mercoledì 8 febbraio 2017

L'arte del vivere


Ho sempre avuto una propensione alla speculazione, al pensare più che fare e anche le attività che mi piacciono di più sono quelle che richiedono un impegno intellettuale anziché fisico. Questo mi porta talvolta a soffrire di stanchezza mentale che poi si traduce in sbalzi di umore e depressione. Nulla di particolarmente serio, non sono mai stata così depressa da aver bisogno di farmaci o anche solo da pensare di rivolgermi a uno specialista, ma abbastanza al punto da stare in casa per diversi giorni di fila o da desiderare di non alzarmi la mattina procrastinando le attività quotidiane o svolgendole con enorme fatica. La fatica, già. Forse la definizione appropriata per il mio tipo di depressione è quella di percepire come enormemente faticose le mansioni quotidiane, anche le più semplici e banali come lavarmi, vestirmi, uscire, andare a fare la spesa. Anzi, è proprio questo tipo di azioni qui che mi pesa svolgere perché son quelle che mi fanno avvertire di più il nonsense dell'esistenza. Il peso del vivere. Che detto così sembra un po' una frase fatta, ma quando ci sei dentro capisci fin troppo bene cosa voglia dire veramente.
E a proposito di frasi fatte, ultimamente invece mi è capitato di riuscire a ribaltare questo atteggiamento e di comprendere appieno quello che chiamano "zen". Non ne so molto, e non so nemmeno se quello che mi stia capitando possa appropriatamente definirsi zen, ma andiamo al punto. 
In un periodo di particolare pressione poiché costretta ad occuparmi di una serie di cose materiali e ad assumersi alcune responsabilità - cose che la maggior parte delle persone probabilmente non avvertirebbe come particolarmente faticose, ma io sì, cose anche come il doversi alzare sempre presto la mattina, domeniche comprese - a un certo punto mi sono sentita come presa in una centrifuga senza più controllo della mia vita. In questo vortice di cose da fare, più che dal fare in sé, mi sentivo sopraffatta dai pensieri del dover fare. Pensieri che mi arrivavano in testa da tutte le parti, a ondate, pensieri sulle cose che dovevo fare e sulle possibili, ma spesso direi altamente improbabili, complicazioni che avrebbero potuto esserci, cui seguivano pensieri di probabili soluzioni, compromessi, di appunti mentali, di dialoghi surreali tra me e fantomatici interlocutori e il tutto anche di notte, così che alla stanchezza mentale si aggiungeva anche quella fisica del mancato riposo.
L'unico momento di vero sollievo lo avevo, lo ho (perché il periodo faticoso è ancora in corso) quando andavo/vado a correre. Specialmente dopo i primi giri di riscaldamento, ossia dopo aver rotto il fiato, trovato la mia andatura da crociera e quando l'organismo inizia a produrre le endorfine. In quel momento sono tutta lì, in quella semplice azione del sentire i piedi battere sul terreno e del sentire i muscoli rispondere alle sollecitazioni del movimento. 
Non è una cosa nuova, la corsa si pratica anche per questa inebriante sensazione che produce ed è per questo che poi diventa una specie di droga cui non si può rinunciare, nonostante rimanga una sport faticoso che richiede anche un notevole impegno fisico (a proposito, per chi ama scrivere e correre, consiglio l'ottimo libro di Murakami, L'arte di correre, in cui fa un'analogia tra lo scrivere e il correre).
La novità è che questa consapevolezza acquisita dell'esserci sul momento in cui corro, mi ha portata ad assumere un nuovo approccio verso gli impegni della giornata. Mi son detta: proviamo a fare ogni cosa con la stessa consapevolezza fisica con cui pratico la corsa, anche le cose più semplici come apparecchiare la tavola o farmi la doccia. All'inizio non è facile perché i pensieri continuano ad arrivare in continuazione: è così difficile smettere di pensare, oh se è difficile, forse la cosa più difficile del mondo in assoluto, almeno per chi è portato alla speculazione, però se anziché opporsi ad essi dicendosi "devo smettere di pensare", ci si concentra sull'azione che si sta facendo in quel momento, a volte - all'inizio per pochi attimi, poi per minuti interi, poi sempre di più - si riesce ad astrarsi dalle ansie, dalle preoccupazioni, a sollevarsi dal peso del vivere (che è il vivere in sé, il non smettere mai di avvertirsi, ricordate cosa scrive Sartre ne  La nausea?) e si diventa tutt'uno con la cosa che si sta facendo. E, beh, si è leggeri, sereni, si accede a una percezione diversa del sentirsi vivi, meno pesante e più adrenalinica, più esaltante. Come se fosse un gioco. E qui mi torna in mente quel passaggio di McEwan in Bambini nel tempo in cui il protagonista racconta di quanto sia stato felice quella volta in cui aveva aiutato il figlio a costruire un castello di sabbia ed era riuscito a perdersi tutto in quell'azione da non aver avvertito lo scorrere del tempo fino a sospendere tutti i pensieri del dopo e le ansie degli impegni e delle responsabilità di una vita da adulto (lavoro, commissioni quotidiane ecc.). Ecco, dice lui, se solo riuscissi a concentrarmi così in ogni cosa che faccio, isolandola da tutto il resto, fermando la percezione del tempo, potrei essere sempre felice. 
Gli Inglesi (o gli Americani, insomma, nel mondo anglosassone) chiamano questo atteggiamento "mindfulness". 
Ma c'è di più. Tutto questo esserci nelle cose, nel fare, mi hanno fatto capire un'altra cosa ancora. Che spesso è proprio dal fare che scaturiscono i pensieri e le idee più brillanti e utili. Senza sforzo. Pensieri nitidi e puliti al netto di quelli che invece generano solo ansie o che portano a ingigantire situazioni e a prevedere disastri irrisolvibili ovunque. 
Ho capito che spesso è l'azione che genera il pensiero (il pensiero utile, costruttivo) e non viceversa, come ho sempre creduto. E questo facilita enormemente le cose.
Faccio un esempio: prima sapevo che dovevo svolgere delle cose e quindi iniziavo a fare mente locale su come organizzarmi e a ripetermi in testa di dovermi alzare, muovermi, attivarmi altrimenti non avrei fatto in tempo e poi mentre facevo una cosa pensavo già a quella successiva e questo mi stancava enormemente. 
Ora invece io parto dal fare una cosa, la prima cosa semplice della giornata che è alzarmi dal letto e mettere su il caffè e mentre faccio quella non penso al dopo, ma solo a quella. Finita quella, ne inizio un'altra e via dicendo. E tutto scorre via come in una specie di flusso continuo del vivere che è molto più leggero di quanto mi aspettassi o avessi potuto prefigurarmi se solo ci avessi pensato mettendo tutto insieme. 
E così affronto un giorno dietro l'altro senza ansia del peso delle settimane, del futuro, delle cose che potrebbero essere e forse mai saranno perché poi alla fine, come diceva mia madre citando il detto popolare "il diavolo non è mai così nero come lo si dipinge", a voler dire che le cose poi si realizzano sempre in maniera diversa da come ce le aspettiamo e quindi è inutile e stancante e controproducente farsi film in testa con tanto di dialoghi e scenografie complete.
Ammetto che non sia sempre così facile e che non è che tutto diventi improvvisamente gradevole e facile. Ci sono cose che mi pesa fare, altre che detesto proprio fare e la mattina quando suona la sveglia è sempre una tragedia, ma se anziché pensare "oddio, devo alzarmi e mi aspetta una giornata densa di cose da fare", mi concentro solo sulla semplice azione del mettere i piedi giù dal letto, dell'aprire gli occhi, sentirmi viva nel corpo, respirare ecc., le cose diventano meno faticose.

