mercoledì 8 agosto 2012

Dedicato

Questo che segue è un pezzo che ho scritto più per me che non per altri, anzi esclusivamente per me, com'è che si dice, tanto per mettere nero su bianco certi pensieri e così sperare di dargli una forma, di renderli qualcosa di più di emozioni inintelligibili, pure se di fatto è diretto ad una persona a me molto cara. Una persona che avrebbe potuto essere mia sorella, tanto siamo unite, ma non lo è, una persona che è comunque più di un'amica anche per il legame di sangue che ci lega. Mia cugina, in poche parole. Non credo legga il mio blog. Sa che da qualche parte del web ho un blog, ma così presa com'è dalle cose della sua vita non naviga che il necessario, giusto per cercare qualcosa di utile. Perché lo posto qui? Perché sono stanca di censurare i miei scritti, soprattutto quelli intimissimi come questi, e perché tanto confido nel fatto che in questi giorni di pre-ferragosto sarà già tanto se mi leggeranno quattro persone, quindi posso espormi un po' più del solito. Insomma, che ve ne freghi o meno, io lo lascio qui questo mio scritto, anche come segno di questo periodo particolare che sto vivendo. Un segnalibro, diciamo così.
Buona lettura. :-)

Da leggere magari ascoltando il pezzo sotto: (in questo periodo sono, come si suol dire, in fissa con i Placebo; il mio scritto l'ho steso ascoltando a ripetizione ossessivo-compulsiva: Battle for the sun, Black-eyed, Every you, every me, For what it's worth, Song to say goodbye, Twenty years e quello di cui ho messo il link, il mio preferito del momento.)




