giovedì 29 dicembre 2016

Dialoghi tra animali - quarta parte



Il bove
T'amo pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro dè pazienti occhi rispondi.
E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde. 

(Giosué Carducci)


(Prima parte, seconda parte, terza parte).

Non approverai, ma lo scorso fine settimana abbiamo portato il bambino all’acquario di Genova.

(Un minuto di silenzio. Il dubbio se sia meglio tacere o dire qualcosa. Ma infine parlo. Parlo perché almeno io posso farlo. Parlo per loro. Anche se so che, proprio come loro, probabilmente non verrò ascoltata).

Ma come hai fatto? 

In che senso?

Come puoi finanziare un posto simile? Lo sai come vengono catturati i delfini e come sono costretti a vivere? Lo sai che in natura percorrono chilometri e chilometri ogni giorno nel mare aperto mentre qui… non solo non hanno nemmeno lo spazio per farsi una nuotata, ma sono stati separati dal loro branco, dalle loro famiglie. Lo sai come vengono catturati? Hai mai sentito parlare del massacro della baia di Taiji? Ogni anno, quando comincia, vengono spinti a forza dentro questa baia: gli esemplari più giovani vengono catturati e portati nei delfinari, acquari, zoomarine o come vogliamo chiamarli di tutto il mondo, mentre i loro genitori ed altri esemplari adulti vengono uccisi, letteralmente, a randellate o arpionati e poi sgozzati. Urlano. Le madri tentano disperatamente di proteggere i loro figli. 
Ecco, come puoi pagare per andare a vedere degli animali prigionieri e che moriranno di lì a pochi anni per depressione e palese incapacità di esprimere le loro esigenze etologiche?

Guarda, lo so e ti confesso che mi sono sentita anche un po' in colpa, non credere che non ci abbia pensato, ma tanto, se non ci fossi andata io l’acquario sarebbe rimasto aperto lo stesso. Avessi visto che fila c’era! Una fila enorme. 
Sia chiaro, se un domani qualcuno indicesse un referendum per chiuderlo, sarei la prima a firmare… non pensare che sia del tutto insensibile a queste cose, ma visto che non è così, tanto vale che ci vada. Per il bambino è una festa. Erano settimane che aspettava questo giorno. Perché privarlo di una gioia simile se tanto non è l’acquisto o meno del mio biglietto a fare la differenza? A queste cose dovete pensarci voi animalisti. Sono teoricamente con voi. Sì, insomma, teoricamente, ma non abbastanza da attivarmi in prima persona.  

Beh, se sai che una cosa è ingiusta, smetti di farla a prescindere dall’esito che le tue scelte avranno nel cambiamento complessivo della società. Il senso profondo dell’etica è questo. 
Sostanzialmente, cosa desiderano le persone? Due cose: stare bene e avere uno scopo che dia un senso alle loro giornate, ossia che gli dia forza sufficiente a mettere i piedi giù dal letto. Abbiamo capito che per stare bene è meglio non avere tante rotture di scatole e raggiungere una condizione tale da posizionarci tra i privilegiati della barricata. Grossomodo, le società sono divise in due: ci sono gli oppressi e gli oppressori. Però mentre nel medioevo questo confini erano netti ed evidenti a tutti (pochi ricchi e una massa sterminata di poveri), dall’ottocento in poi tutto si è fatto più fluido e sfumato fino a diventare totalmente liquido nella società dell’ultimo millennio. Non conta più chi sei e da dove provieni, conta cosa sei capace di vendere e vendi il tuo prodotto (o la tua immagine) dopo aver convinto le persone di non poterne fare a meno o averle illuse che esso aggiunga qualcosa alle loro vite, fosse anche solo una gratificazione momentanea che le distragga dal pensiero della morte e dal nonsense dell’esistenza.  Che sia una religione o il divertimento. Esattamente come hai fatto tu quando hai acquistato il biglietto per l’acquario. Il bambino voleva andarci? No. Il bambino ha solo risposto alla pubblicità della struttura in questione. E voi tutti vi siete messi in fila condizionati dall’idea dell’esperienza che avreste fatto una volta lì dentro. Ma che esperienza può essere quella di guardare creature marine rinchiuse dentro una vasca? È sempre la stessa eterna dialettica di rapporti di potere che si esprime. Io posso farlo, posso pagare per farlo e sono contento che dietro il vetro ci sia tu e non io, anche se, a dirla tutta, mi dispiace un po’… oh, ma è giusto una punta di rammarico che viene assorbita dal rullo compressore della sicurezza data dal sapere che in fondo le cose vanno come devono andare perché noi siamo esseri umani e contiamo più degli animali. Nevvero? 
Inoltre oggi le cose si complicano anche perché spesso chi è oppresso non sa di esserlo e chi opprime, in maniera subalterna rispetto a chi detiene ancora più potere di lui, non sa di farlo. Difatti il potere non è solo verticistico, ma trasversale, per cui l’operaio oppresso poi è a sua volta un tiranno in altri contesti e nei confronti di chi, rispetto a lui, è costituzionalmente o psicologicamente più debole. Questo funziona finché comunque c’è ancora una parvenza di libertà che le persone credono di esercitare, anche se si tratta di scelte pilotate entro un range deciso da altri affinché tutto resti com’è e soprattutto affinché non ci siano ribellioni sostanziali. Una minoranza che si ribella viene subito messa a tacere, non tanto dalle forze di controllo come polizia ecc., quanto dalla massa della maggioranza che continua a oliare il sistema e fa sì che ogni granellino che potrebbe incepparlo venga respinto o assorbito. Che è quello che attualmente sta succedendo al movimento animalista. E questo anche perché persone come te e come altri pensano che degli animali debbano occuparsi solo gli animalisti facendo sì che essi rimangano una minoranza. La questione dello sfruttamento e oppressione degli animali invece riguarda l’intera società perché è tutta la società che ne prende parte. Diresti la stessa cosa riguardo altri tipi di lotta contro altre forme di ingiustizia? Dunque della questione femminile dovrebbero occuparsi solo le donne e solo quelle sfruttate? Ora, non è che le minoranze da sole non possano fare qualcosa. Ma è più facile quando si è in tanti a volere che qualcosa finisca, che non quando si è in pochi. E poi abbiamo un problema. Se continuiamo a sfruttare gli animali è anche perché essi non sono capaci di ribellarsi. O meglio, lo fanno ma solo individualmente, con atti sporadici e isolati. Non ci aiutano. Non sanno nemmeno che noi vogliamo liberarli. Probabilmente siamo l’unico gruppo nella storia a voler agire per qualcuno che nemmeno conosciamo e che mai vedremo. Perché? Perché gli animali nascono e vengono uccisi continuamente. Credo sia anche impossibile riuscire a immaginarsi, uno per uno, tutti gli animali che vorremmo liberare; il fatto è che noi non stiamo lottando per liberare gli animali che nascono oggi e che saranno ingrassati e uccisi in un tempo calcolabile, ma per quelli del futuro, affinché non nascano più. Quelli di oggi sono già carne morta. Stiamo lottando per spezzare la catena del dominio, che è culturale, e per dare il via a un altro tipo di relazione con gli animali, diverso da quello conosciuto fino ad oggi. Questo discorso è valido soprattutto per gli animali destinati a diventare prodotti alimentari, mentre per quelli rinchiusi nei circhi, zoomarine, delfinari, zoo ecc. già potrebbe essere possibile fare qualcosa oggi: intanto smettere di catturarli in natura, poi ricollocarli in santuari dove almeno non siano più esposti al pubblico e costretti ad esibirsi e dove abbiano almeno una parvenza di libertà; se è vero infatti che difficilmente possano essere reimmessi in natura (almeno gli individui che sono prigionieri da più tempo), si possono però sistemare in luoghi più idonei e dove possono interagire con i loro simili.

Io ammiro voi idealisti, davvero, ammiro chi decide di investire così tanto tempo ed energie per gli altri, ma io non ho questa determinazione che hai tu e soprattutto, per quanto a volte mi fermi a riflettere sulla condizione degli animali, non mi interessa così tanto da spingermi a fare delle scelte. E poi non mi trovo affatto d’accordo con quanto dice l’antispecismo, non credo che noi siamo uguali a una mucca. 

Un momento, un momento. L’antispecismo non dice questo. Non dice che noi siamo uguali a una mucca. Dice al contrario che siamo tutti diversi, anche tra individui di una stessa specie, ma che la diversità non deve diventare pretesto per opprimere, escludere e discriminare. Così come abbiamo rifiutato il razzismo, il maschilismo e l’omofobia, dobbiamo arrivare a capire che avere due ali anziché due braccia e due piedi non può costituire una differenza ontologica, ma solo morfologica. Il concetto in sé di “animale” è del tutto fuorviante perché usiamo un singolare, “animale”, o anche un plurale, “gli animali”, per significare  - in realtà, negandola -, una moltitudine di individui tutti diversi tra loro. Ora, è vero, che lo facciamo anche per l’essere umano – diciamo infatti l’uomo o l’essere umano appunto – per racchiudere una moltitudine di singolarità viventi, unici e irripetibili, però nel nostro caso gli attribuiamo una connotazione positiva che tanto più si innalza come valore supremo, quanto più viene paragonata all’altra moltitudine tra cui abbiamo messo uno spartiacque, che è quella degli altri animali, appunto. Da una parte noi, dall’altra loro. 

