sabato 25 giugno 2011

Istinto di Vita e Pulsione di Morte in Umberto D. di Vittorio De Sica


Umberto D. è uno dei miei film preferiti e tra quelli del grande Vittorio De Sica lo preferisco persino al capolavoro Ladri di Biciclette.
La storia è semplice: il signor Umberto D. Ferrari è un pensionato che fatica ad arrivare a fine mese e deve fare i salti mortali per potersi permettere di pagare la stanza - nell'appartamento di una signora borghesotta e un po’ cafoncella - presso cui alloggia insieme al suo compagno di vita Flaik: un dolcissimo e simpaticissimo cagnetto.
La prima scena ci introduce subito a questa situazione di difficoltà economica mostrando un corteo di pensionati che chiedono l’aumento delle pensioni affinché possano trascorrere il tempo che resta loro da vivere in una maniera dignitosa. Curioso come questa scena, nonostante il film sia del 1952 e sia ambientato nella Roma dello stesso periodo, risulti oggi ancora attualissima: a dimostrazione che in Italia nulla è cambiato. Le pensioni sono sempre da fame e la gente - nonostante faccia cortei, manifestazioni, proteste, lotte ecc. - continua ad essere inascoltata.
A seguire, il corteo viene disperso dalla Polizia perché non autorizzato: scena piuttosto dolente poiché - attraverso i volti rigati dalla rassegnazione degli anziani pensionati - si evidenzia il vanificarsi e l’inutilità della loro ribellione.
Questa folla piegata e rassegnata inizia a disperdersi e da questo momento la telecamera inizia a seguire Umberto D. nelle sue varie peripezie e tentativi per guadagnare qualche soldo nell’attesa del prossimo - scarso - stipendio, pena il dover essere sfrattato, insieme a Flaik,  dalla proprietaria della stanza in cui dorme.
Tenta dapprima di vendere il suo orologio, dopodiché, racimolate appena tremila lire, solo una parte dell’intero ammontare dell’affitto, le offre come anticipo alla padrona di casa. Questa rifiuta, quindi è costretto ad uscire di nuovo, questa volta a vendere dei libri (e con questo particolare, con pochissimi tratti, si delinea il suo passato di persona istruita ed amante della cultura), ma senza riuscire a raggiungere ancora la somma richiesta.
La signora, irremovibile, pretende l’intera somma ed ogni volta rimanda indietro l’anticipo da lui offerto tramite Maria, la ragazza tuttofare che lavora come “serva” - questo il termine che si usava allora -  in casa della signora.
Tra Maria ed Umberto D. nasce una bellissima ed atipica amicizia.
Atipica perché lei è ignorante, goffa, ingenua, incapace di esprimersi correttamente, incinta senza sapere quale dei due ragazzi militari che aveva frequentato fosse il padre, mentre lui è una persona fine, gentile, educata, ingegnosa, brillante, istruita (riprende continuamente Maria nel tentativo di farle comprendere l’importanza dello studio “certe cose avvengono perché non si sa la grammatica: tutti si approfittano degli ignoranti.”), eppure autentica, questa amicizia, intanto perché, seppure appunto di estrazione sociale diversa, i due sono ora uniti nella medesima condizione di “vinti”, e poi perché si prendono cura l’uno dell’altro.
Umberto D. ha anche un altro amico, un amico davvero speciale, in ogni senso. Lui è il sopracitato cagnetto Flaik, un bastardino vivace che ha sempre voglia di giocare e di cui l’anziano uomo si prende cura con amore e dedizione; ed è proprio su questa straordinaria storia d’amicizia che poggia e si snoda l’intero film. A partire dalla commovente scena in cui lo conduce con sé alla mensa della Caritas e gli passa il cibo di nascosto sotto il tavolo, per passare a quella tragicamente divertente in cui gli mette un piattino in bocca per chiedere l’elemosina, salvo poi, trovandosi a passare un amico dei tempi passati, benestante, si vergogna e finge di sgridare Flaik perché “si diverte sempre a giocare così, ma che figure mi fai fare”, e ancora a quella - drammaticissima (e per me realmente insopportabile) in cui - a causa di varie peripezie - Flaik finisce al canile comunale rischiando di essere gassato insieme a tutti gli altri randagini che sono stati presi dall’accalappiacani (in Italia tale pratica barbara fortunatamente non esiste più, purtroppo invece in altri paesi, quali la Spagna, ad esempio, ancora è legale uccidere i cani trovatelli che non riescono ad essere adottati), per poi procedere in un crescendo di altre situazioni tutte volte ad evidenziare questo profondo affetto che lega il pensionato al suo cane.
Succede però che ad un certo punto Umberto D., persa ogni speranza di poter mantenere la stanza in cui alloggia, si arrende. Non ha parenti o amici presso cui andare, è un uomo anziano, senza nessuna prospettiva per il futuro, indigente a causa della scarsa pensione: nella mente gli balena allora un’unica soluzione: quella di morire, di suicidarsi; non prima però di aver provveduto a lasciare l’adorato Flaik in mani sicure, nelle mani di qualcuno che saprà garantirgli cibo ed altrettanto affetto.
Tenta dapprima presso un rifugio per cani a carattere familiare, ma, per niente soddisfatto dopo aver parlato con la proprietaria, riprende il cagnetto con sé, quindi si dirige presso il parco sapendo di incontrare una bambina tanto affezionata a Flaik e cerca di convincerla ad adottarlo, ma la tata della piccola la dissuade, infine, deciso comunque a lasciarlo lì con lei, si allontana furtivamente attraverso il parco, sperando che Flaik non si accorga e non gli corra dietro.
A questo punto si avvicina ai binari di una ferrovia, deciso a farla finita.
Ma Flaik lo raggiunge. Al povero pensionato allora, disperato, non resta che prenderlo in braccio, preferendo trascinarlo nel tragico gesto, piuttosto che saperlo abbandonato, infelice, piangente il suo caro “amico umano” e destinato ad una fine orribile nel canile.
Il treno sta per arrivare. Flaik, con uno scatto improvviso, gli scivola via dalle braccia, comprendendo il gesto folle del suo amato amico umano, e fugge via spaventato.
A questo punto la scena si fa più intensa che mai, e bellissima.  Una delle più belle di tutto il cinema italiano. Passa un secondo, oppure due, sul volto di Umberto D. tutta l’intensità dell’ultima decisione, di quella irreversibile.
Vivere o morire.
Vivere o morire lasciando Flaik solo, abbandonato, senza più nessuno a prendersi cura di lui, verso l’unico destino possibile: quello di andare a finire al canile per poi essere gassato insieme a tutti gli altri sfortunati randagi, la cui unica colpa è stata proprio quella di essere stati a loro volta abbandonati.
E poi il treno scorre via. Il fragore delle rotaie in sottofondo.
La scelta è ormai compiuta. Vivere. Ha scelto di vivere per non lasciare il suo Flaik. Torna indietro a cercarlo, lo chiama con voce rotta dall’emozione, ma il cagnetto - spaventatissimo - si è nascosto dietro un albero. Allora raccoglie da terra una pigna e gliela lancia. Flaik, giocherellone impenitente, esce da dietro l’albero ed inizia a giocare. E Umberto D. con lui.
E insieme se ne vanno, correndo, giocando nel parco, come due bambini, due piccoli grandi amici inseparabili che hanno stretto un patto: quello per la vita, giurandosi a vicenda di proteggersi l’un l’altro. Per sempre.
L’istinto di Vita - simboleggiato dalla dimensione ritrovata del gioco - ha vinto sulla pulsione di Morte.
Si può dire che tutto il film si snodi attraverso questo duplice binario: da una parte la pulsione di Morte, che è nella povertà materiale, ma anche nella miseria dello spirito della padrona di casa - irremovibile nella sua indifferenza e crudeltà di fronte ad una persona sola ed anziana che non riesce a pagare l’affitto, meschina e volgare nelle sue aspirazioni di togliere la stanza all’anziano uomo per ristrutturare la casa in vista del ricevimento di nozze -, e ancora nella miseria spirituale degli amici di un tempo, sempre di corsa, indifferenti anche loro alle implicite richieste dell’anziano pensionato (implicite perché incapace a chiedere direttamente, pena la perdita della propria dignità, ma tuttavia trasparenti ed inequivocabili nell’evidenza di uno stato di difficoltà); pulsione di Morte che è quanto mai evidente nella crudeltà della normativa comunale di gassare i cani nel canile e quindi nell’indifferenza delle istituzioni verso i derelitti, i bisognosi, i deboli, indifferenza mostrata anche nella scena dell’ospedale in cui il pensionato è ricoverato per un periodo: lungo camerone affollato di degenti dove spesso gli anziani muoiono in completa solitudine, ed anche in quella in cui, in maniera gretta e cruda, Maria dà fuoco alle formiche che camminano sulle piastrelle della cucina, ed in tante altre di miseria e solitudine quotidiana, solitudine dell’anima, e sociale, e la prima troppo spesso che deriva da quella sociale; e dall’altra, sul binario opposto, scorre invece lo spirito di Vita, che è rappresentato soprattutto dai giochi ed i salti di gioia di Flaik, dal suo rincorrere fedelmente il suo amico umano, ma anche dalla tenacia con cui l’ingenua Maria affronta la vita (esemplare il suo aver comunque tentato il salto di qualità, abbandonando la campagna per venire a vivere in città, seppure da “servetta”, e la sua determinazione nel trovare un padre al figlio che porta in grembo), e dal suo incitamento ad Umberto D., nel momento dei saluti, a scriverle (non immaginando che lui fosse determinato ad uccidersi, credendo alle sue bugie di aver già trovato un altro alloggio, perché Maria, nel bene e nel male, è comunque una ragazza troppo ingenua, persino sciocca, non ha la finezza per poter comprendere quello che sta accadendo), immaginando un futuro che in realtà non esiste, non nella mente di Umberto D. in quel momento, almeno.
E se alla fine l’istinto di Vita vince sulla pulsione di Morte è perché Flaik riesce a trasportare nuovamente Umberto D. in quella dimensione giocosa, la quale, causando una regressione all’infanzia - il gioco è il simbolo per eccellenza dell’età infantile  - è l’unica che può, di fatto, vanificare lo spettro della Morte.
E ancora una volta - come già in Quarto Potere di Orson Welles - è il ricordo dell’infanzia che irrompe ed interviene nel momento ultimo. In Quarto Potere è la ricerca dell’infanzia perduta che porta il protagonista, il magnate della stampa Charles Foster Kane, alla dissoluzione e fallimento totale della propria esistenza, e solo in quell’ultimo anelito di vita in cui riesce a pronunciare la “mitica” e “misteriosa” parola “Rosebud” è racchiuso il senso dell’intera sua parabola esistenziale; in Umberto D. la salvezza del ricorso all’infanzia è portata da Flaik e dai suoi giochi di cane spensierato, anima-simbolo di protezione ed amicizia, tensione verso e per la vita, compagno fedele nel superamento di ogni solitudine.
Umberto D., rinunciando a morire, crede infatti di aver salvato Flaik da un destino terribile (quello della morte nel canile), ma in realtà è Flaik, con la sua giocosa voglia di vivere, che salva l’anziano uomo.
Finché continueranno a giocare insieme, saranno salvi.
*   *   *   *   *   *    *   *   *   *   *
Chiudo lanciando un accorato appello:
NON ABBANDONATE IL VOSTRO AMICO CANE, GATTO, FURETTO, CONIGLIO O QUALSIASI ANIMALE VOI ABBIATE ADOTTATO.
PORTATELO IN VACANZA CON VOI DURANTE L’ESTATE O, SE PROPRIO NON SARA’ POSSIBILE, LASCIATELO A QUALCHE PERSONA FIDATA CHE SAPPIA PRENDERSENE CURA DURANTE LA VOSTRA ASSENZA.
NON CONDANNATELO A SOFFERENZE INDICIBILI ED A MORTE CERTA ABBANDONANDOLO. L’AMORE CHE TUTTI GLI ANIMALI SONO IN GRADO DI DARCI E’ PREZIOSO QUANTO QUELLO DI UN ESSERE UMANO E ANZI, FORSE DI PIU’, PERCHE’ INCONDIZIONATO ED ASSOLUTO!

