martedì 29 marzo 2011

Luce ed Ombra - Quiete e Movimento

In Inland Empire di David Lynch c'è un dialogo molto significativo tra Nikki Grace, la protagonista, interpretata da Laura Dern e la sua vicina di casa, un'inquietante signora interpretata da Grace Zabriskie; in particolare, a un certo punto, la vicina di casa dice: "un giorno un bambino uscì all'aperto a giocare. Nel momento esatto in cui aprì la porta vide il mondo. Nell'attraversare l'uscio causò un riflesso. E così nacque il male." (la traduzione è mia, avendo trovato su internet solo il dialogo originale in inglese e non potendo ricordare a memoria il dialogo del film doppiato in italiano).
Precedentemente la stessa signora, nella stessa scena, aveva messo in guardia Grace, esortandola a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni: "le azioni hanno conseguenze".
Inland Empire è un film grandioso. Uno dei migliori di questo straordinario regista. Non intendo discuterne tutti gli aspetti o parlare del film - non adesso almeno, non questa volta - ma di uno dei temi portanti, che è quello della necessità di non trascurare il peso delle proprie azioni e scelte poiché anche dal gesto apparentemente più insignificante potrebbero derivare conseguenze importanti.
Tante volte mi sono interrogata sul concetto di Male. E sempre ho faticato a riconoscervi una matrice univoca o a circoscriverlo entro confini ben precisi. Inoltre, non essendo cattolica (anzi, essendo totalmente a-religiosa), non ho parametri dogmatici cui fare riferimento nel controllo delle mie azioni.
E  so dell'illusorietà di controllare l'esito o la direzione di ogni gesto.
Una buona azione può, infatti, paradossalmente condurre ad esiti totalmente negativi e viceversa. Come ci muoviamo possiamo essere artefici del male. Anche senza volerlo. Il male sembra derivare dal concetto stesso di azione e di movimento, a prescindere dalla sua carica di positività o negatività (e la parabola del bambino che esce di casa per giocare è emblematica: è il sole che crea l'ombra, è il movimento che crea il riflesso).
Una volta ho dato dei soldi a un mendicante. Quel mendicante poi ci ha comprato degli alcolici. Era un alcolista. Ho aiutato un alcolista a continuare a farsi del male, ma io non potevo saperlo. Di sicuro la mia intenzione era di fare del bene ma il suo effetto è stato l'esatto contrario.
Conta l'intenzione o l'esito di un'azione?
O non sarebbe più corretto dire che ogni azione, di per sé, è neutra?
L'altra sera, distrattamente, mentre camminavo come al solito con la testa  completamente fra le nuvole, ho urtato una persona anziana che camminava con il bastone. Fortunatamente non è caduta ma ci è mancato poco. Se fosse caduta magari si sarebbe rotta una gamba. Per la mia distrazione ho rischiato di far male a qualcuno. Dite che sarebbe stato un semplice incidente, niente di più e niente di meno? Può darsi. Un incidente causato dalla mia distrazione (come ne avvengono a migliaia, ovunque).
A me sembra che però sia molto importante sapere questa cosa, e cioè che la mia distrazione potrebbe far del male. E per questo mi sono ripromessa di fare più attenzione.
Ecco, dove voglio arrivare è a questa enorme responsabilità che ci portiamo dietro, quella di causare - anche inconsapevolmente - il male.
E forse la matrice religiosa cattolica del "peccato originale" e del senso di colpa è solo l'interpretazione romanzata di questa assunzione di responsabilità che ci portiamo dietro. E del senso di colpa che ne scaturisce. Su cui la religione, strumentalmente, fa leva.
E' vero anche il contrario. Dal male può nascere il bene.
Circa sette anni fa un conoscente - sapendo del mio amore per gli animali - abbandonò nel cortile della mia abitazione un cucciolo di gatto. Era la mattina di ferragosto, e io - che solo per puro caso mi trovavo ancora a casa - solo per puro caso quindi potei accorgermi del miagolio insistente del gattino e così soccorrerlo, portarlo al riparo dal sole cocente, dargli da mangiare, da bere, metterlo al sicuro. Venni a sapere solo in un secondo tempo che era stato questo conoscente a lasciarmi il gattino, lì per lì pensai infatti che l'avessero abbandonato degli ignoti. Mesi dopo, quando mi capitò di incontrare questa persona e lo interrogai sul motivo del suo gesto; mi rispose:" avevo preso quel gattino per far giocare mia figlia, ma poi mia moglie non l'ha voluto e allora le alternative erano: o gettarlo in un cassonetto, o lasciarlo sull'autostrada, o lasciarlo davanti casa tua, che so che ami gli animali".
Cosa volete che io pensi di una persona simile?  Di una persona che "compra" (mi confessò pure che l'aveva "comprato" in un negozio di animali e che l'aveva pagato ben 80 euro! E lo disse come se avesse compiuto chissà quale prodezza!) un animale per far "giocare" (come fosse un semplice oggetto) la figlia e poi, incapace di prendersene cura, lo abbandona? Ecco, lo sapete cosa penso, no?
Eppure da questo gesto di così inaudita idiozia sono poi derivate tante cose positive. Il gatto sta bene e nei mesi ed anni successivi è stato affiancato da altri compagni di gioco e di vita (altri trovatelli soccorsi perché in difficoltà o malati ecc.).
Vivere con lui e con i suoi amichetti pelosi ha affinato la mia sensibilità verso gli animali. Non potendo più guardarli negli occhi senza sentirmi in colpa ho deciso di diventare vegetariana. E - entrando più da vicino nel mondo dei gatti - ho acquisito consapevolezza di tante altre cose nelle quali ho potuto rendermi utile (ad esempio del problema delle colonie feline a Roma, problema perché sono numerose e non bastano i volontari per accudirle, e poi dell'esigenza delle sterilizzazione per il controllo delle malattie da immunodeficienza e di tanti altri aspetti legati al mondo felino), e da allora mi sono attivata per portare il mio modestissimo contributo per la cura di queste splendide creature.
Ieri riflettevo su come tutto sia cominciato lì, quella mattina di ferragosto di sette anni fa, e su come il mio percorso "evolutivo" - che mi ha condotta alla scelta vegetariana, scelta che a sua volta mi ha spalancato un mondo e mi ha fatto prendere coscienza di tutto l'orrore dello sfruttamento animale, rendendomi, tutto sommato, una persona "migliore" - sia stato in definitiva "scatenato", messo in moto dal gesto idiota e sconsiderato di una persona del tutto inconsapevole degli esiti delle proprie azioni. Da un gesto malvagio, come quello di abbandonare un gattino, si è prodotto qualcosa di positivo. Il gesto idiota di quella persona si è fatto strumento di valore, e quella persona si è fatta artefice - totalmente a sua insaputa - di un qualcosa di positivo. Il velo di Maya che prima poggiava sui miei occhi è stato sollevato da un conoscente che disprezzo.
E' corretto parlare in questo caso di un male che si è fatto strumento di un bene? Non volendo parlare di un'assolutezza del male - Bergman, non a caso, ne Il posto delle fragole, fa dire ad un personaggio (il figlio del professore che si mette in viaggio con la nuora): "Bene e male non esistono: esistono solo le necessità" - si potrebbe allora parlare delle necessità che ci portano ad agire, a compiere delle scelte (il bambino che esce fuori a giocare, il cui movimento crea il riflesso) e delle scelte che avranno delle conseguenze, il cui esito non sempre - anzi, quasi mai -  ci è dato conoscere.
E' corretto allora continuare a parlare di Male e di Bene in termini di categorie assolute?
A me sembra allora molto più importante divenire consapevoli e farci responsabili del peso di ogni nostro gesto. E' l'assunzione della responsabilità che conta.
E in questa accezione, si può ancora parlare di problema ontologico del Male?
Io so solo che l'ombra è l'area scura proiettata su una superficie da un corpo che, interponendosi tra la superficie stessa e una sorgente luminosa, impedisce il passaggio della luce (da Wikipedia).
Quel corpo - metaforicamente - è dato dalle nostre azioni, da noi che - come il bambino della parabola - ci muoviamo ed entriamo nel mondo; ma senza il sole, senza la luce, l'ombra non si formerebbe. E non si formerebbe senza il nostro movimento, senza il nostro agire nel mondo.
Forse solo la quiete è bene. L'impassibilità ed il distacco del Buddha.
Forse noi, le nostre azioni, sono come il mare che si increspa in superficie. Ma sotto, nelle profondità degli abissi, tutto è pace, tutto è quiete.