Beh, ma è vero. È vero che noi siamo diversi da tutti gli altri animali. Ci siamo evoluti nei secoli mentre gli altri animali sono sempre rimasti uguali a come erano all’inizio. Voglio dire, una mucca rimane sempre una mucca, una scimmia anche, mentre noi dagli uomini primitivi che siamo stati ci siamo evoluti in esseri sempre più intelligenti. 

Hmmm, ci sono tanti errori concettuali in questa tua frase. Prima cosa, tutte le specie si evolvono, ma ognuna segue la propria evoluzione. Pensare che l’evoluzione sia una linea retta che debba mirare verso il raggiungimento di fini che noi specie umana abbiamo ritenuto utili per noi – perché di fatto sono stati utili per noi – è antropocentrismo puro. Un pipistrello non saprebbe che farsene di un microonde, così come a noi, nello svolgimento delle nostre vite nelle società urbanizzate, non serve saper correre veloci. Ovvio che a noi sembri importante tutto ciò che abbiamo fatto noi, compresa l’arte, il comporre versi e l’aver saputo trasmetterci informazioni culturali, ma altre specie hanno avuto altre esigenze e altri problemi che hanno risolto, ognuna evolvendosi in base alle proprie esigenze etologiche di adattamento, talvolta facendo, proprio come noi, di necessità virtù: perdendo tratti o acquisendone altri atti a garantire la sopravvivenza della specie. Quindi non ha senso dire che una mucca rimarrà sempre una mucca e non potrà mai riuscire a guidare un aereo perché, semplicemente, alla mucca non è servito e dubito mai servirà guidare un aereo. E non vedo come questo dovrebbe giustificare la condizione di schiavitù e oppressione cui la costringiamo. 

Oppressione, schiavitù, questo significa antropomorfizzare. Una mucca semplicemente vive per darci il latte e per essere mangiata. Sai una cosa? Quando vedo una mucca pascolare, così placida e tranquilla, penso che tutto in lei concorra solo al fine di diventare il nostro cibo. Che sia nata per quello.

Pensa che strano. A me l’immagine di una mucca su un prato restituisce un senso di armonia con la natura, mentre a te quella di un dominio indiscusso, poiché deterministico, tra uomo e animali. Ma sai, un tempo lo stesso si pensava dei neri. Nati per servirci. L’immagine di quella moltitudine di schiavi chini sui campi di cotone restituiva l’idea di un confortante ordine delle cose nel mondo. Ognuno al suo posto. Il bianco sul cavallo – gli animali non umani da sempre sono stati i primi schiavi (a proposito, sai che a Londra, dalle parti di Hyde Park, c’è un monumento dedicato agli animali trascinati e caduti in guerra, loro malgrado?) – e i neri a lavoro al suo servizio. E tutto ciò si pensava che rientrasse nell’ordine naturale delle cose. Esattamente come tu oggi pensi guardando la mucca sul prato mentre si sta facendo gli affari suoi o dovrebbe farsi gli affari suoi, giacché non esistono mucche libere e tutte, anche quelle che vedi vagare nei pascoli, la sera vengono ricondotte in stalla e prima o poi, quando la loro produzione di latte calerà – dopo alcuni parti e separazioni forzate dei loro cuccioli – infine condotte al mattatoio.

Sì, forse tutto ciò è triste. Ma alla fine, te lo confesso, a me il sapore del San Daniele o del formaggio stagionato piace più di quanto la mia coscienza mi possa suggerire. 

Oh… ma guarda, alla fine l'hai detto e apprezzo la sincerità. L’unica cosa sensata che tu abbia detto dall’inizio della nostra discussione. 
Il sapore del San Daniele. Il sapore che è solo la promessa del ritorno di un tempo perduto. Quello in cui la mamma ci rassicurava e ci diceva che se avremmo mangiato tutto saremmo diventati grandi e tutto sarebbe andato bene. Così come doveva essere. Ma le cose possono essere diverse e devono poter essere diverse, nel momento in cui comprendiamo che restando così come sono esse arrecano infinito dolore ad altri individui. 

(Continua).

Immagine di Andrea Festa

martedì 27 dicembre 2016

3096 giorni di Natascha Kampush


Sbirciando tra gli scaffali della libreria della stazione, il giorno della vigilia di Natale, mi è capitato sotto gli occhi il libro che racconta la prigionia di Natascha Kampush, la ragazza austriaca che fu rapita all’età di dieci anni e tenuta prigioniera per otto, prima che riuscisse a scappare dal suo sequestratore. 
“3096 giorni”, così si intitola, e tali sono i giorni che è stata tenuta segregata dentro una cella angusta, a parte alcune sporadiche uscite nell’appartamento al di sopra e in cui comunque era sempre tenuta sotto stretta sorveglianza dal suo sequestratore, persino quando andava in bagno.
La storia è scritta da lei stessa, con un stile molto asciutto che non lascia spazio alla retorica o al compatimento. Spiega molto bene il complesso rapporto che si era venuto a instaurare con il rapitore e che i media hanno frettolosamente liquidato con Sindrome di Stoccolma. Natascha, sebbene fosse molto piccola quando lui la rapì, era comunque una bambina intelligente e sveglia, seppure insicura, e non ha mai perso la consapevolezza di essere una vittima di un crimine orrendo. Le continue vessazioni che ha dovuto subire durante gli otto anni – isolamento, privazione del cibo, botte di ogni tipo, dominio totale sul suo corpo e le sue funzioni, controllo costante, abusi e ricatti psicologici, umiliazione, privazione della sua identità – non le hanno fatto perdere la lucidità di capire che non avrebbe dovuto arrendersi e che, per quanto il rapitore si fosse impossessato di ogni suo atto e pensiero, avrebbe dovuto preservare un minimo di autonomia mentale per non perdere del tutto il contatto con la realtà. Sottomessa, picchiata, abbrutita, costretta a fare da schiava e a subire l’ira e la paranoia crescente dell’aguzzino, non ha mai perso quel minimo di ragione mentale che le ricordasse chi era e cosa voleva: fuggire, essere libera. Piegata, ma non spezzata, come ama ricordare.  
Ne parlo perché, a parte l’interesse per questa vicenda che all’epoca della sua liberazione, e tutt’oggi, fece molto clamore, mi hanno colpito alcuni passaggi in cui lei descrive molto bene la condizione psicologica in cui ci si viene a trovare quando si subiscono abusi continui e tra questi forse i peggiori: la privazione del cibo e l’isolamento. Sarà che il mio pensiero è sempre rivolto alle vittime costanti del dominio dell’uomo, gli animali, ma ci ho visto tantissime analogie appunto con quegli individui che vengono sottomessi e costretti ad eseguire esercizi contro natura all’interno di circhi, zoomarine o in altre strutture; così come nelle manifestazioni di affetto dei cani usati per la vivisezione nei confronti dei loro aguzzini. 
Anche loro, come Natascha, sanno bene che la mano che li picchia e gli toglie il cibo, è anche però la stessa che li nutre e decide se tenerli in vita oppure no. È da quella mano, per quanto crudele, che dipende la loro sopravvivenza. E per riconquistare la libertà è necessario sopravvivere. Quel che li spinge a resistere - com’è stato per Natascha - è appunto quel desiderio ultimo, indomito e assoluto, di libertà. 
L’aspetto più sconcertante e complesso e che molti liquidano con “fedeltà”, nel caso degli animali non umani, o Sindrome di Stoccolma, nel caso delle persone rapite, è che quando si è rimasti affamati per giorni, senza ricevere cibo o comunque tenuti a stecchetto costante, così che la sensazione della fame sia sempre presente, si è profondamente grati di ogni pezzetto di cibo che arriva, anche se arriva dalla stessa mano che ce ne priva. Non solo. Le conseguenza della fame indotta per troppo tempo nuoce anche al cervello e alle facoltà cognitive. Ci si sente deboli, spossati e non si riesce a pensare ad altro che al cibo. Tutte le poche energie mentali e fisiche vengono indirizzate nel tentativo di accedere o farsi dare un pezzetto di cibo. Questo è un modo per evitare che il prigioniero possa pensare ad altro; come alla sua fuga, per esempio. 
Mi sono chiesta tante volte come mai gli animali rinchiusi nei circhi - animali forti come leoni, tigri, elefanti - non si ribellino quotidianamente. A parte che lo fanno, sono molti i casi di animali che hanno tentato la fuga (come quello del giraffino Alexandre e quell’altro dell’elefante evaso da un circo di Roma e i tanti degli animali che si gettano dai tir mentre sono diretti al mattatoio o che provano a fuggire dagli allevamenti), ma il fatto è che questi animali sono stati addestrati violentemente sin da quando erano piccoli: sanno che al minimo cenno di ribellione saranno puniti con botte, scosse elettriche e, cosa peggiore, con la tanto temuta privazione del cibo. Vivono poi in isolamento, impossibilitati ad avere relazioni con altri simili. Tenuti segregati dentro gabbie piccolissime e privati dell’espressione di ogni necessità etologica. Esattamente come Natascha: una storia, la sua, che ci fa orrore, ma che lasciamo che si ripeta ogni giorno su altri individui indifesi. 
Natascha è stata privata della sua adolescenza, quel periodo così importante nella formazione di un individuo che va dai dieci ai diciotto anni; gli animali vengono privati della possibilità di fare qualsivoglia esperienza. Blocchiamo il loro processo evolutivo, impediamo lo sviluppo delle loro capacità cognitive, gli impediamo di essere, di esistere, di divenire. Questa forse è la cosa peggiore, ancor più della morte, che talvolta giunge per loro come l’unica liberazione possibile. 
Un’altra cosa che scrive Natascha nel suo libro è che solo dopo, una volta liberatasi e avuto modo di elaborare quanto vissuto, con l’aiuto di psicoterapeuti, ha potuto capire quanto fosse rimasta prigioniera di ben due prigioni: quella reale, della cella e casa del rapitore, ma anche quella mentale. Prima del giorno della sua fuga lei aveva avuto altre opportunità di fuggire, ma non era stata in grado di sfruttarle perché il sequestratore l’aveva condizionata sin da quando era piccola. Le aveva fatto credere che il mondo là fuori fosse ostile - trascinandola nella sua paranoia ossessiva -, che i genitori non avessero voluto pagare il riscatto, che nessuno si ricordava più di lei, che nessuno le volesse bene perché era un’inetta, brutta, grassa, inutile ecc. e che se avesse tentato di fuggire lui l’avrebbe uccisa e avrebbe ucciso tutti quelli che l’avessero vista anche di sfuggita. Le aveva fatto credere che se avesse provato ad aprire una finestra, sarebbe saltata in aria perché aveva delimitato tutte le aperture di casa con la dinamite. Una bambina di dieci anni crede a tutto ciò che un adulto, anche il proprio aguzzino, essendo l’unico riferimento, le fa credere e una volta formatasi quella visione del mondo alterata e distorta, è molto difficile riprendere contatto con la realtà. 
Così è per gli animali. Essi non sanno nulla del mondo là fuori, eppure, come Natascha, sanno che vogliono fuggire da quelle mura in cui subiscono abusi di ogni tipo. 
In questi giorni di feste, nelle varie città d’Italia, si sono attendati molti circhi. Non andateci, non portateci i vostri bambini. Quegli animali che vi sembra si divertano ad eseguire stupidi esercizi, sono vittime di abusi di ogni tipo, tra cui la privazione del cibo e la prigionia costante. 
La libertà è un valore assoluto. Natascha se lo ripete costantemente. Ha sopportato di tutto, il dolore fisico e psicologico, la disperazione, la fame, il freddo, l’assenza di una vita normale, senza mai arrendersi, pur di riconquistarla. Per ogni istante di quei 3096 giorni si è ripetuta che doveva tornare libera. E ha aspettato il momento opportuno - una breve distrazione fatale del sequestratore, quando ormai era convinto che lei non sarebbe mai fuggita - per correre, correre, correre via, assaporando i primi istanti di libertà. Quello che fanno ogni tanto gli animali prigionieri, ma che purtroppo, trovandosi in un habitat ostile ed estraneo, non riescono a ottenere che per poco. 
Il racconto della prigionia di Natascha farebbe orrore a chiunque. 
Il circo, gli allevamenti, gli tabulari, gli zoo, non sono luoghi molti diversi da quello in cui lei è stata prigioniera. Identici sono i metodi per sottomettere e schiavizzare un individuo, identica quella follia di potere assoluto e dominio su un altro essere. 

