giovedì 31 dicembre 2015

Un anno di NOmattatoio

Il video che riassume i momenti più salienti della campagna NOmattatoio.
Con l'augurio che un giorno non ci debba essere più bisogno di campagne come queste, semplicemente perché schiavizzare animali - e qualsiasi altro individuo senziente - sarà una pratica considerata ormai anacronistica e non più accettata come normale.







lunedì 28 dicembre 2015

La finestra

Un racconto breve.

Le scarpe chiuse con un pezzo di corda e la testa piena di pidocchi. Gli abiti sdruciti di due taglie più grandi passati dai fratelli maggiori. In famiglia erano otto e vivevano tutti in una stanza: lui, il più piccolo di sei maschi e i genitori alcolisti.
Sedeva all’ultimo banco a destra della prima fila e accanto a lui c’era sempre un posto vuoto perché nessuno mai voleva stargli accanto. Non era per i pidocchi, i bambini non si preoccupano di queste cose, ma perché era leggermente ritardato e diverso da tutti gli altri. Se ne stava tutto il tempo voltato verso la finestra, come se non aspettasse altro che il momento opportuno per spiccare un salto, arrivare fin sul davanzale e volar via. Numeri, lettere, parole non gli interessavano. Era perso nel suo mondo interiore e non sembrava interessarsi granché a socializzare con gli altri. Ogni tanto sorrideva, ma non a qualcuno, sorrideva così, perché, tutto sommato, era un cuor contento. 
L’unico momento in cui sembrava realizzare di trovarsi in mezzo ad altre persone era durante la ricreazione. Al suono della campanella sembrava come risvegliarsi e cominciava a guardarsi attorno. Quel che gli interessava non era partecipare ai giochi, ma ottenere pezzetti di merenda qua e là perché nessuno a casa gli aveva preparato la sua. 
Una volta si mise di fronte a Sabrina che stava sgranocchiando le patatine e gliene chiese una. Lei fece no con la testa. Lui le ripeté la richiesta e lei ancora una volta scosse il capo. E continuò così per un buon quarto d’ora, con lei che continuava a sgranocchiare patatine una ad una, tirandole fuori dal sacchetto dopo averci rovistato dentro un po’, come a scegliere le più belle e le più grosse – quelle che solo a vederle ti sentivi pizzicare le papille gustative – e poi a infilarsele in bocca lentamente, socchiudendo gli occhi e rompendole con i denti facendo il più rumore possibile. E lui che continuava a implorarla con la bava alla bocca e lei che ancora scuoteva la testa, strizzava gli occhi e diceva no con un’ostinazione tale che a me venne voglia di tirarlo per una manica e portarlo via e non sapevo se provare più rabbia per lui che senza vergogna continuava a chiedere o per lei che non voleva dargli quella benedetta patatina. Fu quando gliene cadde una dal sacchetto, lui fece il verso di chinarsi per raccoglierla e lei veloce ci mise il piede sopra riducendola in poltiglia ormai immangiabile che qualcosa mi si rimescolò dentro e allora trovai il coraggio di prendergli la mano e portarlo via con me. 

Quell’anno era la terza volta che ripeteva la prima elementare e nei consigli di classe si discuteva se ammetterlo o no alla seconda, anche se a malapena sapeva scrivere il suo nome e non riusciva a leggere una sola parola senza sillabare. 
Angelo, si chiamava Angelo, che lui leggeva An – ge – lo e quando gli chiedevi come si chiamava lo scandiva allo stesso modo. 
Tra gli insegnanti c’era chi diceva che tanto più di così non avrebbe potuto imparare a allora tanto valeva ammetterlo alla seconda classe e fargli passare tutto il resto fino al termine della scuola dell’obbligo e chi invece era convinto che il problema fosse la famiglia in cui viveva, il fatto che non avesse spazio e concentrazione per fare i compiti e che i genitori non lo seguissero e lo lasciassero bighellonare tutto il giorno con i fratelli più grandi che già avevano lasciato la scuola per dedicarsi a lavoretti di ogni tipo portando a casa due spicci che poi finivano, puntualmente, nella tasche, pardon, nella gola dei genitori che era sempre arsa da una sete di alcol inestinguibile. 
Fatto sta che alla fine, durante il consiglio dell’ultimo trimestre dell’anno in cui andai in prima elementare, prevalse la linea del “non arrendiamoci!” e fu deciso che Angelo sarebbe stato affiancato da un bambino, particolarmente diligente e paziente, che il pomeriggio lo avrebbe invitato a casa sua a fare i compiti, nella speranza che avrebbe potuto migliorare. Quel bambino, fu deciso che fossi io. 
Per tutto il resto dell’anno mia madre venne a prenderci all’una e ci portava a casa nostra. Ci dava da mangiare e poi ci lasciava giocare un po’. Io avevo solo bambole perché, invero, ero una bambina, ma Angelo non sembrava farci caso, non era ossessionato come gli altri bambini maschi dal pallone da calcio, le figurine o le macchinine, né si preoccupava di essere preso in giro se fosse stato visto fare giochi da femmina. Più di ogni altra cosa gli piaceva ascoltare i dischi e ballare. Quando accendevo e spegnevo la luce per imitare quelle a intermittenza delle discoteche, andava letteralmente in visibilio. Saliva sul letto e si dimenava come se sotto avesse una platea piena di gente ad applaudirlo. 
Mia madre gli fece tagliare i capelli e lo ripulì dai pidocchi, poi gli comprò le scarpe nuove e qualche vestito della sua misura. In poche parole, lo adottammo, anche se la sera lo riaccompagnavamo a casa sua, fin dentro quella specie di stanzone di un sottoscala umido e puzzolente. La madre una volta uscì fuori e ci ringraziò per gli abiti nuovi e tutto il resto, ma lo disse come attraverso un vetro, come se tra noi e lei ci fosse una distanza che sarebbe stato impossibile colmare. 
Il rendimento scolastico di Angelo non migliorava granché però gli piaceva giocare con me e sembrava reagire di più agli stimoli esterni. A scuola era più attento e sembrava più interessato alle attività, comprese quelle di gioco. 
Ormai a ricreazione non doveva più andare in giro a mendicare pezzetti di colazione perché mamma me ne metteva due dentro la cartella, una per me e una per lui. 
Scoprì che gli piaceva stare al centro dell’attenzione e così si prestava a fare un po’ il giullare della situazione, assecondando le richieste degli altri bambini di ballare, cantare o fare altro. Era molto bravo e particolarmente intonato e tutti lo applaudivano alla fine di ogni esibizione. Fuori da quel momento però, nessuno se lo filava più di tanto e fuori dalla classe, fuori dall’ora di ricreazione, non gli dicevano nemmeno ciao. Lui ci restava male, non capiva perché poche ore prima tutti lo avessero supplicato di fare cose e poi dopo era come se fosse diventato invisibile. 
Allora lo prendevo per mano e lo portavo a casa mia dove, se non proprio al centro dell’attenzione al cento per cento, almeno tornava a essere visibile.
  
Un bel giorno Angelo non si presentò in classe. La maestra fece l’appello e si accorse che non c’era. Io mi ero accorta già da prima. Nessuno si preoccupò più di tanto, nemmeno io, pensammo che forse si era preso l’influenza o che non si fosse svegliato in tempo. Ma quando non si presentò nemmeno il giorno dopo la maestra chiese a mamma di andare a controllare a casa sua. Io andai con lei. A casa c’erano dei parenti venuti da chissà dove che erano stati mandati a chiamare. Due sere prima i genitori di Angelo, ubriachi fradici, erano andati a sbattere con la macchina contro un albero ed erano rimasti uccisi sul colpo. 
Allora feci fatica a comprendere la situazione, mi venne detto soltanto che Angelo sarebbe andato a vivere con questi parenti o forse messo in un orfanotrofio, non so bene. Feci giusto in tempo a vederlo un istante, prima che mia madre mi portasse via. Se ne stava seduto sul letto e aveva di nuovo quello sguardo perso come quando in classe restava per ore voltato verso la finestra, solo che ora, lì, non c’era nessuna finestra. 
Gli feci ciao con la manina, ma lui non sembrò farci caso. 
Mamma mi tirò via e quando le chiesi se sapesse cosa stesse guardando Angelo, mi rispose che certe persone vedono cose che noi non vediamo e che è come se stessero sempre affacciati alla finestra di un mondo diverso.  

