domenica 22 luglio 2018

American Honey


Non siete andati al mare, troppo caldo per girare in città e i vostri programmi per la giornata sono quelli di trascorrere un pomeriggio molle sul divano a leggere o guardare un film? Vi consiglio questo, lo trovate su Netflix.
Un road movie sulla fine del sogno americano ai giorni nostri, così lo definisce la critica. 
Qual è il tuo sogno? Non me l'avevano mai chiesto, dice la bravissima Sasha Lane mentre vende il suo corpo a uno sconosciuto per guadagnare mille euro, la cifra che manca per realizzare quello che lei crede sia il suo sogno, ma che in realtà è quello di Jack, il ragazzo di cui si è innamorata, ovverosia quello di sempre, quello di restare eternamente incastrata nella ricerca della felicità attraverso la realizzazione nell'amore e nella famiglia. 
Un viaggio dentro l'adolescenza senza più progetti a lungo termine che si avvita su se stessa, tappa dopo tappa, provincia dopo provincia, ripetendo in loop le stesse esperienze solo cambiando panorama e forma, dice sempre la critica e lo definisce amaro per questo, per la mancanza di progettualità e l'incapacità di costruire. 
Sarebbe stato perfetto invece se fosse stato veramente proprio solo questo perché la magia funziona fintanto che si racconta l'attimo legato all'ebbrezza del vivere. Fare soldi, viaggiare, vedere l'America e magari può bastare, anzi, cosa ci può essere di più formativo del viaggiare e del fare esperienza? La magia, il racconto caleidoscopico e acido invece si incrina e diventa di genere proprio nel momento in cui i due personaggi principali, la già citata Sasha Lane e l'esuberante, perfetto nel ruolo, Shia LaBeouf, si innamorano e bloccano l'energia nel recupero di un sogno stantio che sembra essere rimasto lo stesso dei primi coloni dell'America: divorare le distese di praterie, comprarsi una casa mobile, andare a vivere in mezzo a un bosco, fare tanti bambini. 
Insomma, non è amaro perché non ci sono più sogni, è amaro proprio perché dietro un'apparente consapevolezza del movimento del vivere, alla fine, ci sono gli stessi sogni di sempre. Anche qui un falso movimento, appunto.

mercoledì 18 luglio 2018

Il falso movimento


Dopo l'illuminante saggio della Belotti, ho voluto prendere anche il seguito scritto dalla Lipperini. Una disamina della differenziazione sociale che subiscono maschi e femmine ai tempi di internet, dei social, dei videogiochi, di nuovi modi di fare tv, cinema e scrivere romanzi; modi che sono cambiati nella forma, dice la Lipperini, ma non veramente nei contenuti perché se è vero che oggi ci sono più eroine femminili, più personaggi femminili apparentemente forti, alla fine è sempre e soltanto nell'amore che si realizzano, o nella famiglia o per e con i figli, mentre la carriera o altre capacità e l'istruzione diventano accessori ornamentali. Un falso movimento quindi, di una liberazione solo apparente.

Si analizza anche il nuovo femminismo, quello choice, quello che vorrebbe giocare con i simboli usando gli stereotipi sessualizzanti pretendendo così di affermare la propria autodeterminazione. Ma giocare con i simboli è molto pericoloso, spiega la Lipperini, perché presuppone un livello di consapevolezza tale, non soltanto individuale, ma sociale, che purtroppo ancora la nostra società non ha affatto raggiunto. Se si pubblica un selfie su instagram con le tette di fuori e la caption "I'm feminist" si sta ribadendo lo stereotipo della donna che può contare soltanto sulla propria avvenenza e sensualità per farsi notare, si sta ribadendo l'ovvio, ci si sta oggettificando. Il fatto di esserne consapevoli non elimina il fatto in sé.

