domenica 28 ottobre 2012

Amour di Michael Haneke: una storia d'amore e sull'amore per la vita.



Amour, proprio come intende lasciar presagire il titolo, racchiuso in un unico essenziale termine, parla di amore (l’amore tra un’anziana coppia, ma anche per la musica, per la vita, per l’arte) e, così come la radice del suddetto termine può essere scissa a formare la parola “morte” - a/mour/mourir (in italiano a/mor/mor/te) - parla anche di morte, o meglio, di quel progressivo disfacimento delle proprie capacità fisiche e mentali che, per dirla con Beckett, costituisce l’attesa di quell’evento ineluttabile che ci tocca in sorte nel momento stesso in cui veniamo al mondo, inseparabile da ogni nascita. E proprio con la scelta di un titolo così minimalista eppure essenziale, il film si presenta come un capolavoro di massima asciuttezza formale, nitido, essenziale, efficace a livello di immagini che seppur tradotte, o traslate, se preferite, su un piano metaforico, rimangono comunque estremamente narrative, realistiche, mai a dire di più o di meno di quel che serve. La definizione che meglio si presta al cinema di Haneke è appunto quella che stabilisce in una netta pulizia formale il suo tratto più distintivo, eppure ciò non basterebbe a rendere giustizia del suo stile, perché esso si connota anche di suggestioni emozionali - tanto più intense quando inaspettate ed improvvise - che contribuiscono a sublimare esteticamente anche gli elementi più disturbanti o tragici (come ne La Pianista o Funny Games, ad esempio).
E del resto non saprei in quale altra maniera definire, se non appropriandomi degli elementi dell’estetica del sublime, la scena in cui il protagonista di Amour soffoca la moglie con un cuscino o anche accosta il suo corpo al suo per aiutarla a scendere dalla sedia a rotella in un abbraccio che è una fusione, che è tragico (la moglie sta progressivamente perdendo le proprie facoltà fisiche), ma che anche riecheggia l’abbraccio degli amanti che sono stati e che ancora continuano ad essere, in una reiterazione di quell’amore che nemmeno la malattia riesce a stroncare. Sublimazione della realtà, ma sempre restando fortemente ancorati sul piano della rappresentazione nuda e cruda e non già su un piano intimista o onirico.
La storia di Amour è presto detta: Georges (straordinario Jean-Louis Trintignant) ed Anne (un’intensa e straziante Emmanuelle Riva), anziana coppia di musicisti molto affiatata ed ancora colma di generose e galanti attenzioni reciproche, al risveglio dopo una bella serata trascorsa a un concerto (tenuto da un ragazzo che fu uno dei loro primi allievi), siedono al tavolo intenti a fare colazione; improvvisamente Anne viene colpita da un obnubilamento mentale, probabilmente un ictus, non sembra sentire, né vedere quello che Georges le sta dicendo, per poi riprendersi dopo un paio di minuti, come se niente fosse, senza essersi resa conto di nulla. Successivamente una visita medica le diagnostica un’ostruzione alla carotide e quindi consiglia un intervento per scongiurare il rischio di un nuovo attacco. Purtroppo l’intervento non ha un esito positivo (la casistica che stabilisce il fattore rischio, seppur minimo, comprende soggetti reali e non solo numeri astratti, come illusoriamente si crede),  e Anne rimane paralizzata nel lato destro del corpo, incapace di sorreggersi, di camminare, di vestirsi o lavarsi da sola. Le sue condizioni saranno poi destinate a peggiorare ulteriormente in seguito a un nuovo attacco e comincia così un progressivo e lento deterioramente delle sue facoltà fisiche e mentali. Georges, senza risparmiarsi minimamente, con l’aiuto di un’infermiera a ore, la assiste giorno e notte: un’assistenza che non è mai solo materiale, ma anche soprattutto psicologica, emotiva, tutto intento com’è a non farle mai percepire l’umiliazione e il peso dell’invalidità e sforzandosi di renderle ancora degni di significato i difficilissimi giorni di vita che le sono rimasti. Anne però soffre sempre più visibilmente, si rifiuta persino di farsi vedere dalla figlia (Isabelle Huppert, brava come sempre, nel ruolo forse un po’ troppo algido della figlia preoccupata, ma anche visibilmente un tantino troppo distaccata, presa dalla propria vita sentimentale, gli impegni lavorativi ecc.) e manifesta sempre più lucidamente il desiderio di morire (persino tramite un tentativo di suicidio non andato a buon fine), ma senza smettere di provare gratitudine per un’esistenza che è stata comunque lunga (“è un privilegio aver vissuto così a lungo” dice mentre sfoglia un album di fotografie che ripercorre tutti i momenti della sua vita) densa, piena, ricca di amore per la musica, per l’arte. Haneke riesce ad esprimere visivamente tutta la pienezza della vita di Anne attraverso vari espedienti narrativi, come ad esempio la scena in cui il giovane musicista Alexandre, ex allievo, va a trovarla e ripercorre i momenti delle sue prime lezioni, momenti di vita del passato che colpiscono emotivamente nel contrasto della gioia e progettualità del passato con l’attuale situazione di immobilità di Anne, ma anche tramite l’indugiare continuo della macchina da presa sui vari oggetti, dipinti, soprammobili che arredano la casa della coppia e che restituiscono il senso di un accumulo di esperienze, di giorni, di ricordi. Tutto ciò è fonte di nostalgia e quindi, proprio come l’etimologia del termine indica, fonte di dolore (nostos = ritorno e algos = dolore, quindi dolore dato dal desiderio intenso di voler far ritorno alle origini, o in patria, ma anche all’infanzia, a una condizione che è avvertita come perduta per sempre e per questo fonte inconsolabile di dolore). Da notare come man mano che Anne perde progressivamente la propria autonomia fisica, diventa sempre più simile ad una bambina, ad un’infante che necessita di essere accudita e protetta continuamente (e, proprio come un’infante, “incapace di difendersi”, come dirà Georges ad un’infermiera che era stata troppo brutale nei suoi confronti, costringendola a vedersi riflessa in uno specchio contro la sua volontà e causandole dolore perché, se con la mente ci si può illudere talvolta di essere ancora giovani, lo specchio non mente mai e ci ricorda la nostra caducità e fragilità). Molto suggestiva è anche la scena in cui frammenti di dipinti impressionisti o comunque naturalisti vanno a riempire lo schermo, in una carrellata di immagini che ritraggono il susseguirsi delle stagioni e l’eterno ciclo di nascita-distruzione-morte che appartiene alla natura, a voler definire la morte quale evento semplicemente necessario insito nella naturalità dell’accadere e non come tragedia eccezionale.
Direi che Amour in questo senso non è solo un film che testimonia l’amore di coppia, l’amore per la vita che è stata, in tutte le sue manifestazioni, ma anche dell’amore inteso come accettazione della vecchiaia e quindi della morte. Una morte che appare infine non già come dramma, ma come necessità, come liberazione, come atto di amore. E la scena del piccione che più volte entra nell’appartamento e che infine, pure se catturato e stretto in maniera convulsa al petto in un bisogno di calore, di contatto fisico, di affetto ricambiato, ma poi liberato, sta proprio a significare questa consapevolezza nell’accettare di voler lasciar andare chi si ama: giacché l’amore non può mai essere possesso, bensì liberazione, bensì scioglimento di ogni vincolo e catena. E così quel corpo tanto amato di Anne, ora che non può più essere fonte di gioia e piacere, ma solo di sofferenza, ora che è diventato peso insopportabile da gestire per Georges, soprattutto psicologicamente, ma anche fisicamente - essendo anche lui ormai anziano e visibilmente lento e affaticato negli spostamenti - ora che non è più un mezzo per agire la propria volontà, ma solo involucro costringente, forma che opprime ed imprigiona, dev’essere liberato, sciolto dal vincolo di un esistere ormai meccanico, fine a sé stesso. E così si vede Georges, dopo che ha compiuto l’ultimo atto di amore verso colei che è stata la compagna di una vita, uscire per sempre da quell’appartamento ormai ingombro di cianfrusaglie che non hanno più senso - ma che pure lo hanno avuto - insieme ad una Anne ancora viva e sana, per continuare in un altrove indefinito quell’amore che la morte non ha distrutto.
A mio avviso, c’è una differenza sostanziale tra il film di Haneke (ricordiamo che ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes 2012, secondo me meritatissima) e tutti i film o le altre opere sulla vecchiaia, anche letterarie (penso ad esempio a quel piccolo gioiello che è Everyman di Philip Roth) in quanto se in molte di esse la vecchiaia e la malattia vengono viste come una tragica condanna preludio della condanna ultima che è la morte, in un’accezione pessimista, quando non addirittura del tutto nichilista, quindi anche la vita stessa - l’atto stesso del venire al mondo - è intesa come condanna e fonte di dolore, in Amour invece la malattia e la vecchiaia vengono vissute semplicemente come una delle inevitabili stagioni dell’esistenza, inserite nel ciclo naturale che va dalla nascita sino alla morte, un ciclo che dispensa i suoi doni, così come le sue disgrazie e che porta l'estinzione fisica come compimento, come liberazione quando il corpo diviene infine solo forma opprimente; come un evento da accettare, non da rimuovere. La morte come parte della vita e l'amore per la vita come conseguente accettazione di ogni suo aspetto.

