo schermo. Lo schermo, alla maniera impressionista, si fa portatore di un racconto che è percezione ed evoluzione interiore dei personaggi.
L'estetica di The Tree of Life è anche la trama di The Tree of Life: le immagini si fanno narrazione a definire e costituire l'intreccio e lo sviluppo della vicenda, le voci - dialoghi scarni, come negli altri film del regista - come uno scheletro portante, mantengono e sorreggono i fili di questa narrazione, la musica è parte integrante di questa stupenda ed armonica orchestrazione del tutto.
Malick affronta le tematiche di sempre: "chi siamo, da dove veniamo, perché esiste il male, Dio esiste, e se Dio esiste perché ci ha abbandonati, perché permette che accada il Male?". E, come sempre - in opposizione e superamento di tutte le poetiche del post-moderno che si sono limitate a fare domande senza azzardare risposte (il secolo passato, tanto in letteratura, quanto nel cinema, è stato il secolo dell'inquietudine, del nichilismo, dello smarrimento totale, della perdita di ogni punto fermo al di fuori di un nevrotico solipsismo che solo induce ad una regressione e negazione) - egli dà la sua - bellissima - risposta.
The Tree of Life è la storia di una riconciliazione, esattamente come lo è La tempesta di Shakespeare. Una storia in cui da un'apparente dicotomia iniziale si giunge infine alla comprensione  - e soluzione - dei due opposti.
"Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia": la prima ricerca la propria soddisfazione, il dominio, la sopraffazione, conduce e riporta a noi stessi, la seconda accetta il dileggio e le offese, ma è apertura verso l'altro, è empatia, è amore e rispetto di tutte le cose esistenti. Porta all'esterno, al di fuori di noi stessi, e per questo è eterna e non effimera, perché se nell'altro ritroviamo la medesima scintilla di vita che è in noi, quella scintilla sarà inesauribile e moltiplicabile all'infinito, almeno fino alle fine dei tempi.
Malick racconta la storia di tutti, la storia dell'universo, dalle origini fino ad un'immaginata estinzione finale (il fuoco ha generato la vita, ma è anche ciò che la distruggerà), attraverso la storia di una famiglia americana a partire dagli anni '50, dislocata poi in vari momenti e rimandi tra passato, presente e futuro.
Gli O'Brien marito e moglie rappresentano simbolicamente le due vie attraverso le quali si esplica la vita. L'uomo è il Padre che deve mostrare ai figli come farsi strada nella vita, il Padre rispettato ma temuto (e rispettato proprio perché temuto, e indicativo il fatto che imponesse di essere chiamato proprio Padre o Signore, anziché, semplicemente, papà), il Padre che dice ai figli: "non si deve essere troppo buoni, altrimenti poi la gente si approfitta".
Egli rappresenta la Natura intesa nella sua logica di dominio e sopraffazione. Una logica in cui non ci può essere spazio per l'arrendevolezza o per l'amore, pena il proprio fallimento.
La signora O'Brien invece è colei che non solo contrasta efficacemente e si oppone a questa visione attraverso la scelta dell'altra via, quella dettata dalla Grazia, ma addirittura, nella scelta dell'apertura e della comprensione esente dal giudizio, la supera e la risolve efficamente, riuscendo a dare una risposta al problema ontologico del male nell'ottica di una riconciliazione anziché di una lotta/opposizione.
Il film dà una risposta meravigliosa alla domanda dell'esistenza del Male (nella trama simboleggiata dalla morte di uno dei figli della famiglia O'Brien, anticipata dal tragico evento della morte di un altro ragazzo avvenuta a causa di un incidente in piscina) cui nemmeno la Fede in Dio -  con le sue imperscrutabili azioni - riesce a dare una risposta esaustiva  e bellissimo infatti è il discorso del prete durante l'orazione funebre del figlio, in cui - citando l'episodio biblico di Giobbe, un passo del quale peraltro è mostrato in apertura di film - ribadisce che la sfortuna può toccare chiunque perché nessuno viene risparmiato dai colpi delle disgrazie, e che a nulla serve comportarsi bene e condurre una vita da giusti poiché Dio è colui che ci dà la vita, ma anche colui che ce la toglie, senza dover rendere conto di nulla. Questa imperscrutabilità del volere di Dio è essenzialmente simboleggiata dalla figura di Mr O'Brien (appunto, simbolicamente, colui che si fa chiamare Padre), la cui severità sembra essere incomprensibilmente lontana da quell'amore che ogni padre dovrebbe riuscire a dimostrare per i propri figli; "perché ci fa questo, se è nostro padre?" chiede il figlio maggiore, colui che tenta di ribellarsi a questo volere paterno e che attraverso il proprio percorso comprende che commettere il Male non porta a nulla  ("che cosa ho ottenuto?", si domanda dopo aver commesso un piccolo gesto di malvagità contro il fratello minore, poi subito pentitosi e corso a chiedergli scusa).
 La signora O'Brien, muta di fronte alle restrizioni ed imposizioni educative del marito nei confronti dei figli, è colei che tutto sopporta, ma non per rassegnazione - come sarebbe in una logica cristiana - bensì per una intima predisposizione di spirito che è accoglimento e manifestazione di meraviglia scevra da ogni giudizio, di tutto ciò che accade ed esiste.
E la sua vocazione - per meglio dire, la sua essenza spirituale - è anche l'unica - bellissima - risposta che ella può dare (e che insegna e tramanda ai propri figli, con poche parole, soprattutto attraverso l'esempio del proprio agire e fare): non importa sapere da dove veniamo, o chi siamo, se esiste un Dio e se gli siamo o meno indifferenti, quello che conta è amarci, farci del bene, aiutarci, rispettare ed onorare ogni singola manifestazione di vita, dalla più piccola foglia di un albero, alla più grande delle stelle in cielo: "voletevi bene tra di voi, aiutatevi... ", dice ai propri figli che le domandano il perché del comportamento del proprio padre.
"Se vivi senza amare, la tua vita passerà in un attimo". Solo l'amore e l'empatia verso il Tutto che ci circonda - perché noi tutti facciamo parte di questo Tutto - ci permette di vivere una vita degna di essere vissuta.
Dalla più piccola forma di vita siamo nati noi, dal micro si è evoluto il macro, da quella luce sfolgorante iniziale si sono sprigionate tante piccole infinitesimali luci, il cui riflesso è la sola via che dobbiamo seguire se vogliamo restare eterni ricongiungendoci a quel nucleo di scintilla iniziale dal quale si è evoluto il Tutto dell'universo.
La Grazia di cui parla Malick è così una Grazia conciliatrice anche degli aspetti più brutali e del tutto casuali della Natura. E' una Grazia che, esplicandosi come accettazione ed amore, arriva a comprendere anche l'indifferenza apparente della Natura. Perché è vero che la vita nell'universo (e tutta la scena dell'origine dell'universo è di una bellezza che sfiora la poesia senza tuttavia voler esser pretenziosamente tale, in quanto si avvale di un taglio essenzialmente documentaristico la cui poesia è data proprio dall'evento in sé, evento che si pone come meraviglia, come esplosione di luce, di colori, forme, di fuoco, evento che è sì luce, ma non luce divina, quanto luce in sé, che genera vita e a cui la vita ritorna, che è scintillio vitale perenne) conosce e sperimenta anche il dolore, la sofferenza, il Male (come comunemente viene inteso) ma attraverso questo stato di Grazia che è amore ed empatia verso il tutto e per il tutto, si può arrivare a comprendere, ad accogliere e ad accettare anche il più casuale, inaspettato, crudele degli eventi.
