sabato 27 agosto 2011

Sulla lettura ed una recensione

Da un po’ di tempo a questa parte non faccio che iniziare un romanzo dopo l’altro per poi abbandonarlo dopo un tot imprecisato di pagine, a seconda dei casi: a volte arrivo persino a superare la metà, che è senz’altro un indice di elevato gradimento, ma poi, improvvisamente, uff, mi stanco e finisco per appoggiarlo con fare distratto in qualche angolo semi-nascosto della casa, così che mi dimentico persino di averlo mai iniziato e solo parecchi giorni dopo, ritrovandolo quasi per caso, mi dico: “toh, guarda, stavo leggendo questo”.
Da un po’ di tempo a questa parte, gira che ti rigira, finisco sempre per ritrovare in qualche angolo semi-nascosto della casa questi libri semi-letti, iniziati e mai finiti, e però in qualche modo già parte di me, come se il solo l’averne letta una parte, considerevole o meno, avesse messo in moto un processo di metabolizzazione autonoma, così che dentro di me tutte queste storie monche abbiano continuato ad evolversi per conto proprio fino a guadagnarsi ognuna il proprio rispettabile finale.
Eh sì, leggere da una vita a volte può far diventare lettori un po’ bizzarri. Un po’ come quando si prende confidenza con qualcosa (o qualcuno) da potersi permettere di uscire fuori dalle righe.
Capita anche che di un romanzo ad un certo punto cominci ad intravedere lo schema complessivo, che è un po’ come dire “capire dove lo scrittore sta andando a parare” e che quindi mi senta, come dire, sazia abbastanza da poterlo richiudere: che non è la stessa cosa di dire, non lo finisco perché non mi piace, ma è anzi l’opposto, è l’essere entrati un po’ troppo dentro la testa dell’autore (o dentro la storia, che è lo stesso), da l’aver visto già tutto quanto c’era da sapere. O dal supporre di averlo fatto. Ma non importa. Sono dettagli irrilevanti. Le storie continuano ad affascinare l’umanità proprio perchè la loro peculiarità è quella di non essere mai granitiche, ma adattabili ad ogni cultura e ad ogni latitudine, ad ogni carattere e ad ogni sogno di evasione. La fascinazione del leggere è tutta qui. E’ che poi, il leggere... diventa altro.
E poi ci sono quei romanzi che mi piacciono tanto, ma proprio tanto, e che, proprio per questo preferisco riservarli per momenti migliori (o peggiori, fate voi), come fossero una bottiglia d’annata. Da stappare in determinate occasioni.
E ci sono anche quelli che avrò cominciato sì e no una quindicina di volte (a dir poco!) ed interrotti sempre, nemmeno a farlo apposta (no che non lo faccio apposta, lo giuro e stragiuro, mi capita proprio così!) allo stesso determinato preciso punto. Roba da pensare seriamente di andarci in analisi. Che poi, uno dei primi romanzi con cui mi accadde questo fatto curioso (parliamo di molti anni fa, ero un’adolescente) fu proprio La coscienza di Zeno di I. Svevo in cui si parla, guarda caso, di psicanalisi. Mah. Poi alla fine, ma solo diversi anni dopo, sono riuscita a leggerlo tutto, tuttavia il motivo di quel mio blocco arrivata a pag. tot è sempre rimasto un mistero. Ogni tanto mi capita ancora di pensarci.
E poi ci sono quei libri che invece leggo in una notte (roba da perderci letteralmente la vista!).
L’altra sera, curiosando tra gli scaffali di una grande libreria che ho in soggiorno (dove ci sono tanti libri che non so nemmeno di avere in quanto non acquistati direttamente da me, ma ereditati dal padre del mio compagno, un bibliofilo mancato, ma nemmeno tanto mancato), rischiando di rompermi l’osso del collo perché l’ultimo ripiano arriva fino al soffitto ed io per poter afferrare qualche volume a caso mi sono arrampicata sul bordo della spalliera del divano sottostante, dopodiché, sperando vivamente di non tirarmi tutta la libreria dietro (in tal caso avrei avuto la morte migliore che potessi avere: sepolta da una montagna di libri! Persa per sempre tra le pagine dei miei eroi ed eroine preferiti, confusa con essi, divenuta io stessa protagonista indimenticabile di una storia avvincente tramite un processo di osmosi letteraria!), mi sono leggermente attaccata, ehmm, volevo dire appoggiata, al ripiano di mezzo, indi facendo leva sulle braccia, ho tirato giù una decina di libri pieni di polvere; ovviamente a casaccio, che in quelle condizioni precarie non ho avuto certo il tempo di mettermi a selezionare titoli ed autori.
Tra questi: Cime Tempestose di Emily Bronte, di cui almeno altre tre edizioni sono collocate nel ripiano sottostante, ché si vede che nella famiglia del mio compagno avevano la memoria corta e continuavano a ricomprare più o meno gli stessi libri a distanza di tempo (comunque già letto e pure diverse volte e pure in lingua originale), La Pelle di Curzio Malaparte (uhhh... questo è uno di quelli iniziati e mai finiti, vabbè, magari la prossima volta, eh, che stavolta voglio qualcosa assolutamente da portare a termine, così da poterlo riporre una volta finito e non da aggiungere agli altri disseminati in giro per casa), L’Angelo Nero di Antonio Tabucchi (uhhh... questo mi incuriosisce un po’, di lui ho letto solo Sostiene Pereira e ricordo che mi era piaciuto, lo tengo da parte), Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde di Robert L. Stevenson (l’ho letto e visto riadattato in centinaia di film, ma quasi quasi lo rileggo... pensato però senza troppa convinzione), e pure di questo, se non erro, mi è parso di scorgerne almeno un altro paio di copie in giro per casa, e poi, per ultimo, In Caso di Disgrazia di Georges Simenon (uhhh!!! La mia attenzione è finalmente catturata: di lui ho letto L’Uomo che guardava passare i Treni, che è decisamente un gran bel romanzo e, a dirla tutta, uno dei miei romanzi preferiti, e poi altri, tipo Tre Camere a Manhattan, di cui ricordo il titolo, ma poco la trama, ma insomma, lui, scrittore a dir poco prolifico, noto al grande pubblico soprattutto per aver dato vita al personaggio del Commissario Maigret, mi è sempre piaciuto proprio per la sua abilità di scrittore, per la sua capacità di descrivere l’animo umano cogliendone sfumature inedite e cogliendolo (pardon per la ripetizione!) in riflessioni, pensieri e moti impulsivi tanto veritieri e comuni quanto inconfessabili (e credo sia per questo che piaccia tanto, perché il lettore ha come la possibilità di guardarsi lì dove non avrebbe mai osato e di sentirsi finalmente liberato per mezzo dello schermo salvifico della finzione letteraria). 
