domenica 14 aprile 2019

Servire corpi

L'argomentazione che usano spesso le persone pro prostituzione è quella in cui si fa presente che i clienti starebbero comprando niente di più di un servizio, un po' come chi va in lavanderia e paga per il servizio di avere i panni lavati e stirati da qualcun altro.
Ma chi paga le donne prostituite non compra un servizio, bensì le loro parti del corpo, i loro orifizi. 
Non pagano una donna perché gli prepari un caffè, ma la donna stessa diventa quella tazza di caffè servita.
Ad offrire veramente un servizio infatti è il pappone. Il pappone, nei paesi in cui la prostituzione è regolamentata, è un manager che possiede un locale, cioè un bordello, in cui vende della merce, cioè i corpi delle donne, ai clienti. 
Le donne sono merce sul menù.

La prostituzione è servire e servirsi di corpi. La donna è la merce.

sabato 13 aprile 2019

Cos'è lo specismo

Riprendendo il post di ieri, ci tenevo a chiarire alcuni punti.

Il tipo di trattamento che riserviamo agli altri animali è diverso in base alle specie e al tipo di utilità che pensiamo di trarne. Alcuni si sfruttano in modo diretto per trarne profitto: vengono utilizzati come macchine per produrre il latte, le uova, uccisi per essere usati come materia inerte (per la pelle, la pelliccia, il cuoio ecc.), fatti ingrassare per essere trasformati in salsicce, bistecche ecc., tenuti in vita nei laboratori per farci esperimenti; altri vengono schiavizzati e domati sempre per trarne profitto: è il caso di quelli nei circhi, negli zoomarine, e anche dei cavalli che trainano le botticelle o che vengono montati per le corse; altri ancora vengono uccisi per tradizione, è il caso della caccia e della pesca cosiddetta sportiva; altri vengono uccisi per un mix di profitto legato alla tradizione (la tradizione lo giustifica), è il caso della corrida, per esempio, o di altre "attività" cruente del genere (combattimento dei cani, per dirne una).
Poi ci sono altri animali che vengono mercificati per un duplice fine, è il caso degli animali cosiddetti da compagnia, cani, gatti, coniglietti, criceti ecc. Le persone li comprano per avere un animale da coccolare, gli allevatori ci guadagnano.

E poi ci sono i randagi, i selvatici, che vengono comunque discriminati, maltrattati, uccisi, cacciati, allontanati in vari modi.

Quello che voglio dire è che se il maiale viene ucciso per il profitto e quindi, secondo alcune teorie, sarebbe sufficiente cambiare sistema economico in cui le risorse fossero meglio distribuite (ma gli altri animali, se non si elimina lo specismo alla radice del pensiero, sempre risorse verrebbero considerati e badate bene che questo è un punto importante), altri vengono discriminati proprio perché ritenuti inferiori. 
Il bambino che prende a calci il piccione o i ragazzini (criminali!) che torturano il cane randagio per divertimento non stanno cercando un profitto di tipo economico. Lo fanno perché li considerano inferiori. E nemmeno percepiscono l'entità del loro crimine, forse.
Non si può non considerare lo specismo come un insieme di narrazioni e di produzioni culturali funzionali a giustificare tanto il profitto ricavato attraverso l'uso degli animali, che il diverso trattamento morale che gli riserviamo nelle diverse occasioni, quello per cui se investiamo un gatto lo lasciamo a crepare in mezzo alla strada.
Quando parlo di cultura o produzioni culturali intendo anche la politica, la filosofia, l'economia, l'arte, il cinema, la lingua, il diritto (le leggi), insomma tutto ciò entro cui nasce e si forma il pensiero e tutte le cose pratiche e materiali che produciamo. Inclusa la religione. Per dire, il creazionismo delle religioni monoteiste da cui ha preso avvio la gerarchia dei viventi ha dato una bella mano allo specismo, diciamo che ne ha costituito i presupposti perché lo specismo è soprattutto la distanza ontologica tra noi e gli altri animali. Se non ci fosse stato Cartesio (e un certo tipo di pensiero, il dualismo, che divideva la materia dal concetto di anima, anima che gli animali non avrebbero posseduto) a dire che gli animali sono macchine, probabilmente lo specismo sarebbe stato meno radicato. 
Per giustificare, legittimare, normalizzare tutto ciò che la nostra specie fa agli altri animali - o meglio, la relazione di dominio che instaura con loro - c'è bisogno della narrazione simbolica, ossia della gabbia metaforica che giustifica il loro sfruttamento.
Ora, per me l'antispecismo è una lotta precisa ed è una lotta multipla, pronta a colpire su diversi fronti, tutto questo qua. 
Nulla c'entra col marxismo e nemmeno con l'anarchia e tutto il resto. Così come il femminismo è lotta contro l'oppressione di un sesso sull'altro (sostenuta dalla cultura patriarcale), l'antispecismo è lotta contro l'oppressione di una specie sulle altre. Poi, che lo sfruttamento sia anche per il profitto, non posso negarlo. Ma è una motivazione che da sola non basta perché non c'è solo lo sfruttamento, ma anche la discriminazione, la distanza ontologica, la diversa considerazione morale. A sostenere il profitto c'è comunque tutta la narrazione dello specismo che ho sopra elencato molto sinteticamente (potrei perdere giorni a parlare dell'uso, simbolico e non, degli animali nell'arte attraverso i secoli, per dire, o nel cinema ecc. e sono argomenti che richiedono trattazioni a parte).