Per Malick colui che riesce a vedere questo scintillio di vita e che riesce a riconoscerlo in ogni manifestazione della natura (quanto nell'insetto, quanto nel filo d'erba) è colui che è portatore e dispensatore di Grazia, non quindi in un'accezione religiosa ma più diffusamente mistica, spirituale.
Ciò che conta non è arrivare a definire un Dio, o a comprenderlo, o a capire come è fatto e se si occupa o meno di noi o ancora se esiste o meno, ciò che conta è riconoscere un afflato lucente di grazia e di meraviglia in tutto l'universo che ci circonda e di cui facciamo parte.
E, cosa importantissima, e che personalmente ho apprezzato particolarmente, è che questa luce di vita, questa scintilla di Grazia - grazia che appunto è data dal riconoscere la vita in sé - non appartiene solo agli esseri umani - anche se specie più evoluta del pianeta - ma è presente a tutti i livelli ed è stata presente in tutte le ere preesistenti la comparsa dell'uomo sulla terra. C'è infatti una scena bellissima - per me una delle più suggestive di tutto il film - ambientata in epoca preistorica, quindi in un momento in cui il pianeta terra è abitato ancora solo dai dinosauri: riverso a terra, sul bordo di un fiume, c'è un dinosauro ferito e morente. Il suo corpo viene avvistato da un altro dinosauro predatore, il quale, a grandi falcate minacciose, si avvicina. L'altro, morente, aspetta di essere ucciso. Il predatore infatti immediatamente alza una delle sue possenti zampe e la poggia sopra la testolina del morente. Poi accade qualcosa di inaspettato e di immensamente commovente. E di meraviglioso. Tra i due avviene un contatto: si guardano negli occhi, si scrutano, passa qualche secondo ed il predatore, sollevando la zampa dalla testa del moribondo, rinunciando a finirlo, se ne va. Si chiama empatia. Si chiama Grazia. Si chiama scelta, ed è la scelta della via dell'amore e della vita contro quella della chiusura egoistica che conduce all'inaridimento ed alla morte.
La luce della Grazia non appartiene solo agli uomini, ma si manifesta in tutta la natura, in ogni livello, ed è una scelta che viene data a chiunque, è ovunque vi sia il riconoscimento della bellezza e della meraviglia di tutto ciò che è vivo. Di tutto ciò che, semplicemente, è.
In questo senso allora anche quello che percepiamo come brutale necessarietà - la morte, il dolore, la sofferenza - se accolto secondo la via della Grazia, è in grado di essere sopportato e superato, perché non esiste male o bene, non esiste bello o brutto, non esiste morte in opposizione a vita, tutto fa semplicemente parte di un unico esistere. Tutto è perché un giorno è iniziato e tutto finirà quando casualmente avrà fine, non c'è un disegno, non c'è un perché, quello che conta è vivere tutto, ogni giorno, meravigliandosi, finché sia, finché sarà, nel rispetto e nell'amore di ogni manifestazione di questo Tutto.
Il finale (nonostante gli inconferenti e disturbanti risolini di una sparuta parte del pubblico in sala) è il coronamento possente, toccante e perfetto di questo affresco che - come è stato scritto da Curzio Maltese - potrebbe essere visto dai nostri figli come il primo vero film del terzo millennio.

sabato 14 maggio 2011

Revolutionary Road di S. Mendes (ovvero, una riflessione su cosa significhi "crescere")

April e Frank sono due giovani pieni di aspirazioni e di progetti per il futuro: lei recita in teatro, lui ha velleità da artista (scrittore, poeta),ma ancora deve metterle a punto e tutto quel di cui è certo è che vuole sfuggire alla noiosissima vita da impiegato che già era stata del proprio padre. Si innamorano - più dei loro condivisi ideali nello sfuggire ad una vita borghese in piena regola fatta delle solite restrizioni e perbenismo che non di loro stessi in quanto individui, mi arrischierei a dire - e vanno a vivere in una ridente casetta posta sul limitare di una graziosa via chiamata, guarda caso, Revolutionary Road. April - abbandonata la carriera di attrice dopo un fiasco a teatro, ed anche, soprattutto, perché poco compatibile con gli impegni familiari e domestici - si sente tuttavia frustrata e limitata nel suo ruolo di donna-mogliettina borghese e non perde occasione per ricordare a Frank il tradimento dei loro ideali e delle loro rispettive aspirazioni. Frank - anche lui evidentemente reticente nell'accettazione supina e passiva del ruolo di padre di famiglia che deve portare a casa il denaro per crescere i figli secondo certi crismi borghesi - propone ad April, ora che i due figli non sono più piccolissimi, di mollare tutto e fuggire a Parigi, alla ricerca di una maggiore pienezza di vita, più  corrispondente al loro comune sentire di un tempo. April si impegna persino - una volta là - a prendere il posto di Frank lavorativamente parlando, per lasciarlo libero di concentrarsi affinché possa trovare la sua vera strada facendo emergere il proprio talento (quale esso sia).
Tutto sembra predisposto ma la vita, si sa, è sempre pronta a metterci lo zampino (a dimostrazione della difficoltà di portare a termine qualsiasi progettualità), così, mentre Frank ottiene inaspettatamente un'ambiziosa offerta di lavoro (nel frattempo aveva infatti continuato a lavorare nella medesima azienda in cui era stato impiegato il padre), poiché, in fin dei conti, sa svolgere il proprio mestiere coscienziosamente e diligentemente - molto di più di quanto non riesca a tirar fuori il lato nascosto del proprio presunto talento come scrittore - April resta incinta del terzo figlio.
A questo punto il progetto di partire per Parigi inizia a sfumare, non tanto da parte di April, che è disposta ad abortire pur di non rinunciare al sogno di una vita diversa, ma soprattutto da parte di Frank, il quale, evidentemente, raggiunge una nuova e diversa consapevolezza.
Quel che accade poi non lo dirò - sia mai qualcuno che mi sta leggendo non abbia visto ancora il film, non vorrei anticipargli il finale - vorrei però riflettere sulla questione della consapevolezza e - come la chiamano in tanti - della fatidica maturità dell'età adulta.