In caso di disgrazia è scritto come se fosse una sorta di confessione. E lo è, infatti. Il protagonista, un noto avvocato appartenente all’alta borghesia francese, sposato, famoso per riuscire ad assolvere anche colpevoli quasi praticamente dichiarati tali, perde la testa per una ragazzetta - senza arte né parte, come si suol dire - di bassa estrazione sociale, con un’innata disposizione alla menzogna ed una grande propensione agli atteggiamenti teatrali.
Insomma, la storia l’abbiamo letta e sentita migliaia di volte: è quella della passione carnale, che invade l’anima e il corpo a dispetto di ogni logica e razionalità.
Qui non ci sono inganni domestici però, la raffinata moglie dell’avvocato, così come i suoi amici, i suoi colleghi del Tribunale, i suoi collaboratori (compresa la sua fedele segretaria, segretamente - ah ah il giochino di parole - innamorata di lui) sanno tutto, sono perfettamente a conoscenza di questa passione e frequentazione ed anzi, a dirla tutta, lo aiutano pure. La narrazione procede sotto forma di diario-confessione in cui il protagonista, partendo dal presente, si sforza di raccontare tutta la storia dall’inizio (e lo sforzo è nel cercare di essere il più possibile sincero a se stesso, senza ambiguità, senza scappatoie dettate dalla pretesa di giustificarsi o di assolversi) nel tentativo di trovarvi un senso ulteriore, magari nascosto, che possa, magari, rendere più consistente o anche rendere più intelligibile questa perdizione totale causata dalla passione carnale; come se il protagonista non riuscisse ad accettare o a capacitarsi che - oltre quella, ossia oltre la nuda e cruda passione - non ci sia stato anche dell’altro e che la sua forza sia stata così dirompente da riuscire a cambiare il corso di una vita, indugiando sui quei particolari che magari possono sembrargli degni di nota, datando il racconto e talvolta interrompendolo con ritorno al presente così da creare un duplice senso di attesa: quello suscitato dalla curiosità di conoscere tutto l’evolversi di questa passione, scritto in retrospettiva, e quello di sapere come andrà a finire, affidato ai turbamenti  che vengono annotati e riportati nel tempo presente diegetico.
Definirlo un romanzo sentimentale (o anche erotico, come qualcuno ha scritto), mi sembra davvero poco. E’ una storia capace di tenere il lettore sulle spine dall’inizio alla fine, nemmeno fosse il più avvincente dei thriller. Eh sì, perché Simenon, abile scrittore di romanzi polizieschi (quelli appunto del Commissario Maigret), ma anche eccellente mescolatore di generi (dal noir al romanzo psicologico e finanche d’appendice), utilizza varie tecniche narrative per tenere sempre alto il grado di suspense, che è peculiarmente dato non tanto (o almeno, non solo!) dalla successione degli eventi (in fondo lineare ed anche piuttosto priva di particolari momenti scatenanti), ma soprattutto dalla descrizione degli stati d’animo del protagonista e da tutto quell’affastellarsi di pensieri, sensazioni e quasi morbose impressioni che costituiscono ciò che comunemente viene definita vita interiore.
Ben presto ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un vero e proprio caso dell’animo umano, ad una vicenda i cui risvolti esteriori, in fondo, importano poco.
E tutto questo è narrato con uno stile assolutamente asciutto ed essenziale, quasi scarno nella sua semplicità. L’abilità di Simenon scrittore è proprio questa: quella di saper rendere con pochi tratti tutto un mondo interiore e di saper trovare, in questo mondo, proprio quei tratti che appartengono a tutti, in cui ognuno potrà riconoscersici - anche solo a livello di pensieri immaginati, se non direttamenti esperiti - così che da queste pennellate, tanto sottili quanto incisive, ne vien fuori il ritratto dell’animo umano, con le sue pieghe nascoste, con le sue ombre, con tutto ciò che, osservato sotto una lente di ingrandimento, può risultare persino ripugnante o inaccettabile, soprattutto secondo certi determinati canoni borghesi, di cui non manca mai di accennare un breve affresco.
E poi la sua capacità è anche quella di dare corposità alle atmosfere, di renderle quasi materiche, come se fossero non semplicemente uno sfondo, ma una nebbia grassa e pesante che cesella e modifica i corpi dei personaggi andando a congiungersi con essi.
Insomma, una lettura sicuramente degna di nota questo In caso di disgrazia (scritto nel 1955 e da cui, leggo su internet,  nel 1958 è stato pure tratto un film con Jean Gabin e Brigitte Bardot, dal titolo La ragazza del peccato, per la regia di Claude Autant-Lara; ma mi spiegate perché i titoli italiani vengono sempre così ridicolmente banalizzati?), che mi è costata sì quasi un’intera notte insonne, ma che mi ha fatto ritrovare il piacere di iniziare un libro e di sfogliarlo, pagina dopo pagina, con frenetica avidità, fino ad arrivare - e non senza una lieve sensazione di tristezza -  alla parola "fine".

domenica 21 agosto 2011

Breaking News!

