venerdì 30 agosto 2013

Pubbliche scuse

Quanto sto per dire riguarderà solo alcune delle persone che mi leggono e che seguono un po' le vicende dell'attivismo animalista italiano; per cui mi scuso con gli altri se non ci capiranno niente o se risulterò tediosa o, peggio, oziosa, ma trattasi invece per me di una questione abbastanza importante.

Giorni fa ho pubblicato qui sul mio blog (e poi condiviso su FB) un articolo che ho ricevuto anonimamente e firmato La Loba. 

L'articolo lo condivido nel contenuto, soprattutto nella prima parte in cui si spiega la motivazione per cui l'evento in oggetto non era censura, ma giusto e necessario dissenso, strumento di lotta, legittima richiesta ecc..
A tal proposito aggiungo anche qui alcune mie considerazioni che ho già espresso su FB: 
La differenza tra censura e dissenso/protesta per motivi etici verso un'uniziativa che dà visibilità al maggiore rappresentante di una pratica che miete migliaia di vittime al giorno (la vivisezione) è la stessa che c'è tra atto delinquenziale (finalizzato a un proprio tornaconto) e azione di disobbedienza civile (finalizzata a un bene superiore).
Perciò parlare di censura è veramente improprio.
La censura tautologicamente la impone il Potere, non le minoranze. Le minoranze dissentono e lottano.
La censura viene pratica coercitivamente, qui si è solo chiesto tramite mail bombing di ripensare all'idea di concedere spazio a un personaggio pubblico leader di una pratica verso cui buona parte della collettività è contraria.
Una richiesta di tal genere non è censura, né autoritarismo, né violenza.
È, per chi lotta in difesa degli animali e contro l'immorale pratica della vivisezione, un dovere civico.
Pensate se a parlare fosse stato invitato un ex terrorista e le famiglie delle vittime avessero, legittimamente, chiesto di non farlo presenziare.
Credo che nessuno di noi avrebbe avuto nulla da ridire, in quanto avremmo trovato questa richiesta legittima.
Noi attivisti per la liberazione animale stiamo dando voce alle vere parti interessate dalla vivisezione, le vittime animali, e quindi è legittimo aspettarsi che si protesti contro l'invito a uno dei massimi esponenti e sostenitori di tale aberrante pratica.
Altro che censura!
Inoltre non dimentichiamoci mai che quando un animalista parla e si attiva agisce sempre per dare voce a chi non ce l'ha (o meglio, non è che non ce l'ha, è che la lingua del Potere non lo ascolta).
La richiesta di mail-bombing per non far presenziare Garattini al Festival della mente di Sarzana, è come se fosse stata fatta da tutte le vittime della vivisezione. Legittima quindi. Lecito aspettarsela. E che dovrebbero pure stendere un tappeto rosso sotto ai piedi del loro aguzzino?

Ciò premesso, nella seconda parte l'articolo muove delle critiche a Serena - critiche che ribadisco condividere nei contenuti relativi a come sapersi muovere all'interno del movimento animalista - con dei toni e delle espressioni che personalmente non avrei usato. Quindi le rinnovo qui le mie scuse che ha già ricevuto privatamente.

Mi rendo altresì conto che pubblicare un articolo anonimo non sia il massimo e so che Serena, per quanto mi abbia spesso criticata duramente, nei miei confronti non l'avrebbe mai fatto. Mi scuso quindi anche per il gesto in sé.

Io l'ho fatto perché ero arrabbiata, perché la posta in gioco - ossia la lotta contro la sperimentazione animale è altissima - e perché, come dice Sorrentino in quel bellissimo film che è La Grande Bellezza, ogni tanto vien fuori l'umano squallido e meschino che alberga in ognuno di noi.

Aggiornamento: ho deciso di togliere l'articolo cui si fa riferimento perché mi sembrava giusto così. Rimangono, al momento, queste "pubbliche scuse". 

martedì 27 agosto 2013

Amicizie particolari




Oggi vi voglio raccontare un toccante aneddoto che Marco Verdone - veterinario che ha fatto un certo percorso lavorando per una ventina d'anni all'isola-carcere di Gorgona, dove i detenuti allevano animali e gesticono un'azienda agricola e che ha scritto riflessioni importanti sulla condizione animale, compresa una carta dei diritti e un libro intitolato "Ogni specie di libertà" - ci ha raccontato in occasione del suo intervento al Volterra Vegan.