(Rita Ciatti)

martedì 22 dicembre 2015

È stato l'anno




È stato l'anno della campagna NOmattatoio, del consolidarsi dell'amicizia con Eloise, dei tanti appuntamenti per organizzare i presidi, le corse per andare a ritirare i cartelli, a chiedere i permessi in questura, i pomeriggi interi trascorsi a scegliere frasi, immagini, a buttare giù pensieri, idee, scartarne tanti altri, vederne alcuni germogliare e poi crescere e fiorire. E quelli sul divano a guardare film e mangiare patatine, tra un sonnellino e l'altro. 
È stato l'anno di qualche delusione, che alla fine si è rivelata l'esatto contrario perché quando ti accorgi che alcune persone sono peggiori di come le avevi immaginate in fondo c'è da festeggiare; ché è meglio averle perse, che trovate.
È stato l'anno dei piccoli viaggi, io che negli ultimi anni avevo perso il gusto di spostarmi e stavo pericolosamente scivolando nella fossa dell’immobilità per evitare l’ansia da preparativi per poi scoprire che invece infilare due stracci in una borsa e mettersi in moto è più facile di quanto sembri.
È stato l’anno in cui ho rifatto il primo bagno al mare dopo otto anni. Quello delle gite a Sabaudia con Eloise in cui non riuscivamo mai a rilassarci completamente come volevamo perché alla fine succedeva sempre qualcosa, ma comunque sia la costanza nel provarci era già un premio di per sé. 
È stato l’anno in cui mamma si è aggravata, delle nottate in quell’ospedale triste e freddo trascorse tra il suo capezzale e il balcone dove uscivo a fumare una sigaretta e delle albe rosate con l’andirivieni delle rondini al nido, rubate attraverso uno spiraglio dalla finestra.
È stato l’anno in cui, dopo quasi undici anni, io e Andrea abbiamo deciso di sposarci. Così, su due piedi, spronati da una coppia di amici, Daniele e Francesca, e messo in piedi i preparativi quasi fosse un gioco. E dell’ansia degli stessi. Ché la mia psicologa mi diceva sempre che non so vivere le emozioni e le sposto tutte sul piano dell’organizzazione e del fare pratico. È stato l’anno, quindi, di quel giorno magico interamente vissuto come se fossi dentro un sogno. Ricordo, di quel pomeriggio, soprattutto il momento in cui sono salita nella macchina di Elo e abbiamo messo il navigatore per raggiungere il posto dove si sarebbe tenuta la cerimonia e c’era un po’ di traffico e temevo che non avremmo fatto in tempo mentre dentro di me continuavo a ripetere, cazzo, sto andando a sposarmi. Della paura che piovesse, di bagnarmi i capelli e rovinarmi il trucco perché sì, era il mio matrimonio e volevo essere bella. Ricordo la serata che è volata in un attimo, l’emozione di avere accanto gli amici e parenti più cari e dello sforzo di evitare lo sguardo di mia madre perché altrimenti sapevo che mi sarei messa a piangere per la commozione. 
È stato l’anno in cui ho ricominciato a fare sport e a riprendermi cura del mio corpo perché non è vero che voler essere belli sia frivolo. Così come ci si prende cura di una bella pianta, o di un bel giardino, si custodisce un tramonto nel cuore o si allestisce la propria casa al meglio, allo stesso modo è giusto valorizzare se stessi. 
È stato l’anno delle colonie di gatti che ci sono piovute così tra capo e collo perché la signora anziana che se ne occupava è caduta e si è rotta il femore. E che lasci i gattini senza mangiare? Non sia mai! Così è cominciata l’avventura dell’appuntamento serale con le bustone di pappa e l’acqua e tanta fatica, soprattutto mentale, e un po’ di scoraggiamento, ma il tutto ampiamente ripagato dalle corse festose dei mici, le codine svettanti e i miagolii di benvenuto alla luce del crepuscolo. 
È stato l’anno dei festival antispecisti in giro per l’Italia, dell’incontro con tante persone, della nascita di nuove amicizie.
È stato l’anno della morte di mamma. Un evento che ancora non credo di aver messo bene a fuoco. So solo che c’era un prima e ora c’è un dopo: una cesura incolmabile. In mezzo c’è tutta una vita, sentimenti strani che ho deciso di vivere nell’immediatezza senza per forza doverli intellettualizzare.
È l’anno in cui mi sono risvegliata da un lungo sonno e ho deciso una cosa tanto semplice quando difficile a mettersi in pratica: ho capito che posso essere esattamente quella che voglio essere. 
È l’anno in cui ho ritrovato la voglia di scrivere, di leggere, di darmi da fare e ho capito che che se si fanno le cose prima o poi i risultati arrivano; magari non nella maniera in cui avevi immaginato, magari in maniera diversa, in una maniera che non avresti mai nemmeno minimamente sospettato, ma proprio per questo ancora più belli e sorprendenti. 
È l’anno di alcuni fermo immagine stampati nella mia testa: tipo, noi quattro in auto verso Viareggio, io, Elo, Marco e Arianna a sentire la musica e poi di colpo ammutoliti quando il camion con dentro quelle splendide mucche ci è passato accanto; e poi la scoperta di Baratti e quell’aperitivo sui Navigli a Milano e le cene al ristorante cinese io e Andrea da soli dopo il giro dei gatti e poi ancora l’asfalto che macino sotto le scarpe durante le mie lunghe camminate e le mattine che di nuovo sono promesse a venire e non chiamate al patibolo.
I fermo immagine che fanno sbiadire tutto il resto però rimangono due: io che bacio mio marito dopo che ci siamo sposati e il momento in cui arrivo in ospedale e capisco che è troppo tardi per dire addio a mia madre che già non è più cosciente. E la cosa che più mi è dispiaciuta non è stata non averle io potuto dire addio, ma che lei non abbia potuto dirlo a me perché so quanto ci avrebbe tenuto. 

È stato l’anno delle promesse mantenute. A me stessa, soprattutto. 
E del dispiegarsi della vita poco a poco che alla fine non giunge mai del tutto inaspettata, ma è sempre un rivelarsi di qualcosa che in fondo già sapevi e allora un senso di compiutezza inspiegabile a parole è tutto quel che avverti, nel bene e nel male.

Foto di Angelica Morini.

