giovedì 23 gennaio 2014

Il signore col gatto rosso


I treni extraurbani della ferrovia Roma-Viterbo mi mettono sempre una gran tristezza addosso. Sono gli stessi di quando da Civita Castellana andavo a scuola a Viterbo, parliamo quindi di più di venticinque anni fa, almeno. Già all’epoca apparivano vecchi, superati, frequentati perlopiù da studenti e pendolari della provincia. Oggi, definirli fatiscenti è fargli un complimento.
Alcuni vagoni sono completamenti arrugginiti all’interno, privi di servizi igienici, sedili di plastica rigidi, riciclati dalla metropolitana di Roma di un bel po’ di anni fa; all’esterno completamente ricoperti di graffiti, persino sui vetri, che quasi diventa impossibile riuscire a vedere qualcosa fuori.
Al loro arrivo alla stazione di Piazzale Flaminio, quando li si vede spuntare dalla galleria, quasi si stenta a credere che siano reali e che all’apertura delle porte possano scenderne persone in carne ed ossa anziché fantasmi che viaggiano da epoche passate.
Il tragitto che percorrono sembra più un viaggio nel tempo che nello spazio, talmente appare difficile che simili decrepite strutture possano soddisfare le elementari leggi fisiche del moto. Eppur si muovono e ogni giorno trasportano una massa eterogenea di persone, composta soprattutto da immigrati e pendolari di breve tratto. O da persone come me, che continuano a prenderli per la comodità della vicinanza della stazione e per abitudine. Fortunatamente non tutti i giorni, diciamo in media una volta ogni due settimane.
Difficile sperare di incrociare volti che per qualche ragione possano catturare l’attenzione, in genere sono anonimi, spenti, privi di qualsiasi attrattiva. Almeno per me.
Per passare il tempo – un’ora e mezza all’andata e una e mezza al ritorno – mi porto sempre un libro da leggere, a volte due, se quello che sto già leggendo è prossimo alla fine. Raramente ascolto la musica, più che altro perché sono disorganizzata e succede sempre che puntualmente, pronta per uscire di casa, mi accorga di avere l’Ipod scarico. Dal cellulare no, non riesco a sentire la musica perché ho un Nokia vecchissimo, buono giusto per chiamare, ricevere e mandare qualche sms. Molto in linea con i treni della Roma-nord (fino a qualche anno fa si chiamavano così e anticamente erano gestiti dalle Ferrovie dello Stato, oggi invece l’amministrazione è dell’Atac).
Se il libro che sto leggendo non è abbastanza di mio gusto mi metto a divagare guardando fuori dai finestrini (quando non capitano quelli interamente ricoperti dai graffiti). Il paesaggio è piuttosto monotono, ad eccezione della sporadica vista di qualche gregge di pecore, o di cavalli sparsi.
Le greggi, tanto più se in mezzo ci sono agnellini saltellanti, mi mettono sempre di buon umore, almeno per un secondo o due, cioè fino a che non realizzo che di lì a breve i piccoli verranno brutalmente strappati alle loro madri per essere venduti un tanto al chilo. Piccole irripetibili vite che appena cominciavano a sentire il mondo e già lo hanno visto svanire dietro una cortina di rosso sangue.
Sarà perché alle singolarità degli animali non umani faccio particolarmente caso che invece – in controtendenza rispetto a chi vi vede solo mere risorse rinnovabili riducibili all’astrattezza terminologica di un indistinto “animale”, quando va bene, ma più spesso “carne” o “pesce” –  in mezzo all’anonimità di una folla sciatta e rumorosa, scorgo lui: un signor gattone rosso di pelo e dallo sguardo mite che osserva curioso l’andirivieni indistinto dei passeggeri da dentro un trasportino di metallo color verde.
Attratta dal luccichio dei suoi occhioni verde-giada, mi avvicino lesta schivando furtiva la calca per carpirne la sua singolarità gattesca.
Lo seguo facendomi spazio tra la ressa di persone che intanto, prossimo l’arrivo del treno, si è stretta sulla riga gialla, che è vietato oltrepassare, in prossimità dei binari.
Il treno si ferma e tanto io, quanto il gatto ci scambiamo un breve cenno d’intesa mentre aspettiamo che la gente scenda. Ci siamo riconosciuti immediatamente.
Continuo a seguirlo nel mentre si arrampica sui ripidi scalini di metallo e mi sforzo di non perderlo d’occhio tra la confusione di chi sta cercando un posto a sedere.
Mi cerco in fretta un posto anche io, per paura di dover restare in piedi; mentre mi siedo un signore alto e grosso mi si ferma accanto e rimane in piedi qualche secondo, indeciso sul da farsi. Mi sembra di soffocare. Finalmente si sposta e, con la visuale tornata libera, ricomincio a respirare a mio agio e mi accorgo con sorpresa che il bel gattone rosso si è sistemato proprio sui sedili alla mia destra.
Oh, bene, penso, finalmente potremo conoscerci.
Cerco di controllare la frenesia che sempre mi prende quando incrocio un animale non umano, frenesia di poterlo osservare meglio, ammirare e rimirare, conoscere, avvicinare (una meraviglia che mai diminuisce col passare degli anni, ma che anzi sempre si rinnova ogni volta), ma non facciamo in tempo ad arrivare alla prima fermata che già mi sento dire: “che bello, come si chiama?”.