mercoledì 21 dicembre 2016

Il lato oscuro di Telethon e della ricerca basata sulla sperimentazione animale


Questo post l’ho già scritto mille volte. Nel senso che ne ho scritti altri come questo e che alla fine le cose da dire sono sempre quelle. Ovvie, direi. Ovvie a me e a qualsiasi persona per cui il concetto di “rispetto degli animali” sia qualcosa di più di una semplice frase fatta. Cioè, voglio dire, mi sembra assurdo stare qui a ribadire nel 2016 che gli animali siano individui senzienti, soffrano esattamente come noi (non in misura minore, questa è una delle giustificazioni che la nostra specie ha sempre usato per opprimere il diverso) e che la sperimentazione animale sia qualcosa di molto cruento e invasivo. 
Ciononostante continuerò a scrivere questo post finché anche un solo individuo verrà tenuto dentro una gabbietta per essere poi fatto ammalare, quindi testato, quindi ucciso, o a causa della malattia che gli è stata artificialmente indotta o alla fine del test (tramite decapitazione, in alcuni casi, come è per i topi, o dislocamento cervicale o altri metodi non meno brutali).  
E come in ogni altro post precedente non mi addentrerò nelle tante ragioni dell’antivivisezionismo scientifico, primo perché non essendo una biologa o medico mi verrebbero contestate (sebbene abbia letto molto in materia, nonché assistito a diverse conferenze di persone preparate ed avendone pienamente afferrato i concetti, non sarei comunque in grado di riportarne le parole esatte). Mi limiterò a dire che in tutti gli animali su cui si fa ricerca e si testano farmaci, la malattia viene indotta artificialmente, ossia si fa in modo che l’animale abbia sintomi simili a quelli della malattia che si pretenderebbe curare, ma l’eziologia è per forza di cose diversa. Un conto è ereditare una rara malattia genetica che presenta alcuni sintomi ben precisi, un altro è indurne i soli sintomi in un paziente sano, di specie diversa e che, come è nel caso di ratti e topi, vive un numero di anni enormemente inferiore a quello della nostra specie, per cui lo sviluppo e decorso dei sintomi avviene anche in tempi diversi. C’è poi enorme bibliografia in materia che spiega come molte farmaci si siano rivelati dannosi per l’uomo a posteriori, anche se il test sugli altri animali andava bene; e, cosa peggiore, accade anche il contrario: una sostanza letale per un topo, coniglio, cane o macaco potrebbe essere invece tollerata nella nostra specie - e magari potrebbe dare ottimi risultati o fornire spunto per l’evoluzione della ricerca -, ma non lo sapremo mai perché verrà scartata a priori. Detto in sintesi: la ricerca basata sugli animali procede con metodi ormai superati e antiquati, pieni di falle e incertezze, ed è autoreferenziale; ossia pretendendo la validazione dei metodi sostitutivi tramite i suoi vecchi parametri, praticamente rimane incastrata in un paradosso scientifico. Inoltre i metodi sostitutivi, ormai moltissimi (siamo andati sulla luna, abbiamo progettato computer sofisticatissimi e altrettanti passi da gigante son stati fatti in questo campo), non ricevono abbastanza fondi per essere portati avanti, essendo destinati tutti a quella tradizionale. 
Il motivo è semplice: per ogni nuova pratica rivoluzionaria e moderna bisogna anche ricevere un certo tipo di formazione, mentre la classe dei ricercatori ancora studia sul vecchio modello animale e fa carriera su questo; le case farmaceutiche hanno bisogno di un lasciapassare giuridico ogni volta che immettono un nuovo farmaco in commercio (anche se si tratta dello stesso, ma magari hanno modificato o aggiunto un eccipiente o migliorato la formula del prodotto) e questo è ottenuto solo se si fanno un tot test su animali; ovviamente i test si fanno su varie specie, ma si riportano soltanto i risultati di quelli che danno esito positivo. Ad esempio, se il test sui conigli non passa, non si riporta; se però passa quello sui topi, allora si dice che il tot farmaco ha avuto esiti di buona tollerabilità e non ha avuto effetti collaterali dannosi su questi ultimi. Ora, chiedetevi come mai in ogni farmaco c’è scritto che un tot per cento di pazienti è deceduto o potrebbe avere effetti collaterali seri: questo perché in realtà gli esperimenti sugli animali non danno mai risultati certi. Le case farmaceutiche si parano comunque il sederino ricorrendo alla dicitura che per legge avvisa il paziente di eventuali danni collaterali. 
Questo molto in sintesi. 
Ma la vera ragione per cui sto scrivendo per l’ennesima volta un post contro la vivivisezione (a proposito, il termine è corretto e si usa come sinonimo di sperimentazione animale: così riportano anche l’enciclopedia britannica, americana e la Treccani; del resto gli esperimenti si fanno sugli animali VIVI, qualsiasi tipo di esperimento. Vi tralascio i particolari) è ovviamente quello etico e credo sia necessario perché c’è ancora moltissima confusione e tanta tanta propaganda. In questo periodo ovunque mi giri leggo il nome di Telethon, che usa sempre la solita retorica dei bambini. Se mettesse anche i video degli esperimenti condotti su primati neonati o cuccioli di cane, magari riscuoterebbe meno consenso, però ovviamente le pratiche della vivisezione fanno parte dello stesso mondo sommerso degli allevamenti e dei mattatoi, per cui attorno ai suoi protagonisti e alle sue vittime vige il segreto più totale e si fa grande uso di mistificazione semantica ricorrendo a immagini suadenti che manipolano l’emotività delle persone.
Inoltre, così come è per il discorso della “carne felice”, si mette a tacere la coscienza delle persone avvalendosi della copertura dell’etichetta “rispetto delle norme sul benessere animale”, che è niente di più e niente di meno di un passpartout legislativo dietro la cui nomenclatura continuano a essere perpetrate le pratiche più aberranti. 
Forse non molti sanno che oltre alle migliaia di topini, conigli, cani, gatti, cavalli e primati (babbuini, macachi, scimmiotte cappuccino, fino a scimpanzé) fatti nascere in cattività, avvengono anche catture in natura, specialmente di questi ultimi, cioè i primati, in quanto a causa dello stress, della sofferenza psicologica e fisica non riescono a riprodursi più di tanto. Le multinazionali della sperimentazione vanno in paesi esotici e, pagando i locali pochi spicci (c’è anche sfruttamento umano, quindi) catturano gli individui di varie specie in natura. Catturano famiglie intere. Poi li trasportano in aereo, sottraendoli alla loro vita libera nel loro habitat di origine, e li smistano nei vari paesi europei. Due compagnie aeree che effettuano questi trasporti di animali vivi e che rispedisce indietro in maniera coatta, anche gli extracomunitari – ammanettati come fossero delinquenti – e che difatti boicotto, sono Air France e KLM. 
Oltre ai primati di varie specie, gli animali usati nella sperimentazione sono cani, gatti, maiali, conigli, topi, ratti, rettili, mucche, vitelli, agnelli, pipistrelli e anche animali esotici che hanno qualche particolarità genetica di interesse. 