Devo fare una rettifica al post precedente, quello sul gattino Agostino: non è un maschietto come avevo inizialmente creduto (giuro che sembrava proprio un maschietto, ma si sa che nei gattini piccoli è facile confondersi), bensì una femminuccia. Quindi non più AgostinO, ma AgostinA, con l’aggiunta del secondo nome, Colombina; il veterinario, mentre la stava visitando, e dopo aver appreso che era stata trovata sulla Cristoforo Colombo, ha esclamato: “ah, ma allora sei una Colombina!”. Allora mi è sembrato giusto lasciarle anche questo simpatico nomignolo.
Agostina Colombina sta bene, ha circa due mesi e mezzo, e anche secondo il medico si tratta molto probabilmente di una gattina abbandonata poiché non presenta nessuna delle caratteristiche tipiche dei randagi.
Una gattina fortunella, come ha poi aggiunto. Eh sì, ora è diventata la reginetta della casa. Vi terrò aggiornati sui suoi progressi.

Cambiando argomento, ma restando sempre in tema di animali, ieri sera, dopo aver visto un bel film (Il Bidone di Fellini), ho voluto dare un’occhiata a quei pochi canali tv che prendo (non ho infatti mai provveduto a sistemare il digitale terrestre perché, come sapete, per mia scelta non guardo la tv da diversi anni). Ho voluto soffermarmi sulle pubblicità. Delle pubblicità televisive ne ho già parlato qui, ma stavolta sono rimasta molto colpita anche da un altro fattore: ci sono moltissime pubblicità di prodotti alimentari a base di derivati animali (latte, formaggi, yogurt ecc.) e soprattutto di carne (perlopiù sotto forma di salumi dai nomi accattivanti e tendenti più che mai a rimuovere l’orrore sotteso) e di pesce (bastoncini Findus con divertenti capitani e bambini che si divertono, mentre la sofferenza dei pesci che muoiono lentamente asfissiati ovviamente viene tenuta nascosta).
Queste pubblicità sono sempre all’insegna dell’allegria e del più sfrenato divertimento ed ottimismo: feste in case bellissime, compleanni e merende di bambini paffuti, dall’aspetto sano e l’aria felice, cene e pranzi con amici che ridono ed alzano i calici per un brindisi, tutti belli e sorridenti, grigliate in giardini soleggiati, giovani coppie che si preparano gustose cenette in atmosfere casalinghe seducenti e maliziose; in poche parole l’oggetto da vendere, il prodotto - che in questo caso è un essere vivente che è stato massacrato all’uopo - è sempre accostato ed inserito in un contesto atto a suggerire gioia, rilassatezza, divertimento, sesso, amicizia, calore, compagnia, conforto ecc.. Nella mente del consumatore si viene così a creare questo facile binomio: mangiare carne, salumi, pesce, formaggi è bello, è un qualcosa da fare con gli amici o con gli affetti più cari per poter stare bene in compagnia, è una cosa giusta e sana che tutti fanno e che porta allegria. E’ un modello che la tv propone e quindi da seguire. Perché, si sa, quelli che vanno in tv sono fighi e belli. E quindi mangiare i wurstel (dalla forma ovviamente fallica, cosparsi di salse ed infilati in polpose rosse bocche femminili con fare malizioso a mimare una fellatio), ma anche i salamini, i bocconcini di mozzarella, piuttosto che yogurt cremosi o altre “amenità” del genere, è cosa buona e divertente.
Da notare poi la stridente contraddizione di certe inquadrature di plasticosa felicità di  famiglie che, mentre giocano con cagnolini e gattini coccolatissimi, si infilano in bocca l’ennessimo pezzo di una delle tante vittime (leggasi: fetta di prosciutto e simili) di un vizio crudele tutto specificamente umano (anche detto: specismo).
Insomma, leggevo sul blog di De Spin, simpatico ragazzo vegano che vive in Olanda (spero non ti dispiaccia il mio averti citato senza consenso), che là ci sarebbe persino un partito, denominato Partito degli Animali (Partij van de Dieren), ma che si occuperebbe, in sostanza, solo del “benessere” degli animali da allevamento e che, alla di lui richiesta di occuparsi invece delle reali questioni animaliste, tipo la diffusione del messaggio vegetariano, per esempio, tale partito ha risposto che gli elettori non sono ancora pronti per “questo” tipo di messaggio.
Ecco, probabilmente è vero che la massa (dico massa non in termine spregiativo, ma per intendere una quantità imprecisata di persone, della massa faccio parte anche io, sebbene, come ogni altro, me ne distingua poi per peculiarità e caratteristiche solo a me appartenenti) non è ancora pronta per la scelta vegetariana (meglio ancora vegana! Ma procediamo per piccoli passi), mi domando però come farà mai ad esserlo nel momento in cui è costantemente bersagliata e lobotomizzata dal messaggio dei media (in primis quello della tv, appunto) in cui il gesto di mangiare gli animali viene totalmente edulcorato e trasfigurato in elementi simbolici dal suadente potere evocativo e suggestivo e mai, mai, mostrato nella dura e cruda realtà dei fatti.
In nessuna pubblicità si vedrà mai l’orrore della macellazione, dello squartamento, delle viscere e del sangue che cola da creature ancora palpitanti di paura e di pura agonia. Nessuno spot mostrerà mai lo strazio che trapela dallo sguardo di un vitellino o di un maialino mentre sta per essere strappato via dalla propria madre per essere poi trascinato al macello.
Mi domando allora quale consapevolezza potrà mai avere un bambino che cresce davanti alla tv, abituato a separare distintamente l’idea del cagnolino che gioca con lui (o del tenero orsetto di peluche che si porta nel lettino a tenergli compagnia durante la notte)  dall’hamburger o dalla fetta di salume che divora incurante di tutta la violenza e l’orrore che vi appartengono.
Smettete di guardare la tv. E’ un media che fa solo il gioco della grossa economia, delle multinazionali, che mira NON a farvi conoscere e ad insegnarvi qualcosa, ma a rendervi schiavi del consumismo, a danno dei più deboli e sfruttati della terra (i popoli poveri e gli animali).
La televisione è la principale arma del consumismo. E vi renderà tutti come degli Zombie che vagano nei Regni del Nulla: i supermercati ed i centri commerciali (George A. Romero docet! Zombi (Dawn of the Dead), film cult del 1978, è infatti una straordinaria metafora che mette in guardia dai rischi e pericoli del consumismo: qual è infatti il luogo che gli zombie, ossia i morti viventi, prendono d’assalto? Il centro commerciale! Imperdibile, se non l’avete ancora visto).
Rifiutatevi allora di essere schiavi, di diventare vittime lobotomizzate delle grandi aziende che investono in pubblicità!
Rifiutatevi di comportarvi come degli zombie assetati di sangue!
Aprite finalmente gli occhi ed iniziate a considerare in maniera diversa quella fettina di prosciutto che la pubblicità vi sventola in maniera suadente davanti agli occhi!