lunedì 21 dicembre 2015

Otto, maiale speciale


Di recente mi è capitato di entrare in una libreria in cerca di un libro per bambini che parlasse di animali. Era mia intenzione fare un regalo che potesse essere al tempo stesso utile e divertente. Purtroppo sono dovuta uscire a mani vuote e ho dovuto ripiegare per un giochino d’altro genere. Perché mai, penserete voi, di storie con animali non sono forse pieni gli scaffali del reparto infanzia? Vero, ma purtroppo si tratta quasi sempre di storie a sfondo specista, ossia dove gli animali sono considerati produttori di qualcosa - mucche da latte, galline per le uova, maiali felici di essere trasformati in salsicce e via dicendo - o bestie selvatiche e feroci a simboleggiare il male; certo, ci sono anche storie edificanti di cani fedeli o altri animali con cui i protagonisti intessono relazioni speciali, ma il tutto è sempre visto in un’ottica paternalista o compassionevole dove comunque non si arriva mai a mettere in discussione la maniera in cui nella nostra società trattiamo gli animali, specialmente quelli definiti da “reddito”. 
Poi, per fortuna, un’amica mi ha parlato di Otto, la storia di un maiale speciale raccontata sotto forma di filastrocca, scritta e illustrata da Stefania Bisacco. Un libro che ha molto di più di un lieto fine perché si tratta di una storia vera che racconta la liberazione di un maiale di nome Otto da uno dei tanti luoghi di dominio e sfruttamento in cui il sistema in cui siamo immersi confina gli animali non umani e al tempo stesso fa capire, con un messaggio semplice e immediato, quanto ogni animale sia speciale a suo modo poiché unico e desideroso di vivere esattamente come tutti noi. 
Penso che trasmettere ai bambini il rispetto per ogni individuo senziente sia fondamentale e se poi lo si fa raccontando loro una bella storia realmente accaduta, meglio ancora!
Per di più, decidendo di regalare Otto ai bambini, si supporta anche un significativo progetto di editoria antispecista indipendente e si contribuisce alla realizzazione della casa famiglia LunaCorre, una struttura che ha come obiettivo quello di offrire una casa, nell’attesa dell’adozione definitiva, ad alcuni dei cani - ma non solo, la struttura ospita anche gatti felv, conigli, capre, galline - ospiti dei due canili gestiti da due fondatori Davide e Rebecca. L’idea è quella di cominciare a farli sentire a proprio agio all’interno di un contesto famigliare in cui possano già cominciare a intessere relazioni con umani e a conoscere la libertà. 
Otto maiale speciale, quindi, è qualcosa di più di una bella storia illustrata: è un progetto concreto di liberazione e di libertà, nonché di rispetto dell'altro, concetti che il maialino protagonista ha potuto sperimentare di persona, ma che, ahimè, sono ancora ben lontani dall’essere fondanti e costitutivi della nostra società attuale. I maiali infatti, come tutti gli altri animali cosiddetti da “reddito”, sono considerati al pari di cose, quindi soggetti a una forma di dominio totale che va dalla nascita fino all’uccisione violenta dentro i mattatoi. Tutto ciò nelle nostre società è considerato normale ed è sostenuto dalla maggioranza, risultato di un lungo processo culturale di denigrazione ontologica dell’alterità animale - e della diversità in genere - che anziché essere considerata arricchimento è invece soggetta a meccanismi di esclusione e di un altrettanto lungo processo di sfruttamento atto al mantenimento delle strutture gerarchiche di controllo e potere socio-politici; strutture in cui, anche se in forme diverse, siamo tutti invischiati, noi animali umani compresi.
Da sempre le favole sono una forma efficace per veicolare messaggi di contenuto etico o anche per mettere in luce i paradossi e le ingiustizie sociali (basti pensare a Pinocchio, specchio di un’Italietta corrotta e misera ancora molto attuale, o alle favole di Esopo, dal sapore più moraleggiante) e credo che sia arrivato il momento di includervi anche i messaggi di antispecismo libertario, come l’esempio di Otto, maiale speciale magnificamente ci illustra! 
Per sostenere, approfondire le info sul progetto e acquistare la favola, cliccare qui

mercoledì 9 dicembre 2015

NOmattatoio 12° presidio: il resoconto


Da oltre un anno scendiamo in strada ogni mese per mettere in luce ciò che costituisce una delle pratiche più oscure della nostra società: la violenza istituzionalizzata che si cela dietro la cosiddetta “industria della carne”. 
Il 28 novembre scorso si è tenuto infatti il dodicesimo presidio nei pressi del mattatoio comunale di Roma, lungo la via ad alto scorrimento Palmiro Togliatti. 
Dei mattatoi i media parlano solo saltuariamente, quando fa notizia la scoperta di particolari maltrattamenti – rivelati grazie a investigazioni sotto copertura – ai danni degli animali, come se già il dominio totale – dalla nascita programmata alla reclusione forzata fino all’uccisione – non fosse un maltrattamento di per sé. A tal proposito ci preme ricordare quanto detto di recente da Annamaria Manzoni durante la sua ultima conferenza cui abbiamo assistito durante il Vegan Days di Pontedera: si pensa che all’interno di determinate istituzioni di dominio totale ci siano delle “mele marce” di cui bisogna liberarsi affinché tutto venga condotto nel rispetto delle normative vigenti sul “benessere animale”, ma il punto è che non sono i singoli addetti a perpetrare eccezionalmente trattamenti di particolare sadismo, ma è l’intero contenitore – quindi il mattatoio o l’allevamento in sé – ad essere marcio. Una volta che si consente l’esistenza di luoghi in cui gli animali possono essere manipolati, reclusi e uccisi, non c’è più limite al dominio sui loro corpi e il confine tra ciò che è lecito – le normative vigenti – e ciò che non lo è – abusi ulteriori, calci, percosse, violenze di ogni tipo – viene a cadere.

Continua su NOmattatoio.

giovedì 3 dicembre 2015

Mattatoi e lager

"Il parallelo tra mattatoi e lager non deve quindi suscitare imbarazzi, perché non è in alcun modo una minimizzazione dell'Olocausto o un'impropria esasperazione che ha l'unico scopo di scioccare. Tutt'altro. È semmai un'osservazione che può aiutare a riflettere sulle strutture di dominio e di morte che caratterizzano la società contemporanea e sul fatto che si giovano della diffusa complicità di chi si crede innocente, non responsabile, non chiamato in causa". 

(Restiamo Animali di Lorenzo Guadagnucci)



Immagine di Andrea Festa

giovedì 26 novembre 2015

Riparare i viventi di Maylis de Kerangal


Qualcuno, non ricordo più chi, dei miei contatti su FB mi ha consigliato questo romanzo tempo fa. Ultimamente, per non dimenticarmi i suggerimenti di libri e film, mi appunto i titoli dentro una cartella del pc, solo che dimentico il contesto in cui mi furono segnalati e anche di cosa parlino. Poco male.
Comunque sia, ringrazio questo qualcuno per la dritta perché è davvero uno dei romanzi più belli che abbia letto di recente, anche se stilisticamente non mi ha convinta più di tanto.
Una scrittura tanto potente e drammatica a tratti, quanto leziosa e affettata in altri; una storia corale che restituisce tutti i colori di una tragedia che da personale diventa così una questione collettiva su cui riflettere. Un romanzo che parla degli argomenti di sempre, ossia della vita e della morte e di quello che ci passa in mezzo, ma da una prospettiva inedita: quella del limbo, del trovarsi in bilico tra l'accettare la morte o resisterle e poi di lasciar andare chi amiamo per rendere un servizio immenso all'umanità quale quello della donazione degli organi. Si può accettare che qualcosa di chi amiamo continui a vivere dentro un altro corpo? Il libro riporta il punto di vista di tutti i personaggi, compreso quello del ricevente e delle persone - medici, infermieri, parenti - che ruotano attorno a questa tragedia; qualcuno l'ha definita una tragedia greca e forse lo è perché la maniera in cui si intrecciano i destini di alcuni rimane in fondo inesplicabile, ma anche in qualche maniera piena di senso, intellegibile, come se davvero ci fosse dietro una regia invisibile. 
L'autrice è molto brava nel descrivere i sentimenti, le emozioni, in particolare la cesura tra il prima e il dopo. 
Ma il linguaggio, o almeno la traduzione, a tratti insegue un lirismo che non era necessario e questo, insieme allo stile in generale, è l'unica pecca. Raccontato da un punto di vista esterno, una sorta di narratore onnisciente, quasi tutto in forma indiretta, dialoghi scarni; descrizioni dei luoghi che si fondono con quelle degli stati d'animo, qua e là qualche flusso di coscienza, uno stile abbastanza personale, ma che a volte ho trovato poco sincero, un po' di maniera.
Per esempio, prendiamo questo passaggio: 
"Un vuoto si è aperto davanti a loro, un vuoto che possono immaginare come 'qualcosa' perché il 'niente' è inconcepibile. Quello che provano non riesce a trovare una soluzione possibile, ma li paralizza in una lingua che precede il linguaggio, un linguaggio incondivisibile, che è prima delle parole e prima della grammatica, che è forse l'alto nome del dolore cui non possono sottrarsi"
Bastava chiudere dopo "inconcepibile". Sarebbe risultato più forte, meno lezioso. 
Insomma, ci sono tanti passaggi così, arricchiti di frasi inutili che sono solo un esercizio di stile, ma nel complesso rimane un gran bel romanzo, denso di riflessioni che riempiono la pagina e si incastrano l'una dentro l'altra, rendendolo pieno e forte.

mercoledì 25 novembre 2015

Massimizzazione del danno nell'allevamento "felice"