Il personaggio di Frank (peraltro interpretato da uno straordinario - come sempre - Leonardo Di Caprio, mentre nel ruolo di April abbiamo l'altrettanto straordinaria Kate Winslet) può apparire, ad una prima lettura, un personaggio negativo: colui che, una volta cresciuto, tradisce i propri sogni e le proprie aspirazioni per adagiarsi in una comoda vita da borghese, (oddio, comoda mica tanto, se essere borghesi, soprattutto per come era inteso all'epoca, significava comunque svolgere un lavoro noioso e ripetitivo per guadagnare il denaro per potersi permettere di comprare tutti quegli orpelli che appunto servono a vivere secondo le direttive di una vita borghese, ossia una bella casa, scuola prestigiosa per i figli, una bella macchina, ecc. nell'esclusione totale di un "vivere" più spontaneo in assenza di qualsiasi progettualità, e nell'adesione nevrotica ad esigenze sociali che però finiscono per mettere in secondo piano quella piena realizzazione del sé, totalmente assorbita dal tentativo spasmodico di portare avanti un falso "sé" sociale costruito e omologato ai canoni di un pregiudizievole "vivere perbenista"); April invece è colei - o almeno è quello che appare ad una lettura superficiale - che è disposta a tutto pur di non disperdere le proprie ambizioni e la propria spasmodica ricerca di un vivere più pieno che lei vede riassunte e realizzabili nel progetto di andare a vivere a Parigi, come fosse una chiave di accesso ad una vita diversa non solo esteriormente, ossia a livello di organizzazione quotidiana, ma proprio interiormente.  April è colei che appare come fedele a se stessa. Frank, di converso, colui che "mettendo la testa a posto", rinnega il se stesso di un tempo.
Subito i due personaggi, per quanto la vicenda sia ambientata negli anni '50, fanno venire in mente il percorso della generazione cresciuta nel '68, la quale, dopo aver aderito agli slanci di una rivoluzione culturale e sociale, ha finito per abbracciare le dinamiche del capitalismo, del consumismo e del successo borghese, proprio quelle stesse dinamiche contro cui - da giovane - aveva lottato.
Revolutionary Road però non è un film così scontato o banale, ci dice anzi qualcosa di molto più complesso e scomodo.
Ad una lettura più profonda e sotterranea infatti il vero personaggio positivo risulta essere proprio quello stesso Frank che, nella fretta, avremmo potuto giudicare come "traditore" delle proprie aspirazioni.
In realtà Frank è un personaggio che cresce e si evolve grandiosamente, in quanto riesce a prendere atto e ad accettare la propria mediocrità a testa alta. E non è da tutti accettare la propria mediocrità. A testa alta. Solo gli eroi, i veri eroi, riescono a perdere inchinandosi ma mantenendo la testa alta, riconoscendo un volere superiore (gli Dei o il Fato), cui non ci si può opporre: o meglio, l'eroe tragico è colui che non può esimersi dall'essere quello che è - nemmeno quando viene messo in guardia - ma è anche colui che, perdendo, accetta dignitosamente la propria sconfitta, sapendo che il tutto rientrerà in un disegno maggiore, anche se terribile o incomprensibile.
Frank è un vero eroe perché in definitiva non tradisce se stesso, non tradisce nulla, in quanto si rende fin troppo conto che il sogno di divenire uno scrittore era solo una velleità giovanile, dato che poi, di concreto, non aveva mai prodotto nulla, anzi, di più, non si era proprio mai cimentato in qualcosa che non fosse un semplice vagheggiamento ad occhi aperti. Quindi, anziché rinnegare se stesso ed i propri sogni, in realtà, accetta e porta a compimento la sua vera natura, che è quella appunto di essere una persona in gamba nel proprio lavoro impiegatizio. Per quanto triste da accettare, Frank è un bravo impiegato, ha idee brillanti (tanto che, pur impegnandosi appena a sufficienza, ottiene un grosso successo contrattuale e quindi si guadagna un'eccellente promozione), è uno che è naturalmente (la necessarietà dell'eroe tragico che non può far altro che seguire la propria irrefutabile natura) portato per quel tipo di lavoro. Quindi cosa fa? Preso atto di queste sue capacità, lascia perdere l'aleatorietà di una fuga a Parigi (che è poi, in definitiva, fuga da se stessi, da un vuoto esistenziale il quale - lungi dall'essere causato dal perseguimento di un lavoro piuttosto che di un altro - ha radici ben più profonde e complesse) ed affronta la vita. Frank non è colui che "ha messo la testa a posto" nell'accezione spesso negativa del termine, bensì è colui che ha deciso di affrontare la vita, pur con tutte le tristezze e le miserie che comporta. Frank non è colui che si rassegna, bensì colui che riesce ad accettare la sua condizione di uomo comune, privo di un particolare talento artistico. E questo non dovrà assolutamente significare che, tutto sommato, non possa dimostrarsi persona "eccezionale" in altri campi.
April invece non si rassegna all'idea di essere - visto che come attrice e artista ha dato esiti piuttosto scarsini - una persona "normale", ossia priva di un particolare talento, continua a sperare in una fuga dalla realtà che è, appunto, sostanzialmente fuga da un vuoto esistenziale incolmabile , per il quale, per come la vedo io, non c'è Parigi che tenga, ma che si può risolvere solo nel confronto onesto con la crudezza della realtà e con l'eventuale - almeno come tentativo -  accettazione di essa e di se stessi. Non ci sono palliativi per sfuggire al nonsense ed al vuoto esistenziale (molto significativo è infatti, nel film, il monologo del personaggio chiave del figlio dei vicini di casa - alter ego coscienzioso di entrambi i protagonisti - il quale afferma che tutti sono in grado di percepire questo vuoto, ma pochi si rendono davvero conto di quanto sia un vuoto in cui non si intravede alcun barlume di speranza), e non si tratta di accogliere ed abbracciare uno stile di vita borghese piuttosto che quello "bohemien", né di sentirsi e provare a realizzarsi come artisti piuttosto che come semplici impiegati, quanto di fare i conti con la propria fragile e limitata, mortale, caduca natura di esseri umani.
La fuga a Parigi rappresenta - simbolicamente - il tentativo di sfuggire ad una condizione esistenziale che è ineludibile per chiunque perché, prima di essere artisti o semplici impiegati, ottusi borghesi o liberi pensatori, siamo tutti, irriducibilmente esseri umani, con tutti i limiti e le costrizioni che la nostra natura comporta ed il disagio di dover infine riuscire ad accettarci.
Allora, la domanda fondamentale che scaturisce da questo film è: crescere significa finalmente prendere coscienza della propria mediocrità, laddove per "mediocrità" non si intende carenza di virtù o di particolari talenti, bensì la somma di tutte quelle caratteristiche che fanno di noi semplici esseri umani e non "eroi" al pari di certi personaggi delle tragedie classiche?
Prendere atto della propria caducità, del nonsense esistenziale che ci circonda sempre ed ovunque, dei propri limiti (ma anche riconoscere i propri pregi e le proprie capacità, seppure non aderenti romanticamente a presunte velleità artistiche), in definitiva, accettarsi: questo significa, per me, divenire finalmente adulti, anche se, nel passaggio, può succedere che alcune delle aspettative che si avevano avute da giovani vadano perdute. A volte può essere anche davvero rassegnazione, tradimento, un rinnegare i propri valori, sì, ma altre, spesso, è anche - come nel caso di Frank di Revolutionary Road - la faticosamente raggiunta accettazione e ridimensionamento di sé che ne consegue.
Revolutionary Road è un film triste, che ci provoca un malessere e un disagio fortissimi, proprio per questo, proprio perché in Frank è facile specchiarsi, è facile cogliere la verità di quello che fatichiamo ad ammettere, ossia che non tutti possiamo essere persone speciali, che quell'umanità che spesso critichiamo e giudichiamo miserevole e mediocre, ci assomiglia in fin dei conti più di quanto riusciremo mai ad ammettere.
