giovedì 29 dicembre 2011

Lost


Premessa Personale

La sensazione non è nuova. Mi era già capitato altre volte. E del resto io sono quella che da bambina continuò a piangere ininterrottamente per due giorni di seguito dopo aver assistito, impotente, alla morte di King Kong (nel remake degli anni ’70) al cinema. Ma è tutto finto, non è morto davvero, non esiste nemmeno il gorilla, vedi, è un pupazzo? Continuavano a ripetermi i miei genitori, ma per me il dolore provato fu autentico e quella fu la prima, ma non l’ultima volta, che uscendo dalla sala di un cinema avrei portato con me e dentro di me parte di quel mondo di celluloide.
E non accadde solo con il cinema, ma anche con i libri, con i cartoni animati visti in tv, con le serie televisive; ricordo che quando morì Anthony di Candy Candy rimasi incredula e provai un dispiacere sordo, lacerante, come se fosse morto davvero qualcuno che conoscevo. Mia madre mi racconta che la prima manifestazione di questa totale sospensione dell’incredulità che da sempre mi accompagna quando guardo i film, leggo, vado al teatro - ed in qualsiasi altro modo possano aver preso forma l’immaginazione e la creatività umane trasformandosi in finzione - si manifestò quando ero davvero molto piccola, talmente piccola da pronunciare a malapena qualche parola e scoppiai a piangere a dirotto guardando un cartone animato in cui un agnellino veniva ucciso. E anche lì, lei mi racconta, a nulla valsero i suoi tentativi di rassicurarmi che era tutto finto e che l’agnellino non era morto davvero.
E del resto la finzione si è sempre fatta strada nel cuore degli uomini al pari di una realtà parallela, spesso sostituendosi - come valida e confortante sostituta - a quella vera, non sempre gratificante come la si vorrebbe.
Si racconta che quando Clarissa - noto personaggio dell’omonimo romanzo epistolare di Richardson uscito a puntate nella Londra settecentesca - morì, tutta la città suonò le campane a morto.
Io non ho mai guardato moltissimo la TV, però per le cosiddette serie televisive, specialmente quelle americane per ragazzi e che andavano in onda il pomeriggio o in pre-serata, ho sempre fatto un’eccezione e sono cresciuta con molte di esse, più o meno interessanti, più o meno di mio gradimento.
Negli ultimi anni, come sapete, ho smesso del tutto di guardare la TV, però quando sento parlare di qualche serie che sta avendo molto successo cerco di tenermela a mente, ripromettendomi di acquistarne - una volta che sia terminata - i cofanetti dvd delle varie stagioni.
E così i primi di dicembre io e il mio compagno - anche approfittando di una notevole offerta che c’era da Feltrinelli - abbiamo preso LOST

A proposito di Lost

Credo che Lost non abbia bisogno di presentazioni: dico solo che è stata definita la serie più innovativa dai tempi di Twin Peaks - peraltro è stata anche la serie più costosa di tutte le produzioni televisive - ha avuto ed ha milioni di fans in tutto il mondo e la messa in onda dell’ultimissima puntata (maggio 2010) è stata un vero evento mondiale, molto di più della finale di una Championship, molto di più di qualsiasi altro evento di pubblico interesse.
E a me, com’è sembrata? Vale davvero la pena di sorbirsi sei stagioni di episodi?
La mia risposta è: sì, ne vale la pena.
È un prodotto televisivo e questo non dobbiamo dimenticarlo, ma è uno di quei rari casi perfettamente riusciti di connubio tra qualità e prodotto di consumo di massa portatore di contenuti complessi, ma resi disponibili su più piani di lettura così da essere fruibili da un pubblico più che mai variegato.
Sul piano meramente narrativo si presenta come avventura infinita in cui i colpi di scena si susseguono uno dietro l’altro e per lo spettatore più ingenuo o che non abbia voglia di scendere in profondità potrebbe anche bastare, riuscendo tuttavia a far nascere in lui l’impressione che ci sia anche altro, molto altro, sebbene non immediatamente leggibile e fruibile. Per chi vorrà e saprà invece affidarsi alla guida della miriade dei simboli, delle metafore e delle citazioni sparse un po’ ovunque, Lost potrà essere letto e dispiegato al pari di un arazzo dal disegno complesso la cui miriade di fili conduce alle solite - eternamente riproposte e mai davvero esaurite con univoche risposte - domande: ontologia del bene e del male, senso ultimo dell’esistenza, fato o casualità, fede - nella sua accezione laica, come fede nella vita, capacità di accettazione del mistero e di ciò che resta inspiegabile, ma anche nella sua accezione religiosa, come credenza in un’entità divina e in una ricerca escatologica - dissidio, ma anche forse connubio, di essa, ossia di questa “fede” (intesa in tutti i significati possibili) con la scienza, e, sopra ogni cosa, su questo immenso arazzo, l’umanità ad emergere in primo piano, l’umano in tutte le sue caratteristiche, pregi e difetti, tanto capace di compiere la più elevata e nobile delle imprese, quanto anche la più infima delle bassezze. Male e bene come assoluti che si compenetrano l’uno nell’altro e che proprio in questa compenetrazione, a partire da questa compenetrazione, si relativizzano. Esseri umani capaci di compiere le più deprecabili azioni, ma al tempo stesso capaci di perdonarsi e di concedere il perdono. Esseri umani che si rivelano attraverso le scelte che compiono, quelle che si riveleranno giuste, ma ancor più quelle  sbagliate e l’emergere delle passioni e dei sentimenti che come un’onda travolgono chi ne è sopraffatto: invidia, rancore, vendetta, volontà di dominio, ma anche amore e senso profondo di solidale amicizia.
Un’isola che è come un principio in cui la Storia ha avuto inizio: quella della ricerca della conoscenza e della dualità manifestantesi ovunque, delle dieci sephirot emanazione della luce primigenia che non dovrà mai spegnersi.
Un’isola che è come una selva oscura in cui ci smarrisce (lost in inglese significa: perso, perduto, smarrito) e attraverso la quale iniziare un vero e proprio cammino di redenzione con tanto di guida al fianco (numerose le citazioni sparse: dai cunicoli, tane, pozzi, bunker sotterranei che rimandano alla tana del bianconiglio in cui scivola Alice nel Paese delle Meraviglie, al viaggio a stazioni attraverso la giungla del colonnello Kurtz di Cuore di Tenebra e di altri noti personaggi e situazioni fondanti la mitologia popolare, soprattutto americana, ma anche europea).
E questo è solo un piccolo assaggio di quello che è Lost.
Ho letto e sentito in giro che dalla quarta stagione in poi molti fans sono rimasti delusi giudicando il tutto poco credibile e un po’ troppo artificioso e che, specialmente il finale, abbia spaccato nettamente il pubblico a metà.
Beh, signori miei, quando ci si appresta a guardare una serie di questo tipo si deve poter mettere in atto un vero e proprio atto di “fede”, altrimenti detto, sospensione totale dell’incredulità, e ci si deve abbandonare all’idea di star per compiere un viaggio fantastico, unico, un viaggio oltre le “normali” coordinate spazio-temporali in cui ci troviamo a muoverci in ogni “normalissimo” giorno della nostra esistenza.
Lo spettatore deve essere in grado di lasciarsi totalmente andare affinché possa anch’egli perdersi insieme ai sopravvissuti del volo Oceanic Airlines 815 e possa, alla fine di tutto, avere la bellissima, inebriante sensazione di poter far parte della loro realtà - quale essa sia - e di poter far finalmente ritorno a casa - qualsiasi cosa significhi. La fine come inizio del tutto.
Lost è una serie che lascia dentro qualcosa e a cui non ci si rassegna all’idea di doverla lasciare andare. Si vorrebbe trattenere quei personaggi all’infinito, incapaci di accettare l’idea di non rivederli più.
Vivere insieme per non morire da soli. Questo il loro motto. Insieme a tante altre frasi, battute scherzose, soprannomi spiritosi che hanno caratterizzato ogni singolo personaggio e che sono divenuti già cult, già parte della cultura popolare.
E ieri sera, dopo che in quest’ultimo mese è come se avessi davvero vissuto in una sorta di realtà sdoppiata - quella di tutti i giorni e quella del momento in cui iniziavano ad apparire sullo schermo le prime immagini di Lost e ne venivano completamente coinvolta, emotivamente ed intellettualmente - ho provato veramente una vaga sensazione di angoscia - come scritto nella premessa, già provata altre volte in passato - all’idea di aver dovuto porgere l’ultimo saluto a tutti questi personaggi verso cui, giorno dopo giorno, episodio dopo episodio, ho iniziato ad affezionarmi. Anche a quelli apparentemente più antipatici e negativi, sebbene non ci sia un vero buono, né un vero cattivo. Ognuno di loro rivelatosi in grado di compiere azioni eroiche quanto meschine. Così come in definitiva è tutta la serie: grande, immensa, ma anche piena di tanti difetti e messaggi discutibili (le grandi opere sono tali nel bene e nel male, tanto nei pregi e valori, quandi nei difetti e dis-valori), quali ad esempio quello del continuo uso delle armi usate a scopo difensivo-offensivo - com’è tipico della cultura americana e della caccia come risorsa per procacciarsi cibo (ma, come ho detto, bisogna abbandonarsi alla sospensione dell’incredulità e suppongo che se mi trovassi su un’isola deserta, in assenza di altre risorse alimentari, forse un pesce, per sopravvivere, sarei costretta a mangiarlo anche io, anche se sicuramente farei tutto il possibile per nutrirmi solo di frutta e vegetali).
La Fine l’ho trovato fantastica, con l’unico finale davvero possibile e che, ovviamente non rivelerò.
Dunque, riassumendo, cos’è Lost? Lost è un’opera dal valore quindi polisemantico in cui - alla molteplice stratificazione di letture - si aggiunge un montaggio decisamente innovativo (almeno per una serie TV) e tutto un corredo di rimandi, simboli, metafore, citazioni (letterarie, bibliche, cinematografiche, fumettistiche, televisive), così che il tutto coinvolga e costringa lo spettatore a mettersi in gioco e a risolvere i vari enigmi e misteri che vengono disseminati di episodio in episodio, di scena in scena.
È un prodotto di intrattenimento, ma che si affida, riproponendoli in maniera originale, a tutti gli archetipi e i topoi della letteratura cosiddetta "alta".
La trama in fondo potrebbe essere riassunta in poche parole ed il bello è anche questo: il volo 815 della Oceanic Airlines (una compagnia fittizia creata appositamente a Hollywood, principalmente per Lost, ma citata anche in altri film e serie tv) decollato da Sidney e diretto a Los Angeles, precipita - spezzandosi in due - su un’isola del Pacifico e, allo schianto, sopravvivono 48 persone.
L’inizio è epico.
Inizia così l’avventura, il viaggio, l’esperienza, qualsiasi cosa sia, di queste persone che si troveranno ad affrontare più livelli di difficoltà: quello innanzitutto realistico e concreto della loro sopravvivenza su un’isola apparentemente deserta  (trovare acqua, cibo, accendere il fuoco, costruire dei ripari, cercare di comunicare per far giungere i soccorsi, curare le ferite, difendersi da ed adattarsi ad una natura benigna ed ostile al tempo stesso, stringere legami, amicizie, scontrarsi con avversari e superare ostacoli di ogni tipo e genere e via dicendo), ma che poi si scoprirà essere abitata da indigeni chiamati “Gli Altri”, da un mostro di fumo nero, da animali insoliti (orsi polari su un’isola del Pacifico?) ed essere stata luogo prescelto di un progetto molto ambizioso condotto da un gruppo di scienziati di fama mondiale - denominato progetto Dharma - che aveva lo scopo di salvare il mondo.
Dai sopravvissuti - inizialmente 48 - si distinguerà subito un gruppetto di persone che poi saranno i protagonisti principali ed ognuno di loro sembra avere già - o si manifesterà poi -  incontrato o avuto qualcosa a che fare con tutti gli altri, come se tra loro ci fosse già stato in qualche modo un legame invisibile - fosse stato anche un incrocio di sguardi, uno sfiorarsi le mani, un essersi rivolti la parola - e soprattutto ognuno di loro sembra essere stato “chiamato” dall’isola - l’isola, questo luogo denso e stratificato di enigmi, luogo reale ma simbolico al tempo stesso - per un motivo ben preciso: destino, predestinazione, una seconda possibilità, un percorso formativo, crescita, identità, accettazione? Cos’è l’isola e cosa farà ad ognuno e per ognuno di loro? Questo dovranno scoprirlo pian piano e noi spettatori insieme a loro.
Noi spettatori non sappiamo nulla di più e nulla di meno di quanto sappiano i personaggi. Non esiste la figura del narratore onniscente.
Jack, Hugo, Sawyer, Kate, Sun e Jin, Michael e Walt, Charlie, Claire e il piccolo Aaron, Boone, Shannon, Sayid, Bernard e Rose, il mitico John Locke, Desmond e Penny, il dolcissimo cagnone Vincent e poi altri che si aggiungeranno in seguito quali Ben, Juliet, Jacob, Richard ecc., sono dei personaggi a tutto tondo, caratteri i cui attributi caratteriali, le cui vicende biografiche ed eventi cardine del passato verranno presentati allo spettatore poco a poco, esattamente come avverrebbe nella vita reale casomai ci si trovasse a dover trascorrere del tempo (giorni, settimane, mesi, anni?) insieme a compagni di viaggio con cui ci si è trovati improvvisamente a condividere un’esperienza fondante ed importante della nostra esistenza (quale sarebbe appunto essere scampati ad un disastro aereo e finiti su un’isola deserta).
I personaggi sono degli anti-eroi, persone comunissime, né buone e né cattive, che durante la loro vita pre-isola hanno compiuto anche scelte ed azioni molto discutibili, ma mai realmente irreversibili, come nessuna azione può esserlo nel momento in cui viene elaborata, accettata, superata, perdonata.
Persone che in qualche modo sono state tradite o deluse, o che hanno a loro volta deluso e tradito, ingannato e truffato, state ingannate e truffate, persone che, letteralmente, ad un certo punto della loro esistenza, si sono perse.
Ovviamente il titolo Lost è, in questo senso, come già detto, emblematico.
Tutto viene raccontato - sia le avventure dell’isola, che gli eventi biografici dei personaggi - attraverso un sofisticato e spesso sorprendente montaggio in cui al presente si alternano flashback del passato e persino, inaspettamente, a partire dalla quarta stagione, flashforward del futuro (il primo flashforward giunge davvero memorabile ed inaspettato, irriconoscibile fino ad un certo punto)  fino ad arrivare all’ultima stagione in cui addirittura  si manifesteranno i cosiddetti flashsideway, ossia scene da una realtà parallela in cui - dopo una serie di complesse peripezie che hanno a che vedere con la fisica quantistica, i viaggi spazio-temporali e molto altro -  l’aereo riesce ad atterrare a Los Angeles come previsto senza schiantarsi sull’isola; il fine è riuscire a trovare uno scopo e a dare un senso a tutto quello che accade e, in qualche modo, a ricongiungere le diverse linee temporali e reali con la vicenda che ha dato inizio a tutto: il volo 815 dell’Oceanic Airlines precipitato sull’isola ed i suoi superstiti. 