Questi animali vengono tenuti imprigionati dentro teche, gabbie o altre strutture minuscole. Privati quindi della libertà di movimento e di interazione con i loro simili. Vengono fatti ammalare appositamente: gli vengono provocati danni neurologici, vengono fatti ammalare di stress psico-fisico (gli si scatenano artificialmente, per esempio, depressione e attacchi di panico: ecco, pensate a quante cause endogene e legate al vissuto esperienziale di un individuo umano possono esserci nello sviluppo di una depressione e quanto essa sia singolare e tipica in ciascuna persona che ne soffre; e a come invece venga trattata solo sintomatologicamente provocando l’insorgenza dei suoi effetti primari con metodi indotti su migliaia di individui diversi; metodi quali la privazione del sonno, l’immobilità forzata, scosse elettriche ripetute per causare stress e dolore continuo, la privazione di ogni stimolo sensoriale e via dicendo; sintomi che però non corrispondono all’eziologia dello sviluppo e decorso di una malattia in un individuo umano che ha altre problematiche); e ancora, gli si fanno inalare, ingerire o vengono messi a contatto con sostanze chimiche velenose, gli si fratturano arti, gli si inoculano tumori e altre aberrazioni.
Ora, ditemi voi se sottoporre individui sani a queste atrocità non sia l’equivalente di una tortura. 
Chiedetevi sempre: e se fossi al suo posto? Cosa penserei di questa pratica se al posto di un babbuino ci fosse un essere umano? Forse il dolore è diverso? Forse la diversità di specie può giustificare la tortura, l’oppressione, lo sterminio? Badate bene, il rispetto degli altri animali si base sulle stesse motivazioni per cui abbiamo ritenuto che il razzismo o il nazismo fossero concetti abominevoli.
Nessuno scopo può legittimare tanto dolore e l’abuso così totale dei corpi di altri animali. 
Noi ci ammaliamo, sfortunatamente ed è sacrosanto che si faccia ricerca, ma non sulla pelle sana di cani, gatti, scimmie, cavalli e tantissime altre specie. 
Io penso che se tutti avessero la possibilità di vedere simili esperimenti, una riflessione la farebbero. E ci penserebbero due volte prima di donare a quegli istituti che seviziano gli animali. Perché il fatto oggettivo è questo: gli animali usati nella sperimentazione animale subiscono le sevizie più atroci. Ci sono altri istituti e fondazioni che si possono sostenere economicamente, che fanno ricerca contro il cancro e malattie genetiche rare e che però non torturano animali, ma usano moderni metodi sostitutivi. 
All’obiezione che chi è contro contro la vivisezione allora non dovrebbe curarsi, rispondo che il diritto alla cura è anche un mio diritto e finora purtroppo non ho avuto scelta, ma che proprio per non essere più complice di questo crimine sugli altri animali, chiedo che la scienza interroghi se stessa e metta in discussione i suoi metodi, ormai non più compatibili con quanto sappiamo dell’etologia degli altri animali, ossia che sono individui diversi da noi, ma non per questo deficitari in termini di esperienza del mondo, capacità di sentire, soffrire, stringere relazioni ecc..
La scienza ha fatto progressi solo quando ha messo in discussione se stessa. La ricerca basata sulla vivisezione invece è come un dogma religioso. Si continua a ripetere alle persone poco informate o vittime della propaganda pubblicitaria che chiede fondi che essa sia necessaria e addirittura incruenta. Ma andiamo, come può essere incruenta una pratica che già dalle sue basi – la detenzione di individui dentro stabulari – è puro esercizio di dominio e causa della privazione delle anche più basilari esigenze etologiche, come muoversi, correre, interagire con i propri simili e semplicemente godersi il sole e il vento sulla pelle? Come può essere ritenuto incruento far ammalare un cane di tumore o causargli artificialmente danni neurologici? Come può esser ritenuto incruento prenderlo e usarlo, immobilizzarlo, farlo ammalare e poi sottoporlo ogni giorno a vari tipi di esami? Avete presente la paura che ha il vostro cane, gatto quando viene portato dal veterinario? O lo sguardo spendo degli animali malati ricoverati nelle cliniche? Ecco, moltiplicateli per mille. Questi animali non hanno nessuno che li conforta, che li protegge, che gli allievi un minimo le pene. E pensate che gli vengano somministrati anestetici o antidolorifici? Ma prima di donare a certe istituzioni vi siete mai veramente informati e avete mai letto i vari protocolli di ricerca e la legislazione in materia? Lo sapete che c’è una legge, cui si ricorre praticamente sempre, che dice che si possono fare esperimenti sugli animali senza anestesia se il protocollo lo richiede? Una deroga cui si ricorre quasi sempre, pure perché gli anestetici costano e ovviamente la vivisezione, che l’apoteosi massima dello sfruttamento del vivente, deve ottimizzare soldi e tempo.
Questi protocolli sono segreti o, come nel caso della diffusione di alcuni di essi, qualche anno fa, sono pubblici, ma ovviamente tenuti all’oscuro dal pubblico. Se non si da dove andare a cercare qualcosa, nemmeno la si troverà mai.
Vi siete mai chiesti come mai non vengano mai mostrati questi esperimenti e nessuno, nemmeno i giornalisti, abbiano accesso agli  stabulari e laboratori?
Secondo voi è democratico sapere che vengono raccolti fior di milioni senza sapere esattamente come vengono utilizzati, se non come parole generiche che non spiegano nel dettaglio i test e gli esperimenti e non menzionano esattamente la specie e il numero di individui usati e poi uccisi?
Non avremmo il diritto di sapere cosa avviene a porte chiuse? Di vedere questi animali, se è vero che vengono trattati con rispetto?
Alla seconda obiezione, che allora dovremmo essere coerenti e anche non mangiare gli animali, non vestirci di pelle e non comprare nulla che preveda il loro sfruttamento, rispondo che ovviamente dovrebbe essere così perché per alcun motivo dovrebbe essere giustificato lo sfruttamento di altri individui senzienti (l’antropocentrismo è concetto superato da un pezzo), ma anche chi non è vegano e antispecista comunque può sentirsi in diritto di chiedere la fine della vivisezione, nel momento in cui ne riconosce l’immensa crudeltà. Del resto ognuno di noi è in costante formazione, si pone domande e compie delle scelte. Molti arrivano a delle risposte parziali, ma è già un primo passo. Inoltre, quando si è contro la guerra, il genocidio di una popolazione (come quello in Siria) o contro lo sfruttamento di persone e ci si attiva, nessuno ci viene a dire “ah, ma allora dovresti anche smettere di andare in auto, di usare energia derivata dal petrolio e di comprare questo e quell’altro”. Invece si fa quel che si può perché opporsi a una pratica ritenuta ormai obsoleta e crudele è comunque un dovere, a prescindere dal resto delle innumerevoli ingiustizie che avvengono costantemente nel resto del mondo. Lottare contro un’ingiustizia, non vuol dire approvare o fregarsene delle altre. 
Gli esperimenti sugli animali sono una cosa da nazisti. Anche concettualmente: ossia stabilire una gerarchia del vivente e usarne alcuni per privilegiarne altri. 
Informatevi. Non bevete i messaggi falsi e distorti della pubblicità e della propaganda che sostiene la tortura su migliaia di animaletti innocenti. 
Guardatevi qualche video, comprate libri, leggete protocolli, chiedetevi come vengano fatti ammalare questi animali e cosa gli vien fatto. 
Il dominio totale su altri corpi è sempre sbagliato. Non sono i nostri corpi, questi degli altri animali, appartengono a loro. 
C’è un limite alla libertà di ognuno, che è quella dell’inizio del corpo dell’altro, qualunque sia la sua morfologia, specie e colore della pelle.