Allora, quello che possiamo fare per emergere, per sentirci meno inutili, per allontanare quel vuoto che ci attanaglia le viscere è cercare di scoprire ciò per cui siamo portati (che non deve essere necessariamente un talento chissà quanto nobile o grandioso) e perseguirlo, come ha fatto Frank, anziché disperarci ad inseguire un sogno fatuo come ha fatto April, perdendo se stessa, perdendo tutto.

martedì 10 maggio 2011

Gli Indifferenti


No, non mi riferisco al titolo del primo romanzo di Alberto Moravia. 
Anzi sì, in un certo senso mi riferisco proprio a quel preciso stato d’animo dell’individuo - che diviene condizione esistenziale - deprivato di ogni slancio, impegno o passione verso la vita.
Moravia elegge a simbolo di questa condizione soprattutto la classe borghese, i cui rappresentanti finiscono per trascinare le loro fatue ed insulse esistenze in un abisso di vacuità senza fondo, il cui unico eccesso sentimentale è dato dall’ipocrisia morale che diviene vezzo e costume perbenista.
Gli Indifferenti di Moravia non lo sono per rifiuto di qualsiasi impegno - una volta preso atto del nonsense esistenziale - ma lo sono per nascita e condizione, potremmo dire; per incapacità di sottrarsi ad un’indolenza che non esiterei a definire “congenita”.
Gli Indifferenti, a leggerlo oggi,  appare come un’opera troppo ancorata alle radici storico-sociali di un’epoca i cui confini sono andati sfumando nel tempo, tuttavia, quel sentimento di indolenza, di apatia, di totale disinteresse, a me sembra che, sostanzialmente, non sia cambiato o scomparso affatto.
Ieri stavo facendo una passeggiata e mi trovavo lungo una via piuttosto trafficata, sia di persone a piedi - sul marciapiede - che di automobili, motorini ecc..
Stavo camminando per l’appunto sul marciapiede, quando, ad un certo punto, guardando in basso, scorgo, a qualche metro da me, un “qualcosa” di scuro appoggiato al muro di un’abitazione: mi avvicino per guardare meglio (da lontano ci vedo poco) e mi accorgo che si tratta di un piccione. E’ impaurito, trema, provo a vedere se riesce a volare o camminare ma resta immobile, è evidente che è ferito o comunque ammalato, nasconde la testina sotto le ali, probabilmente mi percepisce come un aggressore e cerca di farsi il più piccolo ed invisibile che può.
Io sono a piedi, a circa mezz’ora da casa, quindi chiamo immediatamente il mio compagno, gli spiego la situazione, gli dico di raggiungermi in motorino e di portare con sé una scatola, così lo porteremo alla Lipu (Lega Nazionale Protezione Uccelli e Fauna Selvatica).
Nel frattempo - prima che il mio compagno arrivi passeranno una ventina di minuti - cerco di proteggerlo dal sole facendogli ombra con il corpo e soprattutto cerco di evitare che qualche gatto o predatore di altre specie possa fargli del male.
E così, non volendo, ho avuto l'occasione di effettuare un piccolo test sociologico.
Dunque, il tempo di attesa su quella strada molto trafficata è stato di circa venti minuti: questo significa che saranno passate sul marciapiede, accanto a me, almeno duecento persone, a dir poco.
Vediamo se riuscite ad indovinare: quante di queste - notando il piccione ferito (era impossibile non notarlo) - si sono fermate a prestare aiuto?
Una. Soltanto una signora. Che poi mi ha raccontato una storia bellissima, di quando anni prima aveva raccolto un piccione ferito e di come - non avendo questo più potuto volare nonostante le cure mediche - lei aveva deciso di adottarlo, e di come era divenuto un membro della sua famiglia a tutti gli effetti, coccolato, amato, curato, portato in vacanza l’estate (mi ha specificato più volte questa cosa: “d’estate lo portavamo in vacanza con noi, ci sarebbe dispiaciuto lasciarlo a casa da solo e farlo accudire da un estreneo”), e divenuto grande amico di una tartaruga: “mangiavano e bevevano dalla stessa ciotola, dormivano vicini, erano diventati inseparabili” e infine di come, dopo dieci anni, era purtroppo morto: ma comunque sempre dopo aver vissuto una vita dignitosa e di amore.
Ecco, ad accezione di questa simpatica signora, la quale si è offerta di aiutare il povero animaletto, nessuno si è degnato di fermarsi un attimo.
- I più, hanno dato uno sguardo e sono passati oltre, indifferenti;
- qualcuno si è sprecato a dire “poverino”, ma passando comunque oltre, sempre indifferente;
- qualcun altro, addirittura, si è mostrato persino infastidito... che schifo, un piccione... .
Tutti di corsa, di fretta, come se avessero chissà quali improrogabili impegni.
Tutti - inequivocabilmente - indifferenti di fronte alla sofferenza di un essere vivente.
Io solitamente non sono una che ama fare delle supposizioni. Ma questa volta non credo di supporre alcunché affermando di sapere cosa stessero pensando tutte quelle persone frettolose ed impegnatissime a svolgere chissà quale compito di importanza capitale: un piccione ferito, oh, e che sarà mai, figuriamoci, muore così tanta gente nel mondo... mi dispiace, poverino, ma io ho da fare adesso, non posso fermarmi, ci penserà qualcun altro... il mio tempo è prezioso, se proprio devo fermarmi lo faccio per aiutare un poveraccio, un bambino magari, mica un piccione... che schifo i piccioni, sono sporchi, uno in meno... che cos’è quella cosa che sbatte le ali... chissene frega, io ho un appuntamento adesso... un piccione... e che ci posso fare io... ci penserà qualcun altro... ah, a me fanno impressione gli uccelli...  ah, io non posso vedere il sangue... ah... sto facendo tardi... cos’è quella cosa... ah boh, un piccione mi sa, boh... chissene frega.
Magari qualcuno avrà anche pensato: un piccione ferito... ah, ma si è fermata quella, ci penserà quella, brava, eh brava... ché io c’ho da fare adesso... .
Ecco, peggio dell’indifferenza c’è solo lo scherno: “ah, che brava che sei, meno male che ci pensi tu” (frase che mi sento ripetere ormai a cadenza regolare ogni qualvolta porto da mangiare ai gatti, o mi appresto a soccorrere un animale ferito).
Io non sono brava. Sono una persona NON indifferente.
La natura è indifferente, lo diceva anche Leopardi. Ma noi possiamo scegliere di essere diversi.
Non siamo come Gli Indifferenti di Moravia, simboli di una condizione esistenziale. Noi siamo esseri viventi, non simboli. E ogni piccione ferito è un essere vivente come me, come voi.
E mi spiegate dove andate sempre di fretta?

Il piccione poi l’ho portato alla Lipu dove è stato visitato e gli è stata data acqua e cibo. Fortunatamente non aveva nulla di serio, solo la coda strappata - probabilmente da un gatto o un altro uccello predatore - e un lieve, conseguente, trauma. Mi hanno detto che sicuramente entro qualche giorno si riprenderà e sarà in grado di volare di nuovo.