Mi piace continuare a leggere libri sull'antispecismo perché anche se penso di sapere già diverse cose sull'argomento (almeno le basilari), trovo in ognuno di essi sempre nuovi spunti di riflessioni o maniere diverse per argomentare le nostre istanze. Questo perché alla fine l'antispecismo è un pensiero e una prassi in progress, non c'è ancora nulla di definito, né tanto meno, di dogmatico. Ognuno ci è arrivato attraverso un proprio percorso, ognuno ne propone una teorizzazione e versione diversa e poiché ciò che intende combattere - lo specismo, l'antropocentrismo, il dominio, la mercificazione del vivente, la discriminazione morale - è capillare e molto radicato e complesso, alla fine va bene tutto, va bene portare avanti tutti insieme diversi discorsi che, a mio avviso, dovrebbero integrarsi a vicenda e non escludersi a colpi di "io ho la soluzione, tu stai sbagliando".
Ad esempio di recente ho letto Restiamo Animali di Lorenzo Guadagnucci, scritto nel 2012, il quale ha riportato una dichiarazione di Luigi Lombardi Vallauri a proposito del concetto di "allevamento felice", anche detto "carne felice" o "bioviolenza". Dice lui, più o meno (cito a memoria): uccidere animali che sono vissuti liberi è in un certo senso una massimizzazione del danno perché togliere la vita ad individui che hanno avuto la possibilità di assaporarla a pieno (rispetto ad esempio a quelli che vivono dentro gli allevamenti intensivi cui è stata negata la possibilità di esprimere ogni caratteristiche etologica) procura loro un danno ancora maggiore. Per quanto paradossale, uccidere una gallina che ha vissuto tutta la sua breve vita dentro una gabbietta minuscola dove a malapena riusciva a muoversi, può essere per lei un sollievo. Chi è torturato costantemente, attende la morte come liberazione. Ovviamente ciò che si contesta è il fatto in sé del dominio degli animali, non certo la maniera in cui vengono fatti vivere, se intensiva o meno. Però, ecco, ho trovato molto pregnante questo discorso della massimizzazione del danno e credo che possa essere utile per obiettare il concetto di carne felice e di allevamento non intensivo poiché fa capire quanto il danno sia nell'idea, comunemente accettata, di poter disporre così delle vite di migliaia di individui senzienti e di decretarne la morte, e non nella maggiore o minore brutalità della maniera in cui viene loro concesso di esistere.

giovedì 19 novembre 2015

Siamo tutti animali


Le persone che dicono "era solo un cane" (o, è solo un maiale, solo un pollo ecc.) non capiscono che le gerarchie che si instaurano tra noi e le altre specie, sono poi le stesse che all'occorrenza instauriamo anche all'interno della nostra stessa ogni qualvolta ci fa comodo estromettere qualcuno dal "cerchio degli eletti".
Non è infatti forse vero che quando si vuole trovare il pretesto per discriminare qualcuno diciamo sempre "è come un animale, è un lurido porco" ecc..
L'animale non umano come parametro da assumere per svilire quel concetto di umanità che è soltanto un'invenzione culturale.
Concetti notissimi, ormai quasi retorici per noi antispecisti, ma, ahimè, ancora molto attuali.

lunedì 16 novembre 2015

Tonnare e manganelli


"Nel punto più basso e più dimenticato della nostra società opulenta, dove si consuma una violenza silenziosa, accettata come naturale dalle grandi masse dei consumatori inebetiti da un mondo ridotto a mercato, si trovano i nostri fratelli animali. Mai la loro condizione è stata così aberrante come nella società capitalistica contemporanea, una mega-macchina del consumo che li ha ridotti a mera merce da produrre, far crescere ed eliminare in serie, togliendo senso e dignità ad ogni atto vitale, dalla procreazione alla cura dei cuccioli fino all'espansione della propria indole.
Sentirmi tonno, sia pure per poco, mi ha aiutato a capire che battersi per la giustizia, e per giustizia intendo il diritto a una vita dignitosa e libera, comporta comprendere che vi è un legame stretto, indissolubile, fra le tre dimensioni - geografica, sociale, di specie - del dominio contemporaneo.
È in questo quadro che vanno collocati i progetti, i sogni, le battaglie che ci stanno a cuore. Credo di aver capito, insomma, che battersi per i diritti animali non è, come pensavo un tempo, un lusso o una forma di dedizione e di impegno civico notevole ma tutto sommato minore, bensì una lotta, se inquadrata in chiave antispecista e nonviolenta, che ha un enorme potenziale come fattore di cambiamento, sia in senso politico, sia per la vita dei singoli individui. Allo stesso modo, la lotta contro la società dei consumi, contro il capitalismo finanziario, per una società capace di giustizia sociale e di futuro per il pianeta, non può prescindere da una visione d'insieme, che includa gli altri animali come compagni di strada sulla via del cambiamento e della liberazione".

Da Restiamo Animali di Lorenzo Guadagnucci - editore Terre di Mezzo

Lorenzo Guadagnucci è quel giornalista che rimase coinvolto nel pestaggio della scuola Diaz durante il G8 a Genova del 2001. Dieci anni dopo, ricordando un'espressione da lui usata per descrivere quel pestaggio - "sembrava una tonnara" - realizza che in quel frangente anche lui si era sentito come un tonno, ossia un semplice corpo animale sottoposto alla violenza, al dominio assoluto, un corpo tra tanti dove ogni diritto - chi sei, cosa hai fatto, da dove vieni - viene negato. E qui realizza e mette a fuoco quanto sia profondamente ingiusto ciò che gli animali non umani subiscono ogni giorno. E diventa attivista antispecista, oltre a proseguire il suo impegno come attivista contro il razzismo, convinto che essere un giornalista impegnato non solo non precluda l'obiettività e l'imparzialità dei propri scritti, ma sia anzi condizione necessaria per opporsi alle ingiustizie sociali.

"Nelle due ore trascorse dentro la scuola Diaz eravamo pura carne, sottoposti al dominio senza condizioni di un gruppo di persone che potevano permettersi, in quelle precise circostanze, di disporre pienamente dei nostri corpi, della nostra sorte (...) Mi sentivo più che nudo, come se nulla più contasse, né il tuo nome, né la tua storia, né i tuoi diritti di cittadino. In quel momento ero ridotto alla pura materialità del mio corpo ferito, prostrato, sanguinante."

Non è forse così che si sentono tutti gli animali non umani?

giovedì 5 novembre 2015

La ragazza del treno


Raramente compro i best-seller, se non altro perché quelle poche volte che l'ho fatto son rimasta sempre delusa e molto amareggiata, non tanto dalla consapevolezza di aver buttato via i miei soldi facendomi gabbare come una pivellina, ma dalla constatazione di quanto basso sia il livello della letteratura in Italia e di quanto i lettori si accontentino di poco. 
Però ci sono sempre le eccezioni. Una di queste è La ragazza del treno, romanzo di un'esordiente inglese che in pochi mesi ha venduto 4 milioni di copie, è stato tradotto in svariati paesi e già ne sono stati acquistati i diritti per trarne un film.
Merita. Scritto molto bene, con uno stile asciutto ed essenziale, ma non sciatto, anzi, molto accurato nella scelta dei termini e con un ritmo che sale di capitolo in capitolo di pari passo con lo svelarsi della trama.
Un thriller intimista, così lo si potrebbe definire, la storia di diverse esistenze devastate dalla solitudine e segnate da alcuni eventi, sullo sfondo di una periferia londinese vista scorrere attraverso i finestrini di un treno. 
I caratteri dei vari personaggi vengono svelati mano a mano che si procede con la vicenda, con l'aggiunta di nuovi particolari che vanno a formare un quadro di vicende e sentimenti umani sempre più ingarbugliato e complesso. 
Il suo punto vincente, sempre a livello stilistico, è la delicatezza con cui si accenna a certi eventi o momenti significativi - che poi sono quelli che costituiscono la drammaturgia e fanno procedere la storia - senza rimarcarli troppo, lasciandoli cadere nel bel mezzo di una descrizione. L'effetto è quello di una detonazione improvvisa che toglie il respiro. E tutto ciò senza che se ne percepisca l'artificio narrativo. Non c'è nulla di superfluo, ogni riga aggiunta ha un suo senso. 
La storia forse non sarà il massimo dell'originalità - o almeno non lo è lo spunto (ricorda La finestra sul cortile, anche se poi la vicenda è del tutto diversa) -, ma lo è la maniera in cui è costruita e in cui i caratteri e le vicende dei personaggi vanno a incastrarsi gli uni negli altri. Qui, più che lo sguardo sulle cose, c'è uno sguardo che vuole arrivare dentro le cose e dentro le persone; uno sguardo che è sempre parziale e soggettivo, ma allo stesso tempo un invito a fidarsi di sé stessi e del proprio essere nel mondo.

martedì 3 novembre 2015

11° presidio NOmattatoio: il resoconto


Anche l’undicesimo presidio si è concluso con una partecipazione che si è assestata nella norma di una sessantina di persone, ma che vede sempre volti nuovi. Ovviamente, essendo la protesta mensile, è difficile garantire la presenza continua delle stesse persone - a parte un gruppo abbastanza consolidato che è con noi sin dagli inizi - ma il fatto che ce ne siano ogni volta delle nuove significa che la campagna continua ad allargarsi: attraverso il passaparola, i social, i vari eventi informativi e a sostegno che si fanno in altre regioni.