sabato 26 marzo 2011

Walt Disney, Delacroix ed Orson Welles


A Parigi quel giorno pioveva. Ed anche per quello avevano deciso di prendere il treno da Disneyland Paris - dove si erano concessi una breve gita di quattro giorni - per passare qualche ora al Louvre. La città la conoscevano bene, c'erano già stati altre volte, ma con altre persone, mai insieme. E comunque il Louvre richiede ben più di una visita, anzi, si potrebbe benissimo abitare a Parigi ed andarci ogni giorno senza che per questo si  possa esaurire l'interesse e la curiosità di visitarlo.
Lei non la si sarebbe potuta definire proprio un "studiosa di arte"; anzi, quel poco di storia dell'arte che aveva studiato al liceo l'aveva pure dimenticato. Manteneva un approccio infantile verso la pittura, la vedeva semplicemente come un mezzo tra i tanti per raccontare delle storie, per questo amava soprattutto i dipinti a sfondo mitologico o tratti da opere letterarie; anche i temi storici raccontano delle storie, anzi, la Storia per eccellenza, ma lei, come al solito, preferiva la finzione, le storie nate dalla fantasia degli uomini. 
Avevano passato così l'intero giorno chiusi dentro il Louvre, uscendo solo una volta per fumare una sigaretta e per vedere se il tempo era migliorato.
Avevano visitato diverse sale ma senza seguire il percorso indicato dalla guida, preferendo soffermarsi sulle tele di alcuni artisti piuttosto che su altre, assecondando l'unico criterio che mai potessero avere, quello dei loro sensi. 
Anche quella volta, come tutte le ultime volte che era entrata al Louvre, lei aveva evitato accuratamente di entrare in una sala ben precisa, quella in cui per la prima volta aveva visto La mort de Sardanapale di Eugène Delacroix, e la cui visione le aveva provocato un così profondo sovvertimento dei sensi da averla fatta star male per giorni e giorni.
In quel groviglio di corpi, allora,  aveva visto e sentito - ad un livello emotivo raramente sperimentato prima - l'inutile procrastinarsi di un qualcosa che resta tuttavia ineluttabile. E dopo, nei giorni a seguire, aveva provato un senso di impotenza devastante, dentro ed intorno a lei.
Ma quel giorno era diverso, si sentiva bene, negli anni aveva acquisito una lucidità di pensiero ed una consapevolezza di cui ora avrebbe certamente saputo far tesoro. Così entrò. E si fermò, per la seconda volta, di fronte a quel capolavoro del periodo romantico: la tela era come la ricordava: immensa. E il potere che ne sprigionava era, anche questo: immenso.
I dipinti, come gli odori e come la musica, hanno un fortissimo potere evocativo. E così, anche quel giorno, ancora una volta di fronte a quella tela, ecco ripresentarsi, con l'urgenza di un qualcosa che erompe dal profondo, tutte quelle drammatiche sensazioni, pari ad un malessere fisico ma mille volte più inquietanti.
Proprio come quella volta di tanti anni fa sentiva di trovarsi lì fisicamente, ma anche dentro a quella tela. Era tornata a percepirne i contorni fisici e anche la sensazione del reale.
Si era ripresentato in lei lo stesso terrore di essere in bilico sull'ignoto. E poi, dentro quel terrore, la certezza di aver subito uno strappo, e di avervi intravisto, come attraverso uno squarcio, lampi di verità.
E poi, la stessa inevitabile domanda dell'altra volta: la tela di Delacroix era come la pillola rossa di Matrix?  Solo che lei, adesso, come la prima volta, la blu non ce l'aveva. E quindi non aveva scelta. Era costretta a vedere, a sentire, a percepire: esperienza estetica spinta al massimo.
E tornava, come ondate, il ricordo di quei giorni del passato: la frenesia improvvisa, il non poter stare ferma, l'ansia di doversi muovere, come se avesse dovuto sfuggire a qualcosa. E la notte insonne, a camminare su e giù per il corridoio. E la paura di crollare per la stanchezza e di essere costretta a fermarsi.
Giorni spesi in un microcosmo personale di malessere - incondivisibile - una fortezza inespugnabile di pensieri privi di controllo razionale, guidati soltanto dall'angoscia, dalla paranoia e dalla paura. Immagini di luoghi che esistono solo nella mente ma più reali del reale.
Ed in quel momento che si era trovata di nuovo di fronte a quella tela, le sembrava quasi di rivedere il cielo di quei giorni,  stranamente sempre cupo, anche quando c'era il sole. E quella sensazione di un'oscurità invasiva da un punto indefinito dentro di lei che si andava ad espandere all'esterno, arrivando a contaminare tutto, le strade, il cielo, le case, gli oggetti, gli animali e le persone. E poi tutto che si faceva nero, come fosse sempre notte.
E poi ancora ricordava l'angoscia profonda  che le veniva data  dalle forme degli oggetti, come fossero stati una costrizione oppressiva ed opprimente. E il terrore scatenato da una busta di plastica che per sbaglio era finita sui fornelli e si stava velocemente sciogliendo. Ed essere rimasta ad  osservarla, senza poterci fare niente.
E subito dopo, l'improvvisa profonda devastante compassione per il gatto Dick, costretto anche lui dentro una forma, dentro la necessità di un corpo.
La costrizione delle forme. E il desiderio, ma anche il terrore sconvolgente di potervi sfuggire.
E poi la buffa, bizzarra sensazione di non sentirsi più se stessa, di non avvertirsi più, come se qualcuno, o qualcosa, avesse preso possesso dei suoi pensieri più profondi e stesse trasformando, manipolandola dall'interno, la percezione che della realtà aveva. La realtà, dentro lei, come creta manipolata dalle mani di qualcuno. Che non era lei.
Giorni e giorni di quell'assurda angoscia. Di totale dìstacco dalla realtà e del desiderio di reintrarvi.
E l'incapacità di capire e la sola cosa che avesse potuto fare: accettare quello che aveva vissuto, prendendolo come un dono, o come una maledizione: la rivelazione di qualcosa che tuttavia continuava a restarle inafferrabile.
Ora era di nuovo lì, scossa nel profondo per la vivacità con cui erano tornate quelle impressioni.
E poi, improvvisamente, con una lucidità raramente sperimentata prima, realizzò quella che già allora - diversi anni prima - era stata epifania dentro di lei ma senza che le fosse stato dato di poterla comprendere. Solo accettarla.
Il turbamento che era stato adesso lasciava spazio alla consapevolezza.

Questa volta, di diverso, c'era stata la gita a Disneyland Paris - certo, una scelta buffa (gli amici li avevano guardati con aria di sufficienza, un po' dall'alto in basso quando avevano saputo di questo loro breve viaggetto) se si pensa che erano entrambi adulti e che non avevano figli, che erano andati lì proprio per loro stessi: erano cresciuti entrambi con le letture di Topolino, e tutti quei personaggi erano stati compagni con cui confrontarsi e con cui solleticare l'immaginazione e la fantasia. E poi, solo qualche settimana prima, a Eurodisney c'era stata l'inaugurazione di un gioco pazzesco: The Tower of Terror, ispirato ad uno degli episodi di Ai Confini della Realtà: un ascensore - controllato meccanicamente -  che cade nel vuoto per svariati metri, in una cornice scenografica - ricostruita, sotto la supervisione della Disney americana, sin nei minimi dettagli. Si sa, gli Americani, eterni bambinoni, certe cose le sanno fare proprio bene. E, per quel che se ne possa dire, a volte le cose vanno prese semplicemente per quello che sono: un gioco.
Si erano divertiti in quel luogo fiabesco, ed anche commossi quando, la prima sera, avevano voluto assistere alla parata di tutti i personaggi Disney: Paperino, Pluto, Pippo, Topolino, Minnie, Qui, Quo e Qua, la Banda Bassotti, Nonna Papera, Lupo Ezechiele, Archimede e poi, a seguire i personaggi delle favole classiche (ma quelli gli erano piaciuto meno, lei, ad esempio, aveva sempre preferito le favole originali e non la versione originale della Disney). Mentre stavano guardando la parata lei improvvisamente aveva avvertito - insieme al riso e alla commozione - una sensazione di angoscia profonda, di perdita definitiva, come di un qualcosa che era andato perduto per sempre. Non era stato difficile da decifrare: aveva preso coscienza di quel qualcosa che non può più ritornare: l'infanzia.
Un'invasiva nostalgia da togliere il respiro. Da scatenare una crisi di ansia profonda. Nostalgia: dal greco nòstos, che significa desiderio di  ritorno a casa, far ritorno alle radici, e algia, da algos che significa dolore, tristezza. Sembra che questo termine - oggi così comunemente usato - sia stato attestato per la prima volta in Omero, a proposito della profonda tristezza di Ulisse che si trovava lontano dalla patria e dal suo desiderio di farvi ritorno.
E allora finalmente si era resa conto dello scarto profondo che c'è tra la dimensione intellettuale e quella emotiva; e di quanto poco si comprenda alla fine di quello che non è anche immediatamente vissuto. Nostalgia. Quante volte aveva letto, sentito, scritto questa parola? Eppure solo adesso ne comprendeva davvero il senso, il significato autentico. Perché anche per lei, come per tutti prima o poi, era arrivato il momento dello strappo irriducibile, irriconducibile di una parte di sé.
Ed i giorni lievi dell'infanzia le erano apparsi allora come un luogo perduto per sempre, ormai irraggiungibile. E si era resa conto che quella commozione intrisa di angoscia altro non era che la certezza di un qualcosa che non può più ritornare.
Ed ora tutto si faceva nuovamente chiaro e semplice di fronte a La mort de Sardanapale: la consapevolezza della perdita dell'infanzia è una linea retta che conduce ad un'altra consapevolezza, quella dell'ineluttabilità dell'evento che tutti attendiamo: la morte.
Lo strappo del passato e la visione del futuro. Perdere l'infanzia è imparare a morire. Perdere l'infanzia è cominciare a morire. In Quarto Potere di Orson Welles, il protagonista Charles Foster Kane non fa che tentare per tutta la vita di far ritorno a quell'infanzia che gli era stata sottratta troppo presto: Rosebud - le ultime indecifrabili parole che pronuncia prima di morire e con cui si dà inizio al racconto della sua storia - è il luogo cui cerca di far ritorno per tutta la vita.
Una gita a Disneyland Paris, La mort de Sardanapale, Quarto Potere; Topolino, Delacroix ed Orson Welles.
Buffo come a volte tutto ci conduca altrove. Assaggio del luogo che tutti ci attende.

martedì 22 marzo 2011

Olocausto invisibile (VI) - riflessioni sparse - flash di pensieri discontinui - dell'Orrore e della Bellezza - del Dolore e dell'Oblio


Una visita in un museo, tanta Bellezza, presente-passato-futuro compresi in un'unica tela, effimera eppure sostanziale. I miti ed i temi biblici, l'iconografia religiosa, un percorso di natura estetica che narra la storia del mondo e dell'umanità, e della sua rappresentazione nei secoli.
E realizzo che difficilmente potrei farne a meno. Ho bisogno di sentire il mondo anche attraverso altri sguardi, di quelli che mi hanno preceduta e di quelli che verrano, che però sono già lì, in certi dipinti che racchiudono un potenziale enorme.
Esco dal museo, e quella stessa Bellezza ora è senza mediazione: ha smesso di piovere, macchie disomogenee di azzurro si fanno spazio nel nero, tutto è nitido, le endorfine salgono, l'adrenalina rende tutto inedito.
E faccio tesoro di questo, per le carestie dell'anima, che verranno ancora. E metto da parte, a conservare tutto. E so che, qualsiasi cosa accada, nessuno potrà privarmi della mia scorta di Bellezza, a cui attingere a piacere.