Se fosse rimasto lì, su quella strada, sarebbe morto di sicuro, di fame, di sete, o mangiato vivo da qualche gatto o gabbiano. Ora, io non credo di aver fatto nulla di speciale, o di “buono”, così come comunemente si dice. Ma so che se avessi tirato dritto avrei favorito l’agonia e la morte di quell’esserino. E pazienza se ho solo procrastinato l’inevitabile, ché la morte arriverà per tutti e nessuno ci assicura che non soffriremo. In quel momento io ho avuto una scelta ed ho scelto la vita.
L’indifferenza e Gli Indifferenti di cui parlava Moravia sono coloro che non scelgono, sono coloro che si illudono - persi nella folla frettolosa - di  avere cose più importanti da fare. Cosa ci può essere di più importante della vita, la nostra e quella altrui?
E cosa sono venti minuti del proprio tempo di fronte all'immensità del dolore universale, che ci accomuna tutti, uomini ed animali?
Nulla, eppure moltissimo. Venti fottutissimi minuti possono fare la differenza; anziché l'indifferenza.

domenica 8 maggio 2011

L'insostenibile pesantezza dell'essere (una domenica mattina)

Mi piace il cinema. Mi piace proprio andare al cinema, entrare dentro la sala - rigorosamente con dieci minuti di anticipo - attendere che le luci si spengano, dopodiché lasciare che le immagini che iniziano a scorrere sullo schermo diventino le mie sole immagini, escludendo tutto ciò che mi circonda, che i dialoghi e la musica diventino le mie sole voci ed i miei soli suoni dentro la testa, che la storia diventi la mia storia ed i personaggi tanti me che vivono tante vite diverse dalla mia.
Si dice che una vita sola non basti, che quando si pensa alla propria inevitabilmente vengano in mente tutti i “se” e tutti i “ma” che avremmo potuto considerare ma che - per qualche motivo che in quel momento ci sembrava il migliore o per pura casualità abbiamo tralasciato, e tutte le diverse conseguenze e gli altri futuri che da questi “se” e questi “ma” sarebbero potuti scaturire. Penso, che pur restando sempre se stessi, pur immaginandoci nati e vissuti nel medesimo luogo, dagli stessi genitori, con gli stessi geni, avremmo comunque potuto avere prospettive ed esiti diversi nella nostra parabola esistenziale a seconda delle tante piccole scelte - anche apparentemente insignificanti - che facciamo ogni giorno. Non so voi, ma io penso spesso alle tante altre vite che avrei potuto avere, e a volte è come se in effetti le vivessi comunque, perché già il solo pensarle, immaginarle, ricamarci sopra è una maniera di viverle. Ché l’esistenza non è solo un susseguirsi di fatti concreti, narrabili ed ordinabili come eventi specifici, ma spesso è tutto ciò che raccontabile non è. 
Sarà di certo capitato anche a voi di incontrare una persona - un conoscente, un amico di vecchia data - dopo tanto tempo e di provare una sensazione di lieve imbarazzo ed inadeguatezza alla domanda “allora, che mi racconti, che hai fatto in tutto questo tempo”? E voi ve ne restate lì, indecisi su cosa rispondere, se dare una risposta di circostanza o se cercare una maniera di esprimere davvero quello che sentite, perché la verità è che in tutto quel tempo non si è verificato nulla di davvero narrabile o degno di essere riferito come “evento” nella vostra vita, eppure, al tempo stesso, sentite anche che rispondere “nulla di particolare, sempre le stesse solite cose”, non renderebbe giustizia al patrimonio esperienziale che si è stratificato ed  accumulato in voi dall’ultima volta che vi eravate trovati faccia a faccia con tizio.
E’ che spesso la vita interiore prende il sopravvento su quella esteriore e, sebbene di una materia inconsistente come i sogni, ci dà la misura di quanto siamo cambiati molto più di quanto accada con la seconda. Ciò che importa, alla fine, non è tanto l’evento in sé, ma come noi reagiamo e facciamo tesoro di questo evento, e sono le mille impercettibili reazioni al mondo esterno che alla fine costituiscono e formano la nostra vera essenza, molto di più degli inesauribili gesti che continuiamo a ripetere ogni giorno. E anche a proposito di questi inesauribili gesti: c’è in effetti tutta una serie di gesti ineludibili che siamo costretti a ripetere ogni giorno: aprire gli occhi la mattina, prendere coscienza del giorno, mettersi in piedi, lavarsi, vestirsi, nutrirsi, uscire di casa, parlare, camminare, aprire e chiudere la porta, infilarsi le scarpe, prendere un bicchiere dalla credenza per bere, salutare, salire e scendere le scale, fermarsi ai semafori, riprendere a camminare, lavorare (e tutta un’altra serie di gesti ripetitivi che ogni lavoro, anche il più creativo, comporta). In poche parole, tutte le azioni a cui solitamente diamo poca importanza e alle quali - al di fuori del loro fine utilitaristico - non attribuiamo alcun senso, ma che sono necessarie per stare al mondo, per vivere.
Avete mai riflettuto su quanto per vivere ci tocchi ripetere, ogni giorno, ogni settimana, ogni anno di tutti gli anni che vivremo sempre tutti questi stessi ripetibili, identici, rassomiglianti gesti? A me a volte, al solo pensarci, viene una noia, una nausea (proprio la stessa Nausea di cui parlava Sartre) che mi afferra alla gola peggio di una morsa.
Forse, mi chiedo, sono soltanto io a riporre un’attenzione morbosa su certi aspetti dell’esistenza, forse non è così per tutti, eppure faccio fatica a credere che anche voi non vi facciate, a volte, le mie stesse (oziose) domande.
Riflettete mai sui piccoli gesti che siete costretti a compiere ogni giorno, oppure, tutti presi dalle mille urgenze del vivere quotidiano, eseguite senza necessariamente trasferire in questa gestualità automatica una ricerca di senso, un’attenzione consapevole nella speranza di un’attribuzione di un qualcosa che possa riempire il vuoto di un’esecuzione così coattivamente ripetuta?
Sentite anche voi a volte l’esigenza di rompere gli schemi di questo apparentemente immodificabile quadro? Vorreste, a volte, smettere di sentirvi, di percepirvi? Non vi sentite mai troppo pieni di voi? Non avvertite mai questa strabordanza del vostro essere che preme per esondare da ogni poro? Una pienezza non di felicità, come a volte si dice, ma proprio di noia, di inutilità, di vacuità profonda?