martedì 16 agosto 2011

Se una notte d'estate sulla Cristoforo Colombo...




Domenica notte - è già Ferragosto - di ritorno da una serata trascorsa con amici, io e il mio compagno scorgiamo qualcosa di scuro ai lati di una nota strada di Roma, precisamente la Cristoforo Colombo, strada ad altissimo tasso di scorrimento e di velocità, specialmente la notte, che attraversa e collega diversi quartieri, arrivando fino al mare.
Dovete sapere che quando andiamo in macchina io e lui cerchiamo sempre di fare molta attenzione nel caso dovessimo avvistare qualche animale ferito, smarrito, abbandonato o comunque in difficoltà (come spesso accade, specialmente in estate), e quando notiamo una “forma” sospetta che potrebbe far pensare ad un animale, torniamo indietro a controllare; lo so, detto così ha tutta l’aria di un atteggiamento un po’ paranoico - e probabilmente lo sarà pure - ma poiché in passato ci è effettivamente capitato di trovare animali feriti, di soccorrerli e di poterli così salvare, ci sembra il minimo che si possa fare: verificare non costa nulla, al massimo si perde qualche secondo della propria vita, il che - inserito nella prospettiva di poterne forse salvarne un’altra - è davvero il minimo.
Insomma, l’altra notte, non appena la strada lo consente, invertiamo la rotta di marcia per tornare indietro a controllare questa “forma” sospetta sul ciglio della strada; facciamo pochi metri quando improvvisamente siamo costretti a frenare bruscamente (e meno male che non avevano macchine dietro di noi); a Roma dicesi pure “’n’inchiodata da paura”: un piccolo gattino stava pericolosamente cercando di attraversa la strada (la Cristoforo Colombo!) e poco ci è mancato che non finisse sotto la nostra auto. Scendiamo di corsa e ci avviciniamo: è un micino delizioso, avrà circa un paio di mesi, miagola, certamente per la fame, è infatti molto magro, e non appena tendo la mano si avvicina; non ho alcuna difficoltà a prenderlo, anzi, sembra contento di vederci. Fortunatamente nel portabagagli dell’auto teniamo sempre un trasportino per gatti proprio per queste emergenze (!), e così lo mettiamo dentro. Si calma ed inizia a fare le fusa, a strusciarsi contro la mia mano, sembra in  buona salute: occhietti vispi e puliti, pelo lucido, apparentemente senza parassiti, solo un po’ magrolino in effetti. Ovviamente ci accertiamo ben bene che non ci siano altri gattini (probabili fratelli, o la madre, anche se il gattino in effetti è troppo grande per prendere ancora il latte dalla madre, un po’ d’esperienza di gatti ce l’ho e capisco che è un cucciolo già svezzato). Niente. C’è solo lui (il mio compagno sarebbe poi tornato anche il giorno dopo nel medesimo luogo per controllare ancora una volta: niente).
Questo delizioso micino, prontamente chiamato Agostino II (in onore di un omonimo gatto del mio passato), ora è il nuovo arrivato in casa. Socievolissimo, anzi,  direi che non ho mai visto un gattino raccolto dalla strada così tanto socievole. Sanissimo, o almeno così sembra, mangia come un piccolo leone, mi guarda con occhioni dorati adoranti e sta tutto il giorno a fare le fusa, a “danzare” (chiunque abbia un gatto sa cosa intendo) sulle mie gambe, a giocare con qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Insomma, un amore di gattino :-). Facile immaginare quanto mi abbia già conquistata. Mi sono innamorata pazzamente di lui, e sembro anche essere pienamente corrisposta.
Secondo me è stato abbandonato, se fosse stato un randagino avrebbe avuto il pelo più rovinato, sicuramente parassiti, e sarebbe stato certamente più forastico. La cosa che più mi dà da pensare infatti è che sembra molto abituato agli esseri umani (va in braccio a tutti, socievolissimo, ieri l’ho fatto vedere anche ad amici), e non ha avuto alcuna difficoltà ad abituarsi alla casa; solitamente quando si porta un gattino appena trovato, dentro una casa, questi tende a nascondersi sotto i divani, i mobili in genere, dietro le tende ecc., mentre Agostino, si è messo a passeggiare come niente fosse, per niente spaventato, per poi salire con nonchalance sul divano e mettersi a riposare. Sembra che conosca l’ambiente, o che comunque lo ri-conosca per ambiente familiare.
Questo mi fa pensare che sia un gattino che abbia già vissuto in famiglia e che poi sia stato crudelmente abbandonato (in fondo non sarebbe la prima volta che capita nella notte di ferragosto, come ho già avuto modo di raccontare qui, anche un altro micino, il primo arrivato in casa, è stato trovato sei anni fa nella medesima data) o che sia scappato da una casa. Comunque nei paraggi del luogo preciso in cui l’abbiamo trovato non c’erano abitazioni ed ho controllato (anche su internet) se ci fosse qualche annuncio di gattino smarrito nella medesima zona. Niente.
Agostino è pieno di gioia di vivere. Dolce ed affettuoso come raramente ho visto essere altri gatti. Mi guarda con occhi adoranti e mi riempie di fusa e di bacini. Vispo, giocherellone, simpaticissimo e bellissimo.
Un dono inatteso. Entrato nella nostra vita proprio per puro caso. Si è trattato infatti di un attimo. Quell’attimo preciso in cui abbiamo deciso di tornare indietro perché avevamo avvistato “qualcosa” sul ciglio della strada; “qualcosa” che poi, dopo aver soccorso Agostino - ché non si creda ce ne fossimo dimenticati - siamo andati effettivamente a controllare e infine si è rivelato essere  solo un sacco della spazzatura; pieno di sola spazzatura. E allora non posso fare a meno di pensare che se avessimo tirato via, se la nostra puntigliosità (a detta di alcuni “paranoia”) non ci avesse fatto decidere di invertire la rotta di marcia, non avremmo mai nemmeno potuto notare quel piccolo esserino che stava attraversando una strada trafficatissima e che, molto sicuramente, avrebbe fatto una brutta fine di lì a pochi secondi, anche perché, affamatissimo com’era, avrebbe continuato a girare e ad attraversare in cerca di cibo.
Ecco, quella “cosa” sul ciglio della strada non era nulla, solo un sacco pieno di spazzatura, ma è stato il tramite che ci ha condotto ad Agostino e che ha fatto incrociare le nostre esistenze.
C’è stato un tempo in cui tutto ciò l’avrei chiamato “destino” ed avrei cercato di interpretarlo secondo un disegno di predeterminazione (“era destino che quella sera andassi a cena con quegli amici e che poi tornassi a casa a quella precisa ora perchè in quel preciso momento... ”) e di dargli un senso ulteriore; oggi, che ho uno spirito molto più disilluso, scettico e razionale, ma anche ed ancora disposto ad accogliere il meraviglioso dico semplicemente che infinite sono le possibilità attraverso le quali la realtà si esplica e si manifesta, come evento, attraverso l’inesauribile procedere di contorti ed aggrovigliati meccanismi; infinite sono le probabilità che dal prosaico quotidiano si sprigioni infine e finanche la meraviglia. In fondo, il meraviglioso, quel senso che tutti andiamo affannosamente cercando, cos’altro è se non una maniera “altra”, di scorgere e di osservare la realtà?
Un sacco della spazzatura può, a volte, non essere solo quello. Anche un sacco della spazzatura può portarci l’inaspettato e la meraviglia.
Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati” scriveva Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore...

P.S.: Agostino poi si è scoperto essere una femminuccia, quindi AgostinA. :-)

martedì 9 agosto 2011

Cazzi e Cazzotti (ovvero un post ove si sostiene la necessarietà di continuare a parlare del femminismo)