Eh sì, perché il bel gattone non viaggia da solo, ma in compagnia.
E per quanto io sin dal primo istante non abbia avuto occhi e pensieri che per lui, mi rendo conto che, secondo le norme delle convenzioni sociali, se si vuole stringere amicizia con un animale domestico in compagnia del suo amico umano, non si può proprio evitare di interloquire anche con quest’ultimo.
Così, sebbene a malavoglia, sollevo un poco lo sguardo verso di lui e in pochi secondi metto a fuoco le fattezze, alquanto singolari, di un signore sulla cinquantina, magro magro allampanato, con due sopracciglioni di peli scomposti che vanno ognuno per conto suo, il naso leggermente aquilino su una bocca dal labbro inferiore grosso e pendulo. Gli abiti lisi, sformati, come le scarpe. Un cappelletto unto e bisunto sulla testa a fermare un ciuffo di capelli che scende disordinato sulla fronte.
Lo sguardo dei semplici ad accompagnare una parlata scoordinata e limitata nell’espressione, mi trasmette subito l’idea del naif, di una persona cui la natura ha dimenticato di fornire tutto il necessario corredo per stare al mondo.
Mi basta un breve scambio per avere conferma della mia prima impressione.
Chiedo informazioni sul gatto e così vengo a sapere che si chiama Billy e che insieme ogni fine settimana viaggiano da Roma al paesello d’origine dei suoi genitori e ritorno per andare a trovare una vecchia zia, sorella della madre ormai morta.
A questo punto, soddisfatta la mia curiosità di aver conosciuto Billy e il desiderio di donargli qualche carezzina e un grattino dietro alle orecchie, sarei volentieri pronta a ritirarmi in disparte nell’angolino del sedile con la speranza di trovare la privacy necessaria a leggere il libro che ho con me.
Mi sarebbe piaciuto, sì.
Ma evidentemente non era così che dovevano andare le cose.
Il tipo, ingenuo sì, ma non così tanto da lasciarsi sfuggire la mia propensione a comportarmi gentilmente verso ogni sconosciuto e a non riuscire a fare diversamente – la disponibilità è quel sentimento che troppo spesso vien scambiato con l’arrendevolezza e che non fa in tempo a manifestarsi attraverso un fugace spiraglio che subito viene accalappiato nella morsa del tuttoèdovuto – per farla breve, mi attacca un pippone sulla sua vita, morte e miracoli da non finirla più.
Mi scoccia. Non mi interessano le storie degli sconosciuti, non sono di quelle a caccia di aneddoti da trasformare in racconti, non sono una cronista di vite altrui e tutto quello che vorrei è solo lasciarmi scivolare nel sonno al ritmo del rollìo del treno sui binari e delle parole sulla carta del libro che sto leggendo che pian piano si incroceranno fino a poi svanire e confondersi con le prime immagini ipnagogiche che mi verranno incontro al ritmo del ciuf-ciuf.
E invece no, mi racconta di uno zio acquisito bisbetico che lo vessa con continue angherie di natura economica e che gli fa meschinamente pesare persino il numero di spaghetti che la moglie – l’amorevole zia, sorella della madre, cui scappò la promessa di avere un occhio di riguardo per questo nipote un po’ scemotto – gli mette nel piatto quando si trattiene a pranzo da loro, fino al punto di farlo sentire così in imbarazzo da fargli quasi decidere di non andare più a trovare quegli unici parenti che gli sono rimasti al mondo.
È che, mi dice lui, io vorrei scansarmi qualcosa da parte, eh, come vuole lui per portarglielo a fine mese, ma con quello che guadagno alle poste, eh, manco mi basta per me. Io abito all’Eur, lo sa, quelle case là davanti alla Fiera? Eh. Lì sto. E so’ belle, eh, ma costano. Tutti i mesi io pago l’affitto. Eh. E poi la luce. Eh.  E poi il gas. Eh. E poi c’ho, c’ho... tante cose da pagare io, ché la vita è cara e quando posso glielo faccio qualche regalo. Eh. Ma sempre come vorrebbe lui, no, non ce la faccio mica. C’hanno la terra loro, le cantine, le vigne, gli affitti. Stanno bene. E mi vengono a dire a me se gli do i soldi dello stipendio? A me? Che non mi bastano nemmeno per arrivare a fine mese?
Parla così lui. Una frase breve e poi un “eh”  che è un misto di stizza e di darsi un tono, e poi qualche secondo di pausa per cercare con gli occhi liquidi di tristezza la mia approvazione per l’ingiustizia subita.
E mi scusi signorina se le racconto queste cose, eh, io lo so che non sta bene raccontare così i fatti propri agli sconosciuti. Eh. Mi scusi sa se mi sto sfogando un po’. Eh.
Che io lo so che mia zia mi vuole bene. Lo so che se fosse per lei. Eh. Se fosse per lei non c’erano problemi se andavo a pranzo e pure a cena. Ma lui no, è cattivo lui. Mi fa pesare pure l’aria che consumo in quella casa, che è di mi ‘zia poi, mica sua.
E mi scusi signorina se le dico queste cose, lo so che non sta bene parlare così dei propri parenti con gli sconosciuti, ma lui è tanto cattivo e io quasi quasi sa che gli combino? Eh? Che non ci vado più. E mi spiace per quella mia zia. Che la mi’ povera madre glie voleva tanto bene.