Si tratta di una testimonianza raccolta in “Scrittori dal carcere” di George Mangakis (professore di legge sospeso dalla sua professione nel 1969 dal regime militare greco) in cui si narra della particolare amicizia nata tra lui e tre zanzare durante la permanenza in cella d’isolamento.
Un giorno questo professore notò queste creature che con l'avvicinarsi dei rigori invernali cominciavano a lottare per la loro sopravvivenza. Di giorno dormivano sul muro e di notte gli ronzavano fastidiosamente attorno. All'inizio lo innervosivano, poi però realizzò che in fondo la loro condizione che stavano vivendo era comune: non era forse vero che anche lui stava tentando di sopravvivere al gelo (interiore e atmosferico) che stava per sopraggiungere? E le zanzare, in fin dei conti, non è che chiedessero tanto, tutto quello cui anelavano era una goccia del suo sangue per restare in vita. Così decise di metter loro il suo braccio a disposizione. Non solo le avrebbe salvate, ma soprattutto non sarebbe più stato solo. Dopo un po' infatti le zanzare presero confidenza e smisero di avere paura. Si avvicinavano senza timore. Nacque così quella che possiamo definire una relazione, per quanto inedita e certamente basata su una forma di comunicazione eterospecifica.
Poi il professore venne spostato di cella e decise di salutare le sue amiche, con molto dispiacere; nonostante volesse infatti portarsele dietro, il timore che qualcun altro avesse potuto far loro del male lo dissuase dal proposito. Fu così costretto a dirgli addio e non le rivide mai più.

sabato 24 agosto 2013

Non c'è giustificazione




In questi giorni in cui sono stata a trovare Blake in clinica ho avuto modo di vedere diversi cani e gatti sofferenti, chiusi nelle loro gabbiette, con aghi della flebo inseriti nella vena, alcuni intubati, storditi dai farmaci, costretti all'immobilità. Un'immagine triste da vedere, tristissima, come lo sono le scene negli ospedali e in ogni altro luogo ove la malattia la fa da padrona. Più di ogni altra cosa però mi ha colpito lo sguardo di queste creature. Uno sguardo tristissimo, rassegnato, pieno di paura e dolore. Nei migliori dei casi, annoiato e stressato.
Non so se sappiano perché si trovano lì, lontani dal comfort del loro ambiente usuale e dalle attenzioni della loro famiglia umana e compagni di gioco, se ne hanno. Né gli è dato sapere quanto ancora dovranno restarci, intrappolati in un tempo immobile.
Eppure lo strazio dei loro corpicini colpiti dalla malattia in qualche modo è bilanciato e sostenuto emotivamente dal fatto che noi sappiamo che, se sono lì, è perché abbiamo deciso di curarli, perché stiamo facendo il possibile per rivederli di nuovo correre sani e liberi.
In qualche modo ci si sente quindi sollevati nel sapere che, nella migliore delle ipotesi, dopo qualche giorno, saranno dimessi e torneranno di nuovo a casa e, nella peggiore, seppure non guarissero, comunque avremo fatto tutto il possibile, tutto ciò che andava fatto. Qualsiasi cosa, l'avremo fatta per il loro bene.
C'è un'altra immagine che però in questi giorni ha continuato a sovrappormisi a quella dei piccoli pazienti in clinica, un'immagine ossessiva e devastante. Quella di tutti gli altri, innumerevoli altri senza nome, costretti a subire il martirio della vivisezione negli stabulari di tutto il mondo.
Vite spezzate, esistenze negate. Corpicini straziati da veleni, pelli tenere di cuccioli ustionate da sostanze chimiche, organi interni spappolati da dosi massicce di farmaci, arti frantumati, tumori inoculati artificialmente. Dolori inflitti, costrizione all’immobilità, stress, panico e, sopra a tutto, l’immensa sofferenza psicologica di chi, impotente, subisce senza poter avere la minima via di fuga, o di salvezza. In questi non-luoghi gli animali non si curano, si fanno ammalare. Da questi non-luoghi non si esce, se non come “rifiuti da smaltire”.
Ho incontrato, in questi giorni, lo sguardo dei piccoli ricoverati e ho potuto dir loro, sempre, una parola di conforto, una frase di esortazione a guarire, a tener duro, ché presto avrebbero visto di nuovo la luce del sole.
Mi domando: se mai entrassi in uno stabulario per la vivisezione, cosa potrei mai dir loro che non sia una bugia?