Quella che vi propongo non vuole essere una disamina dei vari movimenti femminili e femministi e delle loro origini e sviluppi nei vari paesi perché sarebbe un lavoro troppo complesso (e in questo periodo, per me, anche faticoso) e anche perché ci sono già tanti altri blog che affrontano dettagliatamente l’argomento. Premesso questo vorrei invece porre l’attenzione sul pregiudizio che spesso accompagna il termine “femminismo”, specialmente nel nostro paese. E userò questo termine in un’accezione un po’ estesa, riassumendo in esso tutte le istanze da parte delle donne che nel tempo si sono rese via via manifeste.
Mi sono resa conto che sono proprio molte donne a voler  prendere le distanze da questo termine, come se già la parola in sé evocasse idee malsane o estreme, o come se lo si ritenesse un argomento ormai superato e che non avrebbe più ragione di essere; esiste inoltre un fraintendimento di base che è quello di credere che le battaglie femministe siano state un tentativo da parte delle donne di prendere il potere sugli uomini, rivendicando così una sorta di predominio genetico.
Non è affatto così. E a me sembra banale anche scriverlo e doverlo specificare, ma tant’è.
I movimenti femministi e femminili (questi ultimi avevano una connotazione più specificamente politica) sono nati per ottenere tutta una serie di diritti - sociali, politici, culturali, lavorativi ecc. - che per secoli ci sono stati negati. Inoltre, almeno in Italia, molti di questi movimenti sono stati inizialmente uniti anche ad altri mirati all’abolizione di ogni tipo di sfruttamento e di sopraffazione, specialmente a quelli che rivendicavano migliori condizioni salariali, diritto alle ferie, al riposo per malattia, alla cessazione del licenziamento senza giusta causa e via dicendo; insomma, le donne - che erano le prime ad essere discriminate sul lavoro (a parità di mansioni e di ore lavorative percepivano stipendi notevolmente più bassi, non potevano accedere ad alcuni ordini professionali ecc.) - hanno fatto fronte comune per migliorare, sì le loro condizioni, ma anche quelle dei loro compagni, mariti, fratelli e di chiunque fosse sfruttato.
Inoltre - sul piano culturale e di costume - hanno iniziato ad esigere rispetto e pari considerazione pur nel riconoscimento di una diversità biologica; detto in altre parole, l’essere nate donne non avrebbe più dovuto in alcun modo rappresentare una deminutio o un motivo di discriminazione rispetto all’essere nati uomini, in quanto tutti dobbiamo avere i medesimi diritti (com’è noto, io sono anche una sostenitrice dei diritti degli animali, e ribadirlo una volta in più di certo non può far male!).
E di certo essere femministe non significa volersi considerare “superiori” o “migliori” degli uomini, bensì mirare ad un’eguaglianza (giuridica, politica, sociale ecc.) pur nella diversità biologica; una donna è sì diversa fisicamente (ha meno massa muscolare, ad esempio), ha un ruolo biologico diverso da quello maschile nella procreazione, è diversa nella psiche,  ha attitudini e caratteristiche mentali diverse, predisposizioni e capacità (nell’organizzazione dello spazio, dei pensieri ecc.) differenti, ma questa, chiamiamola pure “diversità” biologica, non è e non deve essere intesa nell’accezione di un’inferiorità o di una “menomazione”.
Non mi sembra che ci voglia molto a capirlo. Né, mi sembra - fatte salve alcune eccezioni, che pure ci saranno state e ci saranno sempre - che le femministe abbiano mai inteso qualcosa di sostanzialmente diverso. 
Quello che faccio fatica a comprendere allora è perché, oggi, molte donne, anziché ringraziare le paladine e promotrici di queste battaglie vogliano prenderne le distanze.
Eppure spesso sento frasi di questo tipo: “io non sono affatto una femminista, però è giusto che le donne... ” - “non per essere femminista, ma vorrei che le donne... “,  ah, io detesto le femministe, ma basta, è passata l’epoca di queste rivendicazioni” e via dicendo; mi domando allora se queste donne, dichiaratamente ed almeno apparentemente emancipate, sappiano di cosa stanno parlando.
Perché al solo pronunciare la parola “femminismo” storcono la bocca ed arricciano il naso come se il solo pensiero di venir considerate delle femministe fosse chissà quale vergogna? Non è che forse, sotto sotto, queste donne si vergognano di pretendere quel che spetta loro di diritto, ossia pari considerazione e rispetto a quelli degli uomini? Possibile che il modello culturale e sociale (e religioso, e qui, ci si sarebbe da aprire un capitolo a parte, ma non lo farò per il momento) della sottomissione ed inferiorità sia così ben radicato da non venire nemmeno considerato come “problema”? O forse, c’è di peggio: forse queste donne credono, sono convinte che ormai siamo riuscite ad ottenere tutto ciò per cui è stato necessario lottare in passato e che quindi oggi il termine femminismo non abbia più sostanzialmente motivo di esistere.  Per come la vedo io, se davvero queste donne non riescono a comprendere che siamo ancora ben lontane dal quel rispetto che meritiamo, significa che la visione maschilista della nostra società è stata così ben introiettata da aver raggiunto il proprio scopo.