Billy sonnecchia, tranquillo e sereno, mi dà l’idea di un gatto amato e accudito come si deve perché per amare una creatura non è che serva di avere chissà quale quoziente intellettivo, basta il cuore e la pazienza, e fra tutto ciò di cui la natura era stata avara con questo signore, non mi parve che però ci fossero anche queste due qualità, che anzi sembrava possedere in abbondanza.
Essì, perché ci vuole pazienza a condurre una vita sempre uguale di uguale monotono lavoro tutti i giorni alle poste interrotta solo dall’uguale monotonia di ogni fine settimana in cui ci si reca malvoluti a casa di parenti di sentimenti un po’ stitici.
E ci vuole amore per raccogliere un cucciolo di micio inzuppato di pioggia in un’alba autunnale avara di luce. E poi chiedere consigli a destra e manca, alla collega carina gattara su cui nemmeno si è fatto in tempo confessare a sé stessi un desiderio appena nato che è già stato soffocato, perché naif sì, ma fino a un certo punto e lui sapeva bene di essere visibile alla collega, ma solo e metà e solo finché restasse al suo posto, buono buono sotto l’etichetta del “collega scemotto”.
Ci siamo, comincio a intravedere dal finestrino le prime case che ci segnalano l’arrivo a destinazione e insieme cominciamo a prepararci per scendere; ne approfitto per fare ancora due coccole a Billy, che nel frattempo si è svegliato e sempre con lo stesso sguardo curioso si guarda attorno per capire cosa sta succedendo.
Il treno si ferma e scendiamo, in silenzio.
Poi ci avviamo sulla banchina scambiando ancora due ultime parole, fino a che, fuori dalla stazione, rallentiamo un po’ per salutarci.
Io faccio per dare un saluto veloce, sbrigativo, “mi ha fatto piacere conoscerla, tante buone cose, ciao piccolo Billy, ciao ciao piccolino”.
Ma lui  si ferma. Con gesto scrupoloso e delicato poggia il trasportino di Billy a terra.
Si inchina leggermente verso di me e con un sorriso sghembo traboccante di gratitudine mi tende la mano e mi dice: “signorina, non mi sono neanche presentato: mi chiamo Pietro. E mi scusi ancora se le ho raccontato tutte quelle cose brutte dei miei parenti, ma sa, avevo proprio bisogno di sfogarmi”.
Non si preoccupi – faccio io. È stato davvero un piacere.
E mentre lo dico riesco a non sentirmi troppo ipocrita perché in quel preciso momento mi rendo conto che ho avuto il privilegio raro di sfiorare la solitudine di una persona e di averla, seppure involontariamente, affievolita un poco.
Mi sto incamminando eppure dopo pochi passi sento l’improvvisa urgenza di voltarmi un attimo.
Scorgo, ormai già leggermente sfocata e quasi persa nella nebbia invernale, una figura avvolta nel suo pastrano, china su un trasportino con dentro un bellissimo gatto rosso; occhi verde-giada che guardano dentro occhi liquidi di tristezza.
Non più il tipo che mi scoccia nel raccontarmi le sue storie mentre avrei voluto solo leggere, non più il nipote un po’ scemotto, non più il collega della posta visibile solo dentro l’etichetta preordinata dalla mente che incasella e rigidamente dispone, non più un volto anonimo tra i tanti che prende il treno nei fine settimana per recarsi in un paesino di provincia: ma Pietro, il signore col gatto rosso.