giovedì 22 agosto 2013

Male assoluto




La priorità della liberazione animale non è negoziabile.
La maniera in cui trattiamo gli animali, il loro dolore, la loro sofferenza, il male che facciamo loro non è relativizzabile, né giustificabile.
Esiste un male assoluto? Sì e nella storia ha assunto via via svariate forme.
La deportazione e sterminio sistematico degli Ebrei era il male assoluto, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki erano il male assoluto, il genocidio degli Armeni e degli Indiani d'America erano il male assoluto.
L'olocausto degli animali, invisibile e in atto da millenni, è il male assoluto.
Ciò che contraddistingue quest'ultimo è che è diffuso in ogni angolo del pianeta e che è accettato e normalizzato dalla maggioranza, sostenuto dai governi, dalle istituzioni, dalla legge, dalla corresponsabilità di ogni singolo che continua a rimanere indifferente di fronte ai numeri di questa tragedia.
Inoltre, ciò che ancora lo rende "particolare" (e per questo non assimilabile ad altre forme di dominio e violenza sui viventi) è che si crea continuamente nuova vita per distruggerla. Esso così diviene riproducibile a oltranza, reiterabile all'infinito.
Una catena di nascite, prigionia e morti sistematizzate e decise a tavolino.
È questo ciò che lo rende ancor più aberrante e inaccettabile.
Una presa di coscienza collettiva di questa tragedia non è più procrastinabile. E dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché avvenga il prima possibile.

mercoledì 21 agosto 2013

Se vi dicono "hai il cervello di una gallina" o "sei lurido come un maiale", sorridete e ringraziate per il complimento!




Qui un articolo di Animal Equality sull'intelligenza delle galline (come fonte una testimonianza di Bruce Friedrich, impegnato nelle politiche per gli animali 'da reddito' presso Farm Sanctuary, un'organizzazione che lavora in difesa degli animali, più una ricerca effettuata presso l'Università di Bristol, dal titolo "La gallina intelligente"). Ne riporto alcuni estratti per facilitarvi la lettura:
Le galline, proprio come qualsiasi altro essere senziente, hanno i loro interessi, desideri, personalità. Alcune sono timide, altre invece socievoli e gregarie. Proprio come accade per i cani, riconoscono i loro nomi. (...) Spiega la Dott.essa Christine Nicol, autrice della ricerca all'Università di Bristol, dal titolo La Gallina Intelligente, "Gli studi degli ultimi 20 anni hanno rivelato le loro capacità sensoriali finemente levigate, quella di pensare, trarre conclusioni, applicare la logica e pianificare in anticipo".