P.S.: so di aver scritto un post che a molti risulterà immensamente banale perché magari già pratico di questo tipo di argomenti qui. Per me però è tutto relativamente nuovo. Soprattutto esiste sempre la solita notevole differenza tra il sapere una cosa a livello intellettuale, di semplice informazione e invece l'arrivare a conoscerla davvero nel profondo, a sentirla, a sperimentarla, acquisendo così una nuova consapevolezza. Che è quella che ho cercato di descrivere nella maniera più semplice possibile.
In tutto ciò, ho finalmente comprato lo stra-noto libro Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di cui ho sempre sentito parlare, ma che non mi aveva mai attratto più di tanto e che non so nemmeno se c'entri qualcosa con quello che sto vivendo, ma mi pare di sì e comunque sia adesso ho finalmente voglia di leggerlo. 

2 commenti:

Emmeggì ha detto...

molto interessante e utile, grazie per aver condiviso!
ti dico il mio "però": sovente mi lambicco (appunto!!) sul lasciar perdere il senso profondo delle cose...perchè è vero che alcuni pensieri negativi non vengono più, ma non so se i vissuti sotto, quelli profondi e inconsci, siano trasformabili dalla mindfullness; ecco, mi viene più da pensare alla vecchia cara rimozione

Rita ha detto...

Ciao Emmeggì, ti ringrazio per aver apprezzato :-)
Non saprei, sinceramente, riguardo il tuo dubbio, ma io non parlo tanto del lasciar andare i pensieri profondi e importanti, ma quelli appunto inutili che si affastellano senza tregua nei momenti di particolare stress. I pensieri ansiogeni che avvelenano, intendo. Ripulita la mente da questi, si fa più spazio e pulizia mentale per quelli costruttivi o brillanti.
Poi anche la rimozione a volte può esser utile, non credo sia sempre negativa. Si mette via qualcosa che fa male o che in un dato momento occupa troppo spazio. I traumi, il dolore, a che serve ricordarli?
Sono sempre stata una grande estimatrice della psicanalisi, ma ultimamente penso che alcuni concetti siano stati sopravvalutati. A me interessa viver bene, e se per stare bene mi sono utili tecniche particolari allora ben vengano, a costo di perder qualcosa. Che me ne faccio di un qualcosa che mi fa star male? Certo, un rimosso che ritorna sotto forma di psicopatologia non è sano, ma dipende sempre dal tipo di rimosso e di situazione. E dalla capacità di farne fronte o meno in un dato momento.