L’isola si rivela per ognuno dei personaggi strumento efficace di elaborazione del passato e tentativo di superamento, quasi una seconda possibilità, un’opportunità di “rivelare” e portare a compimento ciò per cui sentono di essere destinati: l’essenza dell’animo di ciascuno essendo la realizzazione.
Accadrà di tutto su quell’isola in cui avvengono eventi sovrannaturali: viaggi nel tempo, allucinazioni, sogni profetici, visioni del futuro e del passato, avventure di ogni tipo, personaggi che appaiono in un modo e che l’attimo successivo si rivelano essere qualcos’altro, in un gioco continuo di approfondimento, spessore e ribaltamento del carattere di ognuno, e poi violenza, omicidi, torture, malattie, ma anche nascite, affetti che si consolidano, amicizie che si rompono ed amori che nascono o che perdurano nel tempo. Ognuno sperimenta la condizione di vittima e di aguzzino, di prigioniero e di “guardiano”, ognuno tradisce ed è tradito, ferisce ed è ferito, ed ognuno chiede scusa e perdona l’altro.
Perché Lost piace così tanto? Non è solo per l’avventura continua, per il clima di continua tensione che si viene a creare e per gli infiniti colpi di scena e  misteri che si susseguono, ma è soprattutto perché - al pari delle tragedie greche dell’età di Pericle - sebbene con un linguaggio adatto ai giorni nostri e molto più “massificato”, mette in scene le umane miserie e gloria dell’umanità e tenta di rispondere alle domande che l’essere umano continua a bisbigliarsi e rimpallarsi - da orecchio in orecchio, come nel vecchio giochino del telefono senza fili - da secoli; e può accadere, proprio come nel vecchio giochino, che le risposte si perdano, si distorcano o trovino ragioni, verità e sensi diversi a seconda delle diverse epoche, ma, in fin dei conti, sono sempre quelle due o tre cose che ci interessa davvero sapere.
Lost - proprio come in ogni opera che si rispetti - tenta di dare queste risposte e lo fa in maniera avventurosa, divertente, appassionante, senza mai un calo di tensione, in maniera formalmente e superbamente innovativa, e soprattutto con la precisa volontà di coinvolgere lo spettatore e di renderlo partecipe dell’avventura stessa che si propone di raccontare.
Credo che non si debba cercare di dare un'interpretazione univoca al finale, al significato dell'isola, alle intere vicende occorse, così come non esiste una verità assoluta o un senso della vita che possano dirsi uguale per tutti. La vita non ha alcun senso, se non quello che ad ognuno di noi piacerà dargli.
Così è l'isola. Qualcosa di diverso per ognuno dei personaggi, qualcosa di diverso per ogni spettatore. Per tutti, una grande opportunità, un percorso, un passaggio, in qualche modo, obbligato.
Mi dispiace immensamente di essere arrivata alla fine. Rimpiango quella domenica in cui io ed il mio compagno, dopo aver visto la prima stagione - presa per prova -  ci siamo precipitati al negozio a prendere tutti gli altri cofanetti (in offerta :-) ), con gli occhi che ci brillavano come quelli di due bambini in un magazzino di giocattoli.         
E’ un atteggiamento infantile, lo so, ma non mi interessa, perché a questo serve la finzione, a farci sognare di essere altro e di vivere tante, tante altre vite. Ché una sola, a volte non basta. O a evadere dalla propria, ché a volte è fin troppo pesante.
E spero di non crescere mai in questo senso, di restare sempre la bambina che si mise a piangere quando vide morire King Kong e che ieri sera si è commossa - e un pochino disperata - per La Fine di Lost.                   

sabato 24 dicembre 2011

L'amore ed il rispetto per ogni essere vivente possono dirsi estremi?