A seguire invece una breve descrizione del maiale (presa da una pagina di FB nata appositamente per  imparare a "guardare ai maiali non come ad animali da mettere in tavola, ma come a una famiglia lontana cui siamo legati da un’affinità profonda e speciale"), un animale di cui misconosciamo la vera natura, ma con il cui corpo fatto a pezzi e trasformato in insaccati vari, ahimé, familiarizziamo da sempre:
"Siamo soliti associare i maiali alla sporcizia, ma l’unico motivo per cui si rotolano nel fango è che protegge la loro pelle da pericolose scottature solari, da mosche e parassiti.
I maiali hanno infatti le ghiandole sudoripare solo sul na
so, (quindi "sudo come un maiale" è un altra fesseria) è essenziale quindi che non si surriscaldino. L’acqua non è in grado di rinfrescarli perchè evapora troppo in fretta, mente il fango ha un effetto più isolante e duraturo. (dopotutto lo fanno anche gli elefanti, ma nessuno ha mai pensato di attribuire loro la sporcizia)
Un maiale non sporca mai nella zona in cui dorme o mangia: scrofe artritiche si svegliano di prima mattina e sollevano il loro corpo irrigidito con enorme fatica, trascinandolo attraverso pozzanghere fangose, pur di allontanarsi dalla loro stalla prima di urinare. Possiamo solo immaginare quanto soffra un maiale costretto a defecare nel proprio box.
In un porcile pieno di fango ed escrementi cosa ci si aspetta? Che un animale voli e riesca a tenersi pulito per miracolo? Sono le condizioni in cui vengono tenuti i comuni maiali ad essere vergognose, non i maiali in se che non ne hanno alcuna colpa. Voi, in venti metri quadri di terra fangosa, costretti ad espletare i vostri bisogni sul terreno su cui camminate, riuscireste a restare puliti? Non credo proprio
."


E il punto è proprio questo: viviamo una scissione mentale talmente forte da non riuscire mai ad essere pienamente consapevoli di CHI ci mettiamo nel piatto. Come spiega Annamaria Manzoni nel suo Noi abbiamo un sogno: "La scissione è un meccanismo di difesa psicologicamente grave; è quello che consente di non integrare le caratteristiche dell'altro in immagini coese e di assolutizzare ora l'uno ora l'altro degli aspetti che vengono in contatto con la propria esperienza immediata e con le relative emozioni: così mentre amo tanto il porcellino rosa, lo mangio con grande gusto una volta scannato".

Quante stupidaggini che si dicono sui maiali e sugli animali in genere, usati come metro di paragone per denigrare talvolta gli esseri umani e per poter compiere quella sporca operazione del discriminare l'altro una volta che l'analogia è compiuta. Forse sarebbe ora di renderci conto che se continuiamo a usare espressioni del tipo "operai sfruttati come bestie", "immigrati ammassati come sui carri bestiame" è proprio perché esiste ed è legittimato quel termine di paragone che permette l'abuso, il dominio e lo sterminio tanto dei corpi degli uni, quanto degli altri che, per giustificazione, vi vengono assimilati.
La verità è che per poterci vantare della nostra superiorità in quanto specie homo sapiens abbiamo dovuto falsificare le caratteristiche reali degli animali, di gran lunga lontane dallo squallore di certi comportamenti tutti umani.
Come dire, distruggo l'altro, così da far risaltare meglio me stesso. Questa finzione, sottesa nella nostra cultura a partire dal linguaggio e supportata da filosofi del passato come Cartesio (animali come automi) è talmente radicata nelle nostre coscienze da perdurare ancora oggi, nonostante gli animal cognition prima e gli animal studies poi, ci abbiano svelato una realtà ben diversa e cioè che gli animali hanno pensieri, vita interiore, coscienza e autocoscienza; oltre ovviamente a provare, esattamente come noi, tutta la gamma di sentimenti e emozioni che vanno dalla paura alla gioia.
Credo che se facciamo così tanta fatica nello spazzare via i tanti pregiudizi e le tante falsità sulla loro natura è perché altrimenti il pensiero del loro sfruttamento ci risulterebbe insostenibile. Negare le loro caratteristiche emotive e fisiche è un meccanismo molto potente di autodifesa dalla consapevolezza del male che facciamo loro.
Quello che noi attivisti possiamo fare è raccontare al resto del mondo CHI sono loro.
Accendere una luce su questi individui mortificati e resi invisibili, trasformati negli ultimi degli ultimi, agonizzanti e uccisi a milioni ogni giorno.
Invisibili sia fisicamente (gli allevamenti e i mattatoi sono ben lontani dal nostro sguardo), che simbolicamente, grazie al divario ontologico che nei secoli abbiamo costruito tra noi e loro.
Degradando loro, abbiamo innalzato l'umano. Dimenticando che invece siamo tutti animali che condividono il medesimo pianeta e soggetti al medesimo destino: nascere, vivere, morire. 
Raccontare la loro sofferenza, ma prima ancora svelare la loro unicità di esseri senzienti perché solo agli esseri senzienti è riconosciuta la capacità di soffrire, mentre i "numeri" - quali li abbiamo resi e quali appaiono ai più - sono soltanto buoni a stilar statistiche.

