domenica 28 ottobre 2012

Amour di Michael Haneke: una storia d'amore e sull'amore per la vita.



Amour, proprio come intende lasciar presagire il titolo, racchiuso in un unico essenziale termine, parla di amore (l’amore tra un’anziana coppia, ma anche per la musica, per la vita, per l’arte) e, così come la radice del suddetto termine può essere scissa a formare la parola “morte” - a/mour/mourir (in italiano a/mor/mor/te) - parla anche di morte, o meglio, di quel progressivo disfacimento delle proprie capacità fisiche e mentali che, per dirla con Beckett, costituisce l’attesa di quell’evento ineluttabile che ci tocca in sorte nel momento stesso in cui veniamo al mondo, inseparabile da ogni nascita. E proprio con la scelta di un titolo così minimalista eppure essenziale, il film si presenta come un capolavoro di massima asciuttezza formale, nitido, essenziale, efficace a livello di immagini che seppur tradotte, o traslate, se preferite, su un piano metaforico, rimangono comunque estremamente narrative, realistiche, mai a dire di più o di meno di quel che serve. La definizione che meglio si presta al cinema di Haneke è appunto quella che stabilisce in una netta pulizia formale il suo tratto più distintivo, eppure ciò non basterebbe a rendere giustizia del suo stile, perché esso si connota anche di suggestioni emozionali - tanto più intense quando inaspettate ed improvvise - che contribuiscono a sublimare esteticamente anche gli elementi più disturbanti o tragici (come ne La Pianista o Funny Games, ad esempio).
E del resto non saprei in quale altra maniera definire, se non appropriandomi degli elementi dell’estetica del sublime, la scena in cui il protagonista di Amour soffoca la moglie con un cuscino o anche accosta il suo corpo al suo per aiutarla a scendere dalla sedia a rotella in un abbraccio che è una fusione, che è tragico (la moglie sta progressivamente perdendo le proprie facoltà fisiche), ma che anche riecheggia l’abbraccio degli amanti che sono stati e che ancora continuano ad essere, in una reiterazione di quell’amore che nemmeno la malattia riesce a stroncare. Sublimazione della realtà, ma sempre restando fortemente ancorati sul piano della rappresentazione nuda e cruda e non già su un piano intimista o onirico.
La storia di Amour è presto detta: Georges (straordinario Jean-Louis Trintignant) ed Anne (un’intensa e straziante Emmanuelle Riva), anziana coppia di musicisti molto affiatata ed ancora colma di generose e galanti attenzioni reciproche, al risveglio dopo una bella serata trascorsa a un concerto (tenuto da un ragazzo che fu uno dei loro primi allievi), siedono al tavolo intenti a fare colazione; improvvisamente Anne viene colpita da un obnubilamento mentale, probabilmente un ictus, non sembra sentire, né vedere quello che Georges le sta dicendo, per poi riprendersi dopo un paio di minuti, come se niente fosse, senza essersi resa conto di nulla. Successivamente una visita medica le diagnostica un’ostruzione alla carotide e quindi consiglia un intervento per scongiurare il rischio di un nuovo attacco. Purtroppo l’intervento non ha un esito positivo (la casistica che stabilisce il fattore rischio, seppur minimo, comprende soggetti reali e non solo numeri astratti, come illusoriamente si crede),  e Anne rimane paralizzata nel lato destro del corpo, incapace di sorreggersi, di camminare, di vestirsi o lavarsi da sola. Le sue condizioni saranno poi destinate a peggiorare ulteriormente in seguito a un nuovo attacco e comincia così un progressivo e lento deterioramente delle sue facoltà fisiche e mentali. Georges, senza risparmiarsi minimamente, con l’aiuto di un’infermiera a ore, la assiste giorno e notte: un’assistenza che non è mai solo materiale, ma anche soprattutto psicologica, emotiva, tutto intento com’è a non farle mai percepire l’umiliazione e il peso dell’invalidità e sforzandosi di renderle ancora degni di significato i difficilissimi giorni di vita che le sono rimasti. Anne però soffre sempre più visibilmente, si rifiuta persino di farsi vedere dalla figlia (Isabelle Huppert, brava come sempre, nel ruolo forse un po’ troppo algido della figlia preoccupata, ma anche visibilmente un tantino troppo distaccata, presa dalla propria vita sentimentale, gli impegni lavorativi ecc.) e manifesta sempre più lucidamente il desiderio di morire (persino tramite un tentativo di suicidio non andato a buon fine), ma senza smettere di provare gratitudine per un’esistenza che è stata comunque lunga (“è un privilegio aver vissuto così a lungo” dice mentre sfoglia un album di fotografie che ripercorre tutti i momenti della sua vita) densa, piena, ricca di amore per la musica, per l’arte. Haneke riesce ad esprimere visivamente tutta la pienezza della vita di Anne attraverso vari espedienti narrativi, come ad esempio la scena in cui il giovane musicista Alexandre, ex allievo, va a trovarla e ripercorre i momenti delle sue prime lezioni, momenti di vita del passato che colpiscono emotivamente nel contrasto della gioia e progettualità del passato con l’attuale situazione di immobilità di Anne, ma anche tramite l’indugiare continuo della macchina da presa sui vari oggetti, dipinti, soprammobili che