Poi, più tardi, entro nel supermercato dove vado di solito e mi soffermo ad osservare - reprimendo le lacrime, come sempre - il bancone dove sono esposti i pesci in vendita. E' un attimo. E lo vedo. Vedo qualcosa muoversi. E vorrei scappare. Ma resto lì, inorridita ed incapace di reagire. La mente mi si annebbia. Improvvisamente sono aliena in un luogo di cui non comprendo le leggi. Tutto ciò che prima mi era familiare diviene estraneo. Sento le voci ma non le parole. Suoni a vanvera.
Su quel bancone - dove per legge dovrebbero essere esposti solo pesci morti - ci sono creature che sono ancora vive - astici e scampi - sul ghiaccio - muovono le chele - agitano le zampette - aprono la bocca - qualcuno li comprerà - ancora vivi - li porterà a casa - ancora vivi - qualcuno, uscendo, con la busta della spesa sotto al braccio - con dentro quelle creature ancora vive - allungherà una mano per gettare una monetina ad un mendicante - qualcuno penserà all'iniquità della sperequazione sociale - qualcuno penserà che una monetina è sempre meglio di niente - ognuno fa quel che può - qualcuno salirà in macchina e distrattamente appoggerà la sua busta della spesa - con dentro delle creature vive - sul sedile posteriore - qualcuno metterà in moto e si immergerà nel traffico - alla radio le notizie del giorno - qualcuno rifletterà sulla follia delle guerre - qualcuno rifletterà sulla follia altrui senza accorgersi della propria - qualcuno arriverà a casa - finalmente - dopo una giornata di lavoro - ed ora, tutto il diritto di rilassarsi - e di gustarsi una bella cenetta - stappiamo anche una bottiglia di vino pregiato - si vive una volta sola e non bisogna lesinare sui piccoli piaceri - qualcuno si toglierà gli abiti che portano addosso l'odore della fatica del lavoro e si metterà sotto la doccia - calma - con tutta la calma possibile - e intanto di là, sul tavolo - le creature continuano a vivere, a muoversi, a sentire, a sentirsi aliene in un mondo di cui non conoscono le leggi, in un habitat diverso da quello che erano abituate a conoscere, un luogo troppo diverso per non far paura, inconferente, incubotico - qualcuno intanto si starà asciugando i capelli - preparandosi con cura, con gesti pigri e lenti - qualcuno poi andrà in cucina - e l'orrore avrà inizio - nel calore dell'intimità domestica l'orrore avrà inizio - qualcuno prenderà quelle creature e le getterà - incurante - cieco - inconsapevole - distratto - nell'acqua bollente - bollente - e quelle creature moriranno - moriranno per soddisfare il gusto di qualcuno.
Il mondo va avanti, incurante di tutto l'Orrore che si porta dietro.

Tutto questo è stato un attimo. Me lo sono visto passare davanti agli occhi in un flash. E mi sono sentita aliena anche io. Più vicina a quelle creature che a tutto il resto dell'umanità che procedeva nei propri acquisti.
Di chi è la Follia? E' la mia? O non è forse quella di tutti gli altri che comprano un tanto al chilo creature che ancora si muovono? Sono io la pazza? E perché, quando ho esposto l'irregolarità di tenere astici e scampi vivi sul ghiaccio (a Roma è vietato dal regolamento comunale sulla tutela degli animali tenere animali acquatici al di fuori di adeguate vasche. Anche se purtroppo non è vietato acquistare e mangiare animali, e lì resto impotente, ma che almeno vengano rispettate quelle piccole normative che sì, lo so, sono infinitamente piccola cosa - ipocrita - perché comunque vivi sul ghiaccio o già morte quelle sempre creature che finiranno nella pancia sono - e perché non esiste un modo "etico" di uccidere e sfruttare gli animali - e però che almeno - ove riconosciuto e legalmente stabilito - venga risparmiata un'agonia maggiore), e perché, dicevo, quando parlavo con il Direttore, mi sono sentita sola al mondo, come una pazza che tenta di far comprendere ciò che vedi solo tu? Chissà, forse anche i grandi rivoluzionari, quale io non sono, si sono sentiti almeno una volta così, nella loro vita. Soli. Controcorrente. Mentre tutti vanno nella direzione opposta.
E in un attimo tutta quella Bellezza di quel pomeriggio è svanita, scivolata giù, in un luogo troppo lontano per poterla ancora raggiungere. Ho tentato, tentato di riafferrarla ma era sempre più evanescente, come una piccola pozza d'acqua che il sole inizia a prosciugare.
Poi mi sono fatta forza. Ho ripreso il controllo della mia emotività. Ho provato a pensare - ho dovuto forzarmi a pensare - che la Bellezza e l'Orrore possono coesistere anche in un unico luogo. Che l'una non annulla l'altro, e viceversa. Che sono sempre presenti - una dualità irremovibile.
L'Orrore e la Bellezza coesistono. Punto. E non c'è molto altro da aggiungere. Bisogna solo fare attenzione a non lasciare che si confondano l'una con l'altra. Perché la Bellezza è una e resta tale. E l'Orrore anche, è uno, e resta tale. E il ricordo di quelle tele al museo l'ho faticosamente ritirato su, riacciuffato per un pelo, e sono tornata a bearmene.
E no, non è una rimozione, non è un oblio. E' solo un compiere la fatica più immane di questo nostro essere al mondo: provare a far convivere la Bellezza accanto all'Orrore. Senza che il secondo annulli la prima.


Altri pensieri. Una sera su internet -  finisco per caso - di link in link - su un blog di una ragazza malata di cancro; poi, scopro non essere l'unico - così come esistono i satira blog, i cinema blog, i libri blog, i poesia blog, i musica blog, l'anoressia blog, i fashion blog, i cazzeggio blog, i politica blog, i nulla blog, esistono anche i "cancer blog". Persone coraggiose che raccontano senza tabù e senza ipocrisia e senza stare tanto a scomodare eufemismi la loro malattia. Persone che si muovono in un inferno quotidiano fatto di dolore, di umiliazione, di arrendevolezza, di perdita della dignità, ma anche di tutto ciò che ne è l'esatto contrario. Ed è stato per me una grande lezione leggere di queste persone che davvero soffrono - e non in senso metaforico ma proprio in senso letterale - le pene dell'inferno. Uno strazio quotidiano, senza remissione, di dolori continui, attenuati solo dalla morfina o da altri antidolorifici potenti.
E solo chi l'ha provato sa quanto la continuità del dolore sia annientante. Devastante. Basti pensare al mal di testa, o di denti, o alla colica di reni più forte che si sia mai avuta, e poi moltiplicarla per mille, e poi immaginare che non duri solo il tempo di qualche ora o qualche giorno ma molto, molto di più.
Ci sono persone, ho letto su questi blog, che vivono tra un ciclo di chemio e l'altro, costrette a patire una sintomatologia sempre più invasiva.
E per me, dicevo, è stata una grande lezione, come uno schiaffo in pieno viso, perché poi queste persone continuano a svolgere - tentano disperatamente di farlo - anche un quotidiano che è quello di noi sani tutti. Un quotidiano che a me - sana - a volte (spesso) pesa da morire. Alzarmi dal letto, la mattina, a volte proprio mi sembra una fatica immane. Un nonsense. E fatico a trovare una motivazione che sia una.
Poi però, andando avanti nella lettura, oltre all'ammirazione e alla compassione (in senso profondo di piètas, di con-partecipazione - di immedesimazione fin là dove la mia esperienza lo consente), ho iniziato ad avvertire anche, ad un certo punto, una punta di fastidio, come un'irritazione silente pian piano a salire, un qualcosa che si avverte e non si avverte chiaramente.
Poi ho capito. Lì per lì ho stentato. Ma poi ho capito.
In particolare, una di queste ragazze, raccontando il suo quotidiano, ha citato il suo fidanzato, dicendo - en passant - che era un cacciatore e che per questo sulla spalliera del suo letto d'ospedale aveva messo un peluche a forma di cinghiale, perché era stato un regalo del suo fidanzato, che era un cacciatore. E poi, più avanti, riferendo di una giornata buona - buona sotto il profilo della qualità della vita, con remissione dei dolori ecc. - racconta di una giornata nei boschi, a raccogliere funghi, e poi, a seguire, di una sosta pranzo in un locale dove si riuniscono i cacciatori ed i cercatori di funghi.
E di un'altra ragazza ancora: che, sempre malata di tumore, parla di bistecche e di carne da mangiare.
E allora. Io non sono nessuno per poter parlare del dolore di queste ragazze. E le mie riflessioni non vogliono essere un giudizio, ma solo, appunto, delle riflessioni. E mi piacerebbe che chi mi leggesse abbia il buon senso e l'intelligenza di capire che sto parlando di qualcosa di infinitamente più ampio, che sono partita dal resoconto di queste esperienze lette su un blog per approdare ad una speculazione di natura più esistenziale, fors'anche metafisica.
Perché, mi domando, è così' difficile comprendere che il Dolore è solo UNO? Che non esiste un dolore che sia diverso dall'altro? Esiste una scala QUANTITATIVA del dolore, questo sì, per cui chi soffre di cancro ha certamente un dolore infinitamente più grande del mio che ho mal di testa, ma la QUALITA', la RADICE, è sempre la stessa. Ed è unica.
Come non comprendere che il Dolore è una delle poche esperienze che ci accomuna tutti? E per tutti - ormai lo saprete - io intendo proprio tutti. Gli animali e gli uomini. Anche gli astici e gli scampi, e le cozze e le vongole. Sì, perché anche quelli sono animali (una volta un'amica mi disse: ma nemmeno gli spaghetti con le vongole mangi? Quelli mica sono animali, sono molluschi. Per non parlare di quell'altro ancora che: ma nemmeno il prosciutto mangi? Il prosciutto è prosciutto, mica carne).
E allora, come non comprendere che lo stesso dolore che stai sentendo tu - che sei malata di cancro - e che vorresti che sparisse - lo stai però anche infliggendo - senza volerlo, o senza farci troppo caso - a tutte le migliaia di creature che ti mangi? E Perché tu, proprio tu, che conosci il dolore meglio e più di qualsiasi altro, non vedi che è ovunque, in scala diversa, e che no, non c'è bisogno di aggiungerne altro? E no, non te ne faccio una colpa. Perché non ti sto giudicando. Perché non sono nessuno per capire l'inferno che stai passando. Ma leggendo di questo inferno, del tuo inferno, che racconti proprio bene, io non posso fare a meno di vedere tutti gli altri, di inferni.  E rifletto. E porto qui le mie riflessioni. Che non hanno la pretesa di essere altro di quello che sono: riflessioni.
Come non capire che il cinghiale cui spara il cacciatore prima correva felice, se ne stava andando per i cazzi tuoi, esattamente come tu prima di ammalarti. Tu hai avuto un destino terrificante. Ma pensi che infliggendolo anche al cinghiale, possa cambiare il tuo?
Il Dolore è uno. La radice è unica. E allora, prima di sostenere la ricerca per il cancro o la sclerosi multipla tramite associazioni, che notoriamente effettuano la vivisezione sugli animali e - metodicamente, clinicamente - attraverso procedure medico-scientifiche - provocano in loro tumori affinché poi ci si possano sbizzarrire su (ricordo che in natura in topi non avrebbero tumori), mi piacerebbe che si riflettesse un po' sulle alternative, che ci sono fuor di ogni dubbio. E sì, anche io vorrei che la scienza trovasse una cura per i tumori, ma vorrei che questa rivoluzione medica non passasse attraverso la sofferenza di milioni di creature senzienti. Perché anche loro soffrono e provano dolori infernali quando gli scienziati gli provocano arbitrariamente il cancro. Vorrei che la lotta per sconfiggere la sofferenza non passasse attraverso altra sofferenza. E mi sembra che più chiara e più sincera e più onesta di così non avrei potuto essere. E sono pronta ad assumermi tutta la responsabilità delle mie parole. Ho il coraggio delle mie idee, di queste riflessioni.
E allora continuo a ripeterlo.
Il dolore tuo non è diverso da quello che provano milioni di animali che soffrono ogni giorno; persino tanti reduci dai campi di concentramento, poi, nell'esperienza del dolore condiviso, hanno riflettuto sull'altro Olocausto, quello che continua ancora ad  avvenire indisturbato sotto gli occhi di noi tutti, quello che vede il massacro quotidiano di milioni di creature viventi. Il dolore cambia solo nella QUANTITA'. Il dolore del cinghiale che viene ucciso per sport non è diverso dal tuo. Il dolore dei topi e di tutti i milioni di creature viventi usate come cavie nei laboratori non è diverso dal tuo. E no, non può esserlo. Non può essere diverso. Perché il dolore, la sofferenza, come la morte, ci accomuna tutti, tutti noi esseri viventi. Tutti nati dalla medesima radice malvagia.
E tra quegli scampi e quegli astici che brancolavano nel ghiaccio in attesa della morte e noi, e tra le altre specie animali e noi, c'è solo una differenza quantitativa ma non qualitativa. Siamo infatti, tutti, nessuno escluso, esseri viventi.
(Qualcuno adesso potrebbe dirmi che io non avevo il diritto di parlare così della sofferenza di persone che nemmeno conosco, perché, così facendo, ferisco la loro sensibilità. Io rispondo che il problema me lo sono posto, e che ci ho pensato su un po' prima di parlare di questo. Poi ho pensato che anche esporre i pesci sul bancone del supermercato ferisce la mia sensibilità, che anche vedere la gente che compra il salame come se niente fosse ferisce la mia sensibilità. E che, parlandone, mostrando una maniera diversa in cui si può venire feriti, forse, involontariamente, ci facciamo del bene reciproco).