****   ****   ****
A volte ho dubitato di te, del tuo complesso spessore che invece mi sono sempre ostinata a volerti riconoscere. In questi anni ci siamo così tanto perse di vista. Così tanto da non sapere più se l’immagine che ho conservato di te nei miei pensieri sia mai davvero esistita.
Poi invece ecco che torni a sorprendermi. E realizzo che se c’è una persona al mondo che mi conoscere davvero bene, quella sei tu. Non nel senso di sapere tutto proprio tutto di me. Sai bene che io conservo dei segreti, che ci sono cose di me che non rivelerò mai a nessuno e non per disonestà, ma per pudore. Però la tua maniera di rispettare i miei silenzi e il mio “essere con la testa tra le nuvole” - quando sapevi benissimo che non ero affatto sulle  nuvole, ma dentro di me, giù in qualche posto dal nome impronunciabile perché un nome non ce lo può avere - seppure spezzata a volte dalla curiosità che emergeva a tratti sul tuo viso, è anche quella una maniera di starmi e stare vicine. E soprattutto, nessuna più di te è mai riuscita ad interpretare le mie tante espressioni, i miei sguardi, persino - anzi, soprattutto quelli - involontari, non controllati, non mediati e quindi più autenticamente rivelatori. Ti ricordi quella volta a Bologna quando ti feci scendere in quella stazione di servizio per chiedere informazioni? Quando risalisti, subito dopo, dicendo che non avevi saputo chiedere perché ti vergognavi, ti detti uno sguardo così eloquente, ma così eloquente che non avrei avuto bisogno di aggiungere altro, seppure mi fossi coscienziosamente sforzata di non lasciar trapelare la mia irritazione. E quanto me lo facesti pesare quello sguardo del quale avevi percepito tutto lo scazzo del momento, della vacanza appena conclusa, del viaggio, la stanchezza, tutto ovviamente rivolto a te come rimprovero per non essere riuscita a darmi quel piccolo, banale aiutino. Sebbene, non avessi voluto, ecco, farti quello sguardo. Era uscito così, il tempo di un attimo e poi già a sviare il volto, e tu l'avevi colto. Piccolezze, piccoli particolari, ma assai significativi per noi e di noi rivelatori.
E poi conosci parecchi scheletri del mio armadio, e li conosci così bene, i perché ed i percome che potresti persino chiamarli con nome ad uno ad uno.
E sebbene tu non mi abbia mai risparmiato le tue pungenti e spesso sarcastiche critiche, in fondo, se non proprio compresa, hai sempre continuato a volermi un gran bene.
Un bene così grande di cui ti sono gratissima e di cui sono orgogliosissima.
Ti ricordi quando ebbi l’incidente con il motorino e fui costretta a letto per un mese con la gamba ingessata? Che tu, per non lasciarmi, non uscisti più di casa se non per andare a svolgere le commissioni per mia madre? Ti ricordi che facesti finta di esserti rotta un braccio e girasti con quella fasciatura finta per tutto il paese, così, per solidarietà verso di me?
Già, avevamo 14 anni ed insieme facevamo veramente un cocktail micidialmente esplosivo. E quante ne abbiamo combinate negli anni a seguire, a 15, 16, 18 anni... nulla ci metteva paura, nulla ci sembrava impossibile, e comunque, pure se avevamo paura, lo facevamo lo stesso. Ricordi? Tu eri quella che aveva le idee, ma poi si tirava indietro, io quella capace di sfinirti fino a che non mi avessi confermato che sì, le avremmo messe in pratica. Io ero quella che non riusciva a starsene tranquilla nemmeno un po’, e tu mi  dicevi sempre, "ma possibile che non sai stare senza far niente nemmeno cinque minuti?"; quella che la notte non c’era verso di dormire o di tornare a casa, quella che al mattino veniva  a svegliarti con lo yogurt su un piattino anche se ti faceva schifo perché andava a me e perché se lo mangiavo io lo dovevi mangiare anche tu. Io ero quella che da bambina ti costringeva a giocare al giochino delle parole di Archimede per cui ero praticamente invincibile visto che mi allenavo da sola e a cui tu, proprio perché tanto sapevi che avrei vinto io, non volevi giocare. E, andando ancora oltre il tempo dei ricordi lucidi, a quelle prime immagini di noi piccolissime, io ero quella che chiudeva a tripla mandata la porta e si piazzava con il suo corpicino a gambe e braccia allargate a sbarrare il passaggio per non farti andare via. Quella che dopo mesi che non ci vedevamo ti accoglieva stracolma di entusiasmo e ti prendeva la manina per trascinarti in camera a giocare, ma tu quella che, timida timida com’eri e sopraffatta dalla mia esuberanza, alla quale ti serviva sempre un po’ di tempo per abituarti, invece mettevi il broncio e quasi scoppiavi a piangere, provocando in me un moto di delusione e rabbia al tempo stessa; o forse la rabbia era solo una maniera per reagire alla delusione.
Io quella che ti spinse per gioco dal bordo della vasca e ti fece battere la testa e poi ti supplicò di non dire a mamma che ero stata io e mamma, per la paura che si era presa, ti ci diede pure un ceffone sopra.
Ancora io quella che, abituata com’ero a ricevere sempre tutti i complimenti e da tutti, quella volta che la signora Dora ti disse che eri proprio carina con quel vestititino, ti diedi, per tutta risposta, uno schiaffo sulla guancia. Ero gelosa, certo. Ti amavo, ma ero gelosa ché quando venivi la mamma pensava più a te che a me, cosa che io, da figlia unica, proprio non riuscivo a concepirlo. E chissà, forse quella fissazione di volere sempre le cose uguali per tutti e due era una maniera come un’altra per fare in modo che non ci fosse nessuna rivalità. Ché le competizioni le ho sempre detestate, abituata com’ero a primeggiare senza bisogno di scendere nemmeno in campo. Così, per default.
Tutto questo per dirti che abbiamo condiviso tantissimo e che sempre, pure se magari distanti per mesi, siamo state in grado di riacciuffare al volo quell’affinità che dall’origine si era venuta a creare tra noi, sin da molto prima dell’età della ragione (così almeno mi racconta mia madre).
Per cui quando l’altro giorno mi hai detto quella cosa mi hai fatto scattare qualcosa dentro, qualcosa che è saltato come una molla.