Concludendo: ci sono forme di sfruttamento che non dipendono dalla ricerca di profitto e che quindi non rientrano nel discorso della lotta di classe. Peraltro, equiparare gli operai agli animali che uccidono non mi pare giusto. La discriminazione non dipende dal profitto. Quando vado in colonia e mi bulleggiano perché do da mangiare ai gatti e dicono che i gatti fanno schifo, che portano sfiga, quella è cultura (bassa, superstizione, cultura popolare), non è lotta di classe. È teriofobia. Paura del diverso. È un discorso che va approfondito in tanti modi diversi, così come quello del carnismo. Attraverso la psicologia, l'antropologia ecc.
E i selvatici? Idem. Vediamo come sono proprio considerati inferiori, a prescindere dal fatto che li si sfrutti o no.

venerdì 12 aprile 2019

Individui diversi di specie diverse


Quando si parla degli altri animali a volte si commette l'imperdonabile errore - imperdonabile poiché frutto di una mentalità antropocentrica che ancora una volta mette da una parte l'umano e dall'altra tutti gli altri animali non umani, in un calderone indistinto, così confermando la distanza ontologica, come se non fossimo animali anche noi e come se non ci fossero migliaia di individui diversi di specie diverse - di attribuire uno stesso comportamento a specie diverse che sono schiavizzate e assoggettate all'umano in modo molto diverso.
Per esempio, quando si parla di "resistenza animale" non si può mettere sullo stesso piano il comportamento dei grossi predatori schiavizzati nei circhi o zoomarine, leoni, tigri, elefanti, orche, delfini, che spesso si ribellano ai loro aguzzini e riescono anche a ferirli e ucciderli, con quello dei topi reclusi nei laboratori o delle galline, maiali, agnelli e conigli ammassati negli allevamenti. Mi pare evidente che si tratti di situazioni molto diverse e anche di capacità e comportamenti diversi di diverse specie e di diversi individui.
Diversa è la possibilità di ribellarsi di una tigre rispetto all'oca imprigionata nella gabbia di contenzione a cui viene infilato un tubo giù per la gola per ingrassarne il fegato o rispetto al visone acciuffato dalle mani brutali dell'addetto alla sua uccisione per togliergli la pelliccia.
La reclusione forzata negli allevamenti degli individui di alcune specie sin dalla nascita quasi sempre ne piega la volontà. Possono esserci eccezioni, individui che riescono a fuggire,che si ribellano (la ribellione invero è costante di fronte alle percosse), ma la forza della nostra specie è preponderante e sono davvero rari i casi di individui che ce la fanno.