venerdì 18 marzo 2011

Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (e solite prolisse divagazioni)


Nella primavera del 2009 lessi questo romanzo di Kazuo Ishiguro, autore giapponese che vive in Inghilterra da quando era bambino e che mi ricorda un po' - in questo miscuglio di cultura orientale ed occidentale - Haruki Murakami. Il libro mi attirò per via della copertina (lo so, lo so... sembra una frase un po' ad effetto, dicono tutti così, sono i libri che scelgono noi e non noi che scegliamo i libri, e da qui poi uno si mette a pensare alla sincronicità di aver notato proprio quella specifica copertina in mezzo a tutte le altre e gli attribuisce chissà quale significato, mentre invece io in questo non ci trovo nessun significato particolare o romantico, capisco solo che la copertina - in quanto strumento di marketing - ha fatto il suo dovere di copertina, cioè ha attirato l'attenzione di chi compra), e poi anche per la trama, ovvio e poi anche il fatto che la storia fosse ambientata in Inghilterra ha avuto le sue buone ragioni (essendo io un'anglofila convintissima!).
Insomma, leggo questo romanzo e da allora non faccio che tornare a pensarci ogni tanto, lo cito come esempio quando mi trovo a discutere di alcune questioni, l'ho regalato a diversi amici, lo consiglio ecc..
In questi giorni sono in attesa del film che ne hanno tratto, con un misto di ansia, preoccupazione ed entusiasmo come sempre mi accade quando avviene che dai romanzi che ho più amato ne segue una trasposizione cinematografica: un po' non vedo l'ora di scoprire quale sarà il risultato, un po' ho paura di restare delusa, un po' mi sento "privata" di qualcosa di "mio"; ecco, non saprei bene come spiegare questa sensazione, ma ci provo lo stesso: tra un lettore ed un romanzo si crea un rapporto molto intimo, quasi privilegiato. Si ha come l'impressione di starsene chiusi dentro una stanza a chiacchierare con l'autore, nasce una relazione di amicizia, di scambio reciproco (sì, reciproco, perché anche se lo scrittore non può sentire il lettore, quest'ultimo però ogni tanto lo interrompe - cioè interrompe la lettura - e resta con il naso sospeso per aria trascinato da un vortice di riflessioni magari innescate da una frase, da una riga, da una parola che ha letto, e questo andirivieni di riflessioni che intervallano la pagina scritta secondo me sono come un dialogo, un botta e risposta tra lo scrittore e chi legge; e non è vero che il lettore non ci metta qualcosa di suo. Ogni lettore arrichisce l'opera che sta leggendo con le proprie riflessioni, i propri pensieri e così quella pagina cresce, cresce, si gonfia, e tutto questo gonfiarsi io lo chiamo "relazione tra scrittore ed autore"). Ora, quando da un romanzo viene tratto un film è come se questo rapporto esclusivo venisse spiattellato all'esterno, come se divenisse appannaggio "di tutti".
Si sa, i film prendono una fetta più ampia di persone, vengono pubblicizzati, promossi attraverso i trailer, le locandine, e per me è come se improvvisamente venisse messa a nudo, "violata" l'intimità di una relazione. Sono gelosa delle mie letture. Non gelosa nel senso di non volerli condividere, perché poi di fatto io consiglio e regalo e tendo a promuovere i libri che amo (tanto che ho deciso di aprirci anche un blog, apposta per parlarne), ma gelosa nel senso che non mi piace che "le perle vengano buttate ai porci" (con tutto il rispetto per i "porci" eh, e che cavolo... tutta la nostra cultura è intrisa di specismo e dovrei iniziare io stessa ad abolire certi modi di dire o proverbi che non fanno che rimarcare la nostra alterità o presunta superiorità rispetto agli animali!). Evidentemente ho una considerazione del pubblico di cinema (inteso come pubblico di massa) un po' snobistica. Lo ammetto. A volte penso che un bel romanzo non debba venire sputtanato da un film perché al cinema ci va un pubblico meno esigente - cioè magari lo stesso pubblico che va a fare la fila per film molto molto ma moooolto dementi (e qui mi censuro, non voglio sembrare la snob che sono! Sia chiaro, solo cinematograficamente o letterariamente parlando, eh! ), e poi magari ti demolisce - così su due piedi - qualcosa che invece per me ha significato molto... ed inoltre spesso accade che un romanzo bellissimo viene sputtanato da un film meno riuscito e finisce per banalizzare anche il libro stesso. E poi vallo a spiegare al pubblico che non è la stessa cosa, che insomma, il romanzo vale davvero la pena di leggerlo, che la storia è bellissima. Io vorrei tutelare la bellezza, ecco. Non vorrei banalizzarla, commercializzarla. E infatti mi dà fastidio che ora Caravaggio sia diventato un autore di moda e che lo scorso anno c'erano file enormi per andare a vedere le sue tele. Io detesto la commercializzazione dell'arte in questo modo. Detesto che la gente vada a vedere Caravaggio solo perché fa figo, perché "va visto". Detesto la spettacolarizzazione dell'arte e dell'evento in sé. Infatti non si capisce come mai ami tanto il cinema, il quale - anche nei suoi esiti più autoriali - corre spesso il rischio di essere una spettacolarizzazione. Dovrebbe invece essere pura traduzione in immagini di un pensiero, di un'idea. Ma quando si ha a che fare con le immagini poi spesso i registi si lasciano prendere la mano, ed iniziano a strafare. Beati i Fratelli Lumière che almeno, con la pochezza di mezzi che avevano rispetto ad oggi, più di tanto non potevano strafare. Chissà cosa avrebbero pensato del 3D? Sicuramente sarebbe piaciuto di più a Méliès, me lo sento.
Insomma, io adesso tremo all'idea di andare a vedere Non lasciarmi perché il romanzo è davvero bello e non vorrei che - se il film andasse male - venisse sputtanato anche il romanzo. E soprattutto sono gelosa del fatto che tra Ishiguro e me, tra i personaggi del romanzo e me, si mettano in mezzo un sacco di altre persone!
Parliamo del romanzo. Premetto subito che è difficile farlo perché è una di quelle opere di cui sarebbe meglio dire il meno possibile altrimenti si rovina il piacere della lettura.
Infatti l'aspetto più sconcertante di questa storia è che il lettore, sin dalle prime pagine, si trova nella condizione di apprendere alcuni elementi, alcuni fatti, per così dire, da cui dovrebbe essere in grado di trarre delle conclusioni; non sarebbe esatto dire che le "cose" vengono taciute, od omesse, o che sia possibile che vengano fraintese o che al loro posto venga raccontata una menzogna. La verità di quel che accade è lì, sotto gli occhi del lettore sin dalle prime pagine, è detta, è palesata, solo che, semplicemente, la crudezza e la brutalità di quello che "viene detto ma non viene detto"  è talmente inaccettabile che uno - uno a caso, il lettore - finisce per pensare ma no, ma non sarà proprio così, ma non sto leggendo veramente questo, andiamo, andiamo avanti, e vediamo come prosegue, cosa accade.
Perché definisco sconcertante ciò? Perché questa verità che si fa strada piano piano nella mente del lettore procede di pari passo con l'acquisizione di consapevolezza dei personaggi, i quali - da piccoli bambini che sono all'inzio del romanzo - diventeranno ragazzi, adulti senzienti in grado di comprendere il loro destino ed il senso del loro essere venuti al mondo.