martedì 20 dicembre 2016

lunedì 19 dicembre 2016

Zootecnia

Foto scattata durante un presidio NOmattatoio

Vedere gli animali che entrano al mattatoio è ogni volta un’esperienza sconvolgente perché anche se ognuno di noi sa che ogni giorno, ogni momento, ne vengono uccisi a migliaia, non riesce mai davvero a immaginarne i singoli volti; sarebbe impossibile e anche insopportabile per la nostra mente.
Sì, credo che ci sia una parte di noi che si illuda che tutto ciò non esista realmente. Fino a che non incontra i loro sguardi e allora dice: caspita, ma allora è tutto vero. 
In genere è il ritorno alla realtà che ci salva dagli incubi, mentre in questo caso è diverso: viviamo come obnubilati, come se sugli scaffali dei supermercati comparissero quei pezzi di carne per magia, e poi ci svegliamo, qualcuno o qualcosa ci sveglia. Ed è allora che precipitiamo in un incubo. 
Chi sa, chi ha visto, è così che vive. Costantemente sul punto di ripiombare nell’incubo. 
E ne siamo solo spettatori. Pensate un po’ a chi lo vive realmente. A chi realmente viene trascinato dentro i mattatoi per finire sgozzato ed essere maciullato. Per loro l’incubo comincia da quando vengono al mondo e dura ogni singolo istante della loro vita.
E siamo consapevoli che non stiamo lottando per quelli che abbiamo visto, impossibili da salvare, ma per quelli che verranno. Affinché non vengano al mondo. Stiamo cercando di bloccare l'automatismo di questo sterminio sistematico che la società e le istituzioni chiamano "zootecnia". 

Dialoghi tra animali - terza parte


Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, 
o alla propria, volge le spalle, 
così da non vederla e non sentirsene toccato: 
così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, 
nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, 
e che il non sapere li alleviasse 
dalla loro quota di complicità o di connivenza.
(Primo Levi)


Ma l’uomo ha iniziato a mangiare gli animali, cacciandoli, semplicemente perché aveva fame. Non siamo anche noi animali tra gli animali?

Oh sì, e viveva anche nelle caverne e faceva la danza della pioggia. Ma secondo te è normale giustificare un qualcosa solo perché lo facevano i nostri antenati? E poi gli allevamenti non sono la caccia. Così come c’è un’enorme differenza tra la predazione in natura e l’allevamento nella nostra organizzazione sociale. La prima è una necessità per quelle specie che sono carnivore. Il secondo è un prodotto storico-culturale. Noi non siamo carnivori, non moriamo se non mangiamo carne, siamo carnisti, ossia mangiamo carne per tradizione e abitudine culturale e perché sin da quando nasciamo ci fanno credere che sia normale e naturale farlo.
Per un animale carnivoro cacciare e mangiare una preda è una necessità vitale esattamente come respirare. Non lo è altrettanto l’hamburger per noi. Abbiamo sempre creduto che lo fosse perché ce lo hanno dato da mangiare sin da quando siamo bambini, accompagnato da una sequela di luoghi comuni che ormai la scienza della nutrizione ha completamente smentito. “La carne fa bene”, “il latte fortifica le ossa”, “il pesce contiene fosforo per la memoria”, “solo la carne ha le proteine nobili” e via dicendo. E la gente ci crede perché la cultura funziona così. Le informazioni vengono trasmesse da generazione in generazione, da famiglia in famiglia, da madre a figlio. Con l’ampio e preponderante supporto della televisione, dei media che fanno disinformazione e dell’ignoranza stratosferica in cui siamo immersi oggi. Sai una cosa? Sì, lo so, sto di nuovo divagando, ma una cosa voglio dirtela. Oggi pensiamo tutti di essere svegli e preparati solo perché abbiamo accesso a una mole di informazioni continua e questo ci autorizza tutti a parlare. Un tempo invece chi non aveva studiato, chi non si era fatto il culo così sui libri o anche con l’esperienza del lavoro, stava zitto ad ascoltare e non sentiva l’esigenza di dare continuamente la propria opinione. L’informazione non è conoscenza. Dire che è necessario mangiare carne, a dispetto della testimonianza vivente di quei vegani che non la mangiano da venti anni, solo perché lo si è letto nel giornaletto di gossip mentre si stava dal parrucchiere o perché ce l’ha sempre detto mamma, nonna e la maestra all’asilo, non è proprio la stessa cosa dell’essere davvero preparati su un argomento. Io quando ho deciso di diventare vegana non mi sono affidata al caso, cribbio, ho letto e studiato e chiesto consiglio a medici e nutrizionisti preparati. Non sto dicendo che serva una laurea per decidere di smettere di essere complici di tutte quelle orrende cose che vengono fatte agli animali, ma sicuramente qualcosina bisogna saperla. Ad esempio non sapevo nemmeno cosa fosse la B12 (per inciso, nemmeno il resto del mondo lo sapeva prima che si cominciasse a parlare di veganismo). 
Quindi chi la fa da padrona è la disinformazione, l’ignoranza e ci sono precisi interessi economici e di potere per lasciare che le cose rimangano così. Per lasciare che le persone continuino a dire che ci servano le proteine della carne e che il latte faccia bene. Andiamo. Il latte di una mucca. E perché no quello di un’elefantessa? Solo perché allevare bovini è sempre stato più semplice. Non certo perché noi, specie umana, avremmo davvero avuto bisogno del latte di un altro mammifero che pesa tonnellate più di noi e che contiene nutrienti e ormoni della crescita per far crescere un vitello in pochi mesi. 

Mi stai dicendo che c’è un complotto per farci credere questa cosa e tutto ciò solo per rimpinguare le tasche degli allevatori? Un po’ difficile a crederci. Queste sono proprio quelle cose che fanno apparire voi vegani come cultori di una setta. 

Aspetta. Dammi tempo. Stai traendo conclusioni affrettate. Non ho detto che ci sia un complotto. Ma che esiste un mondo sommerso volutamente tenuto nascosto. O meglio, è un po’ come la lettera del famoso racconto di Edgar Allan Poe. Gli allevamenti e i mattatoi sono in realtà ovunque, in certe regioni più che in altre, ma nessuno ci fa caso perché visti da fuori sembrano strutture anonime, capannoni uguali a tanti altri. Li vedi magari percorrendo le autostrade, da lontano, e pensi che siano aziende, fabbriche; non ti viene da pensare che lì dentro ci siano migliaia di corpi ammassati e prigionieri. Corpi la cui esistenza è stata programmata sin dalla nascita e che non vedranno mai la luce del sole. Hai mai visto maiali liberi in natura, per caso? Mai. Scrofe in gabbie di gestazione, cuccioli appena nati e già traumatizzati dall’asportazione dei denti e dal taglio dei testicoli senza anestesia, cuccioli all’ingrasso per poi venire prelevati a pochi mesi e condotti al mattatoio. E a tutto questo non pensi perché non lo vedi. E se non ci pensi, è come se non esistesse. Poi, quando si parla invece del “prodotto finito”, la violenza ormai è stata epurata, cancellata, rimossa. E non solo, tutto viene modificato e illuminato per apparire bellissimo. Non senza una dose di bugie. Questo è vero. Ci raccontano un sacco di bugie, oltre a non rendere possibile la conoscenza di questa realtà sommersa.
Ma andiamo per ordine. Ti parlerò della dissociazione cognitiva, delle menzogne della pubblicità e del profitto. E del potere di chi detiene i media o ha i soldi per controllarli. Cominciamo con un piccolo esempio: oggi sembra che in tv si parli spesso di veganismo. In realtà non è vero. Non si parla di veganismo - che già sarebbe qualcosa, anche se all’inizio ti ho detto che in sé non significa niente, ossia che è solo una conseguenza, o la punta di un iceberg se preferisci, di una questione molto più grossa –, lo si spettacolarizza soltanto. Se ne prendono gli aspetti più esteriori e irrilevanti – al netto delle motivazioni profonde –, si crea, come dire, uno stereotipo e poi lo si butta nella mischia del circo mediatico in pasto a soubrette e opinionisti che recitano un copione già scritto per creare la rissa e alzare gli ascolti. E gli animali in tutto questo dove sono? Dov’è che si parla di sfruttamento animale, di gabbie di contenzione e tir diretti al mattatoio? Dov’è che si parla di pulcini tritati vivi e di aragoste bollite vive?

Beh, ovvio che non se ne parli e che non mostrino certe immagini, altrimenti le persone si rovinerebbero il pranzo e poi non sarebbero appropriate per i bambini…

Ecco, hai toccato un punto. I bambini. Non sarebbe appropriato mostrargli cosa accade dentro un mattatoio, però dargli quel che ne esce fatto a pezzi invece va bene. Non è appropriato dirgli la verità perché, poverini, ne resterebbero traumatizzati, però è considerato educativo raccontargli che le mucche vivono felici e ci danno spontaneamente il loro latte o che il Capitano Findus è un eroe del mare che confeziona tanti bastoncini succulenti. Ecco, la dissociazione cognitiva di cui parlavo poc’anzi si forma proprio così, a questa età. Sai quanto sottotesto si porta con sé il cibo? Il cibo è famiglia, affetto, legami, relazioni, socialità, convivialità, tradizione, ricordi. Ricordi. I ricordi della nonna che ci dava pane e salame e della mamma che ci cuoceva la fettina. E come potremmo mai associare qualcosa di negativo a tutto ciò? Come potremmo mai pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato in tutto ciò? I bambini guardano le storie di Peppa Pig e si divertono e poi la mamma li porta al McDonald’s per il compleanno, con tutti quei menu colorati e i giochi e come potrebbero mai pensare che i loro genitori siano complici di un sistema di sfruttamento e violenza e li stiano educando a diventarlo anch’essi?