sabato 18 giugno 2011

Gay Pride, Europride e dintorni

Non avrei mai creduto di dover scrivere un post del genere. Non l’avrei  mai creduto poiché non ho mai considerato, né considero, l’argomento “omosessualità” una questione di cui discutere, su cui essere “pro” o “contro” o simili. Sono antispecista, metto sullo stesso piano uomini - da qualsiasi parte del mondo provengano - ed animali - qualsiasi specie appartengano - in quanto esseri viventi dotati del medesimo valore inerente: quella della vita, appunto.
Ciò significa che l’unico vero discrimine che io faccio nella mia vita è quello tra esseri viventi e cose inanimate: detto in altre parole, se mi si rompe la macchina, non me ne frega niente (e non mi dispiacerei nemmeno se si trattasse di una Bentley, invece della scalcagnata Ford Fiesta del 1997 con cui vado - raramente, ché guidare non mi è mai piaciuto - in giro), se per sbaglio invece calpesto una formica me ne dispiaccio molto perché penso che la sua vita - sebbene diversissima e lontanissima dalla mia - non valga meno della mia (e questo anche se io leggo tanti libri e la formica no! Ché la vita di ognuno non si giudica dal grado di intelligenza o di istruzione che possiede, e comunque la formica, per ciò che le è necessario a sopravvivere come specie, è molto più intelligente di tanti esseri umani).
Premesso questo, figuriamoci quindi se io potrei mai pensare di mettere in discussione i gusti sessuali delle persone. Ritengo legittimo, bellissimo e sanissimo che ognuno ami chi vuole amare. Uomo o donna che sia.
Quello che sto cercando di dire è che questo pensiero è sempre stato talmente radicato in me da provare imbarazzo ogni qualvolta mi è capitato di trovarmi di fronte a persone che invece “discutono”, manifestando opinioni contrarie o favorevoli, dell’omosessualità.
Quindi, quando giorni fa mi è capitato di leggere alcune affermazioni, che a seguire trascriverò, su un blog molto seguito, ho avvertito l’esigenza di scrivere questo post, del quale farei volentieri a meno.
Il blog in questione è quello della signora Costanza Miriano, già autrice del libro “Sposati e sii sottomessa”, dal quale ha poi ripreso il titolo per il suddetto blog.
La signora Miriano è una fervente cattolica (leggasi, correttamente: un’estremista religiosa).
Non intendo entrare nel merito della sue credenze, né di tante sue affermazioni, che a me, per inciso, fanno letteralmente rabbrividire, una su tutte: “provo repulsione per ogni animale che non sia commestibile”. E ci sarebbe da fare un discorso lunghissimo sull’indottrinamento culturale che porta a considerare alcuni esseri viventi come “commestibili” mentre altri no - in base a questa affermazione debbo credere che la signora Miriano provi repulsione per i cani ed i gatti, in quanto, nella nostra cultura, non “commestibili”, mentre non ne provi affatto per il maiale di cui ha l’abitudine di cibarsi. Curioso come però, in base a questo discrimine, se fosse nata nei paesi di religione musulmana (a parte che non sarebbe mai divenuta cattolica, ma probabilmente sarebbe stata appunto musulmana, essendo la religione niente altro che un corpus dottrinario - corredato di dogmi - relativo alla cultura in seno alla quale si forma), ovviamente avrebbe provato repulsione per il maiale; ed ancora, se fosse nata in Cina avrebbe tollerato il cane poiché in quel paese considerato “commestibile” - ma vorrei soffermarmi unicamente su queste considerazioni (espresse in questo post dal titolo "A lezione di obbedienza") che la signora Miriano (con grande seguito di altri cattolici, e mi stupisco del fatto che nessuno dei suoi lettori abbia espresso un commento critico) esprime riguardo l’omosessualità (in neretto, mio, i passi più salienti e significativi):