I bambini del romanzo - poi adolescenti, poi ragazzi più maturi - vengono cresciuti in un college molto esclusivo situato nella campagna inglese, un college in cui vengono abituati a sentirsi "speciali", in cui vengono costantemente sollecitati ed incoraggiati a perseguire i loro talenti - quali essi siano - il disegno, la musica, la scrittura, la poesia, la scultura, la pittura ecc. . Anzi, per persuaderli a tirare fuori il meglio di loro stessi viene allestito anche un concorso speciale, cui tutti, sin da bambini, ambiscono partecipare con una selezione delle loro opere. Fanno di tutto affinché una delle loro opere venga scelta. Non capiscono bene quale importanza abbia questa cosa - né viene detta loro esplicitamente, e nemmeno a noi lettori - ma invece si capisce che è dannatamente importante.
Poi, da adolescenti, ad un certo punto, lasceranno il college per andare a vivere - in gruppetti selezionati - in case speciali, in attesa di essere "pronti"... pronti affinché il loro destino si compia.
Io adesso non voglio svelare di cosa si tratti. Perché rovinerei l'eventuale curiosità a qualcuno che - dietro questo mio resoconto - potrebbe essere invogliato a leggere Non lasciarmi.
Aggiungo solo che, sotto molti aspetti, collocherei il romanzo nel genere "distopia", al pari di Il mondo nuovo di Huxley e, al tempo stesso, lo accosterei anche al genere "di formazione", al pari de Il giovane Holden o I turbamenti di Torless o anche a molti di Dickens.
Di fatto Non lasciarmi è l'uno e l'altro. Come ogni distopia che si rispetti fa riflettere il lettore su alcune conseguenze che potrebbero derivare dalla nostra visione del mondo, specie quella occidentale, così volta a rimuovere costantemente il pensiero della malattia e della morte. E, come ogni romanzo di formazione, è anche un progressivo percorso di acquisizione e di consapevolezza, da parte dei personaggi, del loro essere nel mondo (o forse, semplicemente, del loro essere).
Come ogni buon romanzo che si rispetti quindi ha un duplice livello: quello narrativo, dato dal semplice dipanarsi degli eventi raccontati, della storia in sé, nuda e cruda (interessantissima ed avvincente comunque), e quello metaforico, dietro la cui apparenza figurata (si chiama infatti "figura retorica") si cela un altro significato, o tanti altri significati. In parole povere, molto povere, è una storia che dice altro, molto di più di quello che è la trama in sé.
Inoltre è molto originale (e, come ho scoperto poi, ricorrente in Ishiguro) la costruzione formale: la storia procede per analessi (flashback) continua, una dentro l'altra; ogni evento narrato ne richiama un altro del passato, e questo a sua volta si spinge ancora indietro nel tempo, un flashback che insegue l'altro, flashback che si rincorrono.
E' un romanzo che - pur nella sua evidente fantastica distopia, visione per alcuni versi ancora fantascientifica - parla di una condizione che ci riguarda molto da vicino, che riguarda da vicino l'umanità tutta. Parla della nostra condizione, di noi tutti, nessuno escluso, seppure, ripeto, metaforicamente.
E, da animalista quale sono, dovrebbe far riflettere anche sulla condizione dei nostri compagni animali, creature esattamente come noi ma a cui - arbitrariamente - destiniamo una vita del tutto strumentale e che facciamo nascere al fine di poterli usare come risorse rinnovabili. Ed allora penso a tutti quegli allevamenti e stabulari per la vivisezione, in cui milioni di creature vengono fatte nascere ed allevate al solo scopo di poterne poi usare le loro parti (carne, pelle, organi interni, ossa, liquidi organici, denti, pelo, viscere, cartilagini e chissà cos'altro... una volta uno ridendo mi disse, eh eh, del maiale non si butta via niente.... eh già, brutto stronzo, gli ho risposto io, pensa quanto sarebbe più felice però il maiale se tutte le sue parti del corpo potesse tenersele per sé, se potesse restare tutto intero, vivo, felice, sano, VIVO!).
Ultima cosa (ma, come sempre, quando scrivo "ultima cosa" seguono come minimo altre quattro pagine ;-)): c'è una parte del romanzo che mi è piaciuta immensamente, provo a parlarne cercando di non svelare più di tanto. Si dà una definizione di "anima" che secondo me è fantastica. Ossia, non si dà esattamente nessuna definizione ma la si evince dal contesto. Uno dei ragazzi, ad un certo punto, presa coscienza del suo destino, chiede ad una delle sue vecchie insegnanti del college: ma se sapevi in anticipo quale sarebbe stato il nostro destino, allora perché tutto quell'insistere ad insegnarci l'arte, l'amore per la musica, per la pittura, perché tutto quell'accanimento nel farci perseguire e sviluppare i nostri talenti, a cosa è servito tutto ciò? (non sono le parole esatte ma... ahimé, la mia copia del libro l'ho prestata e non posso consultarlo, quindi vado a memoria). L'insegnante risponde, più o meno, così: è proprio per questo, proprio per via del destino che tutti vi attendeva, che era importante che voi diveniste anche altro, che voi foste anche altro, che voi coltivaste anche il vostro spirito... proprio per non essere solo... quello... cui eravate destinati (non posso usare i termini giusti, anzi, temo di essermi spinta già troppo in là).
Comunque sia, il discorso sta a significare qualcosa, ed è un discorso sull'anima, secondo me. E' vero, parlando del romanzo come metafora esistenziale, visto come narrazione metaforica della condizione dell'esistenza di ognuno, che tutti noi un giorno diverremo solo - per usare le parole di un grande - "carne per vermi", ed è vero che pensando alla morte ci coglie un senso di assoluta inanità del tutto, ma proprio per questo, affinché noi non si debba essere solo "carne per vermi", bisogna coltivare quella parte più astratta di noi e meno soggetta a "marcire", se non altro perché il prodotto del nostro intelletto, visto come arte, musica, scultura, scrittura, ha buone probabilità di perdurare nel tempo, ben oltre la fine della nostra fragile fisicità.
L'arte, intesa come creatività, come progettualità nel voler partorire altro da noi - che non è detto che solo la procreazione intesa come mettere al mondo figli può servire a renderci eterni, prolungando la nostra esistenza di generazione in generazione ed attraverso la trasmissione dei geni - è il modo migliore per divenire creature - se non proprio eterne - un po' meno caduche, un po' meno soggette ad essere spazzate via dal tempo che passa.
Inoltre, a mio avviso, coltivare l'arte (tutto quello che si intende per arte, musica, architettura, pittura, scultura, poesia, narrativa... produrre qualcosa da noi e di noi) serve anche ad altro: serve anche a formarci un'anima (intesa come spiritualità, in senso del tutto laico,  non come anima nell'accezione religiosa) ricca di stimoli, vivace, curiosa, cioè ad essere anche non solo corpo, non solo carne ma anche spirito. Altrimenti, che differenza c'è tra noi ed il tavolo sul quale sto scrivendo?
Questo concetto di anima inteso come somma di un insieme di sensazioni e percezioni che vengono stimolate ed accresciute dall'arte a me è piaciuto moltissimo.
Non l'anima cattolica, quella che continua a sopravvivere anche dopo la nostra morte fisica, ma l'anima che esiste perché esistiamo noi, perché sentiamo, ci emozionamo, creiamo, ragioniamo, disegniamo, suoniamo e componiamo musica, danziamo, cantiamo, scriviamo, inventiamo, immaginiamo ed amiamo. L'anima come l'essenza delle nostre aspirazioni e dei nostri sogni e come passione che ci mettiamo per realizzarli, anche se dobbiamo tutti morire. Altrimenti, cosa saremmo? Senza passione, cosa saremmo? Ecco, Non lasciarmi, oltre ad essere una distopia, un romanzo di formazione, è anche una bellissima storia d'amore. Una particolarissima, struggente, annichilente, sconcertante storia d'amore. E ve lo consiglio. E non andate prima a vedere il film. Prima il libro! ;-)

martedì 15 marzo 2011

Sunset Park di Paul Auster (e divagazioni varie)