Pubblico qui di seguito il commento dell'amico - seppure per il momento solo virtuale, ma spero tanto di poterlo conoscere dal vivo un giorno perché è una persona che stimo moltissimo e non solo perché è antispecista -  De Spin.
Il suo commento è stato scritto in merito alla discussione scaturita dal mio  post precedente e mi è piaciuto così tanto, l'ho trovato così lucido ed appassionato, sintetico ma esauriente, chiaro, semplice, diretto e al tempo stesso colmo di spessore che sarebbe davvero uno spreco non evidenziarlo e non porlo all'attenzione di tutti i miei lettori. 

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L'unico interscambio che vedo accettabile tra uomo e animale è quello dell'amore e del rispetto. Pari a pari.
In un tale ambito non vedo possibile che un animale venga usato dall'uomo per soddisfare un proprio bisogno.

Oggi l'opinione pubblica ritiene accettabili cose che, mi auguro, tra un paio di secoli saranno viste come abominevoli.

Me lo auguro, non ne sono purtroppo affatto certo in quanto non ripongo molta fiducia nel concetto di evoluzione, ove applicato alla razza umana.

E non si tratta solo del cibo. Pensiamo ai circhi con animali, alle corse dei cavalli e dei cani, agli acquari, agli zoo. Le carrozzelle a cavallo che scorrazzanoi i turisti.

La caccia. I negozi di animali. I soggetti che per pochi euro fanno fare lo foto con i pappagalli.

Chi dubita della qualità altissima della dieta vegetariana è poco e male informato. Che si possa vivere, e molto bene, senza assumere derivati animali è un dato scientifico così ovvio e dimostrato che metterlo in discussione equivale a dire che la terra è quadrata e ruota attorno a Giove.

Un simile atteggiamento è culturalmente inaccettabile.

Il non vedere che una fetta di carne è un crimine non può più essere accettabile.

Io sono un estremista, un fiero "estremista vegano", come sarei fiero di essere estremista e totalitario nel condannare violenze e abusi nei confronti dei bambini.

Sono una persona piena di difetti e contraddizioni, forse neanche a me stesso affiderei il calzino puzzolente, ma non faccio volontariamente del male a nessuno, umano o animale.

Come non proteggo i bambini bianchi mentre mangio quelli neri, non amo i cani e i gatti e mangio le mucche, i pesci o i maiali.

Come non indosso pelle di bambino, non indosso pelle di un animale.

E mi lascia sconvolto che altri esseri umani miei simili e pari possano fare una cosa simile.

Io non vi capisco, signori. Di intelligenza elevata, evoluti, ancora a discutere su questi crimini.

Sono naturalmente contento che ci sia questa discussione, ma vedete, dal mio personalissimo punto di vista una discussione non ci dovrebbe nemmeno essere.

Perchè è così ovvio che fare del male, usare, sfruttare, umiliare, schiavizzare gli animali è una cosa orribile, disumana, inaccettabile. Umiliante per noi stessi in quanto umanità.

***   ***    ***

Che altro aggiungere? E stiamo ancora qui a parlare di democrazia a tavola, di libertà di mangiare chi si vuole? 
Estremismo? Come possono il rispetto e l'amore per ogni essere vivente definirsi estremi? 
Per quante giustificazioni cerchiate di trovare, uccidere e sfruttare altri esseri viventi non può essere giustificabile. 
Non è eticamente accettabile.

giovedì 22 dicembre 2011

Contrariamente all'opinione comunemente diffusa...


Chiariamo subito un concetto: la scelta di divenire vegetariani e vegani - e d’ora in avanti, per comodità, userò il termine “veg*”, includendo gli uni e gli altri - è la logica, ovvia, naturale conseguenza dell’essere antispecisti. Cosa significa essere antispecisti l’ho già scritto un’infinità di volte, ma ripeterlo una volta in più non farà male: significa rispettare tutte le specie ritenendole dotate del medesimo valore inerente: quello della vita; significa abbandonare un’ormai superata visione antropocentrica per cui l’uomo, in quanto presunta specie superiore, si arroga il diritto di sfruttare, strumentalizzare, asservire le altre specie.
Questo concetto non è difficile da comprendere. Così come un’evoluzione di tipo etico ha portato al rifiuto della discriminazione di altri esseri umani basata sulla diversità di etnia, sesso, religione, nazionalità ecc., la filosofia antispecista auspica l’abbattimento di ogni forma di discriminazione basata sulla diversità di specie.
Chi siamo noi, in quanto specie, per decidere chi sacrificare e chi risparmiare? Nessuno. E’ un diritto arbitrario che abbiamo estorto con il mero uso della forza.

Premesso questo, è ora di sfatare alcuni miti sulla scelta veg* e di abbattare determinati pregiudizi.

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa lo stile di vita veg* non è una dieta, una religione, un capriccio, una bizzarria, un comportamento eccentrico, una mania, un’esaltazione, una forma di estremismo, una cosa per chi non c’ha un cazzo da pensare tutto il giorno, una filosofia di vita elitaria ecc. ecc.; esso è invece l’adozione, appunto, di uno stile di vita eticamente più evoluto e civile in cui ci si rifiuta di sfruttare, maltrattare, uccidere altre specie e di partecipare di un sistema in cui vige la legge della sopraffazione del più forte sul più debole; abbracciando lo stile di vita veg* si sceglie quindi invece di abbracciare il principio del rispetto e della non violenza e di estendere e ritrovare quella naturale capacità empatica che la cultura in cui viviamo ci ha sottratto lentamente, facendoci subire l’oblio e la rimozione della vera realtà dei fatti, che è, semplicemente, mostruosa.

Tanta gente, beninteso, sceglie una dieta veg* anche per motivi di salute, o religiosi o di qualsiasi altro tipo, ma queste sono motivazioni che hanno poco a che vedere con l’antispecismo e con l’adozione di un criterio etico; sono motivazioni utilitaristiche.

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa i veg* non sono costretti a rinunciare a nulla, semplicemente perché quando si smette di considerare gli animali come mere risorse rinnovabili e si inizia a percepirli come esseri senzienti che soffrono, desiderano, respirano, vedono, sentono esattamente come noi, il solo pensiero di poterli uccidere e mangiare diventa insopportabile, esattamente come è insopportabile anche solo immaginare di poter mangiare un essere umano.
Inoltre le alternative alimentari veg* sono una realtà di fatto, un dato oggettivo, che pochi ancora conoscono, ma solo perché i media purtroppo fanno il gioco di determinati business economici (ad esempio, sapevate che gli allevamenti in sud Italia sono quasi tutti in mano alla Camorra?): esistono affettati veg, arrosti veg, formaggi veg, dolci veg, secondi piatti veg, cotolette, salsicce, wurstel, bistecche, polpette ecc. veg, esistono persino il “pesce” ed il “tonno” in versione veg (lo so, l’adozione del termine “pesce” e “tonno” è ridicola, ma suppongo sia per non disorientare la gente che è troppo assuefatta ad una determinata terminologia alimentare); e la lista potrebbe essere lunghissima. Come vengono realizzati questi prodotti alternativi? Con proteine vegetali derivate dai cereali o dai legumi, chiamate seitan, soia, muscolo di grano, tempeh ed altri nomi: lo so che molti di voi non hanno mai sentito nominare questi alimenti, ma è solo perché, torno a ripetere, la cultura in cui siamo immersi ha tutto l’interesse economico di non introdurli sul mercato a causa delle forti pressioni esercitati dalle lobbies degli allevatori e di tutto ciò che vi ruota attorno.
Oggi però è possibile informarsi. In pratica tutti i cibi che, purtroppo, prevedono l’uccisione e lo sfruttamento degli animali, in realtà esistono anche in versione cosiddetta veg, anche detta  “cruelty-free”, ossia a grado zero di crudeltà nei confronti di esseri viventi: sono buonissimi, gustosissimi, sfiziosi, e possono essere cucinati, mischiati, sperimentati in migliaia di maniere, anche superiori per inventività e creatività alle maniere in cui solitamente si cucina il pesce e la carne.
Smettere di mangiare animali e derivati NON è una rinuncia, ma una CONQUISTA.