Comunque, E. sta andando a Macerata per poi raggiungere a piedi di notte Loreto. Insieme a lei ci sono tanti figli che vanno dalla loro Mamma. Sono peccatori, è per questo che vanno a Loreto. Sono peccatori esattamente come noi, e come quelli dell’Europride. Solo che quelli invece che implorare misericordia pretendono diritti, e pretendono che il loro errore sia chiamato progresso. E’ anche per questo che mi allontano con una certa soddisfazione dall’area del Circo Massimo, che sta vicino a casa mia (nove o undici minuti di corsa, dipende dal sonno): non perché abbia paura degli omosessuali – omofobia è una parola profondamente disonesta – né tanto meno del peccato, che ne sono impastata in ogni fibra. Mi fa rabbia la distorsione culturale, ideologica, spirituale alla fine, che questa cultura contraria alla vita sta piano piano subdolamente “normalizzando”. Mio figlio una volta mi ha spiegato che a scuola ha sentito dire che “è normale che uno scelga se gli piacciano i maschi o le femmine”. E’ normale un par di pifferi. Non è normale per niente. “Maschio e femmina li creò, ad immagine e somiglianza di Dio li creò”: proprio nella distinzione sessuale somigliamo a Dio. Non posso riferire i termini scientifici con i quali ho corretto questa informazione ricevuta a scuola, perché le parolacce non si addicono al blog.”

E poi, nei commenti al medesimo post, interviene ancora a precisare:

la cultura della indifferenziazione sessuale, della libertà di scelta della propria identità, delle famiglie arcobaleno e tutto quello che viene insieme non fa che portare tanto dolore in giro, sofferenza, disorientamento, presunta autodeterminazione che non è altro che rifiuto di ammettere che siamo creature amate. Noi cristiani abbiamo il dovere di amare questi singoli fratelli personalmente, ma di non stancarci di dire loro che sono nell’errore.”

Sono sempre più gli autorevoli psichiatri sostengono che l’omosessualità venga da uno sviluppo non sereno, e sia quindi un disturbo, dal quale si può guarire