(ringrazio l'amico Rocco per il contributo delle sue riflessioni durante una piacevole chiacchierata all'uscita del cinema).


sabato 27 ottobre 2012

La banalità del dialogo


Non esistono nemici da abbattere, ma solo animali umani e non umani da liberare. Considerando lo specismo non più come un pregiudizio morale, ma come il risultato effettivo della consolidata prassi dello sfruttamento del vivente che prosegue pressoché indisturbata da migliaia di anni, non avrebbe molto senso imputare al singolo la responsabilità delle proprie scelte individuali (alimentari, di vita ecc.)  in quanto queste si formano e consolidano all’interno di un paradigma sociale che ne dirotta in parte o totalmente l’orientamento. Detto in altri termini, è la società che condiziona l’individuo a compiere determinati atti ritenuti più o meno legittimi in seno alla cultura nella quale si viene a trovare, condizione questa che rende vano e persino dannoso l’atteggiamento di chi aggredisce o colpevolizza il singolo il quale, agendo al riparo di consuetudini e leggi consolidate, non si interroga sulla legittimità delle stesse.

martedì 23 ottobre 2012

Leggere John Fante è sempre una piacevole ri-scoperta


Deker Road si snodava sulle montagne come un serpente che strisciando scappava dal mare. Era una giornata bellissima, sulla strada deserta non incontrai neanche una macchina né in un senso né nell’altro mentre percorrevo le quindici miglia fino alla cima di Mulholland Drive.
Il cartello diceva “Autorimessa Griswold”. Imboccai lentamente la deviazione ed entrai con la familiare nella valletta a cento metri sotto la strada. Il posto era un caos totale. Automobili e frigoriferi abbandonati, macchinari agricoli arrugginiti, cataste di legna, pile di pneumatici, bidoni dell’olio e sedili di macchine. C’erano dei polli dappertutto, e raspavano nella terra rossiccia. Un paio di asini mangiavano le erbacce che crescevano sulla collina.
Mi fermai davanti a un rimorchio appoggiato a dei ceppi, aveva la parte anteriore decorata con targhe, conchiglie, reti da pesca, zucche e stelle marine. Sopra la porta, un’unica parola esprimeva il sentimento di Griswold nei confronti della guerra: Pace!
Quando scesi dalla macchina, apparve, era sulla quarantina, basso, il tipo del bravaccio, con la barba rossa, dei jeans e una maglietta. Masticava tabacco.
«Sì, signore».
«Sono venuto a vedere il cane».
« È lo sceneggiatore?».
«Esatto».
«Venga».
Camminammo per venti metri, fino a un recinto quadrato, fatto di pezzetti di latta e legno, alto tre piedi. Griswold vi lanciò uno sputo di tabacco al di sopra.
« È lui?».
Gli andai accanto e guardai lì dentro. Sulla terra rossa non c’era più nessuna vegetazione. Nell’angolo, su un giaciglio di paglia, c’era Stupido. Una tettoia bassa lo proteggeva dal sole. Sembrava addormentato, e quando lo chiamai alzò appena la testa e scodinzolò riconoscendomi. Poi affondò di nuovo nelle stoppie. « È il mio cane», dissi.
Ci fu un movimento nelle profondità della paglia. Fece alzare Stupido che emerse piano e indistintamente. Era un maiale, un maiale bianco con macchie rossastre, che mettendosi in piedi spostò il cane. Guardò verso Griswold e me, e vedendoci grugnì felice, con i fuscelli che gli cadeva dal dorso mentre trotterellava verso di noi.
«Quella è Emma», disse Griswold.
Era giovane e tonda come una palla di neve, aveva mammelle bianche che rimbalzavano e un eterno sorriso sulla faccia serena. Venne direttamente da me guardandomi con occhi azzurri luccicanti, e il grugno le tremò per il piacere. Griswold abbassò la mano e lei ci si strusciò contro. Anch’io abbassai la mano e quando il mio palmo toccò il suo naso caldo, sbavò di felicità. Stupido le corse subito accanto, e le leccò le labbra e gli occhi. Era pazzo di lei.
«Quanti anni ha?».
«Due. Me l’ha data il vicino per la messa a punto dei freni».
«Perché sono insieme?».
«L’ha scelto il cane, non io. Saltava sempre nel recinto».
«Succede qualcosa fra loro? Voglio dire, si piacciono?».
Griswold si agitò.
«Niente di personale, Griswold. È un cane molto eccentrico». Sputò del tabacco. «Per la verità ci ha provato un paio di volte, ma lei lo ha sistemato. Ora si comporta bene. Sa che penso? Penso che lui creda che Emma sia sua madre».
La scrofa attraversò il recinto dirigendosi a un rubinetto dal quale gocciolava acqua in una vasca, e Stupido la seguì. Lei bevve, e così lui. Poi Emma trotterellò ancora da noi, guardandomi con passione, e Stupido la raggiunse e le leccò via la paglia dalla schiena liscia. L’ammirava terribilmente.
All’improvviso un umore giocoso si impossessò del cane. Si buttò sulla pancia e abbaiò un paio di volte verso il maiale. Poi partì correndo in circolo, abbaiando, piombandole accanto, gettandosi sulla schiena, provocandola, geloso dell’attenzione che ci dimostrava. Lei grugnì e gli andò dietro sulle sue gambette bianche, e lui si fece raggiungere. Lei lo spinse contro il recinto, con i suoi cento chili che rotolavano addosso al cane che le mordicchiava gentilmente le orecchie. Poi lei perse la pazienza e gli morse una gamba. Con un ululato, lui si diresse zoppicando verso il giaciglio di paglia e ci si stese sopra.
«Avranno nostalgia l’uno dell’altra», dissi.
«Non per molto. Fra un paio di giorni la macello».
Lo fissai. «Macellarla?».
« È un fantastico maiale da pancetta. Guardi che spalle».
Emma mi sorrise come se fossimo dovuti rimanere insieme per sempre.
«Le sparerà?».
«Si appendono per le zampe posteriori e gli si taglia la gola. Così perdono bene tutto il sangue».
Eccolo lì, con la sua faccia calma e barbuta e Pace scritto sulla porta, che pianificava l’assassinio di quell’amabile creatura. Dovetti scappare, via da lui e dal giocoso sorriso di quel maiale adorante. Tirai fuori il portafoglio e gli contai trecento dollari sul suo palmo calloso.
Stupido non si lamentò quando lo tirammo via dal recinto, legato a una fune, ma sembrò piangere in silenzio mentre cercava di liberarsi dalla corda annodata, e l’infelice Emma grugnì e sospirò fino a quando non arrivammo al cancello. Lo issammo nella familiare e chiudemmo lo sportello posteriore. Allora cominciò a ululare, a grattare ai finestrini, scivolando sulle zampe, i suoi urli perforavano le orecchie degli asini lontani e i polli si misero a chiocciare quasi presi dal panico.
Maria.
Guardai ancora nel recinto. Il maiale era sulle zampe posteriori e cercava di vedere oltre lo steccato, ma era troppo basso, e si riusciva a scorgere soltanto il grugno.
Maria.
Salutai Griswold e salii in macchina mentre il cane quasi impazzito saltava e graffiava il finestrino posteriore.
«Le piacerebbe un bell’arrosto di maiale?», disse Griswold.
«Non particolarmente».
«Gliene farò avere uno».
Maria.
«Griswold», dissi. «Sa che farei se fosse mio?».
Sputò del tabacco.
«Lo chiamerei Maria, come mia madre».
«Divertente».
«Non intendo paragonare mia madre a un maiale, Griswold, ma anche lei sorrideva sempre».
«Davvero?».
Misi in moto.
«Quanto vuole per lei, Griswold?».
«Non è in vendita».
«Quanto?».
Si avvicinò e appoggiò le mani sul tetto della macchina.
«La vuole veramente?».
«Sì».
Mi guardò strizzando gli occhi come uno che prende la mira sulla canna del fucile.
«Trecento».
«Detesto essere crudo, Griswold, ma lei è uno stronzo. Affare fatto».
Sorrise.
Levai altri trecento dollari e lui li intascò. Adesso Roma era proprio andata. Feci retromarcia fino al recinto e spingemmo Maria nel bagagliaio. Stupido era fuori di sé dalla felicità, saltava così in alto da picchiare la testa contro il tetto. Grugnendo eccitato, il maiale slittava sul pavimento e alla fine trovò una posizione comoda e sicura in un angolo. Stupido vide una macchia sulla sua pancia e prontamente la cancellò con la lingua.
«Che gli dà da mangiare, Griswold?».
«Spazzatura. Ho un accordo con il Decker Inn. Tutta la spazzatura che voglio per cinque dollari al mese. Lo può fare anche lei. Si porti la pattumiera».
«No, grazie. Da ora in poi questo maiale mangerà solo cereali e grano».
Griswold sputò e mi guardò prendendomi in giro.
«Vuole comprare una buona pattumiera?».
«Ce l’ho già».