Lo ricordo così, chino sul trasportino di Billy, due creature che il destino ha voluto unire per tenersi compagnia. Fragili, due figure che il vento pareva spazzar via da un momento all’altro, eppure, in quel loro starsene lì insieme, carico di dignità, in qualche modo divenute iconiche. 

lunedì 20 gennaio 2014

Sidecar Smilla: viaggio nell'Italia dei cani abbandonati - di Paolo Susana


Viaggiare vuol dire comprendere, e l’unico modo per comprendere il mondo è rendersi vulnerabile nei suoi confronti” (Paolo Susana)

Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma" (Bruce Chatwin)

Paolo Susana è un affascinante ragazzone di 51 anni che non soltanto ama la libertà - e quell’inconfondibile ebbrezza nell’esperirla attraverso il viaggio -, ma lotta per la libertà: la sua e quella di ogni altro individuo.
Per questo motivo il 26 luglio del 2013 decide di partire insieme alla compagna Smilla, dolcissima e riflessiva cagnolina adottata da un canile e sottratta a una precedente vita di maltrattamenti e abbandoni, per attraversare, a bordo di un sidecar, simpaticamente denominato “il Poderoso Ronzinante”, parte della nostra penisola al fine di visitare rifugi e strutture che ospitano animali raccolti dalle strade; lo scopo è duplice: non soltanto fornire un reportage a testimoniare l’immenso lavoro dei volontari che si impegnano a offrire riparo e cure ai tanti animali  senza una famiglia o a quelli che sono stati salvati da situazioni di maltrattamento, dai macelli o altri vari non-luoghi di sfruttamento, ma anche sensibilizzare le persone, strada facendo, sul triste fenomeno degli abbandoni e del randagismo senza controllo che ne consegue, così come sull’ingiustizia della nostra cultura antropocentrica e della sua ideologia che giustifica lo sfruttamento degli animali non umani.
Su queste strade, complice la scarsezza del traffico e la mia acquisita maestria nel condurre il Poderoso, mi sbizzarisco in numeri spettacolari di guida. Curve su curve, saliscendi, paesaggi mozzafiato, finché troviamo una sterrata sulla nostra destra e cominciamo a salire tra boschi di castagno e faggio. Guadi, fango, pietre e pascoli ci accompagnano fino a un pianoro di vetta da dove riempiamo gli occhi di cielo, monti e nubi minacciose. 
L’istinto mio nomade vorrebbe cercare un riparo per la notte, o magari costruirlo se non c’è, ma l’agitazione di Smilla, che sente l’arrivo del temporale, unita al fatto che comunque domattina ci aspettano a L’Aquila, mi fanno tornare a più miti consigli e a rimandare le mie aspirazioni waldeniane. Scendendo verso valle, penso che sublimerò scrivendo. In questo preciso attimo è nata la volontà di riportare per iscritto le sensazioni di questo viaggio. Scriverò dando voce alla natura e alla storia che in essa si incide. Scriverò come gesto vivo. Scriverò come vigoroso atto d’amore verso la realtà e come espressione di una totale esigenza di realtà.”