E’ che io a volte non riesco proprio a sopportare la ripetitività. E non sto parlando dell’organizzazione delle giornate, le quali, fortunatamente, sono piuttosto varie e in cui gli imprevisti (belli o brutti) a movimentare il tutto non mancano mai, ma proprio di tutti questi gesti che prima ho definito, non a caso, ineludibili. E allora, in certi momenti, anche infilare la chiave nella serratura e sapere che sarà un gesto che dovrò ripetere un’infinità di volte nel corso della vita che mi resta da vivere, può diventare un qualcosa che, idiosincraticamente, mi disturba. Voglio dire, so bene che è un gesto meramente utilitaristico al quale non dovrei riservare così tanta attenzione morbosa, in fondo infilare la chiave nella serratura è un’azione necessaria per ottenere un risultato, tipo entrare in casa, in macchina, in ufficio, in cantina, che so... in qualsiasi posto vi sia una porta con una serratura - ma è solo un esempio a caso fra i tanti che avrei potuto riportare  (forse Freud avrebbe qualcosa da dire?) - ma è proprio questa necessarietà di dover compiere dei gesti per poter svolgere le comuni attività del vivere che a volte mi annoia, mi disturba, mi fa percepire il nonsense esistenziale più di quando mi metto a speculare sui massimi sistemi.
Mentre invece, la vita interiore, che scorre sotterranea, al di sotto di questi gesti esteriori, mi appare improvvisamente come degna della massima considerazione.
Così, quando qualcuno ci chiede “cosa mi racconti?”, restiamo sempre un po’ spiazzati perché, in assenza di episodi significativi veri e propri, raccontare quel nucleo indistinto di sé non è cosa facile. Se dovessimo concretizzare il peso delle nostre esperienze in un racconto o restituirle dentro una cornice narrativa, ci risulterebbe alquanto scomodo e molto difficile. La vita interiore non è fatta di eventi, di fatti, di incontri ma di pensieri, di immagini, di associazioni libere e spontanee, di riflessioni, ossessioni, di pulsioni e desideri, tanto espressi che inespressi, di sogni (sia quelli scaturiti dall’attività onirica vera e propria, ma anche quelli cosiddetti ad “occhi aperti”), di quelle minuzie, ancora idiosincratiche, e di tutta un’attenzione costante rivolta all’interno, alle proprie sensazioni che, a loro volta, si nutrono di ciò che è esperibile all’esterno con i sensi.
Il risultato è un insieme di impercettibili variazioni del nostro essere che, minuto dopo minuto, attimo dopo attimo, strutturano e modificano il nostro essere.
Ma come si può raccontare tutto questo, ammesso che sia narrabile? Certo, i grandi scrittori ci riescono (Sartre, appunto, ma anche Musil, Rilke, così per citare i primi che mi vengono in mente), ma non è che uno può mettersi a parlare di certe cose con il conoscente che si incontra per caso e che magari vuol sapere solo se ci siamo sposati, divorziati, e come stanno i figli e se abbiamo trovato lavoro).
Quindi, anche nell’apparenza immutabile della nostra vita, ossia anche in assenza di grandi stravolgimenti e di fatti concreti significativi, in realtà non facciamo che mentire ogni qual volta rispondiamo “nulla di nuovo, non è successo niente”, poiché anche in quello stesso istante si stanno verificando impercettibili eventi e mutamenti  dentro di noi.
Allora, se è vero che la nostra vita interiore ci dà davvero la misura dello scorrere del tempo e dei cambiamenti anche in assenza di rivolgimenti esteriori,  il cinema - così come la letteratura - in quanto portatori di emozioni e sensazioni, seppure nel riflesso dell’immedesimazione, può veramente donarci la possibilità di vivere tante altre vite a costo (quasi) zero e di alleggerirci dalla pesantezza della gestualità del vivere quotidiano. E forse quello che io ricerco e mi aspetto ogni volta che mi rilasso sulla poltrona di un cinema è proprio questo sollievo dall'affanno che il semplice vivere - nella sua indiscussa reiterazione - talvolta mi procura. Un'evasione, ma non nel senso comunemente inteso di allontanamento dai problemi, ma proprio come annullamento temporaneo del nostro percepirci. E non è un caso che preferisca guardare i film al cinema anziché a casa, proprio perché il silenzio ed il buio della sala cinematografica favorisce il lasciare fluire via quella costante attenzione verso la percezione fisica.
Com’è buffo... quando ho iniziato a scrivere questo post volevo parlare di un paio di film (uno visto ieri sera, l’altro un po’ di tempo di fa), ma iniziando - così, tanto per introdurre l’argomento - dalla mia passione per il cinema, sono stata letteralmente trascinata fino a tutta una serie di associazioni - infinitesimale parte della mia vita interiore - le quali hanno finito per prendere  il sopravvento, e così questo post si è in definitiva scritto da solo, un po’ così... .
I due film di cui volevo scrivere sono Revolutionary Road di Sam Mendes, che ho visto un paio di anni fa ma che, in qualche modo, è entrato a far parte della mia memoria; e l’altro è Henry - Pioggia di Sangue di John McNaughton, visto ieri sera: etichettato inadeguatamente e riduttivamente di genere thriller/horror, in realtà una metafora sociale piuttosto interessante.
Sono due film molto diversi tra loro, eppure, ognuno a suo modo, affrontano il discorso del disagio esistenziale (e sociale) e del vuoto che ne scaturisce o, forse, che ne è la causa diretta.
Ne parlerò la prossima volta. Sempre che nuove e diverse associazioni non decidano nuovamente di prendere il sopravvento su quelle che erano le mie intenzioni iniziali.

mercoledì 4 maggio 2011

Guantanamo, Cuba

Ho parlato spesso di diritti degli animali, e non per opposizione rispetto a quelli umani, ma come estensione di questi ultimi, partendo dall’assunzione di un principio antispecista. Ho già spiegato qui cosa si intenda per antispecismo e quindi non mi dilungherò ulteriormente.
In altri post ho anche già risposto ad una delle principali obiezioni che mi vengono spesso rivolte quando mi capita di esprimermi a favore degli animali, obiezione secondo la quale, prima di pensare agli animali, ci sono problemi molto più importanti da affrontare, tipo quello dei bambini che muoiono di fame, della povertà, delle guerre (e così via con un elenco generico di tutti i mali che affliggono il mondo); voglio ribadire ancora una volta la mia posizione: il mio impegno a favore dei diritti animali NON va in alcuna maniera a discapito di quello verso le altre specie, anzi, ne è semmai una logica estensione, ritenendo inviolabili e dotate del medesimo valore inerente tutte le specie viventi ed attribuendo loro il medesimo diritto a vivere nel pieno rispetto e dignità.
Se finora ho speso così tante parole a favore degli animali e troppe poche per gli esseri umani è perché di fatto gli animali sono la specie più discriminata e sfruttata sulla faccia della terra (qualche eccezione viene fatta per i cosiddetti animali d’affezione ma non in tutti i paesi del mondo), e perché sono ancora considerati semplicemente degli oggetti - risorse rinnovabili - messi a disposizione per il nostro uso e consumo. Mi sembra che la strada da percorrere verso l’acquisizione dei diritti dei nostri fratelli animali sia ancora lunga e tortuosa e per questo insisto tanto a parlarne, dando così, a torto, l’impressione che degli esseri umani mi importi di meno. Non è così invece.