(da Il mio cane Stupido - A ovest di Roma - John Fante

Un grazie speciale a Dinamo Seligneri (lui sa perché) :-)

L'antispecismo per strada, in mezzo alla gente: impressioni di una domenica trascorsa a presidiare contro un circo



Ieri ho partecipato al mio primo presidio contro il circo, organizzato da Per Animalia Veritas (che ringrazio!) e tenutosi a Marino (RM), dove appunto dal 18 al 23 ottobre staziona il circo Orfei (uno dei tanti Orfei, ma quanti sono?). Abbiamo cercato di distribuire materiale informativo lungo il perimetro antistante il piazzale dove è piazzato il tendone, con annessa biglietteria, camion contenenti i vari animali e di tutto un po’. Inoltre sono stati posizionati cartelloni con foto che mostrano la vera realtà di quello che avviene dietro le quinte dello “spettacolo” circense, ossia animali tenuti dentro gabbie e recinti piccolissimi e costretti a subire i vari tipi di addestramento al fine di eseguire determinati numeri che dovrebbero sollazzare il pubblico (composto per lo più da bambini ignari e da genitori inconsapevoli o indifferenti al maltrattamento degli animali).
Per avere un’idea più precisa della maniera in cui vengono addestrati gli animali (leoni, tigri, elefanti, cammelli, giraffe, scimmie ed altro) nei circhi vi consiglio di leggere questo articolo ben documentato.
Devo dire che è stata una giornata altamente istruttiva (anche se triste, vedere ad esempio un leone completamente rassegnato e palesemente depresso adagiato su una piccola porzione di asfalto racchiusa da un recinto metallico non mi ha fatto bene. Lo sguardo di quel leone è in grado di esprimere tutto lo strazio di anni ed anni di prigionia, percosse ed umiliazioni con molta più eloquenza di quanto mille parole spese sull’argomento potrebbero mai raggiungere) perché mi sono resa conto che interloquire con le persone è davvero un compito molto difficile e frustrante.
Scrivere di antispecismo al computer è cosa che mi riesce abbastanza bene: ho idee piuttosto chiare, affronto uno o pochi argomenti per volta, ho tutto il tempo di scegliere le parole adatte e soprattutto non ho un contraddittorio diretto, di fronte a me nel momento in cui scrivo, intendo; poi certo, qui chi legge può lasciare un commento, farmi domande, criticare le mie idee, ma di nuovo ho poi tutto il tempo di rispondere ed argomentare nella maniera che reputo più efficace.
Chi ha fatto e fa attivismo sa invece che l’incontro/scontro con l’altro è tutto un altro paio di maniche; c’è chi si dispone ad ascoltare, chi tira dritto senza nemmeno guardarti negli occhi, ma c’è anche chi risponde o palesemente ti scoppia a ridere in faccia (se non peggio, qualcuno insulta anche infatti).
Dunque, le persone che ho fermato ieri, genitori con bambini soprattutto, ma anche coppie di giovani ragazzi e qualche nonno con nipotini, le ho suddivise in varie categorie: la prima, quella di chi va di fretta, pensa che gli vuoi vendere qualcosa o dare qualche depliant pubblicitario e quindi prende al volo l’opuscolo informativo, ma senza nemmeno domandarsi che cosa gli stai dando perché comunque mentre gli parli non ti ascolta, si vede chiaramente dallo sguardo assente che fa scivolare in maniera indifferente su di te; suppongo che fatto qualche passo getterà l’opuscolo direttamente a terra o nel primo cestino che gli capita sotto mano; la seconda, questa:

Io - scusi, lei sa cosa sta andando a vedere esattamente? Sa come vengono addestrati gli animali a compiere i vari numeri cui assisterete tra poco? Sa che genere di vita sono costretti a sopportare questi poveri animali?
 
Signora/e - Lo so, lo so...

Io - ah, lo sa. E perché ci va allora? 

Signora/e- eh, ormai sto qua, l’ho promesso al bambino.

Poi ci sono quelli che:

Io - (come sopra: le domande sono sempre le stesse: sapete come vengono addestrati gli animali ecc.?)

Signora/e - Non lo so e non lo voglio sapere, non mi interessa (con varianti: non me ne frega niente, non mi importa, pensate agli esseri umani piuttosto, ai bambini che muoiono di fame ecc. ecc.).

Io - ma come, non le importa di sapere che là dentro ci sono animali maltrattati?

Signora/e - no, non mi interessa.

E poi quelli, i casi più difficili (con una signora, io ed un’altra ragazza abbiamo parlato per dieci minuti buoni):

Io - (sempre come sopra)

Signora/e - quello che fate non serve a niente perché tanto questi animali non potranno mai essere rimessi in libertà, sono nati in cattività e in cattività moriranno, la savana nemmeno l’hanno mai vista.

Io - purtroppo questo è vero, ma, a parte che li si potrebbe sempre liberare all’interno di un parco protetto e gestito da volontari dove comunque vivrebbero in condizioni migliori e soprattutto non sarebbero più costretti ad esibirsi e ad eseguire esercizi ridicoli, comunque sia noi cerchiamo di sensibilizzare affinché sempre più gente sappia cosa avviene e sia sempre meno disposta a pagare per assistere a questi spettacoli. Sicuramente non convinceremo oggi molte di queste persone a non entrare al circo, ma magari alcune di loro la prossima volta, dopo aver saputo, decideranno di non portarci più i loro bambini. Magari tra qualche anno nessuno vorrà più vedere circhi con animali e quindi non ci saranno più animali prigionieri dei circensi.

Signora/e - ma non cambia niente comunque, ci saranno comunque gli zoo e i macelli ecc. ecc.

Io - eh, ma infatti noi lottiamo per porre fine a tutte queste forme di prigionia e maltrattamento...

Signora/e - ma non ci riuscirete mai, gli animali sono sfruttati da sempre e sempre saranno sfruttati, il mondo va così...

Io - il mondo va così perché la gente si rassegna a che vada così. Se intanto ci dessimo da fare tutti per abolire via via tutte queste forme di sfruttamento...

Signora/e - ma lo sfruttamento è troppo generale, sono tantissimi i settori, non serve a nulla che voi state qua oggi, io vi rispetto ed ammiro, ma state perdendo il vostro tempo. 

Io - Ma, io non la vedo in questa maniera, comunque lei che fa, ci va al circo oggi?

Signora/e - eccerto, ci porto la bambina, ormai gliel’ho promesso...

E poi c’è chi:

Io - (sempre stesse domande per approcciare le varie famiglie)

Signora/e - i vostri metodi non mi piacciono, fate vedere queste foto di animali maltrattati, i bambini si spaventano, non è giusto che vedano queste orribili foto, guardi mio figlio come si è rattristato, pensa che noi lo stiamo portando ad assistere a un massacro invece che ad uno spettacolo divertente!

Io - eh, ma infatti signora guardi che proprio di questo si tratta, si tratta di uno spettacolo che per essere realizzato comporta il fatto che venga esercitata violenza sugli animali e credo che i bambini debbano conoscere la verità, debbano sapere che gli animali al circo non si divertono affatto! Mi spiace se si spaventano, ma non siamo noi a spaventarli, è il circo con animali ad essere mostruoso!

Signora/e - ma il bambino è troppo piccolo per capire, è inutile che gli si dica che gli animali soffrono.

Io - ma scusi, ma perché portarcelo? Forse è piccolo per comprendere le varie tecniche di addestramento e ancora troppo piccolo per parlargli della violenza che avviene nel mondo sui più deboli ad opera di chi è più forte, ma il rispetto dell’altro si impara sin da piccoli; portandolo al circo lei non lo sta educando al rispetto, ma all’assuefazione della violenza e del maltrattamento sugli animali.

Signora/e - mio figlio lo educo come mi pare a me! 

Io - bene, lo educhi alle menzogne e alla violenza allora! Contenta lei!