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domenica 19 gennaio 2014

La morte sul collo


Mai come quest'anno si son visti in giro così tanti colli di pelliccia. Sono ovunque. 
Vedo i sorrisi delle persone che li indossano e non posso fare a meno di notare quanto stridano con l'orrore che si portano appresso. 
Mi sale la nausea ogni volta.

mercoledì 15 gennaio 2014

Animal Equality e Gallinae in Fabula: presentazione del libro "Sidecar Smilla"



Animal Equality e Gallinae In Fabula vi invitano alla presentazione del libro ‘Sidecar Smilla’, edito in Italia dall’associazione Eventgreen.
Incontreremo l’autore, Paolo Susana, che il 26 luglio del 2013 è partito da Gorizia assieme alla sua fedele amica Smilla per un viaggio di circa quattromila chilometri, lungo gran parte dell’Italia, visitando una ventina di rifugi e associazioni che accolgono cani abbandonati. A bordo di un sidecar, Smilla e il suo amico umano hanno voluto così sensibilizzare le persone sull’abbandono dei cani e sul randagismo che ne consegue, testimoniare l’impegno di tanti volontari che ogni giorno si adoperano in favore degli animali e riportare le condizioni dei rifugi nei quali finiscono i loro giorni i cani non più voluti. Diario a due voci di un viaggio a sei zampe e tre ruote, “Sidecar Smilla” racconta un’avventura straordinaria fatta di incontri memorabili con animali e con esseri umani.

Per tutte le info andate qui e al relativo evento Facebook.

sabato 11 gennaio 2014

L'interdetto



Io ricevo spesso degli sms bellissimi.
L'altro giorno per esempio un amico mi scrive: "In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure d'esclusione. La più evidente, ed anche la più familiare, è quella dell'interdetto. Foucault."

Riflettete gente, riflettete su quanto sta accadendo in questi giorni, ossia il tentativo mediatico di far passare il movimento animalista per una folla di svitati assatanati pazzi violenti furiosi irrazionali - irrazionale, quindi folle, è la parola chiave - che vorrebbero impedire il progresso scientifico spinti da un'ideologia di stampo disneyano in cui tutti gli animali vanno d'amore e d'accordo.

Peccato che l'antispecismo sia tutt'altra cosa. Ma le masse si lasciano indottrinare facilmente dagli opinionisti della domenica.

giovedì 9 gennaio 2014

Gli animali DA circo - dialogo con un'amica



Lei: ho portato il bambino al circo, ma ci è rimasto male perché non c'erano gli animali.
Io: e meno male, che non c'erano!
Lei: beh, ma al bambino piacciono gli animali, invece non c'era niente, solo cavalli che giravano in tondo.
Io: tristezza... e comunque i cavalli non sono animali?
Lei: sì, ma io intendevo quelli da circo, sai gli elefanti che si mettono sullo sgabello, le scimmiette che giocano...
Io: gli animali DA CIRCO? Io credevo fossero animali selvatici... pensa un po', e si vede che viviamo in due realtà completamente diverse.

Dentro di me l'impulso irresistibile a voler spiegare, raccontare degli abusi che subiscono gli animali detenuti in cattività nei circhi, a provarci almeno, ma il suo sguardo completamente sicuro, al riparo da ogni dubbio, protetto dalle sue inscalfibili certezze e al contempo rivelante insofferenza verso il mio timido tentativo di fare la seppure minima obiezione, mi ha completamente fatto desistere dal proseguire oltre... 
È che ci sono muri che semplicemente certi giorni e certi momenti risultano troppo alti da affrontare e troppo difficili da abbattere.

domenica 5 gennaio 2014

Se il mondo è fatto così...