Se è vero che siamo riuscite (grazie alle istanze femministe!) ad ottenere diritti politici e lavorativi (almeno nel nostro paese ed almeno in teoria, ché la realtà concreta spesso può essere ben diversa), siamo però ancora ben lontane da quel modello auspicabile di società in cui il fattore “sesso” non sia in alcun modo determinante.
Purtroppo la nostra società è intrisa di maschilismo fin nel midollo e, ripeto, lo è talmente che alcuni modelli e stereotipi culturali hanno finito per essere assunti come “naturali” (un po’ come accade anche per gli atteggiamenti specisti nei confronti degli animali). Lo è a partire dal linguaggio, dalla gestualità, dai comportamenti sociali, per finire con le più eclatanti manifestazioni di abuso e di violenza (fisica e psicologica, ed a tal proposito vorrei segnalarvi un interessante post che il sempre attento Ivaneuscar ha scritto proprio alcuni giorni fa).
Un esempio su tutti e che può servire a mettere ben in evidenza l’uso strumentale - spesso nella sola accezione sessuale -  che viene fatto della donna è quello della ben nota e frequente apostrofazione che le si rivolge quando commette un’infrazione all’atto della guida: “troia” - “zoccola” - “puttana” e via dicendo. Ora, mi domando quale sia l’astrusa associazione mentale che porti l’uomo a considerare una donna, che so, che si è dimenticata di mettere una freccia (il che la qualifica certamente come persona poco attenta, ma solo questo!), anche una zoccola, puttana, troia ecc., come se conoscesse nei particolari l’attività sessuale di quest’ultima; mi domando insomma quale sia, ed a quale titolo, l’attinenza sessuale con la guida (non mi pare il caso di scomodare Ballard e Cronenberg!).
Perché una donna che sbaglia deve essere sempre una troia?
Di esempi così potrei farne a migliaia. Perché migliaia sono i pregiudizi e gli stereotipi culturali e sociali che portano al totale fraintendimento dell’immagine del femminile (passando dai miti della letteratura e del cinema che tanto hanno contribuito a creare un’idea falsata e spesso dicotomica della donna: femme fatale o angelo del focolare - il sempreverde santa o puttana - bionda buona e mora cattiva oppure, di converso, bionda oca e mora intelligente e via dicendo) che rinforzano e nutrono certi atteggiamenti maschilisti che talvolta sopravvivono e si alimentano proprio della diffusione di questi luoghi comuni che faticano a venire estirpati da un certo immaginario collettivo.
Per questo e proprio per questo io invece - a differenza di alcune - sono fiera di definirmi femminista. Lo sono perché ogni giorno scorgo e vivo sulla mia pelle migliaia di atteggiamenti, gesti e comportamenti maschilisti, dal più “innocente” (ma, proprio per questo, più subdolo e quindi pericoloso!) a quello più diretto ed intenzionato.
Compito di noi donne allora è quello di provare a smascherare tutti questi comportamenti, di provare a leggerli non come un giocoso rituale di comportamento dei ruoli maschile e femminile, ma come l’ennesima forma di abuso, di sopraffazione  e di discriminazione  ben velata dalla consuetudine.
Mi rendo conto che avrei dovuto fare più esempi, ma confido nel fatto che molte donne sapranno riconoscervi l’oggetto (gli oggetti) del mio atto di accusa, e anche perché mi piacerebbe (vacanze d’agosto permettendo) che fosse magari qualche lettrice (e lettore) ad aggiungere episodi, esempi, punti di vista.
Chiudo con un racconto occorsomi qualche tempo fa, che mi fece - come si suol dire - ridere per non piangere: mi trovavo in visita a mia madre ricoverata in un ospedale per degli accertamenti e ebbi modo di fare due chiacchiere con la sua vicina di letto, una donna semplice (locuzione per non dire: una ruspante romanaccia) la quale - entrata in confidenza - si mise a raccontare la triste vicenda di un suo figlio che era stato lasciato dalla moglie. Questa signora ovviamente aveva preso le parti del figlio ed iniziato a parlare malissimo dell’ex nuora, dicendo che era una che non stava mai a casa, che voleva uscire con le amiche, che non trattava questo santo figliolo come avrebbe meritato ecc.; ora, non so e non mi interessava quanto di vero ci fosse in questo e quali fossero (e se lo fossero davvero!) le serie manchevolezze da parte dell’ex moglie del figlio, tuttavia ad un certo punto, la signora (la vicina di letto di mia madre)  se ne uscì con questa frase che, letteralmente, mi lasciò del tutto incapace di replica: “perchè a mii fijo, jelo dicevo sempre, tu sì troppo bbbono co’ tu moje, avevi da fà invece come te dicevo sempre io, alle donne je devi dà “cazzi e cazzotti”!!!”. E poi, rivolta a me ed a mia madre, con espressione seria, convinta ed anche un pochino da esaltata: “sì, sì, pe le donne ce vole solo questo: cazzi e cazzotti, tutto il resto so’ chiacchiere!”.