E poi ci sono stati quelli che hanno gettato a terra gli opuscoli informativi con fare stizzito ed indignato, come se gli avessimo messo in mano chissà quale porcheria. Quelli che sfottevano e ridevano, quelli che hanno detto che ci sono cose più importanti cui pensare, quelli che pensano che noi ci inventiamo tutto, che le foto sono finte, che in realtà gli animali nei circhi sono trattati bene e vivono felici e contenti (il leone contento di saltare da uno sgabello all’altro allo schioccar della frusta, l’elefante felice di sedersi su uno sgabello come fosse un essere umano, l’ippopotamo gioioso di eseguire chissà quale numero e di essere addobbato con tanti lustrini e pennacchi; eppure gli sguardi del leone e dell’elefante li ho visti... e non mi sembravano proprio tanto felici).
In generale l’idea che mi sono fatta è che tante persone proprio non si pongano il problema di quello che avviene dietro le quinte, per loro esiste solo il momento dello spettacolo e quello che conta è far vedere tutti questi animali “esotici” dal vivo ai bambini; poi mi è parso che ci sia grande indifferenza, una grande ottusità mentale, un muro immenso di menefreghismo senza alcuna possibilità di aprirci una qualche minima breccia, una scorza durissima di certezze, luoghi comuni, pregiudizi, ignoranza senza che ci sia la purché minima possibilità di scalfirla.
La categoria maggiore era rappresentata da quelli che ammettevano di sapere cosa avviene, di sapere, eppure avevano lo stesso una gran fretta di entrare. Facevano pure l’espressione rattristata per qualche secondo, ammettevano che era una cosa terribile, ma entravano lo stesso. Per non deludere il bambino.
Ed è così che poi si educano i bambini allo spettacolo della violenza, della sopraffazione del più forte sul più debole, dell’umiliazione dell’altro sol perché diverso. E mi son fatta anche una mezza idea che per tanti vedere la maestosità del leone o della tigre piegata ed umiliata a suon di schiocco di frusta debba essere una specie di insana rivincita, una rivalsa perversa dell’animo per cui la propria piccolezza e limitatezza ha come l’illusione di espandersi e di farsi grande nel momento in cui la grandiosità animale piega le testa ed appare finalmente domata. Dev’essere che tanti di noi sono così talmente assuefatti all’idea delle gabbie - fisiche e mentali, le gabbie delle sovrastrutture sociali, della cultura, della religione, delle varie ingannevoli mitologie  - da riuscirgli quasi insopportabile il pensiero di una natura animale indomita, libera e selvaggia e quindi provano forse un sotterraneo, nascosto e privato piacere nel vedere lo spettacolo della tigre umiliata a saltare nel cerchio di fuoco o del leone agghindato come un peluche. Altrimenti non saprei in quale altro modo spiegarmi i sorrisetti maligni di tanti genitori, i risolini sprezzanti di fronte ai nostri sguardi corrucciati mentre parlavamo dei terribili metodi di addestramento.
Poche famiglie, anche dietro volontà dei bambini cui gli è stato spiegato cosa vien fatto agli animali e come vengono costretti a vivere, hanno deciso di tornare indietro, hanno rinunciato ad entrare.

Un’altra idea che mi sono fatta è che questi opuscoli informativi andrebbero distribuiti nei giorni prima dello spettacolo perché è ovvio che il giorno stesso poi i genitori, per non deludere i bambini, per non volergli spiegare, comunque entreranno. Certo, è anche necessario d’altra parte essere presenti a questi eventi perché più volantini si distribuiranno, più si informa, più magari la volta successiva queste persone potranno decidere di non andarci più. Comunque sia, in ognuno dei casi, fare attivismo in questa maniera è certamente molto più faticoso di stare qui a scrivere, faticoso mentalmente intendo, proprio perché frustrante, ma anche tanto tanto istruttivo perché ci si rende meglio conto di che mondo c’è la fuori, di quale tipologia di persone è più aperta e sensibile all’argomento e di quale invece completamente chiusa, restia ad ogni tipo di confronto ed informazione. È che a volte, diffondendo le idee antispeciste sempre tramite i blog o altri social network, comunicando e confrontandosi sempre tramite internet, si rischia di perdere di vista la realtà del mondo fuori, cioè una realtà fatta perlopiù di persone ignare - o, nella migliore delle ipotesi, indifferenti - dello sfruttamento degli animali. Scendere in strada, fermare la gente, fargli domande, parlarci invece dà il metro di quale immenso lavoro ci sia ancora da fare per diffondere l’antispecismo e per fare in modo che sia sempre meno quell’idea astrusa che ai più deve sembrare al momento.
Con questo non intendo affatto sminuire il lavoro di chi scrive e basta, ma solo porre l’accento sulla necessità che abbiamo, noi antispecisti, di unirci e di cooperare anche con l’attivismo vero e proprio, qualsiasi sia la maniera di intenderlo (presidi, manifestazioni, volantinaggio, liberazioni, volontariato per aiutare animali in difficoltà).
Non è vero, come ha detto quella signora, che tanto sarà tutto inutile. Ogni contributo è prezioso! 

lunedì 22 ottobre 2012

Il comandante e la cicogna

Se le statue potessero parlare, cosa direbbero di questo nostro paese che sta andando in rovina, una rovina non solo materiale, ma proprio interiore, morale, come se un cancro ne stesse divorando le radici rendendolo sempre più marcescente? 

domenica 21 ottobre 2012

Esiste anche una cultura "de 'sta minchia"

Una volta per tutte: il termine cultura non esprime necessariamente un qualcosa di più elevato rispetto ad altro e non nobilita automaticamente tutto ciò cui si riferisce. 
"Con il termine cultura si vuole denominare il complesso delle attività e dei prodotti intellettuali e manuali dell'uomo in società, quali che ne siano le forme e i contenuti, l'orientamento e il grado di complessità o di consapevolezza, e quale che ne sia la distanza dalle concezioni e dai comportamenti che nella nostra società vengono più o meno ufficialmente riconosciuti come veri, giusti, buoni, e più in generale "culturali". In questo senso sono "cultura" anche certe pratiche e osservanze che per alcuni aspetti qualificheremmo come forme di "ignoranza" (ad es. quelle "superstiziose"): sono cultura nel senso che costituiscono anch'esse un modo di concepire (e di vivere) il mondo e la vita, che può piacerci o no (e che spesso, anzi, devi dispiacerci) ecc. ecc." (Alberto M. Cirese).

Secondo quanto sopra tutto ciò che l'uomo produce in società (di materiale e di intellettuale) è da intendersi quindi come "cultura" ed avrà un interesse per l'antropologo che vorrà farne oggetto di studio (in questo senso tutto merita la dovuta attenzione), ma non tutto ciò che produce l'uomo è di per ciò solo anche automaticamente portatore di un valore positivo o di un contenuto nobile; ad esempio alcune pratiche superstiziose, per quanto riflettano e "facciano" la cultura di un popolo, non sono certamente da considerarsi un qualcosa di intellettualmente elevato.
Anche la schiavitù dei neri costituiva, in questo senso, cultura, in quanto era il prodotto di una data società in una data epoca. Non per questo non si è ritenuto che non fosse giusto abolirla nel momento in cui ci si è resi conto che essa rifletteva consuetudini e pregiudizi razziali ormai superati. Questo per dire che molte pratiche culturali sono destinate ad evolversi o a scomparire del tutto nel tempo, soprattutto qualora non riflettano più i valori e la sensibilità corrente.
Molte usanze e tradizioni sono lo specchio di una cultura ormai superata, ma continuano ad essere tenute in piedi a causa di questo equivoco per cui se un qualcosa persiste dal passato, allora deve essere di per ciò solo degno di essere mantenuto. Così è per la corrida, ad esempio, da molti difesa in quanto rifletterebbe, appunto, alcuni aspetti legati alla cultura di un popolo, in quanto sarebbe e farebbe essa stessa "cultura". Ora, ci sono aspetti della cultura di un popolo di cui invece, con il progredire dei diritti universalmente riconosciuti agli esseri umani e di quelli che ormai sarebbe giusto riconoscere agli animali non umani, sarebbe bene mettere da parte, dismettere completamente, abolire.
Faccio notare che, nell'accezione antropologica di cui sopra (ossia degna di interesse per l'antropologo che si accinge a studiare un popolo) anche l'orrenda pratica dell'infibulazione è ritenuta "cultura", in quanto prodotto di un determinato paese. Eppure nessuno di noi si sognerebbe di approvarla, e questo non perché, si badi bene, ci accostiamo negligentemente ad essa portandoci dietro il vizio etnocentrico, bensì perché non più in linea con quei diritti umani che dovrebbero essere universalmente riconosciuti. 
L'etica della nonviolenza sui più deboli, del rispetto del vivente purtroppo non è ancora estesa agli animali non umani, ma dovrebbe, in quanto capaci di sentire, soffrire, fare esperienza della realtà esattamente come noi, sebbene ogni specie secondo le proprie abilità cognitive (ciò per cui lottiamo noi antispecisti). Continuare a difendere pratiche lesive di questo diritto alla vita, noncuranti del rispetto dell'altrui vita con la scusa che sono "cultura", pratiche ad esempio quali la corrida, la caccia, l'uso degli animali nei circhi significa, semplicemente, voler continuare a difendere una barbarie d'altri tempi. 
Questo lo dico perché sono rimasta molto colpita (negativamente) da una frase che Sgarbi ha pronunciato durante un dibattito di qualche giorno fa su Unomattina (invero un dibattito di un livello molto molto basso, talmente basso che ammetto di non avercela fatta a seguirlo fino alla fine) in cui, insieme ad altri personaggi (Giovanardi, Livio Togni e Meluzzi - quest'ultimo poi non so chi sia) difendeva l'uso degli animali nei circhi; la frase che mi ha fatto sobbalzare sulla sedia è stata: "il circo è un luogo di cultura, di storia, di civiltà...". Ora, caro Sgarbi, lei dovrebbe sapere che tutto è cultura, persino trasmissioni televisive molto trash quali i vari reality sono cultura in quanto prodotto di una data epoca, la nostra, eppure non necessariamente tutto merita di essere difeso ad oltranza sol perché, appunto, cultura. In quanto al circo luogo di storia, certamente esso lo è, ma di quale storia stiamo parlando? La storia dello sfruttamento degli animali da parte dell'uomo, appunto; la storia dell'uso ed abuso di tanti esseri viventi senzienti che vengono costretti a vivere dentro una gabbia, ammaestrati con l'uso della forza e con l'esercizio quotidiano di una violenza che è fisica e psicologica insieme (vorrei vedere lei, caro Sgarbi, costretto a saltare dentro cerchi di fuoco o a compiere acrobazie per le quali il suo corpo non è naturalmente portato, dicesi infatti esercizi contro-natura e obbligato a svolgerli dietro il timore della privazione del cibo o delle percosse e pungolamenti con bastoni elettrici); infine, in quanto al circo come esempio di civiltà, mi domando a questo punto quale sia il suo concetto di civiltà: quello dell'esercizio della sopraffazione sul più debole? Delle botte? Della privazione della libertà? E cosa imparerebbero i bambini assistendo al circo con animali? Che una tigre deve stare dentro una gabbia? Che un elefante sale su un piedistallo ed alza la zampa a comando? Che una scimmia deve eseguire numeri da pagliaccio indossando ridicoli abiti? Ma di quale civiltà stiamo parlando? Ma io direi piuttosto che qui si tratta di vera e propria INciviltà.
Insomma, non mi stupisco della difesa del circo con animali da parte di Giovanardi, tanto meno di quella di Togni (è il suo lavoro), ma che Sgarbi difenda l'uso degli animali nei circhi ricorrendo al termine "cultura" per indicarne un presunto valore, sinceramente mi ha lasciata un po' interdetta.