Gli antispecisti che sostengono l’uso degli argomenti indiretti (d’ora in poi AI) si appellano a quella che appare  essere un’argomentazione molto ragionevole, ma vediamo invece perché essa, a ben guardare, oltre che a rivelarsi inefficace per la liberazione animale, non è nemmeno un’argomentazione.
Dicono: non possiamo sperare di convincere le persone a non mangiare animali perché eticamente insostenibile in quanto alle persone della sofferenza degli animali e di quanto sia ingiusto il loro sfruttamento non importa nulla; conviene quindi convincerle a diventare vegane con argomenti più appetibili (i cosiddetti AI), ossia facendogli capire che la carne fa male, che gli allevamenti inquinano, che la sperimentazione animale è inutile per curare la nostra specie (ma invece va bene per curare gli animali stessi e questo sembrano dimenticarlo: pensate che scacco se veramente si arrivasse a usare metodi sostitutivi per trovare cure per noi umani, ma si continuasse a sperimentare sulle altre diverse specie per curare le altre diverse specie, in sostanza senza aver compreso che mai nessun individuo senziente deve darsi per un altro, che mai nessuna morte di uno potrà essere giustificata per farne sopravvivere un altro) e che quindi in definitiva è per il loro bene, per la loro salute che gli conviene cambiare alimentazione e diventare antivivisezionisti.
Ora, evidente antropocentrismo degli AI a parte, la motivazione che converrebbe usarli perché le persone non si interessano alle sorti degli animali non è un’argomentazione, ma la descrizione della realtà così com’è oggi. Quella stessa realtà che, guarda caso, l’antispecismo intende cambiare. 
Adottare una tattica che sposta l’obiettivo da quello che è il reale problema per pensare di aggirarlo furbescamente, semplicemente lo lascia lì dov’è, senza averlo minimamente risolto. Si viene così a instillare un cortocircuito irreparabile che lascia il problema insoluto. A meno che veramente quello che ci interessi non sia tanto combattere l’ideologia specista e antropocentrica e la logica del dominio, ma solo alcuni singoli effetti di essa. In sostanza, cambiare qualcosa per non cambiare nulla.

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giovedì 2 gennaio 2014

Ascoltate le urla degli animali. Soffermatevi sul loro sguardo

(foto di Giorgio Cara: Blake)

Si chiama Blake, è un bellissimo gattone tigrato a pelo lungo che ho trovato abbandonato il giorno di ferragosto di otto anni e mezzo fa. Fu un colpo di fulmine: non appena incrociammo i nostri sguardi, ci innamorammo. 
Dalla scorsa estate Blake si è ammalato, soffre di una grave patologia congenita al cuore e mi hanno detto che non riuscirà a invecchiare, che... insomma, sì, la sua vita sarà breve. 
Di recente è stato necessario ricoverarlo in una clinica per animali e al dolore e alla preoccupazione di saperlo malato, si è immediatamemte aggiunto lo strazio di doverlo lasciare lì, lontano dai suoi luoghi e spazi conosciuti e sereni, lontano dagli individui – umani e non – con cui si relaziona e ama, lontano dalle sue abitudini e sicurezze di vita. 
Ma non solo: oltre alla visione del suo corpicino martoriato da aghi, cannule e quant’altro era necessario per somministrargli le cure, quel che mi ha profondamente colpita è stata la tristezza del suo sguardo, l’espressione insieme spaventata e rassegnata di dover restare lì, in quel luogo asettico che odora di medicinali e di disinfettanti. 
Poi, guardandomi attorno, mi sono accorta che il suo sguardo non costituiva affatto un’eccezione, ma assomigliava a quello di tutti gli altri, i piccoli pazienti ricoverati insieme a lui.

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L'antispecismo, questo sconosciuto

Il brutto dei social network e della nostra epoca in particolare non è ovviamente che ognuno si possa esprimere liberamente, quanto che ognuno si senta in diritto, anzi, in DOVERE di dire la propria a ogni costo, pure su quei temi che non si conoscono affatto. 
E questo non succede solo allo sprovveduto "uomo della strada", ma anche a intellettuali di un certo calibro che tengono rubriche di un certo calibro su testate di un certo calibro (e che fanno da opinion maker per tutti gli altri) per cui in questi giorni si è sentito e letto di tutto e di più in tema di antispecismo e animalismo. 
Innanzitutto l'essere contro la vivisezione non significa essere contro la ricerca o la scienza in genere, ma è un rifiuto dello sfruttamento degli animali non umani che rientra a pieno titolo nella condanna di ogni sfruttamento del senziente.
Quindi è perfettamente inutile che si controbatta argomentando sulla sua necessarietà e utilità in quanto la posta in gioco è ben più alta ed è quella che oggi chiama la collettività tutta (non solo il mondo accademico) a pronunciarsi sull'urgenza di volgersi verso l'altro con uno sguardo non più gerarchico e antropocentrico, ma di accoglienza e curiosità, nel rispetto e pieno accoglimento di ogni diversità. 
Ciò che si chiede infine è il minimo indispensabile, per cominciare: ossia, prima di parlare di antispecismo, che ci si informi un po' più seriamente su cosa sia l'antispecismo, che si legga di antispecismo, che si studi l'antispecismo.