martedì 20 agosto 2013

Di morti e di finzioni

Mi dicono che il tg4 ha dedicato un servizio alla morte di Stephanie Forrester, personaggio storico di Beautiful.
Certo stupisce che si dedichino servizi a un evento che appartiene al mondo della finzione.
Pure se questo mescolare la vita con la finzione non è cosa nuova, basti pensare che nella Londra settecentesca, quando morì la celebre eroina del romanzo a puntate di Richardson, Clarissa, tutte le campane della città suonarono a morto e ci furono casi di isteria collettiva.
A volte osservare con disincanto è la cosa migliore da fare. Sospendere il giudizio e osservare, come se tutta la vita che scorre davanti ai nostri occhi fosse nient'altro che un film o romanzo a puntate.
In Tristram Shandy, Sterne non fa mai progredire la vita del protagonista, deviando continuamente la narrazione principale con digressioni, ricordi, pagine vuote, pagine nere, pagine con ghirigori privi di senso (strategemmi grafici nuovissimi per l'epoca), dilatando il momento della nascita fino all'origine del concepimento, conscio che tra il narrare la propria esistenza e il viverla forse non c'è differenza alcuna e che se avesse dilazionato all'infinito anche l'invecchiare e il morire, allora avrebbe sconfitto la morte.
La nostra vita è narrazione. Il narrare e lo scrivere (o il pensare e realizzare un film, dipingere una tela) sono apotropaici.
Le fiction odierne sono brutte narrazioni, svilite, sciatte, ma comunque vite anch'esse che si compenetrano con le nostre, dandoci l'illusione di allungarle.
Così forse non deve stupire che i tg dedichino un servizio alla morte di un personaggio, essendo la sua morte, anche un po' la nostra.

Sistema V Singoli

"Sono d’accordo che questo è un punto fondamentale: cambiate il sistema e potrete cambiare le persone, poiché gli esseri umani sono creature più sociali che razionali. Ma temo di essere giunto a questa conclusione non per mezzo di ragionamenti profondi, bensì grazie alla mia esperienza durante le campagne. Nella mia militanza politica, che risale al 1979, ho sempre voluto ottenere dei risultati, non sono mai stato soddisfatto della mera attività fine a se stessa. All’epoca (con atteggiamento idealistico) pensavo che se avessi raccontato a tutti qual era il problema, il problema sarebbe scomparso. E un giorno mi sono reso conto che le cose non sono così semplici. C’erano persone che erano molto favorevoli ai diritti animali, ma che semplicemente non erano abbastanza motivate per diventare vegane. D’altro canto, io stesso, pur avendo scoperto i problemi causati dalle automobili all’ambiente, non ero sufficientemente motivato per smettere di guidare. Tutto mi è invece diventato chiarissimo quando in Austria venne approvato il divieto dei circhi con animali. Quando è iniziato il nostro conflitto con i circhi, i media erano tendenzialmente contro di noi e molte persone continuavano tranquillamente ad andare al circo indipendentemente da quello che dicevamo loro. Alcune affermavano perfino che erano d’accordo con noi, ma che erano i bambini a volerci andare e altre scuse simili. Quando il divieto entrò in vigore, improvvisamente i mezzi di comunicazione smisero di esprimersi a favore dei circhi con animali e nessuno ha mai rimpianto quel tipo di spettacolo. È chiaro che le persone agiscono più o meno come il loro l’ambiente sociale si aspetta che facciano: vogliono integrarsi, non sentirsi diversi; vogliono essere normali e accettate. Il cambiamento del sistema, quindi, produce automaticamente un cambiamento nelle persone, anche se magari solo a partire dalla generazione successiva"

(Martin Balluch, da un'intervista pubblicata sul numero 7 della rivista Liberazioni)
 