arredano la casa della coppia e che restituiscono il senso di un accumulo di esperienze, di giorni, di ricordi. Tutto ciò è fonte di nostalgia e quindi, proprio come l’etimologia del termine indica, fonte di dolore (nostos = ritorno e algos = dolore, quindi dolore dato dal desiderio intenso di voler far ritorno alle origini, o in patria, ma anche all’infanzia, a una condizione che è avvertita come perduta per sempre e per questo fonte inconsolabile di dolore). Da notare come man mano che Anne perde progressivamente la propria autonomia fisica, diventa sempre più simile ad una bambina, ad un’infante che necessita di essere accudita e protetta continuamente (e, proprio come un’infante, “incapace di difendersi”, come dirà Georges ad un’infermiera che era stata troppo brutale nei suoi confronti, costringendola a vedersi riflessa in uno specchio contro la sua volontà e causandole dolore perché, se con la mente ci si può illudere talvolta di essere ancora giovani, lo specchio non mente mai e ci ricorda la nostra caducità e fragilità). Molto suggestiva è anche la scena in cui frammenti di dipinti impressionisti o comunque naturalisti vanno a riempire lo schermo, in una carrellata di immagini che ritraggono il susseguirsi delle stagioni e l’eterno ciclo di nascita-distruzione-morte che appartiene alla natura, a voler definire la morte quale evento semplicemente necessario insito nella naturalità dell’accadere e non come tragedia eccezionale.
Direi che Amour in questo senso non è solo un film che testimonia l’amore di coppia, l’amore per la vita che è stata, in tutte le sue manifestazioni, ma anche dell’amore inteso come accettazione della vecchiaia e quindi della morte. Una morte che appare infine non già come dramma, ma come necessità, come liberazione, come atto di amore. E la scena del piccione che più volte entra nell’appartamento e che infine, pure se catturato e stretto in maniera convulsa al petto in un bisogno di calore, di contatto fisico, di affetto ricambiato, ma poi liberato, sta proprio a significare questa consapevolezza nell’accettare di voler lasciar andare chi si ama: giacché l’amore non può mai essere possesso, bensì liberazione, bensì scioglimento di ogni vincolo e catena. E così quel corpo tanto amato di Anne, ora che non può più essere fonte di gioia e piacere, ma solo di sofferenza, ora che è diventato peso insopportabile da gestire per Georges, soprattutto psicologicamente, ma anche fisicamente - essendo anche lui ormai anziano e visibilmente lento e affaticato negli spostamenti - ora che non è più un mezzo per agire la propria volontà, ma solo involucro costringente, forma che opprime ed imprigiona, dev’essere liberato, sciolto dal vincolo di un esistere ormai meccanico, fine a sé stesso. E così si vede Georges, dopo che ha compiuto l’ultimo atto di amore verso colei che è stata la compagna di una vita, uscire per sempre da quell’appartamento ormai ingombro di cianfrusaglie che non hanno più senso - ma che pure lo hanno avuto - insieme ad una Anne ancora viva e sana, per continuare in un altrove indefinito quell’amore che la morte non ha distrutto.
A mio avviso, c’è una differenza sostanziale tra il film di Haneke (ricordiamo che ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes 2012, secondo me meritatissima) e tutti i film o le altre opere sulla vecchiaia, anche letterarie (penso ad esempio a quel piccolo gioiello che è Everyman di Philip Roth) in quanto se in molte di esse la vecchiaia e la malattia vengono viste come una tragica condanna preludio della condanna ultima che è la morte, in un’accezione pessimista, quando non addirittura del tutto nichilista, quindi anche la vita stessa - l’atto stesso del venire al mondo - è intesa come condanna e fonte di dolore, in Amour invece la malattia e la vecchiaia vengono vissute semplicemente come una delle inevitabili stagioni dell’esistenza, inserite nel ciclo naturale che va dalla nascita sino alla morte, un ciclo che dispensa i suoi doni, così come le sue disgrazie e che porta l'estinzione fisica come compimento, come liberazione quando il corpo diviene infine solo forma opprimente; come un evento da accettare, non da rimuovere. La morte come parte della vita e l'amore per la vita come conseguente accettazione di ogni suo aspetto.

(ringrazio l'amico Rocco per il contributo delle sue riflessioni durante una piacevole chiacchierata all'uscita del cinema).


4 commenti:

massimo ha detto...

Bella recensione, Biancaneve. Cosa non si darebbe per un amour così ...

Rita ha detto...

Grazie Massimo,
eh sì, un amore bellissimo quello raccontato nel film di Haneke, ma l'amore non è solo quello per una persona, ma anche verso la vita, che va assaporata spasmodicamente, senza lasciarsene sfuggire nemmeno un pezzettino (oggi sono ottimista, va...) ;-)

Come diceva Bukowski (azz, mi son scordata di metterlo nella recensione) "il male non è la morte, ma la vita che la gente non vive."

Anonimo ha detto...

talvolta vedo un film che mi riconcilia con il cinema.. il film in questione è uno di questi

Rita ha detto...

Infatti, sì, anche io ho avuto questa impressione, è un film che riconcilia con il cinema; e per forza, è grande cinema. :-)