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa i veg* non è vero che sono costretti a vestirsi in maniera trasandata, sciatta, monotona, priva di gusto e stile.
Oggi, così come è per l’alimentazione cruelty-free, esiste anche una moda cruelty-free; io stessa ho comprato spesso scarpe eleganti e sexy (sì, volendo anche con il tacco 12, che sembra essere diventato un accessorio irrinunciabile per chiunque voglia sentirsi o anche solo giocare ad essere un po’ sexy) realizzate senza materiale proveniente da animali. Ci sono un’infinità di siti di moda che vendono scarpe ed accessori bellissimi. A me piace molto “Beyond Skin”, ad esempio: è un sito inglese, le scarpe sono rifinite in maniera decisamente accurata, addirittura lavorate a mano, bellissime, comodissime (chissà perché ma quando indossavo scarpe in pelle avevo sempre fastidi, le scarpe nuove mi facevano sempre male perché la pelle doveva ammorbidirsi, prendere la forma del piede, mentre da quando uso quelle cruelty-free non ho più avuto questo tipo di problema). Non sono scarpe di plastica. Sono scarpe realizzate con materiali naturali, non inquinanti, non nocive per la pelle. E così è per ogni altro tipo di indumento. E comunque, senza dover necessariamente fare acquisti on line, è facilissimo trovare scarpe in eco-pelle anche nei negozi ordinari.
Io sono una donna molto vanitosa, ci tengo moltissimo a vestirmi seguendo un mio stile e gusto ben preciso, e credetemi se vi dico che è possibile farlo senza dover far soffrire gli animali; idem dicasi per la cura della pelle, per i cosmetici e per un sacco di prodotti destinati al consumo femminile.
Se vedete un animalista vestito male, beh, probabilmente si sarebbe vestito male pure se avesse indossato scarpe in cuoio o giubbotti di pelle. :-D
La scelta cruelty-free non inficia in nessuna maniera il gusto nel vestire.

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa i veg* non sono persone estremiste, esaltate o violente. Non credete all’opinione pubblica che ha precisi interessi nel farci apparire come tali (sul sito ufficiale di una fabbrica in Canada che è tra i principali produttori di pellicce ho letto: “gli animalisti sono esaltati estremisti, noi invece amiamo e rispettiamo la natura e gli animali”. Tale frase mi sembra incommentabile ed è paradigmatica di come la propaganda di un determinato marketing abbia tutto l’interesse nel voler demolire o ridicolizzare le nostre istanze di non violenza.).
Sono stanca di leggere e sentire: veg* = nazisti esaltati (giuro, l’ho letto di recente).
Se proprio si vuole usare il termine nazismo, conviene usarlo a proposito. Chi è nazista? Chi innalza e costruisce barriere artificiali (leggasi gabbie, stabulari per la vivisezione, allevamenti intensivi e via dicendo) sopprimendo la libertà di tanti esseri viventi, o chi lotta per abbattare queste barriere?
Chi è violento? Chi usa parole anche forti, dure, aspre, dissonanti, che per quanto aspre e dissonanti - rispetto alla cultura vigente in cui lo sfruttamento degli animali è la norma - restano pur sempre parole, o chi lavora in un mattatoio e chi fa sperimentazione su corpicini indifesi?

contrariamente all’opinione comunemente diffusa i veg* non sono dei pazzi esaltati, utopisti, sentimentali. Sono persone che hanno aperto gli occhi e visto l’orrore che si cela dietro la fettina di carne o dietro la pelliccia o i cosiddetti divertimenti “tradizionali” quali corrida, circhi, palii, o ancora dietro l’eufemismo di parole come “ricerca medica” e hanno deciso di agire, di essere coerenti, di non subire la cultura ma di parteciparvi attivamente, cambiando tutti quei comportamenti che non possono più dirsi degni di uno stato cosiddetto civile.
I pazzi esaltati sono quelli che a capodanno acquisteranno l’astice o l’aragosta viva  e poi la getteranno, ancora viva, nell’acqua bollente; i pazzi esaltati maniaci violenti sono quelli che uccidono e fanno a pezzi i maiali, i conigli, le galline, i vitelli, i cavalli, i pesci e tanti altri esseri viventi che respirano e vivono.
Se non vi sembra che sia così semplicemente perché andare al supermercato e comprare la bistecca dentro la confezione di polistirolo appare un gesto consuetudinario ed “innocente” allora avete qualche problema a collegare i principi di causa ed effetto. Sebbene non li abbiate uccisi voi quegli animali, acquistandone la carne siete complici di un sistema in cui altri svolgono la mansione di ucciderli per voi, affinché possano finire sul vostro piatto.
Il cosiddetto male freddo coinvolge emotivamente di meno rispetto al male caldo. Ma anche se non avviene direttamente sotto ai vostri occhi (male caldo), qualcuno ha sofferto comunque a causa delle vostre scelte, pure se questo qualcuno è stato sistemato appositamente (è il business che vuole così), lontano dai vostri occhi (appunto, male freddo) affinché l’orrore e la crudeltà che gli viene riservato non possa giungere a toccarvi. Gli animali urlano e soffrono. Anche se dentro le vostre cucine non potere arrivare a sentire le loro voci di disperazione.

contrariamente all’opinione comunemente diffusa le carote ed i pomodori non soffrono perché non hanno un sistema nervoso centrale.  Gli animali sì, ce l’hanno. Come noi. E per questo soffrono.

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa, se nella società così com’è strutturata è impossibile essere totalmente cruelty-free (pare che anche nei prodotti più insospettabili come la birra o il vino possano esserci coadiuvanti animali, pure se basta comunque informarsi prima, il che, visto che siamo nell’era dell’informazione, non dovrebbe essere difficile), ciò NON dovrebbe essere un pretesto per non fare ciò che invece è nelle nostre possibilità fare.
Anche quando cammino magari calpesto una formica, ma un conto è farlo di proposito (azione, si chiama azione), un conto è come conseguenza indiretta ed implicita della mia esistenza (non posso esimermi dal vivere, camminare, muovermi ecc.).

- contrariamente all’opinione comunemente diffusa i veg* non mangiano, come spiegato sopra, solo verdurine scondite, né sono dei patetici sentimentali. Anzi, gli uomini veg* hanno due palle così e sono dei veri uomini. E le donne veg* sono delle vere donne. Veri uomini e vere donne. Veri uomini e vere donne che non hanno bisogno di esercitare violenza o di impugnare un coltello o imbracciare un fucile per dimostrare la loro virilità (capito cacciatori?) o di indossare una pelliccia per sentirsi sexy e femminili, o di mangiare una bistecca per sentirsi forti ed in salute. Veri uomini e vere donne che non hanno bisogno di uccidere per sentirsi vivi.
Voler bene agli animali e rispettarli è sintomo di grande evoluzione etica ed intellettuale, nonché di capacità profonda di provare empatia, quindi sintomo di equilibrio, forza interiore, stima di se stessi, sanità mentale.

Avrò dimenticato sicuramente un sacco di altri argomenti utili a sfatare determinati pregiudizi e falsi miti sull’antispecismo, quindi se qualcuno dei miei lettori (De Spin, Volpina, Luca, Claudio, Eloisa, Martigot e fate come se vi avessi citati tutti) volesse aggiungere qualcosa nei commenti, è, come sempre in questo spazio, il benvenuto. :-)

Nella foto: Marcellino Silvestrino che augura a tutti Buone Feste al'insegna del cruelty-free!