Penso che questo mio post potrebbe aver termine qui, tanto sono per me indifendibili ed assurde le affermazioni della signora Miriano che ho riportato (e, per inciso, io aggiungerei, e che la signora se mai mi leggerà non se la prenda: “anche dall’estremismo religioso si può guarire. Sì. Coraggio signora, ce la può fare!”), ma invece, poiché ancora esiste gente che è disposta a credere (sulla base di cosa, poi? Di credenze religiose!) che l’omosessualità sia una malattia, io vorrei fare alcune considerazioni.
La signora Miriano per portare avanti la sua tesi, oltre che ad un ordine superiore dettato da Dio (il corsivo è mio, non suo, poiché ella non metterebbe mai in corsivo quello che considera il Verbo, essendo la Bibbia, sempre secondo lei e secondo il suo mentore, tale Camillo Langone, giornalista de Il Foglio On line, dichiarato omofobo, nonché specista-xenofobo, basta leggere le sue raccappriccianti “Preghiere”, “non un testo antico, ma la vera voce di Dio che continua a parlarci ancora oggi”), si appella ad un presunto concetto di normalità.
Gli omosessuali, secondo la signora, non sarebbero normali poiché la normalità invece è amare una persona del sesso opposto al proprio, da sposare al fine di formare una famiglia (con matrimonio cristiano, il solo che per lei abbia un senso) per poi accoppiarsi e procreare, e così facendo portare avanti la “vita”. Poco importa se poi invece si distrugge quella di altri esseri viventi, tipo quella degli animali - “commestibili”- che la signora considera “normale” mangiare.
Bè, secondo la signora Miriano nemmeno io sono tanto normale, eh. Infatti non intendo sposarmi (considero il matrimonio civile solo un contratto tra due persone e non lo ritengo necessario per continuare ad amare e a stare bene con colui che ho scelto come compagno di vita; quello religioso non l’ho mai contemplato in quanto non sono religiosa; non intendo avere figli; non ho mai avuto il cosiddetto istinto materno e non vedo perché dovrei formarmi a mettere al mondo un altro essere umano solo perché la società lo considera “normale” o persone come la Miriano, un atto dovuto a Dio).
Allora, vogliamo parlare di questo fin troppo abusato concetto di normalità?
Etimologicamente il termine deriva da norma, che significa: modello, regola, ordine, costume. Quindi, con ciò che è naturale, ossia riscontrabile in natura, c’entra poco e niente. In altre parole, il termine norma esiste poiché esiste una società disposta a stabilire cosa debba essere considerato legittimo e cosa no.
In che modo una società decide cosa definire normale e cosa no? In tantissimi modi. Principalmente attraverso le abitudini, usi e costumi di un popolo, ossia, attraverso ciò che viene definita “cultura” di quel popolo (“cultura intesa come il complesso dell’attività e dei prodotti intellettuali e manuali dell’uomo-in-società, quali che ne siano le forme e i contenuti, l’orientamento e il grado di complessità o di consapevolezza” da “Cultura egemonica e culture subalterne” di Alberto. M. Cirese).
In effetti per i popoli dell’antica Grecia, l’omosessualità non è mai stata un problema di importanza capitale. Nè mai è stata considerata un abominio, o, tanto peggio, una malattia.
Le norme sociali spesso sono imposte dall’alto. O in maniera coercitiva, o in maniera persuasiva. I cosiddetti mass media (mezzi di diffusione di massa, ne ho parlato diffusamente qui), sono spesso molto efficaci nel formare una “cultura di massa”. 
La norma, nell’estensione del termine, è anche ciò che la maggioranza fa e pensa.
Questo significa, che poiché io non amo andare al mare la domenica e non guardo la televisione, probabilmente non vengo considerata una tanto “normale”.
Ecco, soffermiamoci qui.
Basta, per stabilire il valore di questa presunta normalità analizzare i comportamenti della massa (della maggior parte della gente) per poi, di contro, lasciare fuori tutto ciò che ne emerge come “diverso” per arrivare a stabilire che allora questa “diversità”  ossia - atteggiamento che si discosta da ciò che la maggioranza pensa e fa - non è normale, non rientra nella normalità, e quindi diventerebbe automaticamente un disvalore?
Secondo me è un modo di ragionare estremamente erroneo.
Ed il nocciolo dell'errore sta proprio nel considerare questa presunta normalità un valore da difendere ad oltranza.
Secondo questo ragionamento io NON sarei normale poiché non amo andare al mare la domenica d’estate (come la maggioranza invece ama fare), poiché non mi voglio sposare (nonostante abbia comunque un compagno), poiché non voglio avere figli, poiché non guardo la televisione e poiché sono vegetariana. E questi comportamenti, questo mio stile di vita, queste mie scelte e preferenze, secondo la signora Costanza Miriano, costituirebbero un disvalore rispetto ad uno stile di vita che rientri nei canoni attribuiti dalla religione cattolica.
Certo, ho abitudini diverse da quelle della maggior parte della gente, ma NON per questo sono una persona malata di mente, da curare, che necessità di essere riabilitata. Non per questo la mia vita è priva di valore (o, se lo è, lo è quanto quella di qualsiasi altro, cattolico o ateo, omosessuale o eterosessuale che sia).
Restiamo nei termini però. Certo, se per normalità intendiamo “devianza da una norma”, stabilita sulla base di quello che la maggioranza fa e pensa, allora probabilmente è vero, che non sono “normale”. Ma da intendersi appunto, etimologicamente, come, ciò che è estraneo ad un modello diffuso. E non come carente di qualcosa. Non come mancanza di un valore.
E NON nell’accezione di “anormale” come insano, malato, persona che dovrebbe essere curata al fine di ripristinare una stato di sanità mentale e fisica.
E allora, sulla base di questo ragionamento, perché un omosessuale, solo perché è attratto da una persona del suo stesso sesso anziché da una persona di sesso opposto, come forse la maggior parte delle persone - e dico forse, poiché chissà quanti invece sono omosessuali repressi, o sono bisex, o non lo sanno ancora -  dovrebbe essere considerato una persona da curare?
Se esce da un concetto di presunta normalità - inteso unicamente nella sua accezione etimologica del termine - lo è in quanto si discosta nel comportamento e dal sentire da un modello diffuso, maggioritario, così come tanti di voi (me stessa) ce ne discostiamo riguardo un’infinità di altri argomenti (tipo andare al mare o no la domenica d’estate).
E perché dovrebbe esistere solo ed unicamente un concetto di famiglia? Le società si sono sempre evolute nel tempo. Le società non sono formazioni granitiche. Perché non si dovrebbe avere una società con famiglie formate anche da due persone  dello stesso sesso? Qual è il problema? Ma di cosa hanno paure le persone come Costanza Miriano? Paura che due omosessuali che si sposano possano distruggere la sua bella famiglia formata da uomo, donna e quattro figli?
Ma perché ognuno non può avere il tipo di famiglia che vuole?
E’ vero che oggi la norma (e ribadisco per l’ennesima volta, norma intesa unicamente nella sua accezione etimologica di modello comunemente e maggioritariamente diffuso) è la cosidetta famiglia formata da uomo, più donna, più eventualmente figli, ma poiché le società, le culture, i comportamenti, gli schemi mutano e si evolvono, non è detto (e non deve esserlo deciso o imposto dall’alto) che le cose non debbano e non possano cambiare. Magari (lo spero) un domani verranno considerate legittime tutte le maniere altre di formare unioni e famiglie (due uomini o due donne, un uomo ed una donna, sposati o conviventi, unioni fondate su contratti scritti o su taciti patti, ma che importa, in fondo? Non siamo tutti esseri viventi che vogliono amarsi e stare insieme?).
Perché la Chiesa ha paura degli omosessuali che vogliono vivere insieme come una famiglia, con gli stessi medesimi diritti di tutte le altre? E’ una paura assurda, illogica ed irrazionale perché tanto chi sarà etero e vorrà avere una famiglia tradizionale potrà averla comunque. L’omosessualità NON è una malattia contagiosa. Le famiglie formate da uomo, più donna, più eventuali figli, continueranno ad esistere comunque se gli eterosessuali lo vorranno, NON sono destinate a scomparire solo perché invece due omosessuali vogliono averne una loro.
E per la miseria, fare sesso senza il fine di procreare, NON è peccato.
E non è peculiare attribuzione degli omosessuali (io sono etero, ad esempio, ma non intendo procreare, eppure faccio sesso ugualmente).
Quindi NON sono gli omosessuali che negano il diritto alla vita  solo perché accoppiandosi non riusciranno ad avere figli: semmai il diritto alla vita lo nega colui che uccide altre vite già formate, tipo chi mangia gli animali! E forse su questo punto la signora Miriano dovrebbe iniziare a meditare, per una volta tanto mettendo da parte la sua adorata bibbia.
E poi, signora Miriano, ma di quale errore stiamo parlando? Ma quando mai (ed una che si professa cattolica come lei dovrebbe saperlo bene) amare qualcuno è un errore?
E chi stabilisce, di grazia, chi dobbiamo amare? L’amore è un sentimento meraviglioso, che fluisce libero e spontaneo, perché mai dovremmo incanalarlo in pregiudizi e normative e rigorosi dogmi ecclesiastici?
Io amo gli animali. Tantissimo. E invece di fare figli ho adottato nove gatti ed un cane. Non sono normale per questo signora Miriano? Nego la vita per questo?
Sono vittima di una distorsione ideologica? Sono malata? Voglio precludere forse ai cattolici come lei di avere figli e di formare una famiglia tradizionalmente intesa? La mia esistenza ha meno valore rispetto alla sua? Vivo nel peccato? Andrò all'inferno? La mia unione con il mio compagno non ha senso?
Sono un pericolo per la società?
Sono una persona che esce fuori da una cosiddetta norma (sempre nell’accezione etimologica di cui sopra), ma non sono per questo una pazza, una malata, una persona da riabilitare pena la sua esclusione dal consesso sociale.
E, allora, come me,  NON sono persone malate nemmeno gli omosesssuali. E NON sono nemmeno persone che sbagliano, o che, con il loro esempio, provocano chissà quali danni alla società. E le loro unioni, il loro amore, ha senso e valore esattamente quanto quello di due eterosessuali che si sono sposati in chiesa e hanno messo al mondo otto figli.
Quindi, smettiamola una volta per tutte di appellarci ancora a questo concetti di presunta normalità ed anormalità per giudicare la sanità mentale di chi ci circonda (a far questo bastano i medici, e spesso nemmeno tanto!), smettiamola di definire chi ama persone del proprio stesso sesso un pericolo per la società, finiamola di accusarli di negare la vita, e basta, una volta per tutte, con questa erronea e terrificante abitudine di definirle persone malate!!!
A me, in tutto questo, dispiace solo una cosa: di essere soltanto eterosessuale. Perché, se fossi bisex, potrei sicuramente divertirmi molto di più.
Ché il sesso è vita. L’amore è vita. L’apertura mentale di chi non si preclude nulla, nemmeno una famiglia costituita secondo canoni altri da quelli tradizionali, è vita.
L’abbattimento di ogni pregiudizio e di ogni discriminazione è vita.
Questa è vita, signora Miriano. E non l’adeguamento supino ad una concezione sociale che rientri esclusivamente nei canoni stabiliti dalla Chiesa e dalla Bibbia.
Gli omosessuali sono persone che hanno tutto il diritto di amare coloro da cui si sentono più attratti, e di farci l’amore liberamente, ed hanno tutto il diritto di continuare ad urlare per tutti i diritti che per secoli gli sono stati negati e contro tutte le forme di abuso, violenza e discriminazione che per secoli hanno subito (la Chiesa, cara Miriano, spesso è stata complice di condanne e di esecuzioni a morte contro gli omosessuali, e solo per questo considero una vergogna il definirmi cattolica, così come considererei una vergogna il definirmi fascista o nazista).
Viva il Gay Pride e l'Europride allora. Viva ogni libera manifestazione a favore dell’amore, della vita, dell’amore per la vita!