Abbiamo molto gradito infatti la partecipazione dei tre ragazzi del gruppo dell’Abruzzo/Marche, scesi a Roma nonostante il giorno dopo, ossia ieri, dovevano fare un banchetto a sostegno al centro di San Benedetto del Tronto; così come quella di un bambino di soli cinque o sei anni, accompagnato da mamma e nonna, che ha voluto portare un cartello realizzato da lui con su scritto: “Io non mangio gli animali”.

 Credo che la forza di NOmattatoio stia proprio in questo: l’opportunità di riunire tante persone accomunate dallo stesso senso di giustizia verso tutti gli individui senzienti che abitano il pianeta assieme a noi e quella di mettere in contatto persone di varie città e regioni che condividono una stessa maniera di fare attivismo.
Abbiamo ribadito al microfono le priorità della nostra lotta, ossia lottare contro lo sfruttamento degli animali perché sono individui che meritano rispetto e che desiderano vivere e non perché la loro carne sia cancerogena e poi invitato le persone a leggere un loro pensiero, una riflessione scritta in precedenza sul tema di quanto accade all'interno dei mattatoi. Ognuno ha potuto così condividere con tutti gli altri e con i passanti nelle auto quanto si è sentito di dire. 

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lunedì 2 novembre 2015

Il disprezzo verso la "gattara": un tentativo di analisi


Non si tratta di casi isolati, ma accade invece abbastanza di frequente che le persone umane che si occupano della gestione delle colonie feline vengano schernite o che ricevano insulti che talvolta sfociano in veri e propri episodi di aggressione verbale e persino che siano oggetto di una sorta di mobbing, ossia importunate e osteggiate nello svolgere le proprie mansioni. A essere molestate sono quasi sempre le persone umane di sesso femminile – forse perché apparentemente più indifese e deboli fisicamente – vittime di battute sessiste e maschiliste; anche se ovviamente a prendersi cura dei Gatti randagi non sono solo le donne.
La gattara di turno viene spesso derisa e non di rado redarguita con toni aspri. Si contesta in particolare l’attività in sé dello sfamare i Mici randagi - anche se facenti parte di colonie opportunamente registrate e tenute numericamente sotto controllo con la sterilizzazione dei singoli individui - appellandosi a ridicole e talvolta fantasiose motivazioni che vanno dalla più comune “i gatti cacciano e provvedono a sfamarsi da soli” alla “i gatti portano malattie, sporcano ecc.”, fino a vere e proprie acrobazie mentali come “i gatti portano i topi” (sic!) e “finiremo per essere invasi da gatti”. 

L’astio che accompagna di solito queste recriminazioni è davvero significativo. Un astio che talvolta si concretizza in vere e proprie minacce contro la persona o contro i Gatti stessi. Se non si giunge a tali livelli, si percepisce comunque un fastidio generalizzato, una sorta quasi di ribrezzo e schifo sia verso i Gatti, che verso la persona umana che se ne occupa. Il cliché della gattara - di persona sciatta, generalmente di sesso femminile, anziana e sola, poco importa se tale immagine non corrisponda affatto alla realtà – e la superstizione nei confronti dei Gatti neri che li vede come portatori di sfortuna, contribuiscono non poco a generare il fastidio verso questo servizio sociale e compassionevole.

A differenza di altre forme di attivismo contro lo sfruttamento degli Animali, in cui le motivazioni dell’astio e del fastidio, se non giustificate, possono essere però comprensibili (è tutto un intero sistema che viene messo radicalmente in discussione, talvolta con metodi comunicativi poco efficaci), si fatica non poco a capire come mai ci sia tutta questa avversione per le persone umane che si occupano dei Gatti randagi.
Se da una parte questi atteggiamenti rientrano nel più ampio discorso dello specismo, dall’altra è probabile non sia sufficiente come risposta.
È evidente che tale avversione, sebbene apparentemente rivolta a chi si occupa dei Gatti, sia in realtà rivolta agli Animali stessi. La gattara è vista sì come colei che consente la sopravvivenza della colonia, ma è contro l’esistenza della colonia stessa che sono indirizzate le critiche.
Eppure i Gatti sono Animali considerati d’affezione: proprio molte delle persone umane che si lamentano delle colonie passeggiano con il loro Cane e magari fanno accenno al loro Gatto di casa. Inoltre, a differenza dell’attivismo contro lo sfruttamento degli Animali, qui non si chiede di cambiare abitudini, di smettere di mangiare Animali o altro. Non si chiede nulla. Ci si limita a fare, a prendersi cura di questi soggetti felini quasi sempre vittime di abbandoni e che poi trovano conforto in mezzo ad altri dalla sorte simile.
Che disturbi e infastidisca vedere che qualcuno si prenda l’impegno e la briga di “fare del bene” ad altri esseri senzienti? È chiaro che in molti permanga l’assurda convinzione che l’empatia e l’impegno sociali siano valori con scorte limitate, destinate a esaurirsi nel tempo e quindi da utilizzarsi con parsimonia indirizzandole solo verso gli individui appartenenti alla stessa specie, eppure non può essere ancora questa l’unica ragione di tanto disprezzo.

Tentiamo quindi di poter avanzare un’altra ipotesi: ci troviamo di fronte a un caso di teriofobia (lett. paura degli Animali) in cui ciò che spaventa, disturba, disorienta non è tanto l’Animale in sé, ma l’Animale libero, non addomesticato, non controllabile e quindi, di riflesso e per estensione, il concetto di animalità in sé visto come opposizione a quello di civiltà intesa come soppressione degli istinti, come controllo e ordine sociale.
La colonia felina, per quanto circoscritta e in realtà controllata molto di più di quel che si pensi (nel senso di contenimento degli individui tramite sterilizzazione, come detto sopra) è composta da Animali liberi di muoversi, di condividere gli spazi urbani, di abitare le strade e di essere, insomma, affrancati dal dominio della nostra specie. Iconiche le immagini di questi bellissimi Felini che al crepuscolo cominciano a fare la loro apparizione, muovendosi aggraziati e sinuosi, con un’eleganza e una grazia da far invidia a chiunque, eppure visti (attraverso la lente teriofobica) come sporchi, pericolosi, ingombranti. Notturni e quindi maggiormente ambigui.
Ora, un concetto, come quello di umanità, che si è andato nei secoli a costituire proprio in opposizione a quello di animalità, ha un continuo bisogno di essere rafforzato e confermato, anche ribadendo la propria, falsa, posizione di superiorità sulle altre specie. E quando la superiorità è fittizia, è solo schernendo e dipingendo come inferiore l’altro, che la si può continuare a sostenere. C’è poi un concetto di proprietà dello spazio e della Natura che è davvero emblematico: come se la strade fossero nostre, come se solo noi appartenenti alla specie umana avessimo il diritto di percorrerle.
La persona umana che investe tempo ed energie personali nella cura degli altri Animali è vista così come una sovvertitrice di senso e di un ordine sociale e gerarchico prestabilito. Sostenere e proteggere individui liberi ci ricorda che non tutto è domabile, che non tutto è assoggettabile a norme di controllo e mercificazione. Questi altri individui che, senza chiederci il permesso, osano abitare i nostri stessi spazi urbani, evidentemente turbano più di quanto si immagini e turbano proprio perché ci ricordano quanto abbiamo faticato – culturalmente parlando – per rimuovere e controllare la nostra, di animalità, percepita come negativa poiché è sulla negazione di essa che abbiamo eretto le fondamenta del nostro antropocentrismo. Forse quindi, in definitiva, la persona che inveisce contro la gattara di turno, sta cercando di distanziarsi da qualcosa, dal timore di veder riflessa all’improvviso la propria parte animalità - il proprio lato oscuro? - e di allontanarsi dal ricordo di tutto quello che abbiamo sacrificato per ottenere in cambio un’illusoria sicurezza e una parvenza di civiltà che in realtà è dominio, prevaricazione dell’altro, soppressione dell’empatia, negazione degli istinti.