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Stanotte (l'insonnia a volte è proficua) ho riflettuto molto su questa dichiarazione di Balluch e ne ho tratto la seguente conclusione.
Vero che la maggioranza delle persone tende a seguire il sistema e che anche la percezione della moralità delle nostre azioni e scelte dipende dalla legalità e normalizzazione delle stesse.
Tuttavia ci sono abitudini, comportamenti, stati di cose e pregiudizi inveterati e talmente radicati nel nostro profondo che temo che per essere ritenuti non più come giusti e normali necessitino di un cambiamento ancora più radicale rispetto all'abolizione delle pratiche che li generano e sostengono nel sistema. L'esempio che Balluch fa dell'abolizione dei circhi è particolare e non credo possa essere paradigmatico di tutta la cultura che sottende lo specismo nella nostra società. Innanzitutto andare al circo non è un'abitudine quotidiana che investe capillarmente le nostre vite ed è facile trovare persone che si convincano facilmente della bruttura del tenere animali selvatici in schiavitù. Voglio dire, per quanto, come dice Balluch, le stesse che magari in teoria erano contrarie poi comunque hanno continuato ad andarci fintanto che il circo è stato ritenuto legale (vuoi perché "sta lì, esiste, e quindi ci vado", vuoi perché magari non si crede tanto nella politica del boicottaggio), comunque sia, una volta che è stato abolito, non è che se ne è sentita così tanto la mancanza, essendo appunto il circo un diversivo, uno "spettacolo" in cui al massimo si portano i bambini un paio di volte all'anno. Quindi, una volta abolito, facile che sia scomparso anche dai pensieri delle persone, soprattutto perché sono sicura che intimamente ci fosse la consapevolezza che vedere animali selvatici tenuti in cattività e costretti a eseguire numeri lesivi della loro dignità non fosse una grande cosa.
Ma la questione dei macelli, allevamenti e altre forme di sfruttamento degli animali è molto diversa. Diversa perché se anche un domani, per qualche fortuita serie di casi (o anche perché divenissimo una minoranza capace di farsi ascoltare) si riuscisse a far abolire i macelli, ma senza aver prima lavorato a un cambiamento morale interiore che proprio abbia spazzato via per sempre dalle nostre teste anche la sola idea che si possa impunemente abusare delle altre specie - sol perché, appunto, diverse dalla nostra e incapaci di ribellarsi e di far valere il proprio diritto alla vita - allora in qualche modo non avremo debellato proprio niente, né lo specismo, né quel pregiudizio culturale che ci autorizza a considerarci il centro del mondo, diversi e superiori da tutto il resto dei viventi.
Inoltre, chiudere i macelli, ma senza aver prima lavorato in direzione di un rifiuto del nutrirsi di altri corpi di creature innocenti, favorirebbe sicuramente macellazioni clandestine e contrabbando (così come in passato è successo per il proibizionismo dell'alcool e oggi continua per quello delle droghe); quello che voglio dire è che se non si lavora per cambiare la mentalità delle persone nel profondo in direzione di una visione veramente antispecista, nessuna legge abolizionista potrà mai riuscire nell'intento di far considerare sbagliato a prescindere lo sfruttamento e il dominio su altri corpi. Basti pensare a quanto lo specismo sia radicato persino a livello di linguaggio.
Finché noi non lavoreremo per liberarci da un'idea malsana di umanità, ossia quella che sancisce e scandisce la nostra presunta e arbitraria superiorità, riconoscendoci totalmente nell'altro, "nel maiale che dunque siamo" (per parafrasare Leonardo Caffo, che a sua volta parafrasa Derrida), ritrovandoci e liberandoci in quanto animali che con tutti gli altri condividono la vita e la morte su questo pianeta, allora non riusciremo mai nemmeno a far avanzare ciò che più ci sta a cuore, ossia la liberazione animale.
Quindi, per concludere, va benissimo lavorare e fare pressioni ai vari governi e varie lobbies per far abolire questa o quella pratica, ma allo stesso tempo è assolutamente necessario lavorare in direzione di un'etica veramente animale, ossia di un'etica in cui tra noi e il maiale non ci sarà più scarto alcuno così da renderci la sua oppressione un qualcosa di non più sostenibile e praticabile.