lunedì 13 giugno 2011

Melancholia di Lars von Trier

La luce abbagliante del sole a volte può renderci temporaneamente incapaci di vedere.
La sua presenza nel cielo, vista dalla terra, è immensa, vivificatrice, accecante, e nasconde un terribile segreto: invisibile per tanto tempo, celato dal sole, il pianeta Melancholia, proseguendo la sua indifferente traiettoria nello spazio, si scontrerà con la terra, distruggendola.
Il previsto impatto divide il mondo della scienza: molti studiosi infatti sono certi che il pianeta passerà soltanto in maniera ravvicinata accanto alla terra, senza arrecarle danno e rendendola anzi spettatrice di uno spettacolo meraviglioso, mentre altri rendono nota l’ormai imminente fine del mondo.
In Melancholia, il regista danese Lars von Trier - utilizzando in maniera originale il genere catastrofico, generalmente appannaggio delle pellicole hollywoodiane -  porta sullo schermo la sua personalissima rielaborazione di quella gravissima patologia che viene generalmente definita - più o meno affiancata da altre varie specifiche sintomatologie - depressione: malattia di cui, purtroppo, lo stesso von Trier, in svariate occasioni, ha ammesso di soffrire.
Von Trier - da vero artista qual è - racconta quel male oscuro così devastante ed annichilente che è la depressione attraverso il resoconto di una vicenda particolare - le esistenze delle due sorelle Justine e Claire - e, fondendolo con l’evento di proporzioni cosmiche - l’impatto del pianeta contro la terra - costruisce un dramma metafisico denso di rimandi e significati simbolici.
La depressione, così come l’impatto del pianeta Melancholia contro la terra, è una malattia che produce esiste devastanti, non soltanto per la persona che ne soffre, ma anche per tutti coloro che gli sono accanto.
Nel film la protagonista malata è Justine (ruolo interpretato da una brava Kirsten Dunst e che le è valso il premio a Cannes come miglior attrice), distrutta ragazza che invece di festeggiare quella che avrebbe dovuto essere la “sua” notte, sentendosi trascinata ed appesantita “da un filo di lana che le si aggroviglia intorno alle gambe e la tira sempre più giù”, provoca rovinosamente la fine del suo, appena dichiarato, matrimonio e della sua carriera lavorativa, e si arrende all’impossibilità di un sentire “normale” (“io ci ho provato, ci ho provato davvero”, dice alla sorella Claire), ma le conseguenze e gli effetti devastanti della sua malattia si ripercuotono su tutti i membri della sua famiglia, creando distanze insanabili e reazioni diverse in ognuno di loro.
Credo tuttavia che la vera, la grande, indiscussa (anche a livello di recitazione, una Charlotte Gainsbourg ingiustamente trascurata dalla giuria di Cannes) ed eccelsa protagonista, sia la sorella Claire, dolorosamente destinata a sostenere e condividere, di riflesso, il pesante, tragico cammino della patologia di sua sorella.
Io, spettatrice emotivamente coinvolta sin dalle primissime immagini, sono stata con Claire, ed è nella sua crescente angoscia e disperazione di fronte ad una totale impotenza che si configura come incapacità - divenuta ormai accettazione - di far emergere Justine dal buio nero della depressione, e di fronte alla sua graduale presa di coscienza dell’imminente catastrofe - accompagnata da un terrore annichilente - che mi sono immedesimata sin dall’inizio e commossa ed angosciata fino alla struggente scena finale.
In Melancholia c’è  una tragedia già avvenuta, ed una che sta per avvenire.
Per chi è depresso è vero infatti che il mondo è già finito. Così per Justine la luce ha smesso di brillare già da molto tempo. Conducendo un’esistenza ad uno stadio larvale, invoca la fine del mondo come liberazione da un male - peso enorme, massiccio, ingombrante, devastante - il quale pari all’effetto che il  pianeta Melancholia avrà sulla terra - ha già distrutto e devastato la sua anima: bellissima e di forte impatto visivo la scena in cui espone il suo corpo spoglio ai  raggi malsani del pianeta, quasi invocandolo, in una sorta di attrazione di ciò che - male oscuro nel suo petto - richiama un suo simile.
La vita sulla terra è malvagia”, non sarà una gran perdita per l’universo”: con queste parole, di una lucidità disarmante, Justine, continuando a brancolare in un buio dell’anima che le è ormai familiare, si chiude nella propria inespugnabile fortezza.
La depressione, vista dal di fuori, può apparire infatti talvolta come una torre altissima, da cui il malato, sempre più irraggiungibile, non permettendo a nessuno di avvicinarsi, chiude egoisticamente il mondo fuori. Chi è all’esterno, impotente, grida forte di una compassione che vorrebbe poter penetrare quelle barriere, ma spesso, purtroppo, tutto ciò che può fare è attendere.
Alla disperazione di Claire, ormai chiusa fuori dal quel luogo di devastazione psichica che è l’anima della sorella Justine, abbandonata dal marito - prima tronfio nella sua illusoria certezza di uomo che studia e che pensa così di poter conoscere e controllare gli eventi, poi il primo ad arrendersi  - è affidato il progressivo svolgersi degli eventi, e gli spettatori, tenuti occupati per tutta la prima parte del film dalla tragedia personale di Justine, minuto dopo minuto partecipano - ed io raramente mi sono sentita così visceralmente ed emotivamente coinvolta da un film  -  dell’inevitabile tragedia che sta per abbattersi sulla terra.
La fine del mondo è mostrata allo spettatore tramite una sequenza che si carica di ansia e di aspettativa con il procedere dei secondi e narra - primi piani di rara intensità - la soggettiva dell’orrore che giunge, senza possibilità di salvezza alcuna.
Von Trier - con un’operazione metacinematografica - realizza con Melancholia quella che è forse la sua opera più autobiografica, ossia l’anatomia di una malattia simboleggiata e raccontata attraverso una tragedia cosmica e, così facendo, probabilmente supera e vince, sublimandola artisticamente, la sua personale catastrofe, che ha compimento in un parrossistico finale in cui -  suggerendo attraverso la finzione del gioco e, per estensione, dell’arte (significativa la scena in cui Justine, ad un certo punto dei festeggiamenti, sostituisce ad una serie di raffigurazioni di arte contemporanea esposte nello studio, immagini di arte classica - Leonardo, Bruegel il Vecchio, Caravaggio, il preraffaellita Millais - quasi a cercare conforto nel potere lenitivo e catartico della bellezza), l’unica possibile via che possa condurre all’accettazione della fine; immagina e realizza così una straziante e commovente scena - l’unica in cui Justine appare forse serena - in cui ella, per non spaventare il piccolo nipotino, figlio della sorella Claire e già a conoscenza di quello che inevitabilmente sta per accadere, gli suggerisce la salvezza attraverso la costruzione di una “grotta magica”, in cui infine tutti e tre (Justine, Claire, il bimbo), in un abbraccio finale - gli occhi rivolti al cielo - attendono la morte.
Lars von Trier riesce così magistralmente a fondere dramma personale e tragedia cosmica, suggerendo ancora una volta - dopo Antichrist - una concezione dell’esistenza segnata dalla consapevolezza di un ciclo malvagio di nascita e morte, in cui simbolicamente - secondo dopo secondo - ognuno di noi viene schiacciato e distrutto da qualcosa di immensamente più grande (una malattia come la depressione, certo, ma qualsiasi altro evento personale, ed infine la morte).
Siamo tutti allora - come Justine, Claire, il piccolo - illusoriamente protetti dalla magia di una grotta salvifica, chiusi in una nostra illusoria fortezza - i riti sociali, i legami familiari, il lavoro, gli affetti - in attesa dell’inevitabile tragedia che - come il pianeta Melancholia  in collisione con la terra - si abbatterà, prima o poi, su ognuno di noi.