Crediamo che l’antispecismo, inteso come lotta politica contro lo sfruttamento istituzionalizzato e il dominio degli altri Animali, nonché come battaglia etica contro la diversa considerazione degli Animali, non possa trascurare anche questo aspetto, ossia quello delle ragioni – antropologiche-psicologiche-storico-sociali-filosofiche, cultuali in senso ampio - che sono alla radice della teriofobia, intesa come paura della perdita della propria umanità, in realtà di quel concetto fallace di umanità che abbiamo costruito con violenza, dominio e allontanamento della Natura.
Nel frattempo, sul lato pratico, non dobbiamo assolutamente lasciarci intimidire da questi frequenti episodi, specialmente se accompagnati da minacce, aggressioni o offese.
Il cammino verso una società aspecista passa anche attraverso queste singole battaglie che solo apparentemente sembrano minori (rispetto al più ampio campo dell’attivismo contro lo sfruttamento), ma che in realtà contribuiscono a formare la cornice culturale entro la quale continuare a legittimare prevaricazioni, abusi e violenza di ogni genere.

martedì 27 ottobre 2015

Sulla questione della nocività del mangiar carne


Penso che la notizia - peraltro non così sensazionalistica come sembra perché sono decenni che si cerca di scalfire il falso mito che mangiar carne faccia bene o, peggio, sia necessario -, in questo momento, ci possa servire da scivolo per spingere sul lato etico le nostre argomentazioni contro lo sfruttamento degli animali, facendo capire che la questione, prima che salutistica, è innanzitutto di giustizia sociale. A chi ci dice: sì, è brutto uccidere gli animali, ma le proteine animali servono, si può rispondere con maggiore sicurezza che invece non solo non servono, ma fanno anche male. Ora, premesso questo, io continuo a non vedere di buon occhio gli argomenti indiretti e non per una presa di posizione irremovibile (sulla questione rifletto di continuo, anche assumendo come spunto i dati empirici, ossia la continua osservazione della realtà sociale in cui sono immersa, il confronto con gli altri ecc.), ma perché secondo me non centrano il punto dell'antispecismo. Ora, se la questione è solo quella di portare le persone a diventare vegane è un conto, se però vogliamo fare un discorso più ampio di rispetto, di altro rapporto con gli animali ecc., - tutti, non solo quelli cosiddetti da reddito - il discorso salutistico c'entra poco. Ci sono tantissime altre forme di sfruttamento, non solo quelle per fini alimentari e poi esiste la teriofobia, lo specismo in generale inteso come diversa considerazione morale degli animali che ce li porta a giudicare inferiori sulla base di un antropocentrismo vecchio di secoli e continuamente rinverdito. Certo, la Joy ad esempio riduce tutto al carnismo, dice che già smettere di mangiare animali, quali ne siano le ragioni, ti faccia uscire da quell'ottica lì che sia naturale sfruttarli, però rimane aperto il discorso culturale più ampio che porta al disprezzo degli animali, ai tanti luoghi comuni falsi sulla loro natura, alla convinzione che siano comunque inferiori. Come detto altre volte, l’antispecismo non riguarda solo la diversa considerazione e quindi mercificazione degli animali (che affonda le sue radici anche in un discorso socio-politico di dominio), ma riguarda la maniera, ovvero l’assenza di questa, in cui noi ci interroghiamo e cerchiamo di conoscerli. Manca un corretto approccio epistemologico. E quindi, soprattutto, mancando questi elementi, rimane l'antropocentrismo. Antropocentrismo che il salutismo non solo non scalfisce minimamente, ma anzi, rafforza. 
Diciamo che la certezza che la carne faccia venire il cancro può portare a una riduzione nel consumo (anche le sigarette lo fanno venire, eppure si continua a fumare) e il riduzionismo, come si è ben spiegato anche nella recente conferenza di Essere Animali al MiVeg è quello che maggiormente può mettere in crisi il settore economico, ma non stiamo ancora parlando di antispecismo, bensì di economia. L’antispecismo è una rivoluzione etico-socio-politica - e quindi culturale in senso ampio, andando a rivoluzionare tutto ciò che la nostra specie produce, sia di natura intellettuale, che materiale, quindi anche l’arte, il cinema, la letteratura ecc. - troppo ampia per poter essere ridotta al salutismo.
Concludendo: sarei sciocca se accogliessi questa notizia in maniera assolutamente negativa, ma non farei i salti di gioia pensando che ora la società diventi improvvisamente antispecista, ecco. 
E non parliamo quindi solo di etica (per cui respingo le obiezioni di coloro che affermano: “ma alle persone dell’etica non importa nulla”), ma della maniera in cui guardiamo gli altri animali in generale, quindi di antropocentrismo, di cultura, di epistemologia. Non è che si deve solo dire "sfruttare gli animali è eticamente sbagliato", ma si deve cercare di farli conoscere e di spiegare le false motivazioni per cui abbiamo sempre creduto che fosse giusto sfruttarli. Motivazioni che hanno radici varie e profonde, anche socio-politiche perché il dominio è un prodotto storico-sociale e di errata convinzione che noi si sia superiori e quindi legittimati a sfruttare tutti gli altri. Il  punto è che bisogna decostruire questa logica di prevaricazione e dominio. 

sabato 24 ottobre 2015

Il rassicurante conforto delle parole


Dire "il pesce" ("andiamo a mangiare il pesce", "ho comprato un po' di pesce", "quel ristorante fa il pesce") è già una mistificazione semantica perché non stiamo parlando dello zucchero o del caffè, ma di miliardi di individui senzienti che vengono uccisi in maniera atroce. 
Le parole sono comode armature della coscienza che ci permettono di proteggerla dai sensi di colpa e soprattutto dalla comprensione e consapevolezza della violenza che permettiamo accada anche con il nostro consenso.

lunedì 19 ottobre 2015

Una scelta individuale. Ne sei sicuro?


Molti dicono che smettere di mangiare animali deve restare una scelta individuale. 
Certamente lo è nel senso in cui non vogliamo obbligare nessuno a fare qualcosa contro la sua volontà, ma è importante capire il senso profondo del termine "scelta". 
Non può trattarsi infatti di una scelta individuale quando ci vanno di mezzo altri individui, ossia gli animali massacrati per diventare cose, oggetti smembrati. L'allevamento, ossia la reclusione in spazi angusti dove gli animali non possono esprimere le loro esigenze etologiche e poi i lunghi viaggi nei tir e infine la macellazione, sono passi necessari affinché le persone abbiano la loro fettina di carne nel piatto senza sensi di colpa delegando altri a compiere il lavoro sporco per loro. Quindi bisogna responsabilizzarsi e prendere atto che l'intera collettività è complice di questo massacro. Per cui mangiare o meno animali non può essere una scelta individuale, ma riguarda i 170 miliardi di individui massacrati ogni anno e solo per fini alimentari. Non esiste allevamento o morte compassionevole, il dominio, la schiavitù e il massacro sono sempre forme terribili di ingiustizia e di violenza.
Questo è lo scopo della campagna ‪NOmattatoio‬: rendere visibile l'invisibile, mostrare la violenza normalizzata del dominio totale sugli animali che la cultura antropocentrica ci abitua a considerarli cose.

sabato 17 ottobre 2015

Voi vegani... Ma "noi" chi?