A. mi ha detto che è come se avessi avuto un’epifania. Non saprei. A quanto ne so per epifania si intende una rivelazione che giunge improvvisa dalla realtà, anche quotidiana, anche quella più prosaica, come una luce che si accende repentina e ti mostra qualcosa che prima non avevi mai visto. In questo senso forse è così. Però quel che mi hai detto ha fatto qualcosa di più perché continua a scavare, a scavare, a scavare un tunnel in cui entra a poco a poco sempre più luce.
Quando mi hai detto che ritrovando e rileggendo quei tuoi vecchi diari su cui ogni tanto scrivevo qualcosa anche io e quelle lettere che ci scambiavamo abitudinariamente è come se tu avessi avuto la chiara e forte percezione che in me un tempo ci fosse stata un’altra persona, con una personalità del tutto diversa e slegata da quella di adesso, quasi se ne fosse venuta a sovrapporre una seconda nel tempo, è stata per me veramente una rivelazione - nonché conferma della tua sagacia e capacità di percepire oltre. 
Mi hai detto: “ma che ti è successo, che ti è successo ad un certo punto? Perché è chiaro che qualcosa è successo”. 
E da allora non faccio che pensarci, da quello stesso istante in cui abbiamo chiuso il telefono.
Già, mi sono detta - che mi è successo? - perché sì, ora è chiaro pure a me che qualcosa è successo. E mi sconvolge non averlo realizzato prima.
Io ora non so esattamente cosa, se un singolo episodio, o tanti insieme, il tutto, tutto ciò che stavo vivendo allora così da intravedere mille ipotesi, la malattia di mia madre, per dirne una, che ci ha spiazzati tutti e che ha spazzato tutto via, la leggerezza, le risa, l’incoscienza ed in cambio ha portato il suo bel carico di senso di colpa. Non so come, né esattamente quando e cosa, ma è vero che qualcosa ad un certo punto è avvenuto in me. Ci ho riflettuto. E sto continuando a farlo.
E una cosa l'ho capita, che è come se io ad un certo punto avessi voluto farmi da parte, ridimensionarmi, rimpicciolirmi (anche in senso materiale, in fondo fu pressapoco in quel periodo che iniziai ad avere problemi col cibo e che passai attraverso la devastazione - più mentale che fisica, nel mio caso, riuscendo comunque ad uscirne - dell’anoressia).
La verità è che ad un certo punto ho avuto timore di dar fastidio, di dar fastidio a qualcuno, qualcuno che non so bene chi, e che proprio perché in-individualizzabile è finito per diventare tutto il mondo. Paura, anche, certamente, oh, questo lo so bene, di esprimere pienamente tutte le mie potenzialità. Paura di essere esplosiva, di far male, di dar fastidio e poi presto paura di ridere persino, di essere felice. Ad un certo punto sono diventata un'altra persona.
Mi vedo camminare su una strada, a testa alta, spavalda, sicura di me, leggermente incosciente, leggera, ma di quella leggerezza che non è mai superficialità quanto il voler togliere i pesi dall’anima per lasciare che voli via, al pari di una mongolfiera. Una leggerezza sostanziale insomma; e me lo dicesti una volta, che io ero frizzante, proprio così, come un vino bianco leggero bevuto d'estate col caldo, ubriacante quasi; e poi vedo sempre me su quella stessa lunghissima strada, guardarmi intorno e poi abbassare gli occhi e farmi da parte, e chiedere scusa a destra e a manca mentre inciampo ed urto sui corpi e più inciampo ed urto e più vorrei sparire. E sento quella leggerezza farsi sempre più insostenibile e quindi divenire improvvisamente il nemico da combattere, il male oscuro da sconfiggere. Che strano, eh, scambiare la leggerezza e l'essere genuinamente frizzanti con il lato oscuro del proprio animo.
Quindi, su una cosa hai torto. Non è che sono diventata meno “cazzuta”, come hai detto tu, non è che prima avevo le palle e poi le ho perse per strada (per quanto detesti queste espressioni sessiste e maschiliste, come se una donna per essere davvero in gamba dovesse per forza avere il cazzo e le palle o altri attributi caratteriali di segno maschile; ma so che la tua era solo una maniera dì dire e so anche che insieme abbiamo tante volte demolito le opinioni comuni ed i condizionamenti culturali oppressivi della libertà delle manifestazioni del singolo). Non, si tratta di quello, io non sono affatto una persona che prima era un po’ stronzetta e si faceva largo a spallate nel mondo che poi improvvisamente è diventata buona e gentile con tutti. Sai bene che le apparenze ingannano e stai tranquilla che i piedi in testa non me li faccio mettere da nessuno e che improvvisamente posso rivelarmi molto più aggressiva e combattiva di quello che apparentemente può sembrare. Io mi riferisco piuttosto a qualcosa di molto profondo e molto più radicato e stratificato nella mia personalità, qualcosa che ad un certo punto ho voluto mettere a tacere, zittire, chiudere ermeticamente, fare da parte. 
Cosa? 
Veramente quella mia natura così esplosiva che faceva le cose solo perché dal momento che si potevano fare, beh, perché non farle? Ovviamente solo se erano cose che non facevano male a nessuno, ché la testa sulle spalle l’ho sempre avuta, il rispetto per gli altri anche, mai stata davvero irresponsabile o incosciente. Oddio... forse in un paio di occasioni... giustificati dall’assenza di esperienza. ;-) 
E perché mai poi?
Insomma, sto cercando di capire quale sia esattamente l’essenza e le peculiarità di quella parte della mia personalità che tu ad un certo punto hai visto svanire senza poterci fare nulla. Ma, cosa più importante di tutte, sto cercando di recuperare solo il buono di quella parte. Perché la stronzaggine, la spavalderia, la supponenza, quell’arroganza che a volte emergeva in me, quella no, quella vorrei lasciarla stare giù in fondo dove l’ho seppellita. So però che quella era la parte malata di qualcosa di positivo, propositivo e combattivo che invece devo assolutamente recuperare. E soprattutto la leggerezza, quella leggerezza che non è superficialità, ma abbandono di ogni pesantezza.
E, se lo sto capendo e se già da giorni avverto in me dei cambiamenti, impercettibili quasi all’esterno eppure significativi, è grazie a te.
Prendere coscienza di una parte del sé, di certi meccanismi, si dice in psicanalisi che non porti automaticamente alla risoluzione del problema. Ma che è una strada che si apre e che conduce ad una maggiore consapevolezza del sé. Ed è già tantissimo.
Quindi, dico ancora grazie a te, che pure nella distanza, non hai mai saputo perdermi di vista. Cosa che invece io forse ho fatto con te.
Ma recupererò. C’è tempo.
C'è tempo?