martedì 7 giugno 2011

Nemesi di Philip Roth


A volte si è fortunati e a volte non lo si è. Ogni biografia è guidata dal caso e, a partire dal concepimento, il caso - la tirannia della contingenza - è tutto. E’ al caso che ritengo Mr Cantor si riferisse quando vituperava quel che lui chiamava Dio.

La vicenda dell’ultimo romanzo del più grande scrittore vivente (secondo la sottoscritta, almeno) si svolge a Newark (paese natio del suddetto) durante un’estate caldissima del 1944, passata alla storia non soltanto per le vicende belliche che avevano visto partire per il fronte molti giovani, ma anche per una tremenda epidemia di polio che aveva seminato panico e terrore, invalidato ed ucciso moltissimi bambini e ragazzi.
Protagonista è Bucky Cantor, un ragazzo atletico e coraggioso, campione di lancio del giavellotto e ottimo sollevatore di pesi, scalfito nel fisico da una muscolatura possente e nello spirito da un profondo senso del dovere e da un sentimento di responsabilità instillato in lui dal nonno paterno sin dai primissimi anni della sua infanzia; Bucky, affranto per non essere stato chiamato al fronte a compiere quello che egli ritiene il proprio dovere per il proprio paese, a causa di problemi alla vista, resta in città deciso a combattere la sua guerra personale, quella contro l’epidemia di polio, che inesorabilmente, giorno dopo giorno, sta falcidiando i ragazzi del campo giochi estivo in cui è istruttore. Consapevole di essere un punto di riferimento per tutti i “suoi” ragazzi, specialmente in un momento tanto delicato, dilaniato dai sensi di colpa di fronte all’impotenza nel riuscire a proteggerli dal contagio, accecato dal furore contro un Dio inesplicabilmente malvagio per aver dispensato dolore e malattia, incapace di accettare l’incongrua casualità degli eventi, arriva pian piano a farsi carico di una personale responsabilità e a trasformarsi, interiormente e fisicamente, durante un processo che dura una vita, nel capro espiatorio delle iniquità del mondo.

Sono sincera: arrivata oltre la metà del romanzo, mi era sembrato di trovarlo minore rispetto agli altri di Roth. La storia è certamente coinvolgente, ben narrata e documentata, ma la scrittura stavolta mi era parsa meno efficace, meno tagliente, meno caustica ed incisiva (segni distintivi dello stile di Roth sono infatti il tono dissacrante e corrosivo con cui svela e mette a nudo tutte le illusioni ed ipocrisie del vivere cui l’essere umano si affida, salvo poi crollare, nudo ed indifeso, di fronte all’illusorietà e falsità di ogni certezza e ricerca di senso).
Poi, in dirittura d’arrivo, e parlo proprio delle ultime venti o trenta pagine, quando l’intera parabola del protagonista è stata delineata - raccontata da una voce fuori campo di cui solo  alla fine si rivelerà il personaggio cui appartiene - la struttura del romanzo mi è improvvisamente apparsa in tutta la sua stupefacente ingegnosità.

Il disastro che si era abbattuto sul campo giochi della Chancellor e poi su Indian Hill a lui non era sembrato una maligna assurdità della natura, ma un grande crimine a suo carico, che gli era costato tutto quel che un tempo possedeva e gli aveva distrutto la vita. In uno come Bucky il senso di colpa potrebbe sembrare assurdo, ma in realtà è inevitabile. Una persona così è condannata. Niente di ciò che fa è all’altezza dell’ideale che nutre dentro di sé. Non sa mai dove finisce la sua responsabilità. Non accetta i propri limiti perché, gravato da un’austera bontà naturale che gli impedisce di rassegnarsi alle sofferenze degli altri, non riconoscerà mai di avere limiti senza sentirsene in colpa.

In questo idea grandiosa del sé certamente Bucky Cantor mi ha ricordato Lord Jim di J. Conrad, ma se lì è l’ideale romantico a soccombere di fronte alla cruda prova dei fatti di una debolezza congenita, tutta umana, qui siamo all’interno di una concezione del sé che sconfina in una grandiosità sostitutiva di un Dio inappellabile e rifiutato.
Philip Roth, come in ogni sua opera, non solo riferisce - con operazione di astrazione dal particolare all’universale -  di una condizione esistenziale del tutto affidata all’inintelligibilità del caos, ma compie qui un’operazione ancora più radicale,  delegittimando il rifugio nella religione attraverso l’inutilità della simbolica appropriazione - da parte del protagonista - dell’antico rito ebraico del capro espiatorio.
Bucky Cantor, assumendo su di sé le colpe dell’epidemia, ritenendosi portatore sano del contagio, riveste simbolicamente questa funzione espiatoria nel tentativo di portare un popolo alla salvezza. Inutilmente. Fallendo miseramente.
Psicologicamente, assumersi la responsabilità di qualcosa, equivale ad attribuirle un senso, a configurarla in uno schema logico di causa-effetto; che è esattamente anche quello che cerca di fare ogni religione, ossia dare una risposta - comprensibile - al problema ontologico del Male.
Philip Roth, irreligioso, iconoclasta, facendo coincidere le radici del mito ebraico del capro espiatorio nel protagonista di Nemesi, tenta di rispondere all’antico problema (quello dell’origine del Male) secondo una prospettiva laica, nella sola maniera che gli è concessa, ossia scavando nelle dinamiche psicologiche di un uomo - Bucky Cantor, il quale - racchiudendo nella sua parabola esistenziale il destino di una città, di un popolo, dell’umanità tutta - diviene simbolo iconico (e la lunga sequenza descritta nei minimi dettagli del lancio del giavellotto delle ultime pagine rappresenta paradigmaticamente l’essenza di questa figura iconica) - dell’incomprensibilità del caso e del nonsense esistenziale derivato, unicamente, dalla tirannia della contingenza.
Quindi, un romanzo diverso a livello formale, certamente una scrittura più dimessa e semplice, meno cerebrale, ma che nei contenuti si conferma come ennesimo capolavoro riuscito della poetica di questo grandissimo scrittore e di quelle tematiche di cui da sempre si fa portavoce autorevole.