Ma tutto ciò è normale. La vita è violenza e noi proteggiamo i bambini dalla violenza.

Tutto ciò è normale perché rappresenta la normalità. Ma la parola normalità, accidenti, è terribilmente sopravvalutata. L’abbiamo connotata di una valenza positiva quando in realtà significa soltanto esecuzione da parte di una maggioranza di una norma stabilita tanto tempo fa da qualcuno, in circostanze storiche e sociali del tutto diverse e che poi si è protratta nel tempo perché comunque ha portato vantaggi alla classe dominante. Ma è una normalità sbagliata perché condanna all’inferno in terra altri individui. Una normalità che fa orrore perché fa credere che l’esistenza degli allevamenti e mattatoi sia una cosa giusta e necessaria, mentre invece non lo è affatto. Così come crediamo che il progresso sia sempre positivo e spesso lo è, ma solo per una parte del mondo e solo per la specie umana. Per gli animali il medioevo non è mai finito. Del nostro progresso tecnologico nessuno di loro ha mai davvero beneficiato, anzi, esso ha accresciuto solo le loro torture. Pensiamo a quello che accade nei laboratori di vivisezione, ad esempio. O a come negli allevamenti sia tutto automatizzato così che essi vivano esistenze del tutto artificiali finalizzate a spremere il massimo delle loro carni. E non appena questo massimo non è più tale, zac, al mattatoio. Gli allevamenti sono strutture di dominio totale della vita per mezzo della tecnologia; lo dice la parola stessa: zootecnia.
La vita, o meglio la natura, contiene in sé una certa dose di violenza, è vero. Ma un conto è quella necessaria del leone che sbrana la prede altrimenti morirebbe, un altro è quella intenzionale del dominio di altre specie solo per trarne profitto. Una violenza che si ripete sistematicamente, ossia messa a regime e che funziona come una catena di montaggio all’incontrario. Da un corpo vivo ne escono pezzettini. Puliti, limati e impacchettati. E ogni persona che lavora a questa catena ha un suo preciso compito e solo quello. Pochi vedono l’animale vivo che scalcia e grida di terrore (perché sente l’odore del sangue dei suoi fratelli e le loro urla), solo l’abbattitore, che nei grossi mattatoi è un po’ come una figura mitologica. Ed è pieno di testimonianze dei lavoratori nei macelli – sfruttati anch’essi fino all’osso – che dichiarano di star male, di dover bere per dimenticare, di non riuscire, letteralmente, a dormire per via degli incubi. Chi uccide, uccide. Puoi chiamarla come ti pare, esecuzione, abbattimento, ma è sempre un cuore che fermi e sempre alla fine è con le mani sporche di sangue che ti ritrovi. Peraltro si costringono poche persone a fare questo lavoro sporco così che il resto della collettività possa mangiarsi la sua fettina – confezionata asetticamente – senza aver visto niente. Ti sembra giusto? Non è la stessa cosa dei bambini obbligati a estrarre diamanti che poi finiranno incastonati sugli anelli di chi può permettersi di acquistarli senza essersi sporcate le mani? 
Alla fin fine è tutta una questione di privilegi. Questa è la radice dell'ingiustizia, di ogni ingiustizia: sfruttare e sterminare qualcuno per il privilegio e il capriccio di qualcun altro. 
Perché prendersela con gli altri animali? Non ci hanno fatto niente eppure da secoli li schiavizziamo, torturiamo, massacriamo. 

Continua.

sabato 17 dicembre 2016

Lontano dagli occhi


Nel video: agnellini che stanno per entrare al mattatoio. Li abbiamo visti passare oggi, durante il 25° presidio NOmattatoio. Verranno tirati giù a calci o con pungoli elettrici, tirati per le orecchie, per le zampe, per quello che capita, tanto... sono soltanto carne da macello. 
Lontano dai vostri occhi. Ma sui vostri piatti.


Oggi ci hanno detto: ma non ce l'avete un lavoro?

E voi, non ce l'avete un cuore? 

venerdì 16 dicembre 2016

Vanity Fair 3

Domani è il mio compleanno, e così per alleviare la pena degli anni che aumentano, mi autocelebro con delle belle foto scattate da mio marito (Andrea Festa).




mercoledì 14 dicembre 2016

Quale strategia? Non certo quella che perde di vista il fine.


Spesso mi faccio un giro nel reparto carni dei supermercati. Non per farmi del male, per quanto vedere pezzi di animali martoriati trasformati in banali prodotti mi provochi dolore e nausea, ma per capire se a livello di vendite ci siano dei cambiamenti, seppure impercettibili; ebbene, almeno nei supermercati di fascia medio-alta e in quelli della Coop e affiliati come Doc, in effetti qualche cambiamento c’è. E non è un cambiamento positivo. Viene venduta ancora tantissima carne, per non parlare di affettati e simili, ma noto che si tende a mettere sempre più in risalto, in maniera quasi ossessiva, o meglio, sempre più pervasiva, tutte quelle diciture sulle confezioni che specificano che si tratta di carne “bio”, prodotta da “animali nutriti bene e allevati liberi”, “trattati con rispetto” e via dicendo. Simili scritte campeggiano spesso a caratteri cubitali anche sopra al banco dove sono esposti i “prodotti”.
Come già avevo avuto modo di notare negli Stati Uniti, stiamo andando verso l’affermazione dell’allevamento estensivo e biologico, ovviamente per motivi di salute, ma anche per fugare qualsiasi dubbio etico (in chi se lo fa). 
Si continua infatti a credere che non ci sia nulla di male nell’uccisione tout court degli animali e che quindi si debba chiedere solo di trattarli un po’ meglio: farli crescere per un tot mesi all’aperto e poi mandarli compassionevolmente al mattatoio. Si incentiva la promozione dei prodotti italiani doc, quindi di animali allevati in Italia di cui si conosce l’origine e la storia. 
Purtroppo questa dell’allevamento felice è una trappola, non solo semantica, che lascia intatto il paradigma antropocentrico e specista e che continua a far finire nel suo tritacarne migliaia di individui senzienti. Gli animali continuano a essere considerati risorse rinnovabili e prodotti da sfruttare e le persone, da individui capaci di compiere delle scelte informate, vengono considerati giusto quel tanto cui il sistema consente affinché non creino troppi problemi: consumatori presi nell’inganno di aver compiuto una scelta consapevole e giusta, quando in realtà non faranno che continuare ad assecondare e rafforzare la risposta del sistema alla paventata crisi del consumo di carne illudendosi di comprare quella di animali allevati nel rispetto e nell’amore (sempre che poi ce la facciano a fare questa benedetta connessione cognitiva, ossia che, al di là delle parole, riescano davvero a figurarsi il concetto di carne=pezzi di individui morti). 
Parole come “rispetto”, “allevamento a terra”, “nutrito con mangimi biologici”, “benessere animale”, “morte compassionevole” sono le armi con cui il potere continua a opprimere i corpi edulcorandone e mistificandone la violenza che ne è alla base: quella di considerare lecito far nascere individui per schiavizzarli, sfruttarli, abusarne in ogni modo e poi ucciderli; quello di considerare lecito che noi si continui a pensare che mangiare animali sia giusto, necessario e naturale. Che è esattamente il concetto che è alla base dello sterminio sistematico di miliardi di individui.
Il sistema non vuole che si scardinino certezze. Dà solo un altro nome alle cose, affinché tutto resti com’è, senza cambiare mai. 
Peraltro, allevamenti estensivi, come si vede bene nel documentario Cowspiracy, ma come è anche facilissimo da capire sol sapendo fare due conti, distruggerebbero ancora più risorse (di acqua, in primis) e territori e non sarebbero sostenibili per nessuno. 
Quindi parlare di “eccellenza italiana” in questo momento storico in cui più che mai dovremmo essere uniti e compatti per dire NO a ogni tipo di gabbia e schiavitù dell’altro, mi sembra, sinceramente, che non sia utile.
Né potrebbe esserlo strategicamente. Non lo è perché, come spiegavo sopra, restando all’interno di un siffatto paradigma che continua comunque a considerare lecito uccidere e sfruttare gli animali (seppur con più presunto rispetto a quanto ce ne sia negli allevamenti intensivi) non aiuta a far capire alle persone quanto sia sbagliato mangiare animali e che non sia affatto normale, naturale e necessario come hanno sempre creduto; ragion per cui le persone continueranno con la loro domanda e il mercato risponderà alzando i prezzi nel caso di quella ottenuta da animali italiani, ma importando a prezzi bassissimi quella dall’estero, che è poi quella che consumerà la maggioranza. Esattamente come sta accadendo già adesso. Le fasce più benestanti consumeranno carne a prezzi più elevati e le fasce medio-basse continueranno a prendere quella importata a basso prezzo. Questo finché si continuerà a parlare di “carne”, “prodotti” e “allevamenti felici” e non di olocausto animale, dominio, oppressione, specismo e violenza. 
C’è più violenza nell’allevamento estensivo che in quello intensivo, se vogliamo, giacché nel primo, almeno a parole, si concede il riconoscimento dell’animale come individuo, per poi comunque stroncarne crudelmente l’esistenza al mattatoio: si ingannano le persone facendogli credere che mangiare i pezzi dei corpi di questi individui allevati liberamente sia migliore per la loro salute. Per la salute dei consumatori, ovviamente. Ma non degli animali, né del pianeta e né di chi fa parte della schiera di sfruttati e oppressi.
Io penso che dovremmo tenere a mente un semplice concetto: chiunque finisca al mattatoio, subisce un’ingiustizia di proporzioni inenarrabili. 
E al mattatoio ci finiscono tutti gli animali allevati, quale sia il tipo di allevamento. 
Avete idea di cosa significhi varcare le porte di questi inferni sulla terra? E anche di cosa significhi lavorarci? 
Non importa da quale allevamento provenga l’animale. Per lui la fine sarà sempre la stessa. Finirà la sua breve esistenza – voluta apposta per arrivare qui – in mezzo a sangue, viscere, merda, piscio, vomito, terrore, grida.
Lottiamo per la fine della schiavitù animale, non per un miglioramento delle condizioni di questi nostri fratelli oppressi. 
Per capire quali strategie siano le migliori è importante non perdere di vista questo fine
Ogni strategia che non riconosce l'animale come individuo, che non ne rispetta i confini inviolabili (tali dovrebbero essere) del corpo è destinata a riproporre, seppure attenuata nelle apparenze, la medesima forma di oppressione e violenza.
Non dovremmo mai - almeno noi che portiamo avanti questa battaglia - parlare di prodotti, di norme sul benessere animale, di allevamenti migliori o peggiori e nemmeno di carne; dovremmo invece lavorare per far capire chi sono gli animali, quanto preziosa sia la loro singolarità e come sia sbagliato opprimerli e massacrarli. 
Finché parliamo di carne, parliamo di cibo ed è per questo che non si riesce a ottenere la cognizione della questione animale, né a far capire che non può esistere "libera scelta" quando c'è in gioco la vita di un altro individuo senziente; è necessario parlare di vita animale, di individualità, di singolarità, di sofferenza e oppressione, di schiavitù e massacro. Di olocausto animale. Perché è di questo che si tratta e non di allevamento felice o meno felice. Del resto il termine "zootecnia" dice tutto. Tecnologia applicata ai corpi. Nazismo e distopia orwelliana: il connubio perfetto della peggiore realtà che si potrebbe mai immaginare.