Finisco col riportare il suggerimento di Serena di Mangiarfiori (copio direttamente quanto da lei scritto): "scriviamo in massa ad unomattina@rai.it per chiedere di organizzare qualcosa che offra un punto di vista alternativo sulla questione. Leonardo Caffo si è già messo a disposizione, ma si possono proporre nomi diversi: presidenti di associazioni, filosofi, attivisti, ecc. Diventa sempre più necessario penetrare all’interno dei media che, in pochi minuti, riescono a distruggere il lavoro di anni delle associazioni."

Aggiungo che non è più possibile sopportare che i media si occupino in maniera così dilettantesca, cialtronesca e buffonesca di argomenti seri come l'antispecismo, facendo comparire personaggi che sono, o dichiaratamente di parte (come allevatori, domatori di circo, vivisettori ecc.) o che si mostrano totalmente impreparati sull'argomento, vittime di pregiudizi e dei più banali luoghi comuni sull'argomento. Che c'entrava Sgarbi a parlare di animalismo? Perché non chiamare un vero attivista, un filosofo, il rappresentante di qualche seria associazione seriamente interessata a difendere i diritti degli animali? Non se ne può più di sentir parlare di animalismo/antispecismo in questi salotti mediatici in cui viene invitata la velina o la soubrettina di turno (con tutto il rispetto per chi svolge queste professioni, ma che appunto si dedichi a quello che sa fare e di cui si occupa) o il personaggio che fa audience solo perché strilla a squarciagola.

mercoledì 17 ottobre 2012

"ANIMAL Studies. Rivista italiana di antispecismo" presto in libreria!

È ormai imminente l'uscita del primo numero - dedicato alle "politiche della natura" e curato da Marco Maurizi - di "ANIMAL Studies. Rivista italiana di antispecismo" (ne avevo parlato anche qui); già dai primi di novembre sarà possibile trovarlo nel circuito distributivo delle librerie, inoltre ricordo, a chi fosse interessato, che sarà possibile anche sottoscrivere l'abbonamento. 

Un brindisi virtuale con tutta la redazione (di cui la sottoscritta fa orgogliosamente parte, a proposito, nel primo numero ci sarà la mia recensione di un romanzo di James G. Ballard, "Il Paradiso del Diavolo") e con tutti voi. :-) Intanto metto qualche link utile qui sotto, compresa un'anteprima gratuita del numero con indice ed editoriale.

Buona lettura! :-)

Il circuito distributivo delle librerie

L'acquisto online.

L'abbonamento

Un'anteprima gratuita del numero con indice ed editoriale

venerdì 12 ottobre 2012

Una riflessione impopolare

In merito alla vicenda del bambino trascinato a forza dalla polizia di cui si sta parlando moltissimo. 
Le urla del bimbo hanno, giustamente, indignato tutti. Un bimbo non si tratta in quella maniera, se proprio si doveva eseguire un ordine giudiziario, si potevano adottare altri metodi, altre maniere. Non si trascina a forza dentro una macchina un bimbo che scalcia, piange, urla. 
Giusto riflettere su quanto è successo, al limite rivedere le norme giuridiche. Non voglio però qui entrare nel merito della vicenda. Voglio riportare un pensiero che mi è venuto e che non intendo censurare, seppure so bene che molti di voi lo troveranno inappropriato.
Perché la scena di un bimbo che viene separato dalla madre suscita immediata rabbia, indignazione, profonda empatia, mentre quando ciò accade - ed accade spessissimo - ad un animale, lo si considera un fatto "naturale", "normale"? 
La madre del bimbo ha detto: "un bambino non si tratta come un animale" (o qualcosa del genere), espressione che lascia sottointendere che invece un animale PUÒ essere trattato così, PUÒ impunemente essere sottratto a forza alla madre e trascinato via in maniera violenta, pure se c'è opposizione palese da parte sua, pure se piange, si lamenta, urla, punta le zampe a terra. 

Non c'è niente di più straziante del lamento di un vitellino e di una mucca che vengono separati. Piangono giorni e notti interi. E tutto questo per produrre il latte, che non è nemmeno un alimento necessario alla specie umana, in quanto noi, come tutti i mammiferi, abbisognamo del latte solo quando siamo piccoli. 
Ci sono persone, anche molto istruite, convinte che la mucca produca il latte, SEMPRE. Il che sarebbe un po' come pensare che una donna sia in grado di allattare, SEMPRE, e non solo dopo una gravidanza.
Dunque, anche le mucche, essendo mammiferi, come noi, come altri animali, producono il latte SOLO DOPO aver partorito il vitellino e ne producono una quantità sufficiente per sfamarlo. E invece quel latte che sarebbe destinato a lui viene destinato all'uomo, quindi il vitellino, appena nato, quando ancora si regge a malapena in piedi, viene separato dalla madre (è un cucciolo e come tutti i cuccioli ha un bisogno estremo, non solo fisico, biologico, ma proprio affettivo, emotivo, di stare accanto alla propria madre), nutrito in maniera tale che le sue carni restino bianche (anemiche) perché così richiede il mercato, e presto condotto al macello. La mucca verrà di nuovo ingravidata artificialmente per essere destinata a riprovare lo stesso straziante e dolorosissimo strappo, quello dell'ennesimo cucciolo che le verrà nuovamente sottratto. Un dolore che si ripete ogni giorno, in ogni angolo del mondo. Un dolore lacerante che la mucca proverà abbastanza volte nella vita, fino a che, sfinita dalle troppe gravidanze e spremuta dalla mungitura meccanica continua - preciso che sarà artificialmente costretta a produrre latte in quantità straordinariamente superiore a quella che produrrebbe in natura  e che la continua mungitura le provocherà mastiti, infezioni di vario tipo, prolassi ed altro ancora - tanto da non potersi più reggere in piedi (il famoso caso delle "mucche a terra", incapaci di salire autonomamente sui tir destinati al macello e quindi trascinate a forza tramite ganci applicati alle zampe; e questo perché la legge prevede che un animale deve giungere al macello vivo, quindi pure se ridotta in condizioni pietose alla mucca non verrà nemmeno concesso di risparmiarsi il lugubre viaggio verso la morte, un viaggio in cui sarà riversa a terra, spesso con gli arti rotti e calpestata dai suoi compagni che invece si reggono in piedi), verrà infine condotta al macello. Questo il destino delle mucche da latte, in sintesi: ingravidate artificialmente, costrette a subire più volte nel corso della loro vita il dolore della separazione dal loro vitellino, sfruttate e spremute fino all'inverosimile, infine condotte al macello. 
Ringraziate Dio che non siete nate mucche, che poi, peraltro, tra gli animali più pacifici che si conoscano. Altrimenti vi sarebbe toccata questa sorta e pochissimi si sarebbero indignati e commossi nel momento in cui vi verrebbe strappato il cucciolo. E ringraziate Dio che non siete nati vitelli, altrimenti sareste costretti a subire lo stesso trattamento che ha subito il povero bimbo, trascinato a forza contro la sua volontà. Almeno lui non verrà condotto al macello. I vitellini sì.
Ricordo che in commercio esistono svariati tipi di latte sostitutivi a quello vaccino tutti altrettanto buoni ed utili per produrci tutti i derivati possibili (formaggi freschi e stagionati, ricotta, yougurt ecc.): latte di soia, il più comune, ma anche di riso, di avena ecc..