E’ che, semplicemente, considero scontata l’attribuzione dei diritti a tutti gli esseri umani, o meglio, so benissimo che in tante parti del mondo esistono gravissimi ed ignobili episodi di sfruttamento umano e che molti paesi di fatto non hanno ancora acquisito uno status di legge che estende a tutti gli esseri umani i loro diritti, in primis quello alla vita, ma so anche che nella visione occidentale questa mancata attribuzione viene comunque sempre stigmatizzata e condannata sotto il profilo etico. So anche che, purtroppo, le “necessità” economiche del nostro sistema capitalistico legittimano la sperequazione sociale e contribuiscono ad ampliare sempre di più il divario tra paesi poveri e paesi ricchi, o tra singolo individuo povero e singolo individuo ricco appartenente ad entrambi i paesi, e che,  proprio in virtù di queste “necessità”, si tende a scavalcare qualsiasi principio etico.
Tuttavia esiste una fondamentale distinzione tra il comprendere determinate necessità implicite al sistema in cui viviamo e il doverle poi giustificare. Ed ho sempre pensato che tenere bene a mente questa distinzione faccia la differenza tra il mantenere ancora vivo un discorso di tipo etico e tra il suo annullamento definitivo.
Faccio un esempio: io comprendo che per adeguarsi alla concorrenza economica di un paese come la Cina - paese in cui i diritti umani sono denegati - si tengano bassi gli stipendi degli operai anche qui da noi, lo comprendo con il medesimo senso logico con cui comprendo che due più due fa quattro, ma questo NON significa affatto che io lo giustifichi. Un conto è capire una posizione, ossia prenderne atto infatti, un altro è accettarla e condividerla.
Per lo stesso motivo, io comprendo che possano ancora esistere paesi in cui i principali diritti umani - quali quello alla vita e alla libertà individuale - non vengano rispettati, ma NON li giustifico.
E mi sono sempre sentita in buona compagnia, per quanto riguarda questo discorso. Ossia, almeno qui nel nostro paese, facente parte di un occidente cosiddetto democratico, mi sembra che i diritti umani non siano mai stati messi in discussione (se non da qualche gruppo o individuo estremista o da menti poco evolute) e che qualsiasi discorso votato alla soppressione di questi elementari diritti umani sia sempre stato stigmatizzato.
Da qualche giorno però scorgo segnali preoccupanti, diffusi e propagandati in maniera subdola ma efficace dai mass media (quotidiani cartacei ed on line, mi dicono anche la tv, che però, come ho già detto in passato, io non guardo).
A me sembra che sia iniziato un processo - spero non irreversibile - di messa in discussione dei più  importanti diritti umani.
Come tutti avrete letto i giornali hanno riportato la notizia dell’uccisione di Osama Bin Laden. 
E qui mi viene da ridere perché davvero non sussiste nessuna prova certa di questo evento, né di quando sia avvenuto (magari già dieci anni fa), né della sua compromissione negli attentati noti a tutti (alle torri gemelle, Londra, Madrid), né delle sue implicazioni con il terrorismo ecc..
Il terrorismo esiste. Ma, per come la vedo io, non è quello scaturito dagli attacchi alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, ma quello messo poi efficacemente in atto dal governo degli Stati Uniti per poter espletare i suoi sporchi giochi di potere tesi alla conquista totale della via del petrolio che passa  in Iraq, Afghanistan e altri territori del Medio Oriente.
Osama Bin Laden, prima di essere un individuo in carne ed ossa effettivamente pericoloso è diventato, per gli Stati Uniti ed i paesi alleati in affari con i detti, un capro espiatorio utile per giustificare ed estendere una chiara precisa politica di conquista motivata da meri interessi economici.
Ora, premesso questo, ciò di cui vorrei parlare, non è del fatto in sé, ossia della presunta uccisione di Bin Laden, motivata o meno, né del terrorismo e di chi lo gestisca,  ma del pericoloso messaggio che i media stanno facendo passare sulla base di questa notizia.
In poche parole: ché quando un fatto è grave è meglio darlo nella maniera più semplice, diretta, e sintetica possibile:
1) un presunto (e, per quanto scritto sopra, sarebbe tutto da accertare) nemico dell’Occidente - Occidente, per inciso, sempre sottolineato come democratico e libero -  viene ucciso senza essere sottoposto ad alcun processo.
2) Questo omicidio (ché uccidere un essere umano - buono o cattivo che sia - sempre un delitto e privazione di quello che è un suo diritto inalienabile, ossia la vita, è) è stato annunciato con parole di giubilo, gioia, felicità suprema, e, soprattutto, SOPRATTUTTO, è stato accostato al termine GIUSTIZIA. Di più: si è parlato di VENDETTA, accostata ed assimilata al termine GIUSTIZIA.
Quindi, con queste parole, si sono scavalcati totalmente quelli che sono i principi del moderno Stato di Diritto.
Il fatto, a mio avviso gravissimo, è che tantissime persone - manipolate dalle parole della stampa - hanno introiettato, inconsciamente, questa nuova terminologia, senza rendersi minimamente conto di quello che una simile deduzione comporti.
Com’è possibile che nell’opinione pubblica sia considerato nuovamente legittimo uccidere un essere umano senza essere processato? Com’è possibile che la parola VENDETTA possa essere accostata a quella di GIUSTIZIA?
Ed io che credevo che fossimo in uno Stato moderno di Diritto, in cui nessuno può dirsi colpevole prima di essere processato e giudicato di fronte ad una Corte.
Nessun giornale, nessun giornalista si è astenuto da commenti di esultanza per l’uccisione di Bin Laden. Tutti, tutti, a dire che se lo è meritato, che è stato giusto così, che un mostro come lui era giusto che finisse assassinato.
Ripeto e ribadisco, io non credo nemmeno che sia stato di fatto ucciso veramente Bin Laden, ma NON è questo il punto, il punto è che TUTTA la stampa - e l’opinione comune dietro - ha esultato per questo atto di vendetta che, come tale, si pone al di fuori di qualsiasi Stato di Diritto.
Ma non è finita.
Da ieri leggo cose ancora più allarmanti. Dunque, riassumendo: 1) giustizia è stata fatta, l’uomo più pericoloso di tutti i tempi (ora avrebbe superato addirittura Hitler) ed il pericolo massimo per la democrazia dell’occidente (non ci si dimentica mai di affiancare il termine democrazia a quello di occidente, perché si sa, i termini hanno una loro importanza nel comunicare e diffondere concetti ed idee e soprattutto nel plasmare e definire, o ridefinire quando serve, la cultura che ci circonda) è stato finalmente ucciso; 2) tutti a festeggiare, un sentimento di giubilo diffuso con l’altoparlante ai quattro venti, ché tutti possano partecipare di questo lieto evento.
Ed ora il punto 3.
3) Tutto questo, questa grande lieta notizia non sarebbe mai potuta essere annunciata - quindi Bin Laden sarebbe ancora vivo e rappresenterebbe ancora il pericolo massimo per l’occidente - se non ci fosse stato il contributo dei detenuti di Guantanamo, le cui soffiate e confessioni, sono state fondamentali per l’identificazione del luogo in cui era nascosto Bin Laden e per la sua successiva eliminazione.
Cosa leggo? Guantanamo.