Persino i tori che si difendono dalla brutalità dei toreri, quando vincono, cioè riescono a incornare il torero, alla fine vengono comunque uccisi.

A maggior ragione, mi pare che sia quanto meno una forzatura attribuire a questi diversi individui (diversi per indole e carattere e diversi per specie) una coscienza di classe o addirittura definirli "working class".

Gli altri animali (e qui a ragione si può dire quasi tutti, indistintamente) sono sempre stati usati a vario titolo dall'umano: considerati e allevati o come macchine per produrre o come materie prima da cui ottenere prodotti o per servire ad altri scopi.

Che noi gli si riconosca la consapevolezza dell'oppressione, e questo è ovvio, l'intelligenza, l'essere individui senzienti soggetti di una loro stessa vita, non vuol dire che però, all'interno del sistema specista, non continuino a essere nient'altro che oggetti.

L'antispecismo è questo che deve combattere. Questa concezione dell'animale-macchina. Ma senza mettere in un unico calderone etologie molto diverse, culture diverse (anche gli altri animali hanno una loro cultura), società diverse (hanno le loro diverse società e le loro diverse relazioni intraspecie).

Non posso sentir parlare di leoni che si ribellano al loro aguzzino (buon per loro!) senza rivolgere un pensiero ai miliardi di altri individui che non hanno nemmeno la possibilità di aprire un'ala, di sbattere le ciglia, di muovere una zampa. E che nel corso della loro breve esistenza conosceranno solo sbarre, paura, botte, calci e poi lame di coltelli. 
E non tener conto di queste fondamentali distinzioni di etologia, contesti oppressivi, individuali per me è semplificazione intellettuale e o volontà di forzare un qualcosa che concettualmente non può essere forzato pena il suo mancato riconoscimento (antispecismo che, di default, combatte lo specismo).

mercoledì 10 aprile 2019

Abbandonare il linguaggio del dominio


Chi si occupa di antispecismo e liberazione animale dovrebbe sforzarsi di non dire più "allevamenti intensivi".

L'aggiunta del termine "intensivo" fa pensare che il problema sia il tipo di allevamento e non il concetto in sé di far nascere, imprigionare, schiavizzare e mandare a morire individui senzienti.

Il termine "intensivo" ormai lo criticano anche gli allevatori stessi e in generale tutte le aziende che fanno greenwashing per dimostrare che esista invece un altro modo, etico (sic!), di sfruttare (ma loro dicono "allevare"!) gli animali. Usano termini come "allevamenti attenti al benessere animale", "allevamenti bio", "allevamenti a terra", "allevamenti all'aperto" per darsi una parvenza di eticità, ma nella sostanza fanno sempre le stesse cose: fanno nascere, imprigionano, schiavizzano e mandano a morire individui senzienti per trasformarli in prodotti.

Pensateci bene, è come se ai tempi del nazismo avessimo parlato di lager intensivi o lager attenti al benessere dei prigionieri.

Una gabbia leggermente più grande, un allevamento più pulito, tenuto meglio, non è meno violento e crudele di altri, se il fine è lo stesso.

Ovviamente c'era da aspettarselo che il sistema si difendesse provando a differenziare i tipi di allevamenti, ma almeno non prestiamoci al loro sporco gioco. Altro che greenwashing!

Se c'è modo e modo di schiavizzare e sfruttare, come dicono gli allevatori, - e pensate all'assurdità dell'affermazione: se si è sfruttati, si è sfruttati, se si è schiavi, si è schiavi, non è che si può essere un poco sfruttati, un poco schiavi o sfruttati meglio, schiavi migliori - c'è comunque un solo modo per morire che riguarda tutti questi individui: ammazzati a testa in giù, con la gola recisa, scalpitando di terrore fino a che il sangue non cessa di sgorgare e si esala l'ultimo respiro.