Queste scene qui, dei vitellini strappati alla madre, NON ve le faranno mai vedere in televisione, mentre su internet bisogna andarsele a cercare spinti dalla curiosità di sapere, di documentarsi ed informarsi su come facciano ad arrivare le buone e fresche mozzarelle sulla nostra tavola. Dunque la scena di un bimbo che urla e scalpita perché viene sottratto alla tutela della madre, indigna, turba, sconvolge - giustamente - tutti; mentre la scena destinata a ripetersi miliardi di volte dei vitellini - ed altri animali ancora, qui ho solo voluto parlare dei caso più eclatante - che vengono separati a forza dalla madre, per poi essere uccisi, non solo non suscita alcun scalpore, nessun tipo di indignazione nei più, ma proprio non è di conoscenza comune, oppure viene totalemente ignorata, rimossa, negata. Non se ne parla, come se non avvenisse. E, quando se ne parla, viene considerato dai più un fatto normale perché i vitelli sono bestie e le bestie meritano di essere trattate come bestie, non come gli esseri viventi senzienti che invece sono, in grado di provare dolore fisico e psichico come noi.

Insomma, che guardando la scena ignobile del povero bimbo urlante trascinato via a forza, che guardando la sua disperazione, vi possa venire in mente anche quella di tutte le migliaia di altri cuccioli che ogni giorno vengono sottratti alla loro madre e che la loro disperazione inascoltata vi susciti un po' di pietà.

Ovviamente, spero sia chiaro a chi mi legge, questa riflessione non intende affatto sminuire o banalizzare il dramma della vicenda di cui è stato vittima il bambino, al contrario, indurre a riflettere sulla "normalizzazione" della violenza che ogni giorno i cuccioli e le madri delle altre specie animali sono costrette a subire. Vorrei quindi indurre a riflettere su quanto NON sia normale quello che avviene negli allevamenti, su quanto sia ingiusto, terribile, mostruoso, così come non è normale ed è stato ingiusto, terribile, mostruoso ciò che ha dovuto subire quel bambino.
Aggiungo poi che questa giustissima e sacrosanta attenzione e tutela del bambino è, tutto sommato - e meno male che ci siamo arrivati! -  un'acquisizione recente. Nel medioevo, ma anche nell'ottocento, i bambini non erano considerati depositari di diritti. E ci sono ancora biechi casi di sfruttamento minorile in varie parti del mondo, ma noi lo consideriamo un comportamento incivile. Ecco, il mio augurio è che un giorno anche i cuccioli delle altre specie e le altre specie in genere possano venire tutelate come l'essere umano. Siamo tutti esseri viventi in fondo. Oltre la pelle, oltre la specie, il cuore batte per tutti. 

mercoledì 10 ottobre 2012

Affinità elettive

Parlo spesso di argomenti tristi e pesanti. Il mio blog porta il titolo di un film in cui si parla della morte. Buona parte dei miei post hanno la parola "morte" nei tag. 
Stasera voglio parlare invece di un cosa bella. Dunque, parte tutto dal fatto che sono una lettrice quasi compulsiva di blog, tanto che da quando ho scoperto il mondo dei blog non riesco più a leggere tanti libri come prima; forse è un bene, forse no. Dipende dai blog, e dai libri, perché ci sono dei blog che valgono tanto quanto e certamente anche di più di alcuni libri.
Come scopro i blog? Spesso per caso. Ossia, di link in link cliccando sui nick che a loro volta lasciano commenti nei vari blog (per decidere di cliccare su un nick, il suo commento mi deve incuriosire, ovviamente). A volte si viene a creare come una specie di labirinto, comincio a vagare di blog in blog, ma poi non riesco più a tornare indietro alla pagina iniziale (perché sono pasticciona, magari l'ho chiusa, oppure nel frattempo ho cancellato la cronologia usando il cleaner, insomma... navigo senza particolare attenzione e senza segnarmi i luoghi in cui approdo, il più delle volte). Altre invece trovo qualcosa che mi colpisce particolarmente e decido di sostarvi più a lungo e a quel punto mi segno il blog in questione ed inizio a leggere con avidità tutti i post pregressi. Ma non succede spesso. Il perché mi sembra ovvio, i blog davvero interessanti sono pochi. La maggior parte sono generalisti, pure se tematici. Molti ironici, divertenti, ma privi di spessore. 
Qualche sera fa sono approdata su questo blog e da allora non faccio che tornarci non appena ho un po' di tempo. Ho anche lasciato svariati commenti, com'è mia abitudine fare per dimostrare apprezzamento verso questa o quella riflessione. Di Jonuzza mi ha colpito inizialmente la capacità di scrittura. Amo la letteratura ed apprezzo la capacità di saper scrivere bene. Mi ha colpito la sua prosa apparentemente sempice, ma che in realtà cela una ricerca accurata della parola. La capacità di rendere e trasmettere anche sensazioni apparentemente ineffabili - ineffabili perché difficili da determinare e descrivere in maniera circostanziata - eppure concrete, reali, pesanti nella loro presenza. La capacità di stimolare il pensiero, la riflessione, di generare altri pensieri o creare immagini facendone rivivere alcune o portandone alla luce altre apparentemente rimosse. La capacità di raccontare esperienze personali, anche personalissime, ma sempre sapendole rendere universali, connotandole di quel tanto che basta affinché ognuno possa sentirle vicine alla propria, di esperienza, pure se diversa. E poi la capacità di restituire certe atmosfere, anche in poche righe. E queste capacità io le ho trovate solo nella grande scrittura.
Poi, come se non bastasse, ovviamente Jonuzza dice anche cose interessantissime, originali, ha un pensiero vivo, che si percepisce essere sempre in movimento. Mi sa che pure lei, come me, è abbastanza ossessionata dalla morte ed oppressa dal quotidiano, dalla pesantezza di certa quotidianità che annebbia ed imbriglia il pensiero. Le ho già fatto i miei complimenti, ma qui volevo dire che alcuni incontri virtuali e vicinanze intellettuali riempiono la vita e le danno un colore nuovo come non mai, pure se fuori tutto resta immutato e vincolato ai soliti problemi. 
Sul suo blog scrive di tantissime cose e tocca un po' tutti gli argomenti: filosofia, ma in maniera vissuta, non pedante, non scolastica (sebbene lei sia un'insegnante e vorrei tanto averla avuto io un'insegnante di filosofia così), ossia infilandola nei racconti semplici delle sue giornate, di quello che vede, che sente; scrive di arte, letteratura, dei suoi figli, dei suoi alunni, scienza, natura, ricordi, attualità, racconta aneddoti personali  ed altro ancora. Un blog come il suo dovrebbe avere migliaia di lettori e ricevere migliaia di commenti, ma i più seguiti, si sa, sono sempre quelli generalisti al massimo, che trattano di tutto in maniera mediocre. Jonuzza invece è capace di scrivere anche dell'inezia più piccola, ma sempre in maniera originale, così che si riesce a trarne una riflessione inedita. Perché alla fine non è vero che ci sono cose più importanti e cose meno importanti su cui scrivere e di cui parlare, è vero invece che una mente intelligente riesce a fare considerazioni interessanti anche sulla lista della spesa. E questa, è per me, la filosofia. Non il metodo, non il pensiero dei grandi imparato a memoria e ripetuto, ma questo continuo interrogarsi e riflettere sulla vita e trarre ispirazione dal pensiero altrui, riuscendo a elaborarlo in maniera personale, aggiungendovi qualcosa di proprio. E questo continuo circolare di idee, di pensieri, questa vivacità intellettuale che scaturisce dagli incontri, anche virtuali, per me rappresentano una specie di linfa vitale.
Leggendo i pensieri altrui a sua volta si generano pensieri nuovi in me. E tornano alla luce cose che credevo dimenticate, come se improvvisamente qualcuno smuovesse la polvere sui miei ricordi. È quello che io chiamo il momento della consapevolezza. Ci sono persone, incontri, che riescono a renderci più presenti a noi stessi, a farci divenire più consapevoli di quello che siamo e vogliamo. 
Ecco, volevo dire che sono felice di aver scoperto il blog di Jonuzza e vi invito a leggerla, secondo me ne vale davvero la pena. La cosa più fantastica è che la si legge con una leggerezza incredibile, eppure le cose che dice sono di una profondità e spessore spesso altrettanto incredibili. I post sono brevi, filano via che è una meraviglia, ma ti lasciano sempre qualcosa. Ha la leggerezza di chi non ha bisogno di ostentare, insieme all'ironia ed al giusto distacco che rende le cose più comprensibili. Un dono. Si può essere d'accordo o meno con quel che dice (finora mi sono trovata a condividere moltissime delle sue riflessioni), ma la meraviglia di una mente che funziona ed incanta è sempre una bella emozione da provare. E leggere qualcuno per il gusto proprio di leggerlo, beh, credo sia l'ambizione massima cui tutti gli scrittori aspirano (cioè farsi leggere per il gusto di essere letti).