Bene. Non serve che vi dica cosa sia Guantanamo, no? Non serve che vi ricordi le promesse del Presidente Obama di smantellare questo carcere di massima sicurezza in cui esseri umani - anche minorenni - catturati  con l’accusa di essere coinvolti in atti terroristici, senza le minime prove, vengono sottoposti a torture psicologiche e fisiche e quindi, trattenuti, costretti  e privati della loro libertà nell’assoluta assenza di quelli che sono i principali diritti umani. Non serve ricordare le immagini - che fecero a suo tempo il giro del web - di come sono stati ridicolizzati, brutalizzati, picchiati, torturati questi esseri umani, vero? Ve le ricorderete tutti immagino. Bene, Guantanamo non è un ricordo però, Guantanamo esiste ancora, sta ancora lì. Oggi leggo persino che - proprio perché i detenuti di Guantanamo sono stati fondamentali per la cattura di Bin Laden (detenuti che avrebbero parlato dopo essere stati sottoposti a tortura!), allora è quanto mai necessario che una simile struttura resti in piedi.
Obama - io me lo ricordo bene - prima di essere eletto disse che Guantanamo rappresentava una vergogna per tutto il mondo. E che l’avrebbe smantellato, chiuso. E che i detenuti sarebbero stati sottoposti a un regolare processo.
Non solo Guantanamo è ancora in piedi, ma ora leggo su quasi tutti i giornali e quotidiani che è stato FONDAMENTALE per la cattura ed uccisione di Bin Laden. Leggo che sì, le torture sono una cosa terribile, ma quando sono necessarie - e se servono ad uccidere il principale nemico dell’Occidente, allora servono davvero - allora è giusto ricorrervi.
Io non ho più parole. Davvero.
In questi giorni la stampa ha, in poche parole, legittimato le torture (alcune ben spiegate nel procedimento, come il waterboarding), se finalizzate a catturare un pericoloso criminale.
E chi legge e delega la propria coscienza critica a quel che riportano i quotidiani  risponde, come un' eco: “sììì, sììì, è giusto così, a morte Bin Laden, è giusto che sia morto, sìì, sìì, è giusto torturare se serve a far catturare i mostri, Guantanamo è stata utile, Guantanamo quindi serve, luoghi come Guantanamo  sono necessari, per la nostra sicurezza, per la sicurezza del nostro paese, per la sicurezza dei nostri bambini”.
Guarda caso in questi giorni si è anche dato avvio alla campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti. Forse serve che qualcuno convinca la gente che Obama è un grande Presidente e che ha fatto bene a tenere in piedi Guantanamo?
E' forse necessario che l’Italia, ora che non può più fare affidamento sugli accordi con la Libia per ottenere il petrolio, sostenga l’America nei suoi sporchissimi, ignobili giochi di potere?
Forse qualcuno ha pensato di sì. Forse la stampa sta pensando che sia giusto diventare tutti Americani, esultare per i mostri cattivi messi a morte senza processo, giustificare le torture se servono a far parlare e trovare i colpevoli e a fare giustizia (una forma di giustizia tuttavia molto arcaica, vetero-testamentaria, quale esattamente concepisce ed ha sempre concepito un paese come gli Stati Uniti).
E’ giusto che si esulti per Guantanamo quindi, per le torture preventive ed ai fini della confessione, per l’uccisione senza processo di un presunto colpevole (che, non essendo processato, è colpevole a prescindere, secondo questa nuova maniera di pensare), è giusto che si esulti per una riduzione ancora più massiccia della propria privacy, è giusto che si diventi tutti schiavi per lottare contro questo cazzo di spauracchio (creato artificiosamente) del terrorismo.
Lo scriveva già Kafka in un bellissimo racconto dal titolo La talpa, il metodo migliore per rendere tutti schiavi è quello di far vivere la gente nel terrore perenne. Quando la gente ha paura, è disposta a tutto. Anche a permettere che qualcun altro venga torturato ed ucciso, se additato come “nemico”.
Forse, a prima vista, potrà sembrare che tra l'esultanza per la morte di Bin Laden e l'accettazione implicita di quel che avviene a Guantanamo non ci sia un filo diretto. Invece c'è. Il messaggio è chiarissimo: se uccidere Bin Laden è stato un atto "dovuto e necessario" e se ora il mondo può tirare un sospiro di sollievo per l'eliminazione dell'uomo più pericoloso per l'occidente, e se tutto questo è avvenuto grazie alla confessione dei prigionieri di Guantanamo, i quali, certo, affinché parlassero e confessassero saranno anche stati sottoposti a torture fisiche e psicologiche, però in fin dei conti necessarie poiché alla fine sono servite allo scopo prefisso, allora torturare qualche volta può essere legittimo; allora certi metodi non sono più condannabili a prescindere, ma qualche volta può essere utile e giusto applicarli.
Un messaggio come questo che implicitamente - ma poi nemmeno tanto - i media hanno lasciato passare, è, a mio avviso, vergognoso e pericoloso.
Concludo dicendo che io sono contraria alla pena di morte e alla tortura, sempre. SEMPRE.
Non so se davvero Bin Laden sia stato l’effettivo responsabile degli attacchi alle torri gemelle e degli altri attentati, non so se sia stato un terrorista o meno, non so se sia vivo o morto, ucciso qualche giorno fa o dieci anni fa.
E non so se le notizie di questi giorni siano vere o false; e non è di questo che dovremmo preoccuparci, ma dell'uso strumentale per divulgare un preciso messaggio che di queste notizie è stato fatto.
Io allora qui voglio scriverlo, anche se non servirà a niente, voglio ribadirlo che ogni essere vivente ha invece il sacrosanto diritto di vivere, e che nessun altro si deve arrogare il diritto di togliere a lui questo diritto alla vita che è inalienabile. Se si tratta di un assassino, deve, prima di essere definito tale, essere processato e giudicato.  Ma non ucciso. Se pericoloso per la società è giusto che venga messo nelle condizioni di non nuocere più, ma egli, come tutti, ha il medesimo diritto di riabilitarsi e di continuare a vivere.
Per me posti come Guantanamo sono il male assoluto. E lo stesso dicasi per qualsiasi altro luogo di tortura, sofferenza e morte, quali anche gli allevamenti intensivi, gli stabulari per la vivisezione, gli allevamenti di qualsiasi tipo ecc.ecc..
E’ triste constatare come non soltanto la strada per l’acquisizione dei diritti degli animali è ancora lunga, ma addirittura si sta tornando indietro a privare degli stessi anche gli esseri umani. Per me, lo ribadisco per l’ennesima volta, siamo tutti uguali, animali ed umani. Ma credevo che per i secondi fossero stati raggiunti una volta per tutte determinati diritti. Almeno nel tanto decantato democratico mondo occidentale.
Mi accorgo che non è così.
Legittimare la tortura, posti come Guantanamo... in nome di una sicurezza che poi, diciamolo, è sempre solo un’illusione (di nulla si può esser certi, tranne che dei propri sentimenti - P. Auster), per me significa un ritorno alla barbarie più pura.
E non ho letto una critica da parte della stampa. Di qualsiasi orientamento.
E la massa dei lettori acritica, assimila, ed assimila, ed assorbe. Ed è così che nascono le dittature. Ed è così che si arriva ad accettare tutto quello che il Potere vuole che noi accettiamo, in nome di una presunta sicurezza contro un presunto "nemico".