Un altro degli scrittori che seguo e di cui compro ogni libro che esce - vale a dire "sulla fiducia" - è Paul Auster: autore americano, proveniente da Newark, New Jersey, guarda caso la stessa città in cui è nato anche Philip Roth, altro autore cui sono molto affezionata (e per me tra i più grandi contemporanei).  
E' un caso che due tra i miei autori preferiti siano nati nella stessa città?
Non lo so. Comunque sia del caso (o destino) piace sicuramente molto parlare a Paul Auster, anzi, buona parte della sua produzione letteraria si basa proprio su questo tema. Ci ha scritto anche un saggio che si intitola Esperimento di verità, in cui riporta la stranezza e curiosità di eventi - tutti documentati - verificatisi in circostanze di inaudite coincidenze o di improbabili accadimenti fortuiti. Paul Auster però si limita a riportarli con l'occhio distaccato di chi osserva, senza trarne delle conclusioni affrettate.
Si potrebbe parlare della sincronicità - su cui ha scritto molto anche Jung - o del destino, o del semplice caso, inteso proprio come caos, ma penso che - fuori da ogni atteggiamento fideistico - la maniera migliore per considerare questi piccoli, o grandi che siano, accadimenti "curiosi" sia quello di valutarli a posteriori, ossia negli esiti, più che negli intenti; vale a dire negli effetti slegati da qualsiasi contingenza causale.
Il percorso letterario di Paul Auster, in merito al tema del destino, assomiglia moltissimo al mio. In Moon Palace, che è uno dei suoi primi romanzi, il protagonista impara a prestare attenzione a quelli che definisce piccoli segnali del destino; le cose, gli oggetti, la realtà circostante sembrano volerci comunicare qualcosa, avvisarci, metterci in guardia, o anche semplicemente suggerirci un percorso. Sta a noi, eventualmente, ascoltarli. Da qui si potrebbe dedurre che forse le cose non accadono a caso, e che magari qualcosa accade affinché qualcos'altro possa o non debba accadere. Per un po' mi sono ritrovata anche io in questa riflessione, specialmente quando ero più giovane: a sette anni fui investita da una macchina, poi a 14 ebbi un altro incidente con il motorino e sempre ho reagito cercando di dare un senso a quello che era accaduto, cercando di trovarvi - per così dire - una giustificazione, una motivazione: chissà, pensavo, magari quell'incidente è servito a scongiurare qualcosa di più grave; magari rompermi la gamba e dover stare per un mese a letto immobile è servito ad impedire che mi accadesse qualcosa di peggio. Ero una bambina. Certamente. E così nell'incidente, in un evento tutto sommato "tragico" io ci vedevo quasi come l'intervento salvifico di un angelo (eh... cosa non si fa per reagire a ciò su cui non si può avere controllo...) ;-) In questa accezione il destino diveniva così per me qualcosa di eventualmente preordinato (non in senso religioso, ma senz'altro mistico).
Poi ho cambiato idea: crescendo sono diventata molto più scettica e meno disincantata, e così', mettendo da parte ogni atteggiamento fideistico, accantonando ogni ipotesi destinica, ho imparato a considerare ciò che accade esclusivamente nei suoi effetti. Ciò che accade è quello che è accaduto. Punto.
Anche Paul Auster oggi sembra aver declinato l'invito della realtà ad ascoltare i suoi segnali affinché si compia il nostro destino e sembra aver assunto una posizione molto meno "fiabesca". Non ha perso per questo la vena poetica dei primi lavori, solo che si tratta di un tipo diverso di "poesia", più esistenziale e meno metafisico.
Già da Esperimento di verità, e specialmente in questo suo recente romanzo, che è Sunset Park, gli eventi della vita o le coincidenze, più che assumere una valenza deterministica, sulla base di chissà quale significato, sembrano semplicemente essere fatti che accadono e basta, imponderabilmente, del tutto casualmente e, ciò che conta è che - dall'ampio ventaglio di opportunità che si spalanca davanti ai nostri occhi in seguito a questi casi fortuiti - noi siamo chiamati a compiere delle scelte, a reagire,  a comportarci in un certo qual modo piuttosto che in un altro, ed in questo senso, solo in questo senso,  si può parlare ancora di una parabola del destino, dalla libertà che abbiamo appunto di scegliere come reagire o se reagire di fronte alla danza caotica della casualità che, attimo dopo attimo, ci sottrae il presente, vanificandolo, e trasformandolo in futuro, in un incessante movimento che è il procedere della vita stessa.
Ne La notte dell'oracolo , Paul Auster scrive: "viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento", come a dire che nell'attimo stesso in cui ci muoviamo, in cui compiamo anche il più banale ed insignificante dei gesti, stiamo disegnando i contorni del nostro futuro.
Non c'è quindi determinismo. Non c'è un destino predefinito che prima o poi si verificherà comunque e le cose non accadono perché era stabilito che accadessero ma solo quello che è accaduto - in una visione "a posteriori" si potrà leggere poi come destino. Il destino è quello che è avvenuto.
Sunset Park prende il nome da un quartiere di Brooklyn, in cui, occupando una casa disabitata - con il rischio di essere sfrattati e denunciati per occupazione abusiva - si riuniscono quattro giovani (tutti sui trent'anni): due uomini e due donne. E' un romanzo corale, anche se nelle prime pagine - e anche da come viene descritta la trama nella traduzione italiana - sembra che ci siano un protagonista ed una storia centrali. O forse sì. Magari c'è anche un personaggio preminente ma se lo è, lo è nella misura in cui il lettore si sentirà più in sintonia con le vicende ed il carattere di uno piuttosto che di un altro, nella misura in cui ognuno sarà colpito da un personaggio piuttosto che da un altro. E, molto intelligentemente, l'intero romanzo è narrato in forma indiretta da una voce narrante fuori campo che in maniera neutra osserva prima uno e poi l'altro dei personaggi, passa a raccontare prima una storia e poi un'altra, senza omettere nulla, né le emozioni dei singoli, né i sentimenti messi pian piano a nudo, ma in maniera neutra, conferendo quindi all'intera vicenda una forma corale.
 La verità è che l'esistenza di ogni personaggio, descritta in capitoli separati per ognuno, diviene ad un certo punto il centro attorno a cui sembrano ruotare gli altri e le loro storie individuali, ma appena cambia la prospettiva - ossia appena la voce narrante passa a narrare la storia di un altro personaggio - è quest'ultimo che si fa centrale e, da satellite che era, diventa protagonista. Ogni evento è narrato così da più punti di vista, quasi a voler indicare la relatività di ogni verità.  Non esiste quindi un protagonista assoluto, esistono tanti piccoli centri che vanno a costituire questa entità vivente unitaria che è, materialmente ma anche metaforicamente,  rappresentata dalla casa in Sunset Park. La casa in Sunset Park diviene così un cuore pulsante che batte il tempo e scandisce l'organizzazione dell'esistenza. E questa casa è un cuore proprio perché è abitata, vissuta, perché nelle sue stanze circolano le emozioni ed i sentimenti di coloro che la abitano. Non a caso, il ragazzo dalla cui vicenda si parte per iniziare il romanzo, di mestiere, prima di venire a stabilirsi a New York,  fotografava gli oggetti abbandonati nelle case che devono essere messe all'asta ed i cui inquilini sono stati sfrattati. Il tema della casa - come luogo abitato, come luogo in cui hanno origine e si dipanano delle storie, come luogo fisico dell'esistenza, ossia di un esistere tout court, ritorna costante anche a fine romanzo. Ciò che conta però, dice Paul Auster, è che non importa tanto avere una casa quanto sapere che ognuno di noi può essere una "casa", deve imparare ad esserlo, per se stesso e per coloro che gli vogliono bene. L'io visto come un luogo da cui partire e a cui ritornare, anche dopo essersene allontanati, anche se capita di smarrirsi.
Sunset Park è un romanzo piuttosto ambizioso, nel senso che affronta tante tematiche importanti: parla del senso di colpa, del dolore, della solitudine, di cinema, di letteratura, del desiderio e della necessità di continuare a raccontare ed ascoltare le storie, questo passatempo che ha origine dall'inizio dei tempi e di cui sembra non ci si stanchi davvero mai... il richiamo delle storie, sempre le storie, le migliaia di storie, i milioni di storie, eppure nessuno ne è mai stanco, c'è sempre posto nel cervello per un'altra storia, un altro libro, un altro film...  ; e poi è un romanzo che parla soprattutto delle ferite, sia fisiche che psichiche, le ferite da cui si può guarire e quelle da cui non si guarisce mai, ma con cui si può - si deve - imparare a convivere: con l'avanzare degli anni non diventiamo più forti. L'accumulo di sofferenze e dolori indebolisce la nostra capacità di sopportare sofferenze e dolori, e dato che le sofferenze ed i dolori sono inevitabili, anche un piccolo rovescio nella fase più avanzata della vita può riecheggiare con la stessa forza di una tragedia quando siamo giovani. E succede che ad un certo punto si diventa persone ferite, come lo sono un po' tutti, sebbene molto giovani, chi per un motivo, chi per un altro, i personaggi di Sunset Park, eppure, tutti loro, anche e soprattutto specchiandosi negli altri, dopo essere andati alla deriva per un po', si riapproprieranno della loro esistenza, facendosi portatori attivi, consapevoli, responsabili di quel filo che conduce al nucleo più intimo di loro stessi. Le ferite, sembra dire Paul Auster, possono allontanarci da noi stessi, spezzandoci a metà, trasformandoci nella metà di quel che eravamo un tempo ed è solo costringendoci a tornare su di esse - riappropriandoci di quella parte di noi di cui ci siamo automutilati - che potremo ricominciare a percepirci di nuovo come esseri completi; ancora feriti ma non più mutilati.
Se è vero che non possiamo evitare il caos degli eventi, che non possiamo sfuggire agli imprevisti anche tragici - ed in questo senso siamo tutti marionette in balia di qualcosa di incomprensibile, e non di incomprensibile perché ce ne sfugge il senso ma proprio perché non c'è nulla da comprendere di questo caos assoluto che ci sovrasta - possiamo però farci portatori sani - e qui, in questa precisa accezione - ci facciamo artefici del nostro destino, del cammino che scegliamo di intraprendere. Vale a dire che, per quanto il destino possa essere stato crudele con noi, per quanto ci sembri di non aver avuto scelta e di aver commesso, a nostra insaputa, non volendo, errori irreparabili, possiamo però imparare a reagire, valutando gli effetti (lasciando perdere i perché ed i percome delle cause, ormai avvenute, ormai appartenenti al "passato"), compiendo scelte nel presente che potranno influire e determinare il nostro futuro.
Ciò che conta, la lezione che impareranno tutti i personaggi del romanzo, è però l'importanza del presente, l'unico davvero reale e su cui si può pensare ragionevolmente di agire. Le speranze per il futuro sono inutili almeno quanto i sensi di colpa del passato. Esiste solo il presente: la casa di ognuno, il solo luogo certo nel quale svegliarsi ogni giorno e al quale far ritorno la sera.    