Jonuzza, spero che tu non ti infastidisca per questa sorta di mia dichiarazione d'amore intellettuale resa pubblica. :-D 

Ma quel che ho scritto è perché proprio sentivo di dirlo. :-)

martedì 9 ottobre 2012

Un avviso per qualche, spero pochi, navigante della rete

Sinceramente sono stata molto indecisa se scrivere questo post o meno. L'argomento è delicato e non vorrei mai doverne parlare. Eppure esiste, si tratta di una patologia - e di una patologia non da poco - e quindi parlandone magare aiuto qualcuno a prenderne atto. 
Succede che da quando ho pubblicato questo articolo (Ambientalismo, animalismo, zoofilia, antispecismo)  ho notato, tramite la pagina che mi mostra le origini del traffico sul mio blog e le parole chiave di ricerca usate, che diversi utenti arrivano qui digitando la parola "zoofilia" intesa nell'accezione della devianza sessuale. 
Ora, innanzitutto vorrei chiarire una cosa: il termine zoofilia, esattamente come cinefilia, cinofilia, filatelia o altri è stato utilizzato nell'articolo di cui sopra esclusivamente nel significato generico di "amore per gli animali", intendendo appunto un amore generale, fatto di rispetto, cura, protezione. 
Non ho mai capito perché (diciamo che non ho mai approfondito finora, mia colpa) ma l'uso del suffisso greco "filia" (se sbaglio qualche grecista mi corregga pure, io purtroppo non ho studiato la lingua) a volte assume una connotazione positiva, altre negativa; così come a volte si connota di sfumature legate alla sessualità, altre no.
Credo che gli esempi li conosciamo tutti: la cinefilia è la passione per il cinema, la filatelia la passione per i francobolli, la cinofilia la passione per i cani; la necrofilia e la pedofilia invece sono termini che non godono di buona fama, connotano infatti negativamente l'attrazione - intesa nell'accezione sessuale - verso i morti o i bambini. Io credo anche che questi termini inizialmente fossero usati in un'accezione ingenua, neutra, ossia intendendo amore e simpatia, ma senza particolari inclinazioni sessuali e che poi però, dovendo denominare determinate patologie e devianze sessuali, si sia preferito, forse per comodità, far ricorso a vocaboli già esistenti senza cercarne altri che potessero differenziare un significato dall'altro. Forse mi sbaglio. Ammetto di non essermi documentata linguisticamente. Sto scrivendo questo post molto di getto perché sentivo l'urgenza di chiarire la questione.
Ora, a tutti gli utenti che arrivano su questo blog dopo aver digitato la parola "zoofilia" sperando di trovare video, link o altre indicazioni che si riferiscono al sesso con animali, io vorrei dire due cose: primo, siete capitati nel posto virtuale sbagliato perché qui si è parlato di "zoofilia" intesa come simpatia, amore verso gli animali in senso generico - il sesso non c'entra niente, quindi - e più che altro per distinguere tale atteggiamento di semplice simpatia dall'antispecismo che invece è la lotta contro lo sfruttamento degli animali e si riveste di aspetti più propriamente politici (politica intesa come agire, come azione, come volontà di cambiare l'assetto economico-sociale basato sullo sfruttamento del senziente).
Secondo, la zoofilia intesa come attrazione e pratica sessuale verso e con gli animali è una patologia. E non parlo di devianze, che potrebbero benissimo essere comportamenti che soltanto deviano da uno standard, ma comunque legittimi o innocui, ma propria di patologia. Allora specifico che secondo me nella patologia sessuale confluisce tutto ciò che può nuocere all'altro, in cui viene meno l'aspetto della consentaneità. Se c'è abuso di una parte sull'altra, se c'è prevaricazione e violenza non richiesti, quindi se la consentaneità viene meno, allora non è semplice devianza, termine che mi piace poco perché spesso usato a sproposito, ma patologia.
Se due persone decidono in maniera consensuale di dedicarsi a pratiche bdsm estreme, per esempio, sono affari loro. Sono persone adulte e consenzienti. Ma l'adulto che seduce il bambino è una persona malata perché non si tratterebbe più di una relazione affettiva ed intima alla pari (non essendo nel bambino ancora giunta a maturazione la consapevolezza sessuale; Freud diceva che il bambino è un perverso polimorfo, ossia in grado di sperimentare il piacere, ma senza intenzionalità, senza direzionalità, diciamo, semplicemente, senza intento o capacità di stabilire una relazione complessa con l'altro o con l'oggetto del piacere, e senza un fine riproduttivo, non essendo ancora a conoscenza di come funziona la riproduzione), ma di un abuso, di una prevaricazione appunto, di vera e propria violenza fisica e psicologica.
Allo stesso modo il sesso tra specie diverse - uomo ed animali - non può reggersi su una base relazionale, su un accordo, su una reciprocità affettiva ed intima. Oltre a ciò, usare gli animali, qualunque ne sia il fine, è maltrattamento. 
Di recente sono venuta a conoscenza di un fatto sconvolgente: pare che in Italia ci sia un traffico sotterraneo di animali usati per scopi sessuali. Cuccioli smerciati proprio per questo tipo di attività. Ed è illegale. Cuccioli (anche adulti, ma si sa che i cuccioli sono più indifesi e quindi più richiesti) costretti a compiere e subire atti che non è nella loro natura fare. Animali usati per girare film porno (spesso qui si abbina il doppio maltrattamento del traffico di donne sfruttate e costrette a prostituirsi o a girare questo tipo di film e video: costrette con ricatti, violenza, minacce ecc.). Ed è illegale. Rappresenta un maltrattamento animale. Per di più gli animali usati, una volta che non servono più, vengono uccisi. O abbandonati. Questa è l'ennesima prevaricazione e violenza che gli animali subiscono da parte di alcuni uomini. Non basta lottare contro i macelli, gli allevamenti, la vivisezione, il commercio delle pellicce, ora ci si aggiunge anche il traffico illegale per fini sessuali e davvero sono infinite le maniere e le pratiche attraverso cui si esplica il maltrattamento e lo sfruttamento che gli umani riservano agli animali. 

Quindi, rivolgendomi ancora agli utenti di cui sopra: se avete questo tipo di attrazione sappiate che ricercando o procurandovi animali per questo tipo state commettendo un atto illegale. Ma, soprattutto, sappiate che la vostra patologia non è necessariamente una condanna a vita, ma è curabile, si può curare. Rivolgetevi ad uno psicologo, psichiatra, parlatene a chi vi sta accanto, fatevi aiutare. Lo dico nell'interesse vostro e degli animali, che non sono oggetti, né esseri con cui possiate stabilire rapporti intimi di questo tipo alla pari. Quando li usate, state usando violenza. E se vi piace la violenza su esseri indifesi non consenzienti, siete affetti da una grave patologia. Lo dico con profonda compassione, con il massimo dell'empatia che mi è possibile provare verso di voi perché, oltre alla vostra patologia, siete giustamente anche altro, magari persone stupende, meravigliose. Quindi sappiate che uso qui il termine patologia in maniera descrittiva, non per accusarvi o discriminarvi o dipingervi come "mostri", ma solo per descrivere un comportamento insano, che provoca sofferenza e dolore, che causa violenza su altri esseri indifesi e di cui spero che acquisiate consapevolezza e chiediate aiuto quanto prima.

Post Scriptum: una gentile lettrice ha lasciato un commento in cui spiega che in effetti il termine "zoofilia" indica il solo sentimento di amicizia, simpatia verso gli animali (e quindi io l'ho usato nella maniera corretta); mentre, il termine esatto che sta ad indicare l'attrazione sessuale verso gli animali è "zooerastia". Poi nel commento potrete leggere anche la spiegazione etimologica dal greco.
Ringrazio ancora Mariacristina per essere intervenuta.

lunedì 8 ottobre 2012

Violenza verbale e violenza effettiva


Pubblicato anche su Asinus Novus.