domenica 18 dicembre 2011

Should I Stay or Should I Go

Cantavano i Clash.
Ma non voglio parlare dei Clash, né di musica.Voglio parlare di scelte. Ancora una volta. Perché l’intera esistenza dell’individuo non è altro che un susseguirsi di scelte, o di quelle che crediamo essere tali. Non credo nel destino. Credo nei rapporti di causa ed effetto. Ogni nostra azione ha delle conseguenze. Punto.
Questa è una premessa, hmmm, diciamo “lirica”. In realtà voglio parlare di un fatto curioso avvenuto poco fa  e che mi ha dato da riflettere.
Da diverso tempo Blogger al momento di effettuare il login, mi chiede il numero di telefono (per le solite ragioni di sicurezza, nel caso ci fossero problemi tecnici, dovessi dimenticare la password ecc.). Io, per scelta appunto, non ho mai voluto darlo. Non perché pensi che Mr. Blogger mi possa mandare sms sconci nel pieno della notte, ma perché lo ritengo superfluo. Voglio essere libera di decidere quali informazioni della mia vita diffondere in rete e quali no. So bene che non ci sono persone fisiche dietro alla richiesta da parte di Blogger del numero di telefono, bensì software, ma ritengo più sicuro non fornire tutti i dati che potrebbero in qualche modo far risalire alla mia persona fisica. E non perché io abbia qualcosa da nascondere e non perché pensi che potrebbero fare chissà cosa con i miei dati, ma perché  non mi va di essere ridotta ad un dato inserito nel database e perché non si può mai sapere in quale maniera potrebbero venire usati questi dati, fosse anche solo per inviarmi spam pubblicitario, il che non è gravissimo, ma scocciante.
Poco fa ho iniziato a postare dei commenti sul blog di Dinamo Seligneri, commenti in cui spiegavo perché non mi piace Facebook e, tra le altre cose, ho accennato anche alla sua funzione di carpire e raccogliere i nostri dati: nulla che non sia già stato detto, le solite cose del controllo globale, dell’avverarsi del Grande Fratello orwelliano ecc., del fatto che siamo tutti tracciati e tracciabili.
Per qualche ragione misteriosa, sicuramente di natura tecnica, i miei commenti sono finiti nella casella dello spam (di questo mi ha avvisata Dinamo stesso) e una parte di essi di fatto non è stata ancora pubblicata, sebbene io fossi loggata con il solito account Biancaneve. Ad un certo punto mi sono anche accorta che ero stata cancellata come utente e che il mio blog risultava rimosso. E’ apparsa la scritta: “il blog ecc. (e viene riportato l'indirizzo) è stato rimosso”. Mi è preso un colpo. Inoltre, poco prima, prima che sparisse il blog, avevo notato che tra i miei lettori fissi ne risultava un 31esimo, che però non viene visualizzato. Insomma, c’è qualcosa di strano.
Provo a contattare Blogger ma - a parte il fatto che non esiste un modo per contattare qualche persona fisica direttamente, o un ufficio, o simili, ma a disposizione degli utenti è messo solo un forum in cui si fa presente il problema, ma poi non ti si fila nessuno - mi dice che per ogni ulteriore movimento devo necessariamente fornire il mio numero di telefono, al quale poi manderanno un numero di codice per poter procedere nella verifica di quanto è successo a livello tecnico.
Alla fine ho dato il mio numero di cellulare.
Ora, cosa è successo esattamente? A parte il fatto che non ho capito cosa sia realmente accaduto e perché non riuscissi a postare quei commenti sul blog di Dinamo (forse il software ha captato qualche parola o abbinamento di parola che mi ha falsamente identificata come spammer, anzi, è la cosa più probabile, da lì la rimozione del mio blog e l’annullamento del mio account google con il quale accedo e mi identifico come Biancaneve), è successo che sono stata praticamente costretta a dare il mio numero di telefono. Costretta nel senso che, sebbene nessuno mi abbia puntato una pistola alla tempia, per rientrare in possesso del mio blog e del mio account e anche per capire il problema tecnico dal quale tutto è scaturito, non ho avuto altra scelta che fornire il mio numero di telefono.
Che significa questo e cosa voglio dire? Premettendo che non sono una complottista perché non c’è nessun complotto e tutto quello che avviene, avviene sotto ai nostri occhi - sebbene la realtà profonda delle cose sia sempre un po’ meno visibile rispetto all’apparenza -  comunque sia per continuare a far parte di Blogger, ad avere il mio giochino del blog, per non perdere i contatti virtuali, gli indirizzi email dei miei amici che ho nella rubrica della mia posta ecc.,  le mie cose scritte, alla fine non ho avuto altra alternativa che dare il mio numero di telefono.
Insomma, io che faccio tanto la furba, la persona accorta, quella che non si lascia infinocchiare dal sistema, che parla di scelte, di libertà, di autonomia intellettuale, alla fine, per restare “dentro” a blogspot ho dovuto acconsentire a fare una cosa che inizialmente non volevo fare.
Certo, un’alternativa in realtà ci sarebbe stata, perché come dice Ken Loach in quel bellissimo film che è “My Name is Joe”, una scelta c’è sempre: avrei quindi potuto decidere di mandare tutto a puttane, fregarmene del blog e di tutto il resto, e lasciar morire tutto così.
Però ora questo blog non ci sarebbe più, voi non stareste qui a leggermi, io non starei qui a scriverei (eh, forse starei a fare qualcosa di più importante ed utile, chissà).
Il succo del discorso è questo: oggi noi tutti siamo costretti a barattare parte della nostra privatezza per avere accesso all’informazione, alla rete. Se vogliamo giocare dobbiamo comprarci la tenuta da giocatore, sennò restiamo sugli spalti a guardare.
Facebook è questo. Un social network, ossia un programma per socializzare, per divertirsi, per giocare (a me non piace per una serie di motivi, se vorrete potrete leggerli nei commenti al relativo post del blog di Dinamo), ma è anche un circolo chiuso per entrare nel quale si deve acconsentire a dare alcuni dati ed a lasciare che tramite controlli incrociati del software vengano resi disponibili molti più dati di quelli che effettivamente ed apparentemente si concedono di propria volontà.
Lo stesso sta avvenendo nel mondo esterno, là fuori. Oggi, se non si possiede una carta di credito, o un bancomat, comunque un conto corrente bancario o postale, si è fuori dal sistema sociale. Senza una carta ed un conto bancario o postale  non si possono prenotare viaggi, non si possono noleggiare automobili, non si possono fare acquisti su internet e tantissime altre cose. Il contante, oltre una certa cifra, non si può usare. Non si può più avere disponibilità dei propri soldi (perché poi i prelievi bancomat giornalieri sono limitati e mensili anche). Ok, io sono una poveraccia, in realtà in banca non c’ho una lira, però se fossi ricca e volessi spendermi un tot soldi al giorno, ma perché dovrei sottostare a delle regole che qualcun altro ha deciso per me? Chi ci guadagna poi, su tutti questi conti correnti che devono essere aperti necessariamente? Le banche. Ovvio. Ogni operazione che faccio è un’operazione su cui le banche guadagnano. E il fatto che ci dicano che tutto torna in nostro vantaggio perché così si può combattere l’evasione fiscale è solo una parte della verità. La maniera migliore, da sempre, per controllare e manipolare la gente è quello di spacciare mezze verità, tenendo nascosto il resto.
Ci hanno circondato di telecamere ovunque e ci hanno detto che è per la nostra sicurezza. Ci hanno messo paura e poi ci hanno fornito l’antidoto. Come scriveva Kafka ne La Talpa, il modo migliore per poter prendere il controllo ed esercitare il potere sulla gente è quello di terrorizzarla (da qui la parola terrorismo).
Allora ci fanno credere che per stare sicuri, per impedire l’evasione fiscale, per non perdere la password è meglio che - per il nostro bene - noi si accetti di fornire i nostri dati, di dare il nostro numero di telefono, di essere costantemente osservati da telecamere, di usare carte di credito e bancomat, di rendere noto a tutti dove siamo, cosa facciamo, quanti amici abbiamo, cosa pensiamo, che gusto di gelato ci piace ecc..
Ok, io (o tu, chiunque altro) potrei scegliere diversamente. Non avere cellulari, non essere controllata e tracciata, non spendere più di un tot al mese o al giorno, non prenotare viaggi su internet (anche se è l’unico modo per risparmiare parecchio), non noleggiare auto, non prenotare alberghi, non connettermi ad internet, non scrivere su blogspot, non scrivere commenti, non socializzare, non passare di fronte alle telecamere, non entrare in luoghi pubblici, detto in altre parole: non partecipare del sistema. Andarmene su un’isoletta deserta (ammesso che ne esistano ancora).
Quello che vorrei dire è che bisogna divenire consapevoli delle proprie azioni.
Sapere che per stare dentro al sistema sociale oggi si deve pagare un prezzo ben preciso. Anche in passato. Vivere ha sempre un prezzo. Ma a noi ci deve interessare il presente e ci deve interessare di capire che tipo di mondo è questo di questo preciso presente.
Il controllo globale di ogni cittadino che partecipa al sistema (fosse anche solo una partecipazione minima come prenotare un volo tramite internet o partecipare al giochino di Facebook) è un dato di fatto.
Anni fa, se ce lo avessero detto, non l’avremmo permesso. O, almeno, ci avremmo pensato su. Avremmo fatto un bilancio dei pro e dei contro, e poi avremmo deciso. E comunque ci saremmo stupiti.
Oggi tutto è avvenuto con il nostro implicito consenso. Ci hanno concesso questa immensa, enorme illusione di libertà intellettuale di poter scrivere la nostra e diffondere i nostri pensieri e le nostre idee in rete, ci hanno dato l’illusione di essere i navigatori del mondo che conquistano il futuro, novelli Colombo, Vespucci e Magellano alla conquista di nuove terre. Ci hanno dato l’illusione di poter dire tutto quello che pensiamo, ma, senza che ce ne accorgessimo, ci hanno anche resi rintracciabili ed identificabili al pari di quegli uccelli migratori che volano via credendo di muoversi in spazi inviolati e liberi, ma sulle cui zampine qualcuno ha applicato quei dispositivi che permettono di seguirne la rotta.
Siamo anche noi dentro ad un documentario?
Siamo ancora in tempo a tirarcene fuori nel caso lo volessimo? O è troppo tardi?
Ci hanno resi dipendenti dalla rete. Io stessa oggi l’ho sperimentato. Sono andata nel panico non appena ho letto “blog rimosso”. Ed è stata una sensazione che non mi è piaciuta affatto. Ci giurerei di aver avvertito in sottofondo il suono di una trappola che si chiudeva su di me.

sabato 17 dicembre 2011

Dedicato



Un pezzo e video che amo molto. Lo dedico a me stessa perché oggi è il mio compleanno. E anche a voi che leggete.
Non chiedetemi quanti anni compio, ché non ve lo dico. ;-)

venerdì 16 dicembre 2011

"Suicidi?"