E poi ancora si parla di come internet moltiplichi e enfatizzi i messaggi, le informazioni, ma di idee, pensieri e pregiudizi che sono già presenti nella società e nella nostra cultura, quindi la rete come specchio del reale, non veramente generatrice di nuovi contenuti, quindi non pericolosa di per sé, ma solo per la capacità che ha, semmai, di amplificare per mille un messaggio. Un messaggio che però esiste a prescindere dalla rete e che quindi va combattuto nelle scuole, famiglie, società. Non so se essere molto d'accordo su quest'ultimo pensiero nel senso che secondo me, come diceva McLuhan, il medium è anche il messaggio poiché lo condiziona e limita e ne condiziona e limita le ricezione, ma sicuramente concordo sul fatto che non sia la rete di per sé il male, dato che si possono discernere anche contenuti validi. Il punto è come fare a discernerli quando quasi tutti veicolano e rafforzano quelli presenti nella società reale?

Mi ha colpito molto la citazione di un passaggio della de Beauvoir in cui si dice che le donne, nel secolo scorso, hanno capito che esiste un mondo al di fuori delle mura di casa e dei ruoli che hanno interiorizzato come prettamente femminili, ma sono ancora ferme lì, sulla soglia, a guardare con stupore questo immenso mondo senza avere il coraggio e la forza di prenderselo. E questo perché i condizionamenti interiorizzati sono molto forti e quando si cresce convincendosi di essere il sesso debole, di essere inferiori, meno capaci degli uomini a fare certe cose, è molto difficile provare a se stesse il contrario, come se inconsciamente si fosse sempre alla ricerca di approvazione e al tempo stesso però ci si autoboicottasse per fallire.

Consiglio a tutte le donne di leggerlo e anche agli uomini, ovviamente, ma più di tutte alle donne perché siamo noi che abbiamo subito e continuiamo a subire l'oppressione della società patriarcale e maschilista.

domenica 15 luglio 2018

Un maiale non sarà mai come Trump

Roger Waters chiude il concerto di Roma con la scritta "Trump è un maiale", così leggo oggi sui quotidiani.

Un maiale non sarà mai come Trump. Un maiale - ma quale, poi? Non esiste "il maiale" come concetto, esistono semmai tanti individui distinti, ognuno con la sua personalità e identità - è semplicemente se stesso; o meglio, dovrebbe essere se stesso, ma nella nostra realtà non gli viene permesso, viene privato di tutto, del diritto di essere lui, di essere felice, di razzolare sull'erba e nel vento, di fare amicizie ed esplorare, di avere esperienze; nella nostra realtà viene fatto nascere come schiavo e a pochi mesi viene macellato. 
Direi proprio che no, non è Trump. Trump è il Potere e un maiale, ai nostri giorni, non ha nemmeno il potere - inteso come possibilità, potere di - di essere, di uscire, di vedere, di conoscere. Per non parlare delle scrofe, delle maiale che, chiuse dentro le gabbie di contenzione, non hanno nemmeno la possibilità di alzarsi in piedi e di accudire i propri piccoli.
I maiali non sono sporchi. Lo sono invece i capannoni in cui vengono rinchiusi e poi allevati al fine di trasformarli in prodotti.

Mi indigno per una parola? Per una frase fatta? Sì, perché le parole non sono neutre, rafforzano e disegnano la nostra realtà, dandole la forma e i confini che chi detiene il Potere decide per altri. Le parole descrivono una realtà spesso falsa, ingannatrice, menzognera, come quella che vorrebbe che i maiali fossero animali stupidi, laidi, sporchi, aggressivi, dotati di solo istinto mangereccio e sessuale. 
E tutte queste falsità vengono reiterate per giustificare la pratica di schiavizzare, discriminare o respingere qualcuno, che siano i maiali o gli immigrati o le donne.

lunedì 2 luglio 2018

La normalità dell'essere vegani

Non c'è nulla di eccezionale nell'essere vegani, una volta preso atto del fatto che gli altri animali sono persone non umane. Individui, esseri senzienti e intelligenti con una propria visione ed esperienza del mondo, sebbene diversa dalla nostra.

In realtà è vero il contrario, cioè che per rendere normale e naturale il nutrirsi di corpi animali serve un rinforzo propagandistico continuo di mistificazione, indottrinamento e occultamento della pratica in sé di trasformare individui in prodotti.

Essere antispecisti significa vedere gli altri animali per quello che sono, individui e non prodotti, al netto delle lenti mistificatorie e di quanto abbiamo interiorizzato sulla necessità e normalità del mangiarli.