venerdì 3 giugno 2011

Rumore Bianco di Don DeLillo (con premessa divagante)


Capita di avere un libro a disposizione per molto tempo, ma di non degnarlo minimamente di uno sguardo. Così è stato per Rumore Bianco di Don DeLillo: lo presi anni fa insieme ad altri che facevano parte di una collezione proposta da un noto quotidiano (Repubblica, che non leggevo io perché solitamente non leggo quotidiani, ma mio padre); si trattava di una selezione di cinquantuno capolavori del novecento, italiani e stranieri, e devo ammettere che in effetti conteneva tanti bei titoli, ed anche che è stato divertente collezionarli tutti. E leggerli anche, ovviamente. Ché non sono una di quelli che compra i libri per arredare la casa. Anzi, la casa in cui vivo ringrazierebbe di cuore se ci fossero meno libri sparsi ovunque, ché senz'altro ci guadagnerebbe in ordine e leggerezza. Temo sempre,  un giorno o l'altro, di sprofondare al piano di sotto in seguito al crollo del pavimento incapace di reggere il peso di quell'ultimo volumetto aggiunto. A casa mia i libri sono ovunque, in cucina, in corridoio, in camera, in bagno, in sala, persino nelle cucce dei gatti e del cane. Tutti mischiati in maniera quanto mai eterogenea. Alcuni rispuntano inaspettatamente fuori, quando ormai si credeva di averli persi per sempre. Altri spariscono improvvisamente, salvo poi ricomparire lì, esattamente dove li avevi lasciati, ma che ieri, quando li cercavi, proprio non c'era stato verso di trovarli. Secondo me i libri - almeno quelli che stanno a casa mia - hanno una vita propria; ed anche i personaggi, passano da un libro all'altro scambiandosi ruoli e vicende. Classici con moderni, intraprendenti gentiluomini dell'ottocento con giovani esistenzialisti in preda al vuoto esistenziale, uomini oppressi dalla modernità con picari alla conquista del mondo, fanciulle pie e timorate di Dio con spregiudicate femmes fatales, edizioni più o meno  di lusso con edizioni comprate ai mercatini, pagine strappate, segnate, scarabocchiate, macchiate ed ingiallite (le più belle) con altre dai caratteri nitidi e raffinati, ed ovviamente argomenti di ogni genere, narrativa,  saggistica, filosofia, storia. Si passa dal serio al faceto, dal noir al romanzo di formazione, dal romanticismo al naturalismo, dai grandi autori a quelli meno noti. E tutti sono degni del mio rispetto, amore, attenzione. A tempi alterni, a periodi. Sono un’amante infedele. Mi prendo delle cotte spaventose per un autore, e leggo tutto di lui, e poi improvvisamente lo mollo, mi stufo, passo ad altro. Salvo, a volte, tornare sui miei passi e ritrovare il perché di quell'amore che avevo creduto prima sopito e poi svanito. Faccio risuscitare passioni travolgenti, ritrovo emozioni dimenticate. I grandi romanzi sono come i grandi amori. Si portano sempre con sé (questa me la potevo anche risparmiare!).
Don DeLillo era uno di quelli che - chissà perché - non avevo mai considerato più di tanto. A volte, con certi autori, succede come per certe persone, che magari abitano vicino a te, e le vedi tutti i giorni, e le guardi di straforo, ma non c'entri mai in contatto. Poi, per caso, un giorno, un amico in comune (che non sapevi essere in comune), ti presenta proprio quella persona, quella che vedevi da anni, ma non ti eri mai filata. E ti ritrovi a pensare che forse ti stavi perdendo qualcosa.
Con Don DeLillo è andata proprio così.
E' andata che tempo fa stavo cercando in internet notizie sui prossimi lavori di uno dei miei registi preferiti, che è David Cronenberg, e sono venuta così a scoprire che sta lavorando ad un nuovo film tratto - guarda caso - da un romanzo di Don DeLillo, dal titolo Cosmopolis. E se Cronenberg - grande appassionato e studioso di letteratura prima ancora che regista (laureato in Letteratura inglese) - legge Don DeLillo, dovrà pur essere indicativo del valore di questo autore, no? 
E così, l’attimo dopo, ero già intenta a compiere l’impresa - per niente facile - di far emergere, da tutto quel caos di libri, la copia ancora intonsa di Rumore Bianco.
E dopo questa - estenuante - premessa (ho bisogno sempre di un po' di rodaggio prima di centrare l'argomento che mi sono prefissa), eccomi qui a tessere le lodi di questo romanzo (e di questa mia nuova passione, lui appunto, Don DeLillo, per cui a breve comprerò anche altre sue opere).
Il romanzo, pubblicato nel 1985, è diviso in tre parti: Onde e Radiazioni - L'evento tossico aereo - Dylarama. La cosa che più mi ha colpito - oltre ad una scrittura arguta, raffinata e coinvolgente -  è che nella prima parte sembra che l'autore voglia andare in una precisa direzione, salvo poi condurre il lettore, lentamente, al tema centrale della storia. Che è un altro, ma in un certo qual modo conferente al primo.
La voce narrante è quella di Jack Gladney, un professore universitario noto per aver dato vita ad un dipartimento che si occupa di studi su Hitler. Lo affiancano altri personaggi, colleghi universitari e i membri della sua famiglia: la moglie Babette, due figli maschi, di cui uno adolescente, dall'intelligenza sopraffina, ed un altro piccolino, e poi due figlie femmine di età intermedia tra i due maschi (in più, interverrano altri personaggi, anche indirettamente, o solo citati,  a contribuire ad una tessitura a tratti corale: un'altra figlia avuta da un precedente matrimonio, altre ex mogli, l'amico del figlio adolescente, vicini di casa ecc.).
Lo sfondo su cui i personaggi interagiscono tra loro e si muovono è quello di una cittadina americana, né troppo grande, né troppo piccola, ed il quotidiano è un quotidiano ordinario, costellato di piccoli gesti in ambienti domestici e lavorativi; c'è tuttavia un dato saliente che non si può non notare, ed è il continuo riferimento a tutti gli oggetti tecnologici domestici con cui i personaggi hanno a che fare nel corso della loro esistenza; oggetti che, in qualche maniera, divengono, nel romanzo, come una terza entità, astratta eppure ben definita, carica di valenze e significati. Oggetti che definiscono e scandiscono la cultura occidentale, la nostra, come quella della famiglia Gladney: dalla tv alla radio, sempre accese, al tritarifiuti, oggetti che emanano vibrazioni e producono rumore, occupano spazio, invadono la nostra vista e definiscono, con i loro ritmi e tempi, le nostre abitudini;  diverse scene sono ambientate all'interno di un grosso supermercato (e qui ci ho colto diversi riferimenti a J.G. Ballard), ma non è, come potrebbe sembrare,  una critica della modernità ipertecnologica, della perdita di umanità che ne consegue e delle nevrosi tipiche dei nostri tempi, quanto un'osservazione lucida e toccante di un problema antichissimo - oserei dire atavico - che l'uomo si porta dietro dalle origini, e che, nonostante tutto il progresso, le invenzioni ipertecnologiche, le scoperte della scienza in ogni campo, appunto, continua a restare irrisolto. E, anzi, è proprio nel contrasto con tutta questa efficienza tecnologica, che emerge e si fa pressante con un'urgenza ancora più disperata.