E' il titolo dello spettacolo teatrale di Bebo Storti e Fabrizio Coniglio, in scena al Teatro Ambra alla Garbatella (Roma) fino al 18 dicembre. 
Tratto dal libro "Tre suicidi eccellenti" scritto dal Giudice Mario Almerighi, cerca di sottrarre al buio dell'oblio quel triste periodo della storia del nostro paese denominato Tangentopoli, cercando di far luce sui misteri che alleggiarono - e tutt'ora rimangono nell'aria - intorno alla morte per suicidio di Castellari, Cagliari e Gardini, tutti e tre in qualche modo legati all'Eni.
Io sono andata a vederlo ieri sera e l'ho trovato molto interessante - come scrivo nella recensione che potete leggere su MENTinFUGA - perché, pur focalizzando l'attenzione su questi tre suicidi, si apre ad una riflessione molto più estesa che, in qualche modo, riguarda anche il destino attuale dell'Italia. 
Ovviamente lo spettacolo non offre risposte, ma pone domande, insinua dubbi, favorisce una lettura critica della realtà, come sempre dovrebbe essere compito dell'arte cosiddetta "alta".

giovedì 8 dicembre 2011

1Q84 di Murakami Haruki

I primi due libri, ne parlo qui, sempre su MENTinFUGA
I romanzi di Murakami non si possono definire, bisogna entrarci dentro ed abbandonarvisi senza remore.
Rassicuranti e disorientanti insieme, trascinano il lettore in luoghi tanto inquietanti quanto stranamente familiari.
1Q84, il suo ultimo mastodontico lavoro, può essere definito una "distopia dei sentimenti", ma è anche, come tutti i suoi lavori alla fine, un romanzo di formazione (intendendo tale percorso in un senso un po' più esteso rispetto all'accezione del genere cui si riferisce solitamente, fino a comprendere l'acquisizione di determinate consapevolezze tipiche anche dell'età adulta: in questo caso, il recupero della pienezza della propria identità profonda).
Nella recensione non rivelo nulla di particolare, anche perché lascia in sospeso il terzo libro, che ancora non ho letto (a dire il vero l'ho iniziato ieri sera, ho dovuto prendere però l'edizione americana perché quella italiana, edita da Einaudi, uscirà solo il prossimo ottobre). Quindi potete leggerla tranquillamente: una panoramica dei vari eventi che coinvolgono Tengo, Aomame e Fukaeri (i principali protagonisti) e un azzardo di chiave di lettura, di definizione allegorica.
Ne parlerò ancora.

mercoledì 7 dicembre 2011

Fellini, Kubrick, Hugo e la Lavastoviglie


Ho deciso che da oggi vi metterò a parte di una parte (mi si perdoni il gioco di parole) delle tanti voci che si affollano nella mia testa: non vi preoccupate, non sono schizofrenica, le voci che emettono un continuo brusio di sottofondo sono sempre le mie, tutte da me riconoscibilissime e con le quale mantengo confortevoli - e confortanti - rapporti di intima confidenza. Ci troviamo a nostro agio, insomma. Con tutte loro mi intrattengo di sovente in interminabili discussioni e riflessioni, dando vita a dialoghi immaginari che vanno dagli argomenti più frivoli a quelli più seri. Anzi, la mia specialità - ma questo mi succede anche nella vita - è di passare senza soluzione di continuità a dilemmi esistenziali del tipo: “sto meglio con i capelli rossi o scuri?” fino a “come sarebbe la vita se nessuno avesse la consapevolezza della morte” nel mentre di una rassegna mentale di tutta la filmografia di Fellini al fine di individuarne il filo conduttore e tutto questo riflettendo sull’inanità del tutto per arrivare a considerazioni sociologiche sul tempo presente (e contemporaneamente rispondendo a domande varie del tipo: “vai tu alla posta a pagare le bollette?”). Insomma, una grande confusione.
Detto questo, e senza avere la pretesa di scriverne post esaurienti, vorrei provare ad utilizzare questo spazio per raccogliere qualcuno di questi pensieri, con la speranza che possa diventare uno spunto di riflessione utile a tutti voi.
Sia chiaro: nessuna pretesa di dire cose originali, ripeto, massima libertà e permessività al flusso di una parte dei miei pensieri, una concessione che generosamente elargisco alle mie riflessioni, sempre chiuse e costrette a muoversi in sentieri spesso oscuri, permettendo loro di respirare finalmente un pochettino, senza affanno e senza fretta.
Oggi ne propongo due, giunte quasi in contemporanea, chissà per quali associazioni, mentre stavo caricando la lavastoviglie e imprecando sottovoce contro quella persona a caso (il mio compagno, ma speriamo che stavolta non mi legga) che quando prepara il sugo (sììì, tanto carino e gentile da parte sua, per carità) fa arrivare gli schizzi pure fino al soffitto. E vorrei sapere quale segreta legge chimica, o fisica o di fisica quantistica fa sì che quando il sugo lo preparo io, quello si limiti a starsene tranquillo dentro al tegame, senza strabordare, mentre come si avvicina lui, il mio compagno, inizi ad eruttare peggio della lava di un vulcano in eruzione. Mah.
La prima: l’umanità, checché se ne voglia dire e si voglia parlare di evoluzione, secondo me non ha imparato un bel niente. L’altra sera ho visto il Satyricon di Fellini - un’opera maestosa che consiglio veramente a tutti - e mi sono stupita di quanto le varie situazioni mostrate e relative all’epoca tarda romana avessero delle profonde analogie con quella di oggi. Certo, Fellini vi avrà aggiunto considerazioni sue personali, rilevando egli stesso delle analogie relative alla sua, di epoca, ma questo conferma a maggior ragione che le medesime osservazioni che aveva potuto fare lui relativamente al suo periodo (anni sessanta - settanta, il film è del 1969) sono possibili ancor oggi, dimostrando quindi che... passa il tempo, ma nulla cambia.
Quindi ho pensato che in effetti basta anche leggere qualsiasi classico (tragedie greche, shakespeariane, poeti latini, autori come Dostoevskij, Gogol, Checov, Mann, Hugo, Leopardi, Dante, Boccaccio e chi più ne ha più ne metta) per rendersi conto di quanto sia facile prendere una loro opera, cambiarne la data di ambientazione e trasferirne il contenuto ai giorni nostri senza che il senso o il significato ne venga minimamente cambiato. Questo che vuol dire? Non solo che le opere classiche, trattando tematiche e problematiche esistenziali ed universali non tramontano mai, ma anche che, forse forse, l’umanità sempre la medesima rimane. Non cresce e non crepa! Come si suol dire! Non impara. Aggiunge tecnologia, ma, al pari dello stacco in cui un osso viene trasformato in navicella spaziale in “2001: Odissea nello Spazio”, noi siamo rimasti i medesimi scimmioni che si esprimono a grugniti. Solo più crudeli, avendo affinato le tecniche. Il che spiegherebbe anche il nostro accanimento come specie che vuole dominare tutte le altre.
Il monolite che appare allora non è per niente la sapienza, la conoscenza. E’ solo l’avanzamento tecnologico. Forse il linguaggio, che ci ha permesso come specie di evolverci. Forse è solo una maledizione.
La riflessione poi si interrompe. Si perde nel nulla. Se vi va, riacchiappatela voi. E del resto non è una delle più nuove. Sono anni che puntualmente vado sostenendo, dicendo, scrivendo le stesse cose a proposito.
Detto ciò, passiamo alla seconda: a quel vizio tutto umano che è l’ingratitudine.
E al paradosso che si verifica quando si ha la tendenza ad essere una persona gentile e generosa.
Avete presente? Quelle persone che non dicono mai di “no” e che poi ad un certo punto però si accorgono che qualcuno si sta approfittando di questa loro naturale inclinazione. E allora dicono basta (non avendo evidentemente maturato a sufficienza l’istinto da “crocerossina”). E a quel punto passano per essere degli stronzi. Ma come? Osi dirmi di no? Tu, proprio tu che non mi hai negato nulla, improvvisamente mi dici di no!? Ma come sarebbe? Ed io che credevo di poter contare su di te (ad libitum)! Sai che ti dico? Sei uno stronzo!
Ecco, io questa cosa non l’ho mai capita. Spiegatemela voi.
Cioè, io ti ho dato una mano, e pure un braccio, e alla fine ti sei presa anche la mia gamba destra, poi la sinistra (ed io sempre zitta), e poi quando ho osato esprimere una piccola obiezione nel momento in cui mi sono resa conto che volevi arrivare a prendermi anche la testa, che fai, mi dai della stronza? Anziché dirmi, ok, non importa se stavolta non puoi, apprezzo comunque quello che hai fatto fin qui per me, mi dai della stronza?
Ecco. Succede più o meno così.
E allora mi è venuto in mente il personaggio de L’uomo che ride di Victor Hugo (straordinaria opera che tutti dovrebbero leggere), tale Barkilphedro, il quale, in un capitolo, si esprime proprio a proposito dell’ingratitudine, rilevandovi la causa nella sgradevolezza della posizione in cui si verrebbe a trovare il beneficiato. Secondo Barkilphedro ricevere aiuto equivale a contrarre una sorta di debito eterno, per cui dietro l’apparente generosità di chi dà, si nasconde la volontà di sottomettere, rendere schiavi: “Un’elemosina è irrimediabile. La riconoscenza è paralisi. Il bene che vi vien fatto ha un’aderenza vischiosa e ripugnante che vi toglie ogni libertà di movimento. Gli odiosi esseri opulenti e impinzati che hanno infierito su di voi con la loro pietà lo sanno. E’ fatta. Ormai appartenete a loro. Vi hanno comprato. Per quanto? (...) Dunque, ringraziate. Ringraziate in eterno. Adorate i vostri padroni. Genuflessioni infinite. Il beneficio che vi è stato fatto implicita un tacito sottinteso di inferiorità da parte vostra. Esigono che vi sentiate un povero diavolo e che li giudichiate Dèi. Il vostro degradarvi li innalza.” Ecc. ecc. (da L’uomo che ride di V. Hugo, pag. 274 ed. Oscar Mondadori).
Per certi aspetti non nego che ci sia un certo fondamento di verità.
Fare del bene spesso ha molto più a che fare con l’accrescimento del proprio ego che non con una reale spinta altruistica (!).
Però non dobbiamo prendere le parole di Barkilphedro alla lettera, in quanto Hugo, ne L’uomo che ride adotta spesso lo stilema retorico dell’antifrasi: intende cioè dire l’esatto contrario di quanto va affermando. E lo stesso intero romanzo va interpretato in questa maniera. Gwynplaine stesso, il protagonista, avendo il volto deformato da un ghigno che ne atteggia l’espressione ad un eterno sorriso è in realtà una figura tragica; o meglio, una figura che non appartiene a questa terra. Il suo posto è altrove, insieme a Dea. Eppure egli si trova a sperimentare ogni condizione e vicenda umana possibile.
Tornando all’ingratitudine, deve esistere qualche altra segreta motivazione che rende la gente sempre più avida di richieste; un po’ come accade nel villaggio di Dogville, in cui tutti gli abitanti esigono e pretendono sempre di più dalla povera Grace. Fino a che non si ribella. Ma lì l’allegoria è un’altra (non disperdiamoci però, questa la blocco qui sul nascere).
Quello che volevo dire è che trovo strano che poi la gente si stupisca nel momento in cui, per qualche ragione, non è più possibile assecondarne le richieste. E da quel momento colui che prima era un santo diventa improvvisamente un mostro, una persona cattiva. Cos’è questa, ingratitudine?
Senso di inadeguatezza perché nel momento in cui si interrompe il flusso dell’elargire la figura del benefattore viene ridimensionata e ridefinita nel semplice ruolo di “creditore” (seppure il benefattore non ha mai chiesto nulla in cambio e dato sempre con il cuore)? Forse, colui che riceve, sentendosi in colpa reagisce come colui che ha ricevuto un morso anziché una carezza?
Non saprei.
Io ho imparato a chiedere e a dare. Quando ricevo, ringrazio, senza per questo sentirmi ulteriormente in debito. Quando do, mi basta un semplice grazie.
Per oggi mi fermo qui. La lavastoviglie sta ancora andando. Anche i miei pensieri. Ma la mano non ce la fa a stargli dietro. Sono stanca.