5 commenti:

Maura ha detto...

"È tempo che sfugge, niente paura
che prima o poi ci riprende
perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo..."
per questo mare infinito di gente.
(I.Fossati, da "C'è tempo")

Ciao, profonda e sensibile amica mia...
Leggendoti ho ascoltato (ed ancora ascolto) il brano consigliato...fantastico, crea la giusta atmosfera.
Invidio la profondità del sentimento che ti lega a questa persona e la fortuna che entrambe avete avuto nell'essere state insieme a scoprire una parte tanto importante quanto difficile per ogni essere quale è l'adolescenza.
Una cugina sembra in qualche modo una figura fidata, forse perchè c'è il legame di parentela, forse perchè parte del sangue che scorre nelle sue vene scorre anche nelle tue...
Mi rendo conto della voragine che ha inghiottito la mia di cugina, quella persona che avrei voluto avere accanto al posto della sorella mai avuta, dell'amica superficiale che ti fila solo per i giochi ma che ti evita sotto il profilo umano perchè "diversa".
Ma ormai siamo diventate grandi, ormai...
Ho cementato le fondamenta della mia vita con questa lacuna, senza la possibilità di condividere ad armi pari con una ragazzina uguale a me, o forse meglio uguale io a lei...
Un abbraccio forte-forte!