mercoledì 7 agosto 2013

Di universi vegani e di zombie vegani




Dopo aver letto un paio di commenti critici relativi alla nascita di Universo Vegano in quel di Roma, mi sento di fare un paio di riflessioni. 
Certamente l'insorgere di negozi, ristoranti, pub ecc. vegani rientra nelle dinamiche di mercato e quindi non dobbiamo illuderci che l'aumento della presenza di questi posti significhi un reale progresso per la liberazione animale, tantomeno una vittoria contro il sistema; di fatto tutto attorno continuano ad esserci i soliti tristi luoghi di sfruttamento e morte. Anzi, dirò di più, mi rendo conto che questo proliferare di spazi cruelty-free potrebbe paradossalmente significare che il sistema, dopo aver riconosciuto l'esistenza di una fetta di mercato allettante - ossia noi vegani - stia mettendo in atto la solita opera di assimilazione: detto in altre parole, può essere che il sistema ci stia inglobando e che il nostro rifiuto dei prodotti dello sfruttamento animale anziché rappresentare una minaccia allo stesso sotto forma di boicottaggio, in realtà sia per il mercato una risorsa al pari di tutte le altre. Esso, il mercato, ha riconosciuto dunque che esiste una richiesta in termini di alcuni prodotti e anziché preoccuparsi e spaventarsi perché una minoranza cessa di acquistare quelli derivanti dall’industria dello sfruttamento animale, reagisce e risponde prontamente esaudendo questa nuova domanda. 
Come un perfetto sistema immunitario che al primo riconoscere un nuovo virus potenzialmente dannoso, prontamente lo neutralizza, inglobandolo. 
Bene, spazzate via queste illusioni, personalmente credo la nascita di luoghi del genere - spazi come Universo Vegano dove è possibile acquistare ottimo cibo cruelty-free e praticamente venire a conoscenza di tutte le alternative possibile e immaginabili alla carne, pesce e derivati animali – sia comunque un evento di cui si può gioire a diverso titolo. Come sappiamo il cibo e la tradizione culinaria in genere rappresentano uno degli aspetti più importanti e caratterizzanti di ogni cultura; e questo non soltanto perché “il cibo, per sua stessa natura, riveste incredibili valenze simboliche collegate all’esperienza del latte materno” (Annamaria Manzoni) - ma anche perché il nutrirsi rappresenta comunque sempre la soddisfazione di un bisogno primario. Fare breccia nella cultura specista pure sotto l’aspetto prettamente culinario costituisce per me una mossa vincente e proprio per la grandissima importanza – materiale e simbolica – che appunto il cibo assume nelle nostre esistenze. Superfluo inoltre ribadire che il grosso dello sfruttamento degli animali è legato proprio alla produzione alimentare; e che è proprio sotto questo profilo che avvengono le maggiori resistenze da parte della popolazione nell’abbracciare uno stile di vita nonviolento e rispettoso della vita animale in genere. E queste resistenze ci sono non solo perché spesso le persone rimuovono e negano la violenza che di fatto subiscono gli animali cosiddetti da “reddito”, ma anche perché si immaginano, nel dover rinunciare a quegli “alimenti” che la cultura gli ha fatto credere “necessari”, una vita di stenti e privazioni culinarie. Conosco tantissime persone che provano significativi sensi di colpa nel mangiare carne e derivati, ma che esitano a diventare vegani perché non sanno bene a cosa andranno incontro (vero che su internet si trovano tutte le informazioni, ma andare a cercarle richiede comunque un atto di volontà, uno sforzo mentale che talvolta manca). L’aumento di questi posti permette a una massa altrimenti irraggiungibile di persone (vuoi perché non hanno voglia di documentarsi su internet, vuoi perché magari proprio non hanno mai pensato di farlo in virtù di pregiudizi pesanti) di venire a conoscenza di una maniera diversa di alimentarsi, ugualmente varia e buona, ma senza essere implicata nello sfruttamento e morte degli animali. Immagino che qualcuno - magari proprio i giovanissimi, i più attratti dalle novità e dall’apertura di spazi alternativi - potrebbe avvicinarsi per curiosità e poi restarne positivamente colpito. E, sempre