martedì 13 dicembre 2016

Ricordi

Durante la cena di un capodanno di molti, molti anni fa, conobbi un ragazzo sulla sedia a rotelle. Durante la cena venni a scoprire che era vegetariano. Mi incuriosì molto e gliene chiesi il motivo. Azzardai timidamente un "ma... è per gli animali?". "Certo", mi rispose lui. Come a dire, perché, ci sono forse altri motivi?
Pensai: vedi questo ragazzo, la vita non è stata proprio generosa con lui, è invalido, eppure anziché incazzarsi col mondo, trova il modo di pensare pure a chi sta messo peggio di lui. 

Divenni vegetariana solo molti, molti anni dopo, ma sono sicura che quel ragazzo, con la sua testimonianza semplice e silenziosa (a parte quel breve scambio di battute con me, non disse nulla durante la cena e nessuno gli chiese niente) ha contribuito in qualche modo a portarmi su quella strada. 
Vivere rispettando il prossimo è semplice. Anche nelle situazioni più avverse.

sabato 10 dicembre 2016

Entro un attimo in libreria


(Più o meno come sono sistemati i libri a casa mia. Immagine presa dal web).

Una delle cose che mi dà felicità immediata è entrare in una libreria e uscirne carica di libri. E niente, nonostante due anni fa mi sia fatta regalare un lettore ebook (che peraltro uso e trovo molto comodo per svariate ragioni: ne avevo parlato qui) e non sappiamo più dove sistemare i cartacei, io continuo imperterrita a comprarne. Non riesco a fare a meno della sensazione di avere nuove storie tra le mani e del piacere della pregustazione (forse l'unico vero piacere che esista, Leopardi aveva capito tutto). 
Il bello è che non riesco ad ammetterlo pienamente a me stessa perché mi sento in colpa a spendere tutti questi soldi quando in ebook potrei comprare gli stessi romanzi a metà prezzo, così faccio la vaga, le cose vanno più o meno così: mi dico entro solo un attimo, giusto per dare un'occhiata alle novità e poi semmai me li ordino in ebook, poi una volta dentro finisco per fare il giro di tutti i settori e... niente, sfoglio le pagine, leggo le quarte di copertina e sento che proprio non posso negarmi questa piccola felicità, in fondo ho avuto una giornata difficile, un libro, che vuoi che sia, c'è gente che si spende gli stipendi alle slot machine, io almeno leggo... 
Ieri mi sono regalata: Tutti i racconti di James Graham Ballard, primo e secondo volume. Penso uno degli scrittori più lucidi e profetici del novecento. 
La scopa del sistema di David Foster Wallace. Dunque, confesso che io di Wallace non ho mai letto nulla, se non qualche racconto. Tempo fa, decisa finalmente a colmare questa lacuna, io e mio marito abbiamo comprato Infinite Jest e Il re Pallido e giuro che ho anche provato a leggerli, ma ho dovuto metterli via perché Einaudi li ha pubblicati in un'edizione con caratteri troppo piccoli per la mia vista sempre più calante e fatico proprio fisicamente ad andare oltre due pagine. Ora qui dovrei darmi della stupida due volte da sola: una, perché appunto potrei acquistarli in ebook, risolvendo il problema della lettura faticosa, due perché sono due anni due che dico di andare dall'oculista, ma non faccio che rimandare, tanto è il mio fastidio per le visite mediche e la mia abitudine a procrastinare. Comunque sia, vabbè, ieri ho visto La scopa del sistema (che peraltro ricordo essermi stato consigliato proprio come primo da cui cominciare per avvicinarsi a Wallace), l'ho aperto, i caratteri mi son sembrati giusti per la mia vista, per cui darò finalmente a Wallace la chance che pare meriti e a seguire, in caso di innamoramento, mi deciderò, nell'ordine: ad andare dall'oculista, ad acquistare eventualmente gli altri in ebook (ma magari risolvo con un bel paio di occhiali nuovi).
E se vi sembra che la letteratura non sia anche questione di praticità, beh, vi sbagliate. Per leggere ci vogliono occhi buoni e posizioni comode (per questo detesto leggere al pc). Sì, ci sono anche gli audiolibri, non li ho mai provati, ma non so quanta roba ci sia nel catalogo e, ecco, uno dei motivi per cui continuo a preferire le librerie cartacee agli acquisti di ebook è che nelle prime si trova praticamente di tutto, al limite basta ordinare e spesso in quelle di usato (a Roma ce ne sono diverse) si trovano anche i fuori edizione. 
Sempre ieri, ho preso anche Il gigante sepolto di Kazuo Ishiguro. Di lui ho letto e continuo sempre a consigliare lo struggente Non lasciarmi e anche Quel che resta del giorno

Al momento sto leggendo Corri, coniglio di John Updike, consigliatomi dall'amico Emmeggì. Mi riservo di dedicargli un post a parte, ma anticipo che tanto mi piace la sua scrittura, quanto mi infastidiscono alcuni contenuti. Lo trovo un testo decisamente maschilista, tanto i caratteri e il mondo femminili appaiono sottomessi a uno sguardo maschile stereotipato e prevedibile. Va bene che l'ha scritto negli anni sessanta, ma a me piace rivisitare i testi, tutti, anche i capolavori apparentemente intoccabili da prospettive diverse, che siano quella femminista, antispecista o colonialista. E va bene la contestualizzazione, ma appunto contestualizzare significa anche mettere in evidenza quegli aspetti che ormai risultano superati e quelli che invece reggono nel tempo. 

E voi che state leggendo? Preferite ebook o cartacei?

venerdì 9 dicembre 2016

Dialoghi tra animali - seconda parte


Continua da qui.

Bah, violenza, mi pare esagerato come termine. Vengono prima storditi e poi muoiono in un secondo con un taglio netto alla gola.

Alt, alt, anche qui stai ripetendo come un mantra un falso luogo comune senza essere davvero informato. Lo stordimento non implica l’annullamento del sentire. Innanzitutto viene praticato, così mi ha detto un medico veterinario, per motivi essenzialmente pratici, ossia perché lo stordimento facilita il defluire del sangue dal corpo, secondo poi l’animale è meno in grado di reagire, ma rimane totalmente cosciente nel momento in cui viene appeso per un arto a un gancio in testa in giù (fatto che spesso gli causa la rottura dei tendini. Hai idea di quanto pesino una mucca, un vitello, un maiale, un cavallo?), gli viene tagliata la gola e comincia ad affogare nel suo stesso sangue. E secondo te quella di finire sgozzati non sarebbe una morte violenta? Ragiona un attimo: se leggessi su un giornale “uomo è stato trovato morto nel suo appartamento con la gola tagliata” non diresti “ma che morte orribile!”? Dunque perché per un maiale dovrebbe essere meno orribile morire così?