lunedì 1 agosto 2011

Non Lasciarmi di Mark Romanek (analogie, divergenze, pregi e difetti a confronto con il romanzo)


Del romanzo da cui - su sceneggiatura di Alex Garland - il regista statunitense Mark Romanek ha tratto l'omonimo Non lasciarmi (titolo originale Never Let Me Go), avevo già parlato qui, come anche delle perplessità e timori che avevo in merito al buon esito dell'operazione.
Commettendo l'errore - e me lo si perdoni! - di mettere a confronto l'opera filmica dal libro da cui è tratta - è un tipo di analisi che non andrebbe mai fatta poiché la diversità del mezzo espressivo, pregiudicando la rielaborazione sotto il profilo contenutistico, non può mai consentire una resa del tutto conforme all'originale, rendendole di fatto due opere ben distinte e che come tali andrebbero quindi analizzate - mi appresto a dare un giudizio di valore dell'una e dell'altra.
Il film di Romanek non è un brutto film: ben girato, fotografia che ben rende le atmosfere malinconiche della storia, scelta degli attori e recitazione impeccabili (ho trovato particolamente azzeccata la scelta degli attori bambini in quanto molto rassomiglianti e credibili come gli adulti che saranno diventati poi, rispettivamente interpretati da Andrew Garfield, Carey Mulligan, Keira Knightley) ed espressivamente toccante senza scadere nel retorico o nel melenso; una resa formale fin troppo scarna ed asciutta, a tratti persino didascalica, voluta, immagino, proprio per evitare un risultato stucchevole, è stata ottenuta però al prezzo - a mio avviso troppo alto - di una banalizzazione e semplificazione tematica che trasformano la distopica storia dei tre ragazzi in una metafora  fin troppo scoperta; non solo: quel che nel romanzo viene costantemente ritardato - la nuda e cruda verità - e che ne costituisce un pregio narrativo, nel film viene enunciato quasi subito, così da rendere poco credibile la ragione d'essere stessa di quelle esistenze.
Delle varie critiche e recensioni del film che ho letto, ho notato infatti che uno degli aspetti che più ha colpito l'immaginazione è quello della rassegnazione dei personaggi: "perché non provano a ribellarsi al loro destino?". Nel romanzo questa domanda non si pone poiché ai giovani protagonisti non viene mai detta esplicitamente la verità, a differenza di quanto accade nel film; molto più semplicemente, crescendo, imparano ad accettare ciò che per loro doveva essere visto come un destino ineludibile. E quindi la metafora con ciò che riguarda infine il destino dell'umanità tutta, ossia che - quale sia stato il senso che abbiamo dato alle nostre esistenze, o quale ne sia stato il fine provvisorio - avremo comunque tutti una sorte ultima che è quella di terminare un ciclo, è molto più sottile e meno enunciata, rispetto invece a quanto avviene nel film dove il tutto viene semplicemente detto in chiusura attraverso il monologo di C. Mulligan.
Se il maggior pregio del film è quello, come è stato da molti sottolineato, dell'asciuttezza formale e di una sceneggiatura sintetica che è stata perfettamente in grado di collazionare e riassumere tutti gli innumerevoli fili secondari della storia, allora è stato anche il suo peggior difetto. La riduzione ha sacrificato infatti anche parte del pathos e la rielaborazione di episodi portanti - che nel romanzo hanno una loro valenza esclusiva e necessaria, quale quello di straziante malinconia in cui Kathy viene sorpresa a canticchiare e a dondolarsi sulle braccia un cuscino sulle note di Never Let Me Go (di cui il disco, proprio come oggetto in sé, rappresenta e scoglie un nodo narrativo fondamentale) -  nel film vengono mostrati, mi è sembrato, più per introdurre brevi note didascaliche - per aggiungere particolari, potremmo dire - ma senza tuttavia riuscire a caricarli simbolicamente ed iconicamente di significato; sono immagini che aggiungono qualcosa, ma senza dire, e quindi, trattandosi di un'opera filmica, immagini che falliscono.