Mio padre: ieri in tv parlavano di voi vegani.
Io: che peccato, avrei preferito che avessero parlato delle condizioni degli animali sfruttati.


Continuano le bufale dei casi di bambini vegani denutriti. 
Esattamente come per il dibattito sulla vivisezione, poiché sanno che non si può ribattere sul piano etico, allora la buttano su quello scientifico, facendo affidamento sul fatto che le persone oggi hanno per la scienza la stessa venerazione (e la stessa sottomissione fideistica) che un tempo avevano per la religione.
Peraltro i media danno risalto a qualsiasi caso di bambini vegani che finiscono in ospedale (per motivi che nulla c'entrano con la loro dieta). È così che si costruiscono i "mostri", così che si fa propaganda contro chi disturba lo status quo.

venerdì 16 ottobre 2015

Riflessioni post lettura de I diari di Michelle Rokke


Dobbiamo riprendere a fare attivismo contro la vivisezione. Dopo il successo della campagna contro Green Hill (colgo l'occasione per ricordare che stasera verrà presentato il libro a Roma: qui l'evento FB per cui è necessaria la prenotazione) e l'occupazione di Farmacologia si era avviato un dibattito molto acceso, in Italia finalmente si parlava di vivisezione come mai era accaduto prima (a riprova che solo l'azione diretta e la disobbedienza civile sono capaci di aprire brecce nel muro del silenzio e dell'omertà), mentre ora tutto sembra svanito. 
Eppure le tremende pratiche della vivisezione su esseri senzienti e indifesi continuano ancora, ogni secondo. 
Ciò che rende la vivisezione terrificante è la ripetitività degli esperimenti, condotti spesso senza anestesia e senza il supporto di analgesici. Già la reclusione in sé in gabbiette minuscole - dove gli animali non possono esprimere nessuna delle loro esigenze etologiche - sarebbe un inferno per ogni essere vivente, ma a tutto ciò si aggiunge la violenza, il dolore continuo, gli effetti di esperimenti terribili come la somministrazione continua di sostanze altamente tossiche che distruggono l'organismo a poco a poco, fino alla morte, e poi lo scherno, la noncuranza e tutto il peggio che persone desensibilizzate a poco a poco riescono a fare su altri individui, trasformandoli in cose, perché è solo convincendosi che siano cose, a dispetto di ogni evidenza, che si può continuare a martoriare i loro corpicini indifesi.
Una cosa mi ha colpito di questi diari: il fatto che l'infiltrata abbia notato come gli animali vessati e ridotti a corpicini impotenti manifestino il loro dolore modificando il loro comportamento abituale, per cui, se un cane rimane immobile sulla gabbietta o gira in tondo o agisce in modo strano è perché sta provando un dolore fortissimo e continuo. Uno si aspetterebbe che urli e invece no, il dolore è talmente forte da fiaccare persino i loro ululati e guaiti.
Tutto questo per cosa? Per nulla! Perché la ricerca sugli animali è una ricerca che viene continuamente falsata, che ottiene quello che vuole ottenere semplicemente modificando i parametri o cambiando specie, che ha il solo scopo di ottenere il lasciapassare legale per l'introduzione di farmaci o altri prodotti sul mercato (salvo poi, secondo statistiche, ritirarne un buon 50% dopo aver provocato danni sugli umani, che rimangono comunque i primi tester affidabili). Ma, ma... anche se fosse utile, rimarrebbe comunque la forma peggiore di sevizie che un individuo possa fare ad altri individui e per questo sempre e comunque deprecabile.
Per me chi sostiene la vivisezione può farlo solo per due motivi: o perché è persona profondamente disinformata e manipolata dai media, o perché è un mostro insensibile.

lunedì 5 ottobre 2015

Vegani? No, persone che perseguono una lotta di giustizia sociale


L'attenzione sui vegani, anziché sul motivo per cui si è vegani, continua a oscurare i veri soggetti della questione animale. 
Sta a noi riportare l'argomentazione sulla strada giusta. Non aspettiamoci che accada spontaneamente (anzi, i media faranno di tutto per normalizzare e distorcere l'informazione). 
Dobbiamo essere abili e determinati. Se ci parlano di "proteine animali", noi dobbiamo menzionare gli individui per la cui liberazione lottiamo; se ci parlano di nutrizione, noi dobbiamo semplicemente dire che non è necessario mangiare animali per vivere; se ci parlano di dieta vegana, noi dobbiamo iniziare a parlare di società del dominio, oppressione, sfruttamento, violenza istituzionalizzata e richiesta di giustizia sociale per ogni individuo; se ci parlano di allevamento naturale, di catena alimentare e via dicendo, noi dobbiamo rispondere che il dominio è un prodotto storico-sociale e che è un concetto diverso dalla predazione (naturale poiché necessaria per alcune specie carnivore obbligate).

sabato 3 ottobre 2015

Lotta di giustizia sociale, non una dieta!


Scena: una pizzeria, tavolo dietro al nostro. Assistiamo al seguente dialogo:

- Ah sì, i vegani, ora vanno di moda (sic!). 
- Chi?
- I vegani. Ce so' i vegetariani che so' quelli che non mangiano la carne, poi ce so' i vegani che vanno avanti a forza de tofu e alla fine glie parte il cervello!

Io e mio marito: - Bisognerebbe prima avercelo un cervello... cosa che non sembrerebbe così scontata.

Ora, per quanto sui vegani e sul veganismo si dicano un sacco di stupidaggini, credo sia importante tastare il polso delle persone per capire dove stiamo sbagliando. Se il veganismo passa per essere una moda la colpa non è ovviamente solo nostra, ma del sistema che cerca di "normalizzare" e assorbirne le istanze originariamente e radicalmente rivoluzionarie, però diciamocelo che un po' ci mettiamo anche del nostro nell'insistere in maniera quasi ossessiva sul cibo. 
Non dobbiamo parlare di carne (e di dieta in generale), che è già il prodotto finito non più riconducibile alle pratiche di violenza che sono state messe in atto sugli individui senzienti, ma di questi ultimi appunto, gli individui animali (raccontando CHI sono, oltre le menzogne culturali che ne giustificano lo sfruttamento e l'oppressione) e della loro condizione di schiavitù, reclusione e dominio pressoché totale sui loro corpi. 
Dobbiamo scendere in strada e parlare di una lotta di giustizia sociale.

Ridotta all'essenza, la vera sfida sta nel rendere SOGGETTI gli animali non umani.

mercoledì 30 settembre 2015

"It's my business" (un resoconto di Candida Nastrucci).

Condivido da Facebook il resoconto di questo fatto realmente accaduto. 
La maniera in cui vengono trattati gli altri individui (TUTTI, di qualsiasi nazionalità o specie) è anche affar mio, affar di tutti, affar nostro e non solo perché domani potrebbe toccare a noi di venire discriminati e bloccati lungo un viaggio (che sarebbe un motivo egoistico), ma perché siamo tutti fatti della stessa sostanza: carne e sangue. E tutti abbiamo diritto alla libertà.