Sì, hai ragione. Ma dura comunque poco.

Ne stiamo facendo una questione di minuti dunque? Allora potremmo dire che non c’è violenza se uno muore freddato da un colpo di pistola e impiega un secondo a lasciare questo mondo? 
La violenza è nell’atto in sé di danneggiare intenzionalmente qualcuno. Di togliergli la vita. Di violare quelli che sono i confini del suo corpo. 
La questione è che noi pensiamo che i corpi di questi animali ci appartengano e quindi non percepiamo la violenza che gli infliggiamo. E c’è anche un altro fatto, essenziale.

Quale?

Siamo stramaledettamente convinti, contrariamente a ogni cognizione scientifica, che gli altri animali provino meno dolore di noi. E per dolore intendo sia quello fisico, che psicologico. Pensiamo che essi sappiano accettare passivamente la prigionia, lo sfruttamento, la privazione di un’esistenza libera in cui debbano render conto solo a loro stessi e al gruppo di cui fanno parte. Ma anche questo l’abbiamo stabilito fissando i famosi criteri antropocentrici di cui parlavo prima. Per una questione di comodo.

Beh, c’è il discorso della cattività.

Il discorso della cattività usato per giustificare la reclusione è il terzo falso luogo comune che hai tirato fuori in dieci minuti di conversazione. Vedi come fai, come fate tutti?

Prego?

Quando vi si prova ad accennare il discorso della questione animale non recepite veramente quello che vi viene detto. Cogliete alcune frasi cui date delle risposte in maniera del tutto automatica. Come se doveste mettere delle x nella casella giusta. Ma questo non è un test di verifica. Non è così che si ragiona, che si riflette, che si elabora un pensiero. 
Non stiamo facendo una gara. A me non interessa nemmeno convincerti. Mi hai chiesto se sono vegana e così vorrei provare a farti capire perché lo sono diventata, cosa c’è dietro. Oltre la spettacolarizzazione mediatica che ci dipinge come una setta di scalmanati che fanno pucci pucci persino ai pidocchi. Perché il problema non sono i pidocchi (che, per inciso, sono parassiti, ma poi ci arriveremo), ma l’enorme massa di umiliati e offesi e poi fatti a pezzi che ogni giorno viaggiano dentro i tir della morte per andare a riempire gli scaffali dei supermercati un tanto al chilo. E tutti gli altri allevati e uccisi per i più disparati e superflui scopi. O non mi vorrai mica dire che una pelliccia sia un qualcosa di necessario?

Stai divagando. Eravamo rimasti al discorso della cattività. Lo vedi che ti ascolto? 

Bene. Nascere in cattività significa semplicemente: nascere in prigione. In gabbia. In un habitat molto diverso da quello in cui la propria specie si è evoluta e che è adatto allo sviluppo ed espressione delle sue caratteristiche etologiche. E perché mai questa condizione così avversa dovrebbe essere ritenuta valida a giustificare l’esistenza di stabulari, allevamenti, zoo, circhi, delfinari e quant’altro? Come se un bambino venisse fatto nascere dentro un capannone lugubre e malsano in quanto già sua madre, sua nonna, la sua bisnonna e ancora indietro per chissà quante generazioni avessero subito la stessa sorte e tutto ciò venisse ritenuto giusto e ragionevole per il solo fatto che… ci è nato. Ma tutto ciò è folle. Non ha alcun senso. 

Sì, volevo semplicemente dire che se un animale nasce dentro un allevamento non saprà nemmeno cosa sia la libertà e quindi non la rimpiange, non soffre, non ne sente la mancanza.

Quindi se tu fossi nato e cresciuto dentro una cabina telefonica saresti stato bene così? 

Cosa c’entra una cabina telefonica. Un allevamento non è una cabina telefonica.

Lo è invece. La maggior parte degli allevamenti di galline ovaiole, di polli da carne, di maiali e di bovini consentono agli animali spazi veramente esigui. Per non parlare di quelli concessi agli animali cosiddetti da intrattenimento o a quelli per farne la pelliccia, come i visoni. Ma il punto è: cabina telefonica o hangar di un aereo, parliamo sempre di spazi chiusi, di gabbie, di capannoni maleodoranti dove gli animali si annoiano e si stressano talmente tanto da diventare aggressivi e cannibalizzarsi tra di loro. Per questo ai maialini appena nati tagliano i denti, mentre le galline e i polli subiscono quello che viene chiamato il debeccaggio.
Insomma, il dover vivere in spazi angusti non è il solo motivo deprecabile della cattività perché in aggiunta c’è anche il sovraffollamento. Migliaia di individui costretti a condividere gli stessi – ridottissimi – spazi. Capisci che quindi lo spazio a disposizione di ogni singolo non è più grande di quello di una cabina telefonica. 
Ora, immagina che tu debba essere costretto a stare dentro una stanza sovraffollata senza mai poter uscire, correre, respirare aria pulita. Non diventeresti isterico dopo un po’? Non avresti attacchi di panico? Ecco, visoni, topi, tigri, delfini e poi galline, polli, maiali, conigli vivono sperimentando un’angoscia incessante. Tutto ciò per un’unica ragione: per soldi. E perché noi ancora continuiamo a credere al raccontino mitologico che essi siano qui per noi, per darci la loro carne, il loro latte o per farci divertire e che siano felicissimi di farlo in quanto venuti al mondo unicamente per questo motivo. Ma veramente crediamo a tutto questo? Può una persona mediamente intelligente credere alla favola degli altri animali nati per diventare pellicce o prosciutti? Un così tanto spreco di vita, di DNA, di cellule, di sangue, di cervello e sinapsi per poi diventare oggetti? Andiamo. Dio non gioca a dadi, disse qualcuno. O meglio, la natura non fa le cose a caso. E non avrebbe dotato gli altri animali di occhi, cuore, polmoni, zampe o ali se essi avessero dovuto esistere solo per diventare salami. 

Raccontino mitologico? 

Sì. Vale a dire la creazione di un mondo regolato da leggi proprie e popolato da creature fantastiche. Un mondo in cui un maiale è contento di darci la propria coscia da mangiare perché sa che quello è il suo destino, il suo scopo, che è nato appositamente per quello. A proposito, hai mai letto Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro?

No, ma stai divagando.

A volte le divagazioni allontanano dal discorso solo apparentemente, ma in realtà poi vi fanno ritorno centrandolo in pieno. In questo romanzo l’autore immagina un futuro distopico in cui alcuni bambini vengono fatti nascere e sono allevati… pardon, volevo dire cresciuti, al solo scopo di fornire organi di rimpiazzo a quella parte di società ricca che può permettersi di comprarli quando i propri si ammalano o semplicemente si usurano per la vecchiaia. 

Ma è terribile!

Già. Raccapricciante, vero? Eppure per gli altri animali funziona esattamente così. Li facciamo nascere solo per rifornire continuamente gli scaffali dei supermercati. Li consideriamo risorse viventi rinnovabili. Esattamente come i ragazzi di Non lasciarmi. 

Beh, ma gli animali non hanno tutta questa consapevolezza. Voglio dire, quando nascono non sanno che sono destinati a diventare salsicce.

Nemmeno i ragazzi di Non lasciarmi ce l’hanno all’inizio. Nessuno gli dice mai chiaramente perché sono al mondo. Poi, man mano che crescono vengono preparati a ciò che li aspetta. E non mettono mai in discussione questo fatto perché credono che sia normale, che sia così, credono che il mondo funzioni così. Esattamente come tu e tanti altri siete convinti che sia normale gestire e controllare totalmente i corpi di milioni di individui fino alla loro trasformazione in scatolette. Le persone credono in qualcosa se questa gli viene ripetuta fino allo sfinimento da tantissimo tempo, da sempre, da quando sono nati. Ma non vuol dire che sia naturale o che sia giusta. Il discorso della consapevolezza è fuorviante. Probabilmente nemmeno gli Ebrei deportato sui treni diretti ad Auschwitz sapevano veramente a cosa stavano andando incontro. Ma questo, anziché alleggerire la gravità del fatto, rende il tutto soltanto più crudele. Gli animali si fidano di noi. Leccano la mano del proprio allevatore e persino, talvolta, quella del proprio boia. I cuccioli hanno così tanto bisogno di calore e contatto che ciucciano tutto ciò che gli finisce accanto, anche il grembiule lercio di sangue del tizio che lo sta sgozzando. Ci sono testimonianze di agnellini  in attesa di essere macellati che giocano tra di loro. Cosa può esserci di più tragico e crudele del fendente di una lama che irrompe nell’innocenza del gioco? E tutto questo per due costolette a Pasqua? Per tradizione? Ma andiamo… ma non avete tutti un minimo di dignità?

Così però offendi e giudichi. Lo vedi come siete voi vegani. Vi credete i depositari della morale.

Io non sto parlando di morale. Ma di quello che accade. Va bene dunque farsi depositari della vita di miliardi di animali? Questo va bene? Non si può dire che uccidere è sbagliato? Volete gustarvi le costolette senza nemmeno il minimo senso di colpa? 

(Continua).

Immagine di Andrea Festa.