Vorrei chiarire la mia posizione sulla violenza verbale talvolta manifestata da alcuni animalisti nei confronti di chi sfrutta e uccide gli animali, così come sulle varie espressioni di giubilo spesso intonate alla notizia di cacciatori che si sono sparati tra di loro, toreri incornati, macellai cui è partito un dito mentre affettavano un maiale e così via. 
Dunque, cercherò di essere il più chiara possibile, sperando di non essere fraintesa. 
Penso che definire un animalista verbalmente violento solo perché a sua volta accusa un macellaio o un vivisettore di essere appunto un violento, un aguzzino ecc. sia, quanto meno, paradossale. Voglio dire, per quanto nella nostra cultura e società la violenza dello sfruttamento animale sia normalizzata ed accettata, rimossa e negata, credo che l'atto dello sgozzare un maiale o del provocare stress sui topi nei laboratori tramite scariche elettriche sia, e rimanga, inconfutabilmente, quale sia la maniera in cui lo si voglia vedere, un atto violento. Mi rendo conto che dal singolo consumatore (che brutta questa parola, "consumatore", ma tant'è) tale violenza non venga affatto percepita o venga considerata tutt'al più "necessaria", "utile" per una serie di ragioni legate ad un massiccio condizionamento culturale sul quale sarebbe ozioso dilungarmi al momento, ma, tuttavia, l'atto di uccidere, schiavizzare, sfruttare miliardi di esseri viventi rimane un atto indiscutibilmente violento. Mi rendo conto tuttavia che esistono toni e toni e che stigmatizzare una violenza effettiva tramite una violenza verbale è altrettanto paradossale del macellaio che accusa l'animalista di essere violento: si tratta di due tipi di violenza, quella effettiva certamente peggiore di quella verbale - la quale, quest'ultima, potrebbe pure essere definita "difensiva", in quanto interviene per denunciare la prima - ma rimane pur tuttavia un esercizio gratuito; inoltre dare dell'assassino ad un mangiatore di bistecche non solo indispone immediatamente l'interlocutore inducendolo a mettersi sulla difensiva anziché invitarlo all'ascolto, ma è anche del tutto inutile e fuorviante ai fini della liberazione animale. Urlare e sfogarsi contro chi sfrutta gli animali rimane, nel novantanove per cento dei casi, l'urlo inascoltato di un ego esasperato ed inacidito. Io capisco la rabbia, la frustrazione che scaturiscono dalla consapevolezza dell'orrore dello sfruttamento animale e quindi l'inevitabile reazione di pancia che spesso porta gli animalisti ad inveire contro gli aguzzini, ma sono altresì consapevole che non saranno gli insulti e le offese a liberare gli animali. A volte su Facebook vedo girare drammatiche foto di animali morti, fatti a brandelli, insanguinati e giù a seguire una sequela di insulti diretti agli esecutori di tale scempio: "maledetti assassini", "mi auguro che tu crepi", "ti farei questo e quell'altro". 
Ora, ripeto, inutilità a parte di questi sfoghi di rabbia - che appunto tali sono, sfoghi, per l'appunto - mi pare evidente che NON è in questo modo che si faranno progressi nella liberazione animale. Non è augurando la morte a tizio e caio che verrà decostruita la cultura dello sfruttamento animale.
Mille volte più costruttivo, anziché distruggere verbalmente l'altro, è rispondere - anche in maniera decisa, chi dice che dobbiamo essere agnellini? Io no di certo! - mettendo in evidenza le falle del ragionamento di chi sostiene lo sfruttamento animale o vorrebbe negare l'evidenza della sofferenza degli animali. 
Se io comincio a dare dell'assassino a tizio perché mangia la carne, tizio mi replicherà a sua volta dicendomi, nella migliore delle ipotesi, che sono esagerata, oppure insultandomi per tutta risposta. Nel frattempo gli animali continueranno a morire dentro gli allevamenti e nei macelli e di certo non si sentiranno sollevati nel sapere che c'è qualcuno che si è preso la briga di dare dell'assassino ai suoi aguzzini.
Allo stesso modo, augurarsi la morte del cacciatore, del pellicciaio e del torero, non è molto costruttivo, anche perché, morto uno, avanti il prossimo. Voglio dire, non si tratta della cattiveria di un singolo soggetto isolato per cui conviene augurarsi che si tolga dalle scatole il prima possibile, ma della follia di un sistema in cui il fatto che miliardi di esseri viventi vengano ridotti a meno di cose, imprigionati, sfruttati fino allo sfinimento ed uccisi è considerato "normale" e perfettamente "naturale". E il sistema non lo si combatte a forza di accettate verbali contro i singoli, ma smantellando dall'interno quei meccanismi culturali, sociali, economici e politici che ne permettono il mantenimento.
Se la scuola non funziona, per dire, non vado a prendermela col singolo insegnante, ma cerco di analizzare e capire le falle del sistema. Se la sanità fa schifo, non me la prendo col singolo medico, ma sempre con il sistema che ha permesso la degenerazione di determinati servizi sociali. Certamente anche il singolo è responsabile perché poi il sistema è fatto di singoli, ma è al tempo stesso vittima di una terza entità che è l'ingranaggio culturale nel suo complesso e dal quale è difficile, ossia rimanendone compresi all'interno, auto-osservarsi con capacità critica. 
Quindi, che un cacciatore o un macellaio sia morto o meno e che si esulti o meno per la sua dipartita dal mondo, non sposterà di una virgola il sistema sfruttamento animale perché tanto, il posto di chi è anch'egli carne da macello, seppure questa volta simbolica, sarà comunque rimpiazzato dalla prossima risorsa rinnovabile del sistema forza lavoro, non diversamente dagli animali che ha ucciso. 
La società dello sfruttamento del vivente è un tritacarne in cui vittima ed aguzzino finiscono per perire insieme. E se non si capisce questo allora non si è compreso nulla dell'antispecismo.
Odiare la specie umana, i propri simili, è un atteggiamento di immaturo solipsismo. Di totale chiusura. Un atteggiamento che nuoce profondamente alla liberazione animale. 
Attenzione, questo non significa però che automaticamente dovrei considerare alla stessa stregua la tragedia dello sfruttamento animale con il singolo caso del cacciatore che è rimasto ferito da un suo collega durante una battuta di caccia. C'è un distinguo da fare e a me pare dettato dal semplice buon senso: gli animali indifesi che si trovano a vivere una non-vita dentro un allevamento con destinazione finale al macello di certo non hanno alcuna colpa della loro condizione. Si sono trovati a nascere dentro una gabbia, non hanno avuto scelta, la loro orrenda sorte è stata segnata sin dall'inizio. E questa è indubbiamente una tragedia. Il cacciatore invece sceglie consapevolmente di girare per i boschi con un fucile carico. È responsabile delle proprie azioni e degli effetti che potrebbero derivarne. Quindi, permettetemi di dire che il suo "incidente" mi colpisce meno della sofferenza di un animale che viene torturato nei laboratori. Ma questo non perché, si badi bene, io ami gli animali più degli uomini, o sia misantropa, o faccia un distinguo tra valore della vita di un topo e valore della vita di un cacciatore, ma semplicemente perché lo sanno pure i bambini che chi gioca col fuoco finisce col bruciarsi e che a volte è perfettamente normale che le vittime si ribellino e finiscano con l'avere la meglio sul proprio aguzzino. La prendo quindi, questa volta sì, come una legge di natura. Non sempre i predatori hanno la meglio, a volte la preda ce la fa a scappare o a ribellarsi. Il cacciatore è un predatore artificiale (e non avrebbe necessità di esser tale), se diviene preda per sbaglio, per incidente, per puro caso, lo metto nel conto degli effetti derivabili dalla sua infelice scelta. Ci sono casi di felini che hanno aggredito il domatore, di orche che hanno tirato sott'acqua il loro addestratore, ma anche casi di ferimenti riportati in seguito a contatti ravvicinati con animali che, causa il loro lungo stato di detenzione e maltrattamento, hanno reagito in maniera aggressiva verso gli inservienti.
Voglio dire, se io tengo una tigre chiusa dentro una gabbia è ovvio che quella prima o poi, stanca di essere tenuta prigioniera, si innervosisce; se poi un bel giorno riesce ad addentarmi un braccio, ebbè, ma di chi è la colpa? Della tigre o mia che la tenevo rinchiusa? 
Quindi, ricapitolando, premesso che chi sfrutta direttamente ed uccide direttamente gli animali, ma anche chi partecipa - silente o meno, consapevole o meno - di questo sistema di sfruttamento, esercita comunque violenza; premesso che però la questione dello sfruttamento animale non si risolve meramente accusando l'altro di essere violento con maniere verbalmente aggressive; premesso che ogni vita persa - pure quella del cacciatore, del macellaio, del torero - è sempre una vita persa, a doppio titolo: persa perché estinta, persa nel senso di aver perso un'occasione per comprendere cosa sia il rispetto dell'altro; premesso altresì che essere antispecisti significa lottare per scardinare questo sistema e non per distruggere l'altro - a parole o nei fatti - ché la visione dicotomica di un'umanità divisa in buoni e cattivi la lascio volentieri  a certi americani, ai veterotestamentari, a chi crede nella tentazione del diavolo e a chi ha una maniera davvero semplicistica e riduttiva di vedere la realtà, non comprendendo la complessità del tutto; premesso questo e forse anche altro che sicuramente mi sono scordata di dire, chi accusa gli animalisti di essere violenti, a volte si dimentica - o non comprende - che esiste una violenza effettiva, che è altrove, negli atti, più che nelle parole e questo continua a rimanere per me abbastanza paradossale. Ciò detto, non giustifico chi inneggia a mandare a morte il macellaio, il vivisettore, il pellicciaio ecc.; inneggio invece ad un mondo liberato dall'oppressione e voglio liberarlo costruttivamente, non trasformandomi a mia volta in un boia.