Rita ha detto...

Carissima amica (mannaggia che abitiamo lontano),
sì, mi sono sempre ritenuta tanto fortunata ad avere due care cugine che per me sono come sorella; quella di questo scritto non è l'unica infatti, ha una sorella, di due anni più grande di noi due (che siamo invece coetanee) e alla quale pure voglio tantissimo bene. Essendo quest'ultima più grande, soprattutto nell'età dell'adolescenza, siamo state meno, non dico meno intime, però meno complici, soprattutto perché lei ci snobbava, sai quando hai 14, 15 anni, due anni di differenza si sentono (io e l'altra volevamo conoscere i suoi amici, seguirla, invece lei non voleva).
Comunque il nostro rapporto è sempre stato bello proprio perché cugine e non sorelle. Sai, tra sorelle magari ci può essere rivalità, gelosia, dinamiche familiari particolari, litigi giornalieri per piccolezze, invece noi abbiamo sempre mantenuto complicità profonda e però quel minimo di rispetto dell'altro che a volte tra sorelle viene meno perché si dà il rapporto per scontato.

Conosco il brano di Fossati, molto bello, grazie per averlo ricordato. :-)

Ricambio il tuo abbraccio forte-forte.

Martigot ha detto...

Questo tuo bel testo mi ha fatto pensare a mia cugina, più grande di me di alcuni anni, e a quanto siamo state vicine nelle nostra infanzia, specialmente durante l'estate, quando lei passava una settimana a casa mia, o quella volta che è venuta in montagna con noi, e tante altre cose. Poi siamo diventate ragazzine e sentivo che non potevo seguirla sulla strada che lei aveva imboccato. Ci siamo allontanate. Lei, più grande, pareva non avere più quello spirito che avevo amato quando eravamo bambine. Questo ha segnato una rottura che poi non abbiamo avuto modo di sanare. Abbiamo preso strade diverse e ci siamo allontanate sempre più.
Chissà, forse ora che siamo adulte ci potremmo magari ritrovare e riscoprire d'incanto quell'antica magia...
Dopo il suo allontanamento però ho scoperto un sincero affetto in suo fratello, mio cugino che ha circa 2 anni meno di me, con il quale ho trascorso tanti pomeriggi estivi felici. Oggi ci vediamo di rado, ma so che lui mi vuole bene, e ritrovandoci dopo molto tempo basta un istante per tornare a sentirci come i due ragazzini che siamo stati, per tornare a capirci come allora, malgrado siamo due persone piuttosto diverse.
Per usare le tue parole, sento che lui non mi ha mai persa di vista.

un caro saluto

Rita ha detto...

Ciao Martigot,
sì, capita, crescendo, di allontanarsi dalle persone con cui un tempo siamo stati in sintonia, però penso che, al di là delle diverse strade e stili di vita intrapresi, se un tempo esisteva un'affinità profonda e sincera, poi possa essere in parte recuperata.
Oppure capita anche di non sentirsi per mesi, addirittura anni, se non sporadicamente, ma di essere in grado di far risorgere quell'antica confidenza dopo appena cinque minuti di vicinanza.
Ad ogni modo vale sempre la pena tentare di recuperare i rapporti con quelle persone che per noi hanno significato qualcosa.

Un caro saluto a te. :-)
P.S.: come sta Clint? Ha finito le sue vacanze in Svizzera? :-)

Martigot ha detto...

Hai ragione, vale la pena provare. Anche se probabilmente certe cose sono andate perdute irrimediabilmente nel tempo...

Clint sta benissimo, è pimpante e cicciottello, e credo che lo lascerò in Svizzera fin verso fine settembre, un po' al riparo da questi simpatici anticicloni africani :-)

ciao!