martedì 6 dicembre 2011

Della Morte, della Vita e dell'Amore


In un blog che si chiama “Il Dolce Domani” (dall’omonimo film di Atom Egoyan, come già dichiarato nel mio primissimo post), una notizia come quella del suicidio assistito di Lucio Magri, richiede un approfondimento; o meglio, vorrei prenderla come spunto per alcune riflessioni cui spesso mi sottopongo.
Prendere spunto ho detto. Infatti non sono nelle condizioni di poter esprimere un giudizio sulla decisione di una persona che non conoscevo e di cui posso solo  provare ad immaginare la sofferenza di un tragitto in cui alla fine è apparsa come unica, irrevocabile via d’uscita, quella di togliersi la vita.
Io rispetto la vita in ogni sua manifestazione. La vita, appunto. Questa è la premessa.
E proprio per questo ritengo legittima la volontà di una persona di morire nel momento in cui non sussistono più le condizioni per cui la sua vita debba ritenersi tale. Quando un malato terminale di cancro ritiene di voler morire perché tutto ciò che ancora gli resta è solo un mese (o poco più) di inenarrabili sofferenze, io penso che una società laica e civile abbia tutto il dovere di aiutarlo ad andarsene senza dolore e con dignità. Lo stesso dicasi per una persona che si trova in uno stato di coma irreversibile o in uno stato fisico simil vegetativo seppure accompagnato da totale lucidità, com’è stato il caso di Welby, ad esempio. Se poi una persona invece, pur trovandosi nel medesimo stato di Welby, trovasse la forza di continuare a vivere, ben venga la sua decisione. Insomma, ognuno dovrebbe essere libero di decidere cosa fare o non fare della propria vita.
Sono a favore del testamento biologico. Se mi trovassi impossibilitata ad esprimere la mia volontà - com’è stato nel caso di Eluana Englaro - ed al tempo stesso fosse evidente il perdurare di uno stato vegetativo, ebbene, vorrei che qualcuno mi staccasse la spina. E vorrei che lo facesse come atto d’amore, in primo luogo.
Ricordo un bellissimo film di Alejandro Amenàbar, uscito nel 2004, con uno straordinario Javier Bardem, dal titolo Mare Dentro. Il film è tratto da una storia realmente accaduta. Un giovane pieno di vita rimane paralizzato dalla testa in giù (può solo parlare e muovere gli occhi) in seguito ad un tuffo in mare.
Come ripete spesso il protagonista, la sua vita ha fine in quel preciso momento, in quel momento esatto in cui il suo corpo urta il fondale marino e si spezza.
Ramon, questo il nome nel film, non vuole più vivere. Non in quel modo, ancorato ad un letto senza nessuna possibilità di muoversi, uscire, correre, passeggiare. Passa 28 anni su quel letto. Intenta una battaglia legale ma la chiesa lo osteggia.
E’ amato da due donne. Una lo ama di un amore egoistico: “non puoi morire, ho bisogno di te nella mia vita”; l’altra alla fine lo aiuterà ad andarsene.
Mare Dentro non è un film sull’eutanasia. O meglio, non è SOLO un film sull’eutanasia.
Mare Dentro è innanzitutto un film sull’Amore, quello vero.
Molti sostengono di non sapere cosa sia davvero l’amore. Tanto è stato detto e scritto, ma in fondo, l’amore resta indefinibile.
Io invece un’idea abbastanza certa dell’amore ce l’ho. E’ così semplice. L’amore è desiderare il bene dell’altro. E’ desiderare con tutti noi stessi che l’altro si realizzi e sia felice. E questo desiderio della felicità dell’altro deve essere talmente forte da superare ogni personale egoismo e deve essere alimentato pure quando si pone in diretto ed evidente contrasto con il proprio desiderio.
La donna che aiuta Ramon a morire in Mare Dentro lo ama e lo vorrebbe accanto a sé. Questo sarebbe il suo personale egoistico desiderio. Ma capisce anche che la vita di lui, su quel letto, è una vita infelice e che il suo desiderio è quello di morire. Quindi antepone il desiderio di lui al proprio vantaggio personale (quello di averlo accanto, vivo, seppure costretto su un letto). E se non è amore questo!
L’ eutanasia quindi è, dovrebbe essere, un atto di amore, prima ancora che di civiltà.