Il problema antichissimo è, in sostanza, la paura della morte.
In maniera quasi geniale il lettore viene introdotto a questa problematica nella seconda parte del romanzo, quella in cui tutta la famiglia Gladney, insieme agli altri abitanti della cittadina in cui vivono, è costretta ad evacuare in fretta e furia dalla loro abitazione a causa di una nube tossica aerea che si è sprigionata in seguito alla rottura di un serbatoio contenente Nyodene D, un composto chimico altamente tossico, di cui però ancora non si conoscono bene gli effetti sugli esseri umani.
Timori apocalittici ed un senso di sconforto e disperazione pervadono questa seconda parte, che contiene riflessioni quanto mai interessanti su ciò che definiamo progresso tecnologico e che, in maniera troppo superficiale, siamo pronti a scambiare per vera evoluzione dell'umanità. Soprattutto viene messa a nudo l'illusorietà di trovare conforto in una realtà ipertecnologica, la quale, prima o poi, finirà per sfuggire al controllo delle nostre esistenze (e l'evento tossico aereo funge da catalizzatore di queste riflessioni)  rendendo ancora più evidente ed attivando con ancora più urgenza quel timore di essere nulla di fronte ad un evento così incontrollabile come la morte.
Come se l'essere in possesso di una tecnologia sempre più sofisticata ci potesse fornire la chiave per divenire immortali. Perché il tema portante del  romanzo poi - tutta la terza parte - consiste proprio nel mettere a nudo questa tragedia di tutti gli esseri umani - ed il dolore e terrore che ne consegue - che è data dalla consapevolezza  di dover un giorno morire.
Come si può vivere la vita di tutti i giorni dovendo affrontare, giorno dopo giorno, questa paura della morte? Questa è la domanda chiave che pone Don DeLillo in Rumore Bianco, domanda alla quale i vari personaggi tenteranno di dare una risposta, risposte che costituiranno il dipanarsi degli eventi e dei dialoghi  all'interno della narrazione.
Rimuovere la consapevolezza della morte, quindi eliminarne la paura, sembra essere l'obiettivo principale dell'umanità tutta. E, in quest'ottica, a ben guardare, la tecnologia in cui riponiamo così tanta fiducia ed entusiasmo, potrebbe anche essere vista come l'ennesimo tentativo di ridurre all'impotenza, esorcizzandola, questa paura sempre presente in sottofondo - questo rumore bianco pervasivo - che è presenza costante, che a volte sembra essere rimosso, ma che poi, improvvisamente, torna, e torna, come un ritornello ossessivo, come, appunto, un rumore disturbante e stridente.
Può essere allora che tutti i rumori  - così familiari - della televisione accesa, della radio, del tritarifiuti in funzione, del telefono che squilla, del rombo delle automobili, il brusio delle folle, della gente nei luoghi chiusi (supermercati, luoghi di aggregazione di massa) altro non siano che il tentativo di coprire, di sovrastare quella voce interiore della nostra coscienza, che è la consapevolezza della morte?
E si può mettere a tacere la propria morte uccidendo gli altri?
Farsi causa degli eventi, dirigere il corso di connessioni dall’apparenza casuali, non più subite, ma decise, farsi immensi di potere nel decidere della vita e della morte di chi è impotente di fronte a noi, ennesimo tentativo di mettere a tacere quel rumore perpetuo, assordante, soffocante che ci trasmette continuamente questo pensiero inaccettabile della morte, pensiero che diviene paura, paura atavica, incontrollabile, irremovibile.
- "stai dicendo che l'uomo, nella storia, ha sempre cercato di guarire dalla morte uccidendo gli altri?" (...)
- "in teoria la violenza è una forma di rinascita. Colui che muore soccombe passivamente. L'assassino continua a vivere" (...).
- "L'assassino, in teoria, tenta di sconfiggere la propria morte ammazzando gli altri".
Ed ecco qui che si fanno strada teorie dietro teorie, ipotesi dietro ipotesi, tutti i modi con cui, da sempre, l'essere umano ha cercato di fronteggiare - tentando di rimuoverla, di eliminarla - la paura della morte.
E vuoi vedere che - se tanto mi dà tanto - anche dietro la volontà di sopraffazione e l'esercizio del Potere alla ricerca della dimostrazione - illusoria - che ci si può sentire forti di fronte al debole che soccombe, si nasconde in realtà il tentativo di dissolvere il peso oppressivo della paura di morire?
Fingersi forti per nascondere la propria fragilità, e fingere di esserlo soprattutto con chi riteniamo più debole, sapendo quanto confrontarsi con chi è - oggettivamente - più debole - sebbene sia uno squallido trucchetto, ci dia l'illusoria sensazione di essere potenti, invincibili. L'illusione di superare tutto, anche la paura più grande di tutte, quella della morte.
Jack Gladney, tenterà di tutto, così come anche sua moglie Babette.
Saranno disposti a qualsiasi cosa pur di guarire da questa paura ossessiva che li sta divorando giorno dopo giorno, persino - Babette - a prestarsi volontaria per l'assunzione di una pillola sperimentale - chiamata Dylar (la terza parte si chiama, appunto, Dylarama) - che potrebbe davvero riuscire ad eliminare dal cervello la paura della morte, anche se a rischio di gravissimi effetti collaterali.
Jack alla fine crederà di aver trovato una soluzione. Che non anticiperò. E  poi capirà che era quella sbagliata.
Mi basti dire che, come al solito, la risposta non potrà essere quella della violenza.
A margine, riflettendo sull'idea folle e sbagliata di uccidere gli altri per sconfiggere la nostra stessa morte (se tu muori, io continuo a vivere), pensavo che magari anche la maniera con cui l'essere umano tratta gli animali potrebbe in realtà nascondere questo - assurdo, inutile - tentativo di sviare la paura della morte da se stesso, rivolgendola altrove, indirizzandola su chi è più debole ed indifeso.
Un grande romanzo. Densissimo di riflessioni. Pagine piene, in cui si avverte a volte la necessità di soffermarsi.
Ho chiuso il libro tante volte, prima di procedere. Anche per un giorno intero. Lo lasciavo riposare. O meglio, lasciavo che le impressioni riposassero in me (cosa strana per me, che in genere leggo velocemente, quasi senza dare respiro alle pagine). Bella scrittura (a parte i refusi della mia edizione, facente sì parte di una bella selezione, ma poco curata). Belle idee. Magari non nuovissime, ma interessante l'intreccio, il modo di anticipare e poi affrontare tematiche, di porre domande e tentare risposte. E bello il significato complessivo. La scoperta di Jack per sconfiggere la paura della morte. E il finale invece opprimente, angosciante, falsamente consolatorio ed illusorio. Ma dal quale si può partire, per riflettere sul mondo che ci circonda e sul senso che diamo a tutta questa tecnologia che ha invaso le nostre esistenze.
Non un romanzo profetico alla Ballard, ma una riflessione lucidissima sull'umanità che - nonostante il progresso tecnologico di cui gode - resta ancorata alle proprie ossessioni, paure e necessità.