sabato 12 marzo 2011

Solar di Ian McEwan


Nel corso della mia vita da lettrice ho incontrato autori che, dopo avermi accompagnato per un tratto, ho lasciato andare volentieri al loro destino, senza per questo rinnegare il tragitto percorso insieme; semplicemente succede che, ad un certo punto, come accade talvolta anche con gli amici più cari, si scopre che non c’è più molto da dirsi, che alcuni interessi in comune sono cambiati, o che quella sintonia di un tempo si è affievolita: l’affetto resta, la voglia di incontrarsi come un tempo, meno; al contrario, ci sono altri autori i quali, pur se non sempre all’altezza delle aspettative, continuo a trovare interessanti: Ian McEwan, autore inglese attivo da molti decenni, è senz’altro uno di questi. Certamente oggi non mi entusiasmerei come un tempo per Il giardino di cemento (suo primo romanzo, da cui è stato tratto anche un film) o per le sue prime raccolte di racconti, ma il piacere che mi dà la sua scrittura non è ancora venuto meno.
Non dico che tutti i suoi lavori, specialmente quelli degli ultimi anni, siano sempre stati eccellenti, anzi, talvolta ho come avuto l’impressione che continuasse a scrivere più per esigenze di contratto che non perché avesse qualcosa di essenziale da dire (mi riferisco ad esempio a Sabato o anche ad Espiazione - che pure hanno avuto molto successo di pubblico - lavori certamente ben scritti ma, a mio avviso, privi di quella verve e di quel “quid” che fanno la differenza), però il talento che quest’uomo possiede nel descrivere situazioni, stati d’animo, emozioni, personaggi resta indubbiamente notevolissimo. Esiste un piacere nella lettura che talvolta è dato anche soltanto dalla pienezza di una frase, dall’architettura efficace delle parole con cui si imbastiscono discorsi e riflessioni, e che compensa la debolezza della storia in sé.
Quello che mi ha sempre colpito di McEwan (a partire dai primissimi lavori) è proprio la capacità di raccogliere nella pagina anche tutte quelle sfumature di sensazioni e stati d’animo che sembrano apparentemente ininfluenti o poco significative ma che invece danno esattamente la misura della realtà e del carattere del personaggio e conferiscono spessore ed autenticità alla vicenda.
Trovo che abbia un particolare talento anche nello scegliere termini particolarmente evocativi (grande merito va ovviamente anche alla traduttrice in italiano, sempre la stessa dal principio), così da suggerire in breve tempo l’idea di un sapore, di un odore, di una precisa atmosfera. Ecco, il punto è questo, se dovessi attribuire a McEwan una qualità direi senz’altro quella di essere un descrittore di atmosfere, più che di storie. Le storie ci sono, gli intrecci spesso anche molto articolati e sorprendenti, ma più di ogni altra cosa il lettore faticherà a scrollarsi di dosso proprio le atmosfere che finiranno per restargli appiccicate, come una patina, anche dopo moltissimi anni. Chiunque abbia letto Il giardino di cemento non potrà dimenticare quelle atmosfere torbide e un po’ assonnate delle giornate a casa di Tom, Jack, Julie e Sue. Atmosfere che segnano più degli eventi in sé, evocate dalla descrizione di un odore, di un colore, di un abito, di una giornata assolata, e tutto grazie alla scelta ponderata di un preciso termine.
Per la sua ultima fatica, Solar, l’autore - come ha dichiarato in varie interviste - ha dovuto documentarsi a lungo ed ha dovuto persino compiere dei viaggi nel New Mexico per meglio studiare la location in cui ha scelto di ambientare parte del romanzo.
Solar unisce la vicenda di un singolo a quella del nostro pianeta; mescola, per così dire, il privato con il pubblico, la dimensione intima con quella globale. Protagonista è il fisico Michael Beard, premio nobel, uomo pieno di difetti sia fisici che caratteriali, meschino, cinico, incapace di autentici slanci di affetto eppure, a suo modo, passionale. Si trova coinvolto, suo malgrado potremmo dire, nella ricerca di energie alternative che possano sostituire l’uso del petrolio e del carbone, onde porre fine al surriscaldamento globale, il cui avanzamento non potrà che far precipitare il pianeta verso il disastro assoluto.
McEwan è abilissimo nel fondere gli eventi tragicomici di M. Beard con gli studi ed i progetti di portata universale della fisica attuale. Inoltre, come novità stilistica, introduce una vena comica, la quale, lungi dallo smorzare la serietà dei temi trattati, mette a nudo, in maniera drammatica e spietata,  tutta la difficoltà dell’uomo comune di far fronte a problematiche più grandi di lui. Ed ecco l’esilarante e significativo episodio in cui la portata e riuscita del compito che gli studiosi della terra si prefiggono - combattendo la miopia dell’uomo comune nel voler riconoscere il reale pericolo e la totale cecità dei finanziatori nel saper cogliere l’opportunità di investire in progetti che daranno il loro frutto non nell’immediato presente ma solo in un avvenire prossimo - viene sapientemente paragonato e ridotto in scala minore all’incapacità di un gruppo di persone (artisti impegnati e il protagonista Michael Beard, riunite al Polo Nord per una convention sul surriscaldamento globale) di tenere in ordine persino lo spazio modesto di uno spogliatoio, in balia del principio entropico del caos più totale. Come potrà l’essere umano - si domanda McEwan - prendersi cura di un pianeta morente se non riesce nemmeno a tenere a bada il caos di una singola stanza?
E’ evidente poi, in tutto il romanzo, la volontà di unire il compito che si propone lo studio della fisica di decifrare ed interpretare l’universo a quello, apparentemente più facile, della letteratura, di delineare una sua propria visione dello stesso, anche se di ordine puramente estetico e non numerico. Il paragone è evidente nello scambio che Michael Beard ha con un Prof. di Letteratura inglese di Hong Kong, dopo aver espresso a quest’ultimo quella che doveva essere stata la sua convinzione per diversi anni, e cioè l’estrema facilità dello studio della letteratura rispetto alle difficoltà e complessità dei principi della fisica, di cui lui - Michael Beard - aveva potuto avere personale conferma quando, in passato, per sedurre una ragazza che studiava letteratura ed amava Milton, nell’arco di una sola settimana era riuscito a leggere tutte le principali opere e saggi del suddetto poeta inglese, riuscendo perfettamente a padroneggiarli, nonché a conquistare la ragazza.
Sì, Michael, risponde a questo punto il Professore di Hong Kong, peccato ti sia sfuggito il nocciolo della questione: se avessi sedotto novanta ragazze con novanta poeti diversi, uno alla settimana per i tre anni di corso accademico, e alla fine avessi conservato memoria di tutto, di tutti i poeti intendo, e avessi sintetizzato le tue letture in una sorta di visione estetica d’insieme, allora in effetti ti saresti guadagnato una laurea in letteratura. Ma non venirmi a dire che è facile.
In fondo, non è forse vero, che poeti e fisici, sebbene si esprimano con linguaggi diversi, si sforzino entrambi di decifrare la complessità dell’universo? 
E da uno studioso ed amante della letteratura quale McEwan, cos’altro c’era da aspettarsi se non il racconto della tragicommedia di un uomo, il quale - prima ancora che essere un fisico premio nobel cui l’umanità ha affidato il compito di salvare il mondo - resta  indubbiamente un carattere letterario indimenticabile, volutamente descritto come odioso ma impossibile da non amare sin dalla prima pagina, in fondo  il ritratto dell’essere umano tout court, con le sue debolezze, fragilità, meschinità, e ridicole piccolezze di un’esistenza in cui noi tutti potremmo trovare un pochino di noi stessi? E non è forse questo, da sempre, il compito della letteratura, quello di raccontare parabole esistenziali le quali, per quanto simboliche o immaginifiche, o lontane dalla nostra quotidianità (non a tutti è dato essere un premio nobel della fisica!), restano purtuttavia frammenti esemplari dell’esistenza di ognuno di noi immersi in un universo di cui fatichiamo a comprenderne la reale portata o il fine ultimo?
La parabola di Michael Beard diviene così parabola della condizione non soltanto umana ma dell’universo stesso.
Resta inoltre, questo romanzo, un omaggio alla letteratura come dimostrazione che nulla possono le formule ed equazioni dei principi dell’universo contro la miopia del genere umano, il cui compito di metterla a nudo e raccontarla può spettare solo alla letteratura stessa.
Solar è un gran bel romanzo non solo per questo, ma anche perché è uno di quelli che davvero dispiace mettere via. E, cosa rara, è un’opera che, pur nella sua serietà di temi e problematiche affrontate, non di rado riesce a strappare una vera risata al lettore; uno di quei libri che - come ho anche letto da qualche parte - è meglio non leggere sul treno perché il rischio di scoppiare a ridere da soli è veramente alto. A me è successo! Giuro!  

martedì 8 marzo 2011

Olocausto invisibile (V)

Il termine Tradizione deriva dal latino Traditio, che indica l'atto di tradere, da trans-dare, con il significato di consegnare ed anche “trasmettere”, come un'eredità, una memoria, una notizia, un insegnamento sia a parole che per scritto.
Oggi il termine si usa generalmente per far riferimento a pratiche, usi e costumi del passato che si ritiene utile perpetuare e tenere vivi nel presente perché divenuti simbolo di riconoscimento dell’identità di una nazione (come di un piccolo paese); si ha così l'abitudine di attribuire al termine una valenza positiva: la tradizione diviene allora un valore da non perdere e da rispettare. Inoltre, come simbolo identitario e riconoscitario, di una nazione (o piccolo paese che sia) funziona anche da collante della comunità. Gli abitanti che rispettano le tradizioni si uniscono nel medesimo rituale comportamentale.
Le tradizioni però non sono tutte buone. Esistono anche tradizioni che sarebbe meglio abbandonare: o perché non più al passo con il progresso civile o perché riconosciute come non rispettose di quei valori divenuti oggi principi etici inderogabili ma che nel passato non erano stati ancora definiti o riconosciuti come tali.
Purtroppo molte tradizioni del nostro paese (ma non solo, basti pensare a quella della Corrida in Spagna, estesa anche al sud della Francia) prevedono l’impiego di animali.
E’ di domenica scorsa la notizia di un cavallo rimasto tragicamente ucciso in  seguito ad un incidente (con conseguente lesione della giugulare, quindi la morte della povera creatura è avvenuta per dissanguamento), accaduto durante l’annuale corsa lungo un tragitto cittadino (quindi su un terreno non adatto agli zoccoli dell’animale) che si tiene a Ronciglione (VT). L’animale ferito, sofferente, gemente e morente è stato “provvidenzialmente” coperto con un panno e trascinato via (mentre stava morendo!) affinché gli “spettatori” non restassero turbati dallo “spettacolo”. Alcuni anni fa, sempre nello stesso paese, e sempre nella medesima occasione, accadde un altro evento simile: lo zoccolo di un cavallo che correva rimase impigliato nel sanpietrino (o nella grata di un tombino, non ricordo esattamente) della strada e - poiché l’animale procedeva ad una velocità esasperata (magari era stato persino dopato! Sicuramente era terrorizzato dal trovarsi in un ambiente così lontano e diverso dalle sue esigenze, frastornato dal vocìo incessante e dalle urla di incitamento del pubblico) - mentre lo zoccolo restò incastrato, la gamba gli si spezzò di netto: l’animale cadde a terra, tra urla laceranti e schizzi di sangue dappertutto. Il pubblico rimase scioccato. Dopo parecchi minuti qualcuno propose di sparare al cavallo per porre fine alla sua agonia. Vi rendete conto? Una gamba spezzata di netto! Chissà quanto dolore e spavento deve aver provato quella creatura. Io, sinceramente, provo angoscia profonda al solo pensiero.
Questi due tristi e tragici esempi sono il risultato di una tradizione. La tradizione di far morire creature senzienti affinché qualcuno si diverta. Quale divertimento ci si possa aspettare da questi incidenti (che non sono così rari come si crede ma accadono puntualmente nell’esercizio di simili pratiche) non è dato saperlo.
Come mai è stata abolita la tradizione dell’impiccagione pubblica, se l’orrore è così divertente? Fortunatamente con l’estensione dei diritti umani molti stati hanno proprio del tutto abolito la pena di morte, mentre altri che ancora la praticano (tra cui molti dell’evolutissima America) hanno comunque abolito le pratiche apparentemente più dolorose e disumane e comunque di certo  le esecuzioni non vengono più considerate, da molto tempo ormai, spettacoli di intrattenimento. Quindi l’orrore non è più poi così divertente!
Difficile poter assistere ancora allo spettacolo dei gladiatori, no?
Ma perché la medesima considerazione non viene fatta per gli animali, allora?
Qui non stiamo parlando di finzione, come avviene nei film horror (per cui si esorcizzano le proprie paure nel calore confortevole del divano di casa propria, con la consapevolezza di essere del tutto al sicuro dal Freddy Krueger di turno), qui stiamo parlando di esseri viventi, di creature che soffrono e provano dolore, angoscia, disperazione. Come possiamo divertirci di fronte al dolore di un altro essere (a meno che non si sia affetti da serissimi disturbi di natura psichica)?
Si continua invece a considerare divertenti gli spettacoli in cui animali indifesi vengono barbaramente trucidati.
Cos’è la corrida spagnola, infatti, se non lo spettacolo di un’uccisione in diretta? Oltre tutto anche disonesta, perché i tori vengono previamente imbottiti di calmanti e farmaci che rallentano le loro percezioni e reazioni. Sono semi-addormentati. Mentre il torero - riccamente agghindato - si diverte a conficcargli (o - atto ancor più vile - a fargli conficcare dagli “aiutanti”) coltelli e punteruoli su tutto il corpo,  a schernirlo, umiliarlo, stressarlo, torturarlo, ferirlo, infine ammazzarlo. E’ davvero, come dicono, lo spettacolo che inscena la lotta dell’uomo contro l’animale? La forza umana contro quella animale? No. E’, semmai, la vigliacchieria tutta umana contro l’impossibilità di una creatura, resa previamente inerme, a difendersi. E osiamo portare avanti questa barbarie in nome della tradizione? Allora perché non ripristiniamo anche lo spettacolo dei gladiatori? Sai che accesso di pubblico! Sai quanti soldi!