Inoltre ho trovato estremamente banale tutta la storia legata all'importanza di far emergere il talento artistico nei ragazzi e, più in generale, di sensibilizzarli attraverso l'arte.
Nel film viene banalmente e retoricamente detto: "i vostri disegni erano importanti per mostrare che avevate un'anima", mentre invece il discorso di Ishiguro è un tantino più complesso: essendo l'anima il risultato di tutto ciò che si apprende in vita e procedendo lo sviluppo della nostra sensibilità e la nostra evoluzione spirituale sulla base di un percorso formativo, in questo accezione allora l'arte, così come tutto ciò che stimola i nostri sensi, può avere un valore immenso in quanto ci permette di affrancarci da una condizione di pura necessità vitale.
Il talento artistico non serve quindi a dimostrare che si possiede un'anima, ma a contribuire semmai alla formazione di un'anima, innalzandola verso la bellezza, conferendo un senso ulteriore a quelle che altrimenti sarebbero state solo esistenze votate ad un fine puramente meccanico e materiale.
Parliamoci chiaro: gli allievi di Hailsham erano comunque bambini privilegiati, rispetto alla condizione attuale nella diegesi filmica - menzionata ad un certo punto - e pure rispetto all'orrore cui erano destinati - proprio perché a loro, quantomeno, veniva data la possibilità di crescere, di affinare la loro sensibilità e di sviluppare ed ampliare così la loro anima; detto in altre parole, a loro veniva comunque data la possibilità di vivere una vita degna di chiamarsi tale, completa di tutta la gamma di sentimenti e di emozioni che sia possibile provare, ivi inclusi l'amore e l'amicizia,  mentre ad altri - cui era precluso tutto ciò - non restava che un'esistenza molto simile a quella che oggi - con inenarrabile orrore - potrei paragonare a quella degli animali negli allevamenti intensivi (o anche non intensivi, che non è l'intensità a conferire l'orrore, bensì proprio il concetto di "allevamento"): un'esistenza votata alla morte, ma privata di tutto ciò che solitamente sta in mezzo, per cui lottiamo e ci affanniamo, cui cerchiamo di donare un senso e che noi esseri umani definiamo, appunto, "vita degna di essere vissuta".
Interessante invece, e questo nel film viene abbastanza evidenziato, l'atteggiamento di compassione e pena con cui le persone fuori di Hailsham trattano quei poveri bambini: una compassione che però non vuole essere - quale è nell'accezione semantica -  di condivisione empatica della loro condizione, ma che ne rimarca invece l'alterità ed il marchio di "vittime sacrificali". Curioso come infatti nel romanzo gli insegnanti e gli esterni provassero quasi orrore e ribrezzo nei confronti dei piccoli di Hailsham, e come nel film ad un certo punto si pronunci la frase "povere creature". Interessante questo aspetto perché denota la necessità di dover comunque mantenere sempre attiva quella barriera tra noi e coloro cui abbiamo destinato il marchio di "vittima sacrificabile per i nostri interessi", pena lo straripare di un orrore senza pari che non saremmo più in grado di arginare e contenere e che rivelerebbe, senza indugi, la nostra complicità ed il nostro coinvolgimento - seppure indiretto - in quell'orrore.

In conclusione: ritengo il romanzo tematicamente più complesso rispetto al film, ma credo che, al di là dei due distinti (e certamente molto soggettivi) giudizi di valore, siano entrambe opere degne di attenzione, soprattutto per la riflessione, senz'altro molto attuale,  del baratto della parte più nobile della nostra umanità, quella veramente empatica verso ogni essere vivente, clone o animale che sia,  che la scienza  ci costringe a dismettere per un'illusoria idea di eternità. Mentre invece, come suggerisce Non lasciarmi (e questa volta tanto il romanzo quanto il film), è sempre e soltanto il dono dell'amore - e non quello coatto dei propri organi - a salvarci e a renderci davvero eterni.