per quel famoso circolo ermeneutico della comprensione applicato all’animalismo di cui ho già parlato altrove (lo ripropongo qui, per chi sapesse di cosa sto parlando), non mi stupirei se anche un semplice spazio culinario come Universo Vegano potesse diventare un trampolino di lancio per una riflessione più estesa sulle tematiche dello sfruttamento animale. Insomma, un posto così, per quanto non rappresenti una vittoria, è comunque un luogo che dà visibilità alla nostra lotta, una proposta concreta di quel mondo che tutti insieme ci stiamo adoperando per realizzare: quello in cui nessun essere senziente sarà più fatto a pezzi per finire nei piatti o dentro un panino. E si prospetta comunque come spazio significativo e foriero di effetti tutti a venire. Poiché tutto sommato è solo in questi ultimi anni che si sta avendo questo aumento esponenziale di luoghi deputati al consumo di prodotti cruelty-free (prima erano perlopiù marginali, non in grado di infiltrarsi realmente nella cultura popolare) non possiamo ancora stabilire se e in che termini essi possano dare un contributo efficace nel diffondere l’etica della nonviolenza. E, già che ci sono, a proposito di cultura popolare, ho accolto positivamente anche la notizia di un nuovo canale tematico negli USA, nato da un format televisivo sugli zombie vegani, in cui si preparano piatti privi appunto di animali e derivati: chi non lo fa, viene infettato da un virus e si trasforma in zombie. Per stare al sicuro, il rimedio più efficace è appunto imparare a preparare deliziose ricette prive di animali (carino il rovesciamento del mito del morto vivente, il quale può affrancarsi dalla sua condizione appunto rifiutando di mangiare esseri viventi). Non la sbrigherei tanto come una “cretinata” o come la classica “americanata” e per due ragioni: innanzitutto significa che il veganismo sta per entrare nella cultura popolare e quindi presto non sarà più visto come “la scelta estremista di persone appartenenti a una setta”, secondo poi l’accostamento con il mondo della “mostruosità altra degli zombie” racchiude precisi significati metaforici. Gli zombie nell’immaginario collettivo non sono soltanto coloro che si nutrono di carne umana, ma anche, a partire dal famoso cult di Romero “L’alba dei morti viventi” – dove si svela un doppio piano semantico: gli zombie sono i morti viventi che assalgono i vivi, ma anche gli esseri umani che si rifugiano nel centro commerciale, spazio-apoteosi del consumismo, in cui si sentono al sicuro attratti dall’opulenza dei beni materiali e dove, come automi, al pari dei non-morti, si muovono arraffando tutto quel che capita incapaci di compiere vere scelte – ma anche coloro che, appunto, subiscono i desideri indotti dal mercato senza riuscire ad affrancarsene. In questo programma di cucina vegana, chi non cucina senza derivati animali si trasformza in zombie, dunque in colui che non è più in grado di esercitare una scelta compiuta in virtù di una sana e vigile capacità critica e che solo, come un automa, risponde a ciò che il mercato dei consumi e della cultura specista gli propone. Fa riflettere, no? In conclusione credo che il processo che sta portando la cultura vegana ad essere da controcultura di nicchia a cultura popolare, possa avere indubbiamente i suoi lati positivi. Ogni rivoluzione non può che coinvolgere anche il popolo e deve necessariamente partire dal basso, altrimenti è imposizione dall’alto. 

Piccola nota personale: in fondo io decisi di diventare vegetariana, ormai diversi anni fa (oggi sono vegana) proprio andando a convivere con il mio attuale compagno, che lo era già da tantissimo tempo e perché mi resi conto, vivendoci insieme, che era dunque possibile mangiare senza sfruttare animali. Allora non ero antispecista, amavo gli animali... ma li mangiavo, ossia ero molto confusa... poi da lì ho iniziato il mio percorso e aperto gli occhi sulle dinamiche sistemiche dello sfruttamento animale e sono diventata un'attivista. Ma ho cominciato proprio dal cibo, cambiando maniera di nutrirmi, e ci sono riuscita perché qualcuno mi ha mostrato che era possibile farlo.