Il caso di Lucio Magri ha suscitato tanto scalpore perché egli non era un malato terminale di qualche patologia fisica riconoscibile. Non era in coma. Non si trovava, apparentemente, in uno stato vegetativo costretto ad un letto e collegato a dei macchinari per respirare, mangiare ecc..
Era depresso. E della depressione si può guarire. Per quanto acuta, per quanto sia una patologia oggi riconosciuta tra le più gravi (almeno alcune tipologie), non è impossibile guarire. E quindi la sua decisione - il suo suicidio assistito - è sembrato a molti quasi una sorta di omicidio, paragonato all’aver dato la spintarella definitiva a colui in procinto di buttarsi in un fiume. Come? Se tu vedi uno che sta cercando di suicidarsi non provi a salvarlo? E così, a detta di quasi tutti, la clinica cui si è rivolto Lucio Magri avrebbe dovuto rifiutare la sua richiesta perché era solo un depresso e non un malato terminale.
Solo un depresso.
Solo?
Ora , innanzitutto, tanta gente confonde la depressione - che è una vera e propria patologia -  con il mal de vivre, che invece è una condizione esistenziale.
Il sintomo ed effetto principale della depressione maggiore è proprio quello di voler morire. Nulla attrae e consola più. Nemmeno gli affetti più cari. Il dolore di vivere è talmente intenso da obnubilare tutto il resto. Certo, si continua a voler bene alle persone care, ma ogni emozione e sensazione arriva come da lontano, attutita, superata per intensità da quella dominante di lasciarsi andare, di volersi mettere a letto a dormire con la segreta speranza di non svegliarsi più.
Il depresso diviene anche profondamente egoista. Nulla è più importante della sua malattia. Nulla conta di più. La depressione è un male strisciante che si insinua nelle viscere poco a poco fino, al pari di un virus potentissimo, a consumare tutto ciò che vi è di vitale, svuotando l’organismo dall’interno. E ciò che ne rimane è l’omino di pezza.
Oppure è come un macigno che improvvisamente cade dall’alto sulla testa e schiacchia schiaccia schiaccia sempre più verso il basso. Come una forza che tira verso il basso.
E ben ha rappresentato questa patologia Lars von Trier nel suo ultimo lavoro Melancholia: la depressione è un pianeta che dapprima allunga la sua ombra sul pianeta Terra, poi, in avvicinarsi progressivo, minaccia di distruggerla totalmente.
La depressione è come il pianeta Melancholia che si schianta all’improvviso sulla terra. La salvezza è possibile. Von Trier l’ha trovata all’interno della grotta magica.
Ma non a tutti a concessa la possibilità di questa salvezza.
Certo, si può guarire. Anzi, si deve fare qualsiasi cosa per guarire ed è compito dei medici che hanno in cura il paziente, dei familiari, degli amici, degli amori più cari aiutare il malato a comprendere che il suo desiderio di morire è solo un sintomo, un effetto, per meglio dire, e non il punto di arrivo di una decisione assunta con lucida consapevolezza.
Purtroppo la depressione è una malattia atipica rispetto ad altre ben più riconoscibili patologie perché non si vede, è nascosta, strisciante, silente, additata nell’opinione pubblica quasi come una forma di estrema indolenza, debolezza dell’anima, apatia; tanto che una delle frasi più note che si dicono al depresso è: “fatti coraggio, ce la devi fare, ti devi sforzare, devi ritrovare la voglia di vivere”.
Ma l’effetto della malattia è proprio la perdita della voglia di vivere. E’ proprio l’insorgere della malattia che causa il deteriorarsi progressivo di ogni interesse e che alla fine produce come effetto proprio la perdita del desiderio di vivere.
E’ causa ed effetto insieme. Quindi, la cosa più sciocca da dire ad un depresso patologico è: “tirati su”.
Ripeto. Si guarisce.
Però, purtroppo, ci sono anche casi in cui non si riesce a guarire.
In questi casi la vita del depresso, seppure metaforicamente, diviene esattamente uguale a quella di un paraplegico totale bloccato su un lettino per sempre.
In certi casi tra il depresso e Welby o Ramon di Mare Dentro non sussiste nessuna differenza.
Certo, si possono assumere dei farmaci, forti dosi di farmaci, che sostengono in maniera artificiosa l’umore del paziente, quasi fosse un uomo di pezza, privo di volontà, tenuto in piedi grazie a dei fili nascosti.
I farmaci assunti in dosi massicce però rendono la vita incolore, una sorta di non-vita, tanti sono gli effetti collaterali. Il dolore si attenua, ma insieme ad esso, anche tante altre cose. La personalità del paziente è modificata. Magari riesce a trovare la forza di uscire di casa, andare a lavoro, svolgere le mansioni quotidiane, ma è come fosse una specie di Zombie.
Un’esistenza sostenuta dai farmaci, può essere un’esistenza degna di essere vissuta?
Dipende. Per alcuni sì. Per altri, evidentemente no.
Questo dovremmo chiederci.
Non tanto se è giusto morire o sforzarsi di continuare a vivere un’esistenza sofferente, quanto cosa si debba intendere per VITA.
Per Ramon (ripeto, personaggio ispirato ad una persona realmente vissuta) un’esistenza trascorsa con il corpo interamente paralizzato e bloccato su un lettino non era più vita.
Per Welby, un’esistenza trascorsa ancorato a macchine e cure dal cui uso dipendeva il funzionamento  del suo corpo, non era più vita.
Può essere che per Lucio Magri si sia trattato della stessa cosa: non era un malato terminale, ma può essere che, anche se in maniera invisibile, la sua esistenza si stesse protraendo come quella di un malato in stato simil vegetativo. Può essere che ricordandosi di essere stato una persona diversa - volitiva, lucida, attiva, capace di provare emozioni e sensazioni fin nelle più infinite sfumature, in grado di donare e ricevere amore - non sia riuscito ad accettare di essere diventato l’ombra di se stesso, non se la sia sentito di essere divenuto il Ramon della situazione, seppure minato da una patologia della mente anziché del corpo.
Per questo non me la sento di prendere una posizione, né a favore della sua decisione, né contraria.
Tutto quello che posso dire è che per capire una simile decisione - e per poterla giudicare - bisognerebbe prima trovarsi a viverla.
E che, in certi casi, più che di un gesto che riguardi la morte, o la vita, dovrebbe trattarsi, semplicemente, di amore. Per sé, per gli altri, e di quello che ci aspettiamo dal prossimo.

Concludo con i versi della bellissima poesia che Ramon recita nel finale di Mare Dentro; vi consiglio di cercare su youtube il video in cui vengono recitati dalla voce del protagonista (il doppiatore di Javier Bardem).
Da brividi.

Mare dentro, mare dentro
senza peso nel fondo
dove si avvera il sogno
Due volontà fanno avere un desiderio nell'incontro
il tuo sguardo, il mio sguardo
come un eco che ripete senza parole: più dentro, più dentro
Fino al di là del tutto
attraverso il sangue e il midollo
Però sempre mi sveglio
e sempre voglio essere morto

per restare con la mia bocca
sempre preso nella rete dei tuoi capelli.


venerdì 2 dicembre 2011

Invito a Cena con Delitto


Ho scritto un nuovo articolo contro lo sfruttamento degli animali, sempre per la rivista online MENTinFUGA.
Perché parlarne non è mai abbastanza e perché loro, i nostri fratelli animali, hanno solo la nostra voce cui affidarsi ed il nostro impegno su cui contare.
Aggiungo una postilla: a molti specisti ed onnivori non andrà giù il fatto che io parli di violenza nel riferirmi all'atto - culturalmente e socialmente accettato e legalizzato - di mangiare una bistecca (o qualche altro animale). 
Comincio però ad essere stanca di sentire questo paradosso per cui noi antispecisti che abbiamo fatto la scelta di diventare vegetariani e vegani (ovviamente la scelta vegana è il punto di approdo e quella vegetariana il punto di inizio) veniamo talvolta accusati di essere intolleranti, intransigenti, estremisti, addirittura "violenti". 
Cioè, noi che abbiamo rifiutato la violenza rifiutando il sistema violento dello sfruttamento degli animali, saremmo dei violenti? 
Magari a volte useremo pure dei toni decisi e forti e mi è anche capitato di leggere e sentire attacchi di violenza verbale contro i cacciatori, i vivisettori, i mangiacadaveri (come viene definito in gergo chi mangia gli animali), ma questo è nulla - NULLA - nulla rispetto alla reale violenza che viene esercitata nei confronti degli animali nei tanti luoghi in cui vengono rinchiusi ed uccisi. Violenza fisica e psicologica; ci provassero i bracconieri a venire catturati da una trappola di quelle che mettono loro, ci provassero i vivisettori a trascorrere un'intera esistenza dentro una gelida gabbia, perennemente esposti alla luce artificiale, manipolati, torturati, usati per test farmacologici, tossicologici - e un giorno vi spiego come funzionano i test tossicologici - resi ciechi, ustionati, con gli arti fratturati per testare farmaci contro il dolore ecc.ecc. e così via fino a che la morte non sopraggiunge, come una benedizione; ci provassero gli allevatori di animali per pelliccia a stare chiusi dentro gabbie che definire anguste è poco, e poi venire uccisi con scariche elettriche o randellate sul cranio (per non rovinare il pelo) e poi ancora venire scuoiati (talvolta quando non si è ancora morti); ci provassero quelli che lavorano al mattatoio e dicono "è solo un lavoro" a farsi spingere come i maialini impauriti lungo la catena della morte, a sentire l'odore della paura e del sangue dei loro fratelli e sentire cosa sta per accadergli, e poi, talvolta, ad essere sfortunati da non morire subito, ma dal dover vivere un'agonia di cinque, dieci minuti.
Ci provasse tutta questa gente che giudica noi sostenitori dei diritti animali come degli estremisti esaltati violenti verbalmente a mettersi per un secondo nella pelle degli animali che mangia, indossa, sfrutta e poi capirebbe dove sta la vera violenza, qual è la vera violenza.
Chi è violento? Chi passando davanti alla vetrina di una pellicceria ha l'istinto di sputarci sopra o di tirare giù una bestemmia, o chi invece ha catturato animali che vivevano in libertà e li ha rinchiusi in gabbie strettissime, fatti viaggiare per chilometri e chilometri senza cibo ed acqua, messi al freddo e poi li ha uccisi con metodi che definire cruenti è un eufemismo e alla fine li ha scuoiati? 
Chi è violento? 
Io che vi dico queste cose, o chi in questo momento sta mangiando una fetta di prosciutto? 
Non vi dovete scandalizzare. La realtà oggettiva dello sfruttamento animale è questa. 
Certo, chi mangia il panino col prosciutto non è violento direttamente, ma partecipa di un sistema di violenza. 
E questo è quanto.
Io pure mi autoaccuso perché ancora talvolta mi capita di mangiare alimenti contententi del latte o uova (pure se non li acquisto più direttamente) e quindi, anche se in misura minore, continuo a partecipare dello sfruttamento degli animali. Sto cercando di diventare vegana e ne sono sempre più convinta. Non compro più scarpe o accessori in pelle. E compro solo cosmetici e prodotti per la pulizia non testati (con certificazione della LAV). Assumo raramente farmaci. E cerco di parlare il più possibile della ricerca alternativa, che oggi è scientificamente possibile e molto più affidabile (essendo il dna degli animali non uguale al nostro, e di questo avevo già parlato qui).
Non assolvo me stessa. Anche io per anni ho partecipato dello sfruttamento degli animali (anche se ho sempre amato ed aiutato gli animali in difficoltà, rifiutato le manifestazioni più ovvie di sfruttamento come le pellicce, gli zoo, i circhi, la corrida ecc.). Quindi, se un vegano mi dice che sono violenta anche io quando mangio qualcosa che contiene latte non mi offendo. Anzi, gli dico che ha ragione. E prendo il suo monito come spunto di riflessione. Ed inizio a documentarmi sempre più. E cerco le alternative. E mi metto in discussione.
Vorrei che a questo servissero i miei post. Non prendeteli come atti di accusa, ma come spunti per mettere in discussione le cose sbagliate che sono nella nostra cultura e società. 
Io sono la prima a mettermi in discussione. Se non ci mettiamo in discussione e non diveniamo consapevoli di ciò che comportano le nostre scelte, siamo come dei burattini privi di vita. Come Pinocchio. Siamo come Pinocchio quando era solo un burattino.