Cara Merkel così non va,
Mi trovavo a passare ieri tra l'Austria e la Germania, in realta' andavo da Linz a Innsbruck e nel mio vagone c'erano tre famiglie non tedesche, non europee, siriane. Persone a modo, che parlavano bene l'inglese, ovviamente di buona istruzione. Marito e moglie con figlio adolescente. Le famiglie si conoscevano, nel viaggio da Linz a Salisburgo si scambiavano i caricatori dello smarphone e giocavano su internet. Persone normali, se di normalità si puo’ parlare, persone comuni. Il padre della famiglia accanto a me mi ha aiutato con la valigia e la montagna di borse che mi portavo e che non si sapeva dove sistemare per far passare il carrello delle vivande. Ho pensato, è bello trovare persone gentili, ha pensato a me e alla mia aria trafelata, sempre di corsa. 
Si viaggia in silenzio. Da Vienna il treno era diretto a innsbruck con fermata a Salisburgo, poi Innsbruck. 
Il treno si ferma, dal finestrino vedo arrivare due montagne di uomini in blu armati di pistole con scritto Polizei sulla maglietta. Prima rimangono alle porte, salgono e scendono. Poi salgono ed iniziano a camminare nel vagone, io ero la prima seduta vicino la porta, non mi guardano. Si fermano ai sedili avanti al mio. Vedono una donna con la sciarpa sui capelli, un ragazzino e un bambino. Gli chiedono il passaporto in tedesco, loro non capiscono, poi ripetono la domanda in inglese. Rispondono che non hanno i documenti. Panico nel vagone. Il poliziotto gli dice di scendere dal treno ma loro non si muovono. I poliziotti si allontanano e scendono dal vagone. Il Gelo. Dopo 2 minuti tornano con un altro poliziotto uno biondo, alto e minaccioso e una poliziotta anche lei armata, e una ragazza bruna con i capelli neri lunghi e un gilet giallo, una traduttrice, adesso sono in 5 sul treno ed altri polizziotti in divisa fuori dal treno. Il tono e' perentorio vogliono i passport!. La donna lo consegna e dice “...we come from Siria…" l'ariano enorme sentenzia a brutto muso.... “You have to get out of the train now!”. 
Non ce la faccio a stare zitta.... Non ce la posso fare. Mi vengono le lacrime agli occhi, ma sono troppo arrabbiata per tacere. A cosa stavo assistendo? Al remake della "La vita e' bella" che fece piangere la mia amica tedesca Ute quando lo vedemmo insieme ai tempi di Oxford? Ma che roba era quella? La ghestapo del 2015? 
Qui si fa la storia adesso e che razza di storia stiamo facendo!? Quindi parlo. Guardo l’ariano e gli dico in inglese…"what are you doing? It's not right what you are doing, let them stay”e lui con voce dura, seccata ed arrogante mi risponde “This is not your business, they have to get out” Io gli chiedo “why?” e lui “.. This is not you business” gli dico che si “it's my business, I am European, we are in Europe and you can't throw away people travelling in Europe”. Lui continua e dice di farmi gli affari miei e io rispondo che sono affari miei. Tutti tacciono e guardano in basso. Poi l'ariano biondo li ha costretti ad alzarsi ed è riuscito a far scendere loro e altre persone siriane che erano circa 10. Li ho seguiti fini all’uscita continuando in inglese a dire alla polizia che stavano sbagliando uno di loro mi risponde “... this train pass across Germany and we Austran have the order not to let anybody pass Germany”. Ma noi stavamo andando a Innsbruck con un treno veloce senza fermate, la Germania era solo di passaggio, che scusa e' questa?! Ecco che un'altra voce si fa piu' forte dentro di me... We follow... the orders.... Noi seguiamo gli ordini.... No. Non ci siamo proprio. Non avete imparato nulla? 
Io ho ho l'email della donna siriana, gliel’ho chiesta mentre scendeva dal treno, voglio sapere dove li avete mandati. I bambini fatti scendere da quel treno erano terrorizzati, guardavano i genitori con gli occhioni spalancati e noi con gli sguardi interrogativi, ''perche'''? 
Ma e' questa l'Europa?
La storia siamo noi, facciamo che ognuno di noi abbia un pezzetto di responsabilità, il cielo è uno, la terra è una, i confini non esistono, l’ignoranza è il nostro confine piu’ grande, insieme alla mancanza di immedesimazione, di compassione, di empatia.
Siamo tutte persone uguali su questa terra a prescindere da dove si nasce, tutti dovrebbero avere le stesse possibilità di vivere una vita felice, e soprattutto nessuno dovrebbe avere il diritto di farti scendere da un treno... a meno che tu non abbia il biglietto... ovviamente.

Candida Nastrucci
25 Settembre 2015

giovedì 24 settembre 2015

NOmattatoio: video del 10° presidio

Sabato scorso, il 19 settembre, abbiamo fatto il decimo presidio davanti al mattatoio di Roma. 

In attesa del resoconto, intanto pubblico il video: 


giovedì 10 settembre 2015

NOmattatoio: video del 9° presidio e evento del 10°

"Non pietà, ma giustizia è dovuta agli animali" (A. Schopenhauer)



Qui potrete trovare le info sul prossimo presidio a Roma che si terrà sabato 19 settembre. 

martedì 8 settembre 2015

NOmattatoio 8° presidio (del 25 luglio 2015): il video

Viaggiano ammassati come oggetti, sfiancati dal caldo, assetati, umiliati, immersi nelle loro feci. Ti osservano timorosi e increduli quando ti avvicini, nei loro occhi una domanda: perché?
Impotenti li guardiamo allontanarsi. Ultima fermata: il mattatoio



Presto anche il video del nono presidio.

venerdì 4 settembre 2015

9° presidio NOmattatoio: il resoconto


Italia, posto di confine di Gorizia,
4 marzo
Il puledro bruno è sull’automezzo
da 21 ore.
Quando gli altri 29 cavalli vengono scaricati,
cerca disperatamente di alzarsi.
Farebbe di tutto pur di non restare indietro solo.
Con gran fatica si tira su.
Zoppicando su tre zampe scende la rampa di carico dell’automezzo.
E subito ripiomba a terra.
L’arto posteriore sinistro si piega con una strana angolatura verso l’alto.
Tenuto solo da un paio di muscoli e dalla pelle.
Julia impedisce che il trasporto prosegua verso l’Italia del sud e chiede che Valentino venga immediatamente abbattuto.
Arriva un operaio.
Fa partire il colpo che stordisce l’animale.
Squilla il suo cellulare.
L’operaio risponde, inizia una vivace discussione.
Trascorre troppo tempo fra lo stordimento e la morte.
Il puledro bruno sta ormai lottando con la morte, è in agonia.
L’operaio continua la sua telefonata.
Per lui la morte di un cavallo non costituisce un evento importante.
Interferisce solo con la normale routine del posto di confine.
Qui la vita di Valentino non vale nulla.
Veramente nulla?
Julia si inginocchia nella polvere dietro l’inceneritore,
accanto al puledro morto proveniente dalla Romania.
Accarezza il ricciolo che ha sulla fronte fra gli occhi senza vita.
Poi drizza con cura l’arto posteriore fratturato e lo adagia accanto a quello buono.
Buon viaggio. Valentino, sussurra.

Questa testimonianza è tratta dal libro “Con gli occhi dell’amore” di Christa Blanke, fondatrice di Animals' Angels, un’associazione che so occupa di accompagnare gli animali durante i viaggi dall’allevamento al mattatoio, spesso da Stato a Stato e lunghi giorni interi. Lo fanno per donare un minimo di conforto – acqua, cibo, ma anche carezze e cure di primo soccorso – e per chiedere alle autorità veterinarie locali di intervenire quando ci sono individui feriti e incapaci di sopportare oltre il viaggio. 
Come abbiamo detto tante volte, può sembrare inutile assistere così gli animali che stanno andando al macello, eppure è un qualcosa che porta a sguardi inediti sul reale e sulla considerazione che la società ha degli animali non umani. Nel momento in cui coloro che vengono considerati solo merce, diventano  qualcuno e vengono trattati come qualcuno, si apre la possibilità di una messa in discussione del reale. 
Per questo anche noi andiamo davanti al mattatoio ogni mese: per dire che è in atto un’ingiustizia di gigantesche proporzioni contro individui. 
Di recente un addetto al mattatoio di Roma ha rilasciato un breve comunicato in cui ha affermato che  il mattatoio non sarebbe un campo di morte, ma un’industria. Ecco, solo se si è incapaci di riconoscere negli animali umani il loro essere individui senzienti, allora li si potrà considerare meri pezzi di ricambio. 
Ed è questa la sfida dell’antispecismo, di cui ci facciamo semplici divulgatori: lottare contro la discriminazione di specie basata sul dominio. 
Questo e altri brani abbiamo letto durante il nono presidio del 29 agosto 2015 e poi, come già altre volte, abbiamo letto testimonianze di chi dentro i mattatoi ci ha lavorato (veterinari, addetti, investigatori sotto copertura) e spiegato ai passanti cosa stiamo facendo e perché.

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