Siamo alle solite. Gli animali vengono considerati come oggetti, non dotati di un valore intrinseco ma considerati utilitaristicamente come risorse rinnovabili messe a nostra disposizione affinché ce ne possiamo servire a nostro uso e piacimento.
E così continuano ad esistere Il Palio di Siena, le corse dei cavalli a Ronciglione (e in numerosi altri paesi della nostra bella Italia), le corse dei tori a Pamplona, i combattimenti dei cani, le corse dei cani, la Corrida, i Circhi. Gli zoo (ah sì, adesso hanno cambiato nome, si chiamano bioparchi, ma le reti e le gabbie ci sono ancora, e gli animali - come fenomeni da baracconi, devono sorbirsi i nostri sguardi e le urla continue della gente che - fuori - libera - si sente meno in colpa perché il posto che stanno visitando - per cui pagano - si chiama “bioparco”).
Funzionano per il turismo. Afferma qualcuno. Ripeto, anche lo spettacolo dei gladiatori darebbe una bella sferzata al turismo!
Perché non raccontare ai bambini la verità su come vengono ammaestrati gli animali nei circhi? Come può la natura orgogliosa e possente di un leone o di una tigre eseguire numeri così umilianti e ridicoli in cui viene palesemente sottomessa ad un domatore? Già il termine “domatore” la dice lunga. Come pensate che vengano ammaestrati questi animali? Dandogli uno biscottino come si fa con il proprio cane quando ci riporta la palla? No. Sbagliato. Vengono picchiati e spossati dalla fame e dalla sete (così che diventino del tutto dipendenti ma anche terrorizzati dall’uomo che li “governa”), poi indotti ad eseguire i numeri richiesti sotto minaccia di ulteriori percosse o limitazioni. Il povero animale deve capire subito con chi ha a che fare! Deve temere l’uomo! Quindi giù botte, giù pungoli elettrici per inibire un movimento ed ordinarne un altro! Giù privazioni e maltrattamenti affinché capisca chi è che comanda! Giù percosse e frustate fino a che non farà quello che l’uomo in divisa gli ordina! Senza contare l’orrore di essere privato della libertà, di essere rinchiuso in gabbie per tutta la vita, senza mai vedere un prato, un fiume, un albero.
E tutto questo noi lo chiamiamo “spettacolo”.
Anche io continuo a chiamarlo spettacolo: il triste spettacolo della bestialità e della cattiveria dell’uomo sugli animali.
Ma anche senza arrivare a questi esempi così plateali, la strumentalizzazione dell’animale da parte dell’uomo avviene molto più spesso di quanto ci rendiamo conto.
Comprare un cucciolo di cane in un negozio di animali (si badi bene al termine “comprare”, termine notoriamente riferito agli oggetti, alle cose inanimate) affinché “faccia la guardia” è anch’essa una strumentalizzazione. Un negare il valore intrinseco alla natura di essere vivente che gli appartiene di diritto per ridurlo ad una mera risorsa rinnovabile (quando muore, ne prendo un altro).
Anche espressioni di uso comune come: “il mio cane”, “il mio pesciolino”, “io sono il padrone” sono termini che non fanno che rimarcare ed accrescere la strumentalizzazione implicita ed impedire il riconoscimento di queste creature come “altro da noi”, come esseri dotati di una propria esistenza che non può e non deve in nessuna maniera avere questo rapporto di oggettificazione che invece oggi è socialmente mantenuto vivo proprio dall’uso di questa determinata terminologia. Bisogna imparare ad entrare nell’ordine di idee per cui i cani, i gatti, i pesci rossi ecc. hanno una vita che è loro propria, che gli appartiene, che ha un valore ed un significato indipendente dal tipo di rapporto che noi stabiliamo con loro. E’ vero che ci prendiamo cura degli animali domestici, che li amiamo, che li curiamo e li portiamo dal veterinario quando ne hanno bisogno ma non per questo diventano “oggetti di nostra proprietà”. Allora perché continuare a dire “vorrei comprare un cane?”. Lo so che molti di noi lo dicono ingenuamente, anche in senso affettuoso, così come diciamo “il mio amore”, “il mio maritino”, "la mia ragazza" ecc., ma per quanto riguarda gli animali c’è ancora troppa abitudine diffusa a considerarli come oggetti, come esseri messi a nostra disposizione per noi sul pianeta affinché potessimo servircene (dov’è che ho sentito questa espressione? Ma non è che è stata tradotta ed interpretata male da qualche strano libro esotico? E comunque sia... erano altri tempi) che sarebbe meglio provare a definirli con altri termini.
Io “non posseggo” un cane. Io “non ho” un cane, bensì: io sono amica del mio cane, in un mutuo e corrisposto sentimento reciproco. Io convivo con un cane. Io ospito un cane nel mio appartamento. Ecco, sarebbe più appropriato dire così.
Le parole determinano e costituiscono l’idea che ci facciamo della realtà; magari non la colgono davvero ma, come astrazione convenzionalmente stabilita di un significante che sta a significare qualcosa, indicano e formano l’idea e la qualità di qualcosa. A forza di dire “io ho un cane”, “io compro un cucciolo” si rafforza l’idea sbagliata che gli animali siano degli oggetti.
Per l’ennesima volta torno a ripetermi: siamo troppo schiavi della cultura in cui siamo immersi da credere che certi comportamenti siano “naturali”. Dire di un altro essere “è il mio”, non è naturale. Nessuno possiede nessuno. Nè, altre persone, né animali.
Per lottare contro la cultura imperante che vede gli animali come oggetti da usare è importante compiere dei piccoli gesti “trasgressivi” ogni giorno ed in ogni occasione; l’uso di una parola piuttosto di un’altra, a lungo andare, può fare la differenza. Questo discorso vale per qualsiasi altra cosa: visto che oggi è proprio la festa della donna, vorrei ricordare quanti degli stereotipi che per secoli hanno tramandato una concezione errata del valore della nostra femminilità siano stati diffusi e tramandati proprio grazie all’uso continuo di determinate espressioni e parole. E noi abbiamo lottato per sfatare certi miti (formatisi anche - anzi, soprattutto -  attraverso la letteratura, quindi con le parole) e in parte ci siamo riuscite. Quindi ritengo che per distruggere la concezione errata che gli animali siano semplicemente oggetti a nostra disposizione sia utile modificare anche alcune espressioni del linguaggio corrente, che senz’altro - anche se pronunciate ingenuamente - rafforzano l’opinione imperante.
Sarebbe bello non dover sentire mai più qualcuno dire: “ho comprato un gattino per far giocare mio figlio” (purtroppo ho avuto modo di sentire personalmente questa espressione da un conoscente), salvo poi abbandonarlo quando il bambino - abituato a considerarlo alla stregua di qualsiasi altro giocattolo perché è così che i genitori gli hanno insegnato a “vederlo” - si sarà infatuato di un nuovo passatempo.
Non portate i vostri figli nei negozi in cui si vendono animali. Gli animali non sono giocattoli. Un tempo si andava al mercato a comprare gli schiavi. Quel tempo è finito. Fate che finisca anche quello in cui una creatura senziente possa venire acquistata con tanto di gabbietta o vaschetta allegata. Lottiamo tutti insieme per un circo senza animali (la Lav sta portando avanti questa campagna da tempo, sul suo sito ci sono anche delle petizioni da firmare), per l’abolizione dei bioparchi (e non sto parlando delle riserve naturali in cui vengono protetti animali in via d’estinzione, quelle sono una cosa diversa e lodevole perché lì gli animali vivono in libertà), dei delfinari (non è vero che i delfini si divertono a giocare! Sono ammaestrati, eseguono semplicemente gli ordini! Questi luoghi trasmettono un’immagine ben diversa dalla realtà effettiva ed i bambini da soli non possono rendersi conto che dietro c’è comunque coercizione e privazione della libertà).
Riflettiamo sul diritto degli animali a vivere una vita indipendente da quelle che sono le nostre personali esigenze. Ogni creatura esiste per se stessa e non per qualcun altro. L’uso strumentale di chi ci circonda (a due o quattro zampe che sia!) è sempre sbagliato.

P.S.: vorrei che leggeste questa bellissima lettera scritta in risposta ad un delirante articoletto (di cui troverete il link nella lettera stessa), risalente allo scorso novembre, su Il Giornale: autore della lettera - peraltro, nonostante l'invito a rispondere, mai pubblicata -  è Leonardo Caffo, il cui intelligente ed interessante blog merita di essere visitato.