giovedì 2 maggio 2024

Zoologia Abitativa di Teodora Mastrototaro (recensione)

 

Zerbino, entrata, uscita, porta d’emergenza. Parti di un’abitazione, certo, ma anche movimenti nello spazio, quindi nel tempo che presuppone evoluzione e allora cambiamento. Una casa senza viventi, senza vita che la abita non sarebbe tale, sarebbe solo una struttura vuota e comunque per passare dallo zerbino all’entrata e poi fino all’uscita e porta d’emergenza c’è bisogno di un soggetto vivente che attraversi varie stanze in più momenti: c’è bisogno di una Zoologia Abitativa, appunto. Questo il titolo dell’ultima silloge di Teodora Mastrototaro pubblicata da Arcipelago Itaca esattamente un anno fa. 

La lettura di queste poesie è profondamente suggestiva: un’esperienza che facciamo insieme ai soggetti evocati e narrati attraverso parole misurate, ma anche potenti che divengono immagini: l’impressione è proprio quella di addentrarsi in uno spazio, quello delle pagine del testo, che da bidimensionali – fogli bianchi solcati da segni – prendono vita a poco a poco fino a conquistare una dimensione tridimensionale e quindi senso; da sema – la più piccola unità di significato (la singola parola, il singolo verso) a struttura polisemantica; un po’ come quelle immagini chiamate stereogrammi che presentano un disegno, ma che a saperle fissare in un certo modo, in un certo punto, rivelano poi un’altra immagine che sembra acquistare corpo, farsi appunto tridimensionale e in cui sembra di entrare, precipitare quasi. Da singolarità a pluralità. Un po’ come le case che da fuori appaiono strutture regolari, parallelepipedi o cubi, pareti, vetri, porte, finestre, poi, una volta entrati, diventano famiglia, calore, affetto, comunità, ma anche perdita, dolore, assenza, comunque divengono esperienza. Non più strutture, ma forme che accolgono l’esistere.

Ogni poesia è dedicata, anzi no, descrive, no, nemmeno, presenta forse, lascia che si manifesti, meglio, scopre, rivela, disvela un piccolo animale, di quelli che abitano, coabitano con noi nelle nostre abitazioni: mosca, ragno, formica, cimice, gatto, cane, acari, ma anche geco, serpente, lucciola, civetta, animali più selvatici che tuttavia non è difficile trovare nei pressi delle abitazioni, magari nei giardini o sugli alberi di fronte alle finestre.  In questo coabitare manifesto ci siamo noi e loro – forse noi in altri tempi, ere lontanissime nel tempo, noi nel futuro e nel passato – e le emozioni, sentimenti, stati d’animo, condizioni che attraversano i nostri corpi, che quindi si fanno esistenza, epifenomeni di un comune principio che è la vita e che imprimono i loro segni sulle case, così come i segni grafici, le parole, imprimono il loro senso sulla carta.

La casa è anche ciò cui si fa ritorno o da cui tutto ha inizio. Nascita e morte. L’origine e la fine allo stesso tempo, in una circolarità che è anche quella delle stagioni o dei giorni o delle ripetitività confortante dei gesti del quotidiano o la prigione nella malattia.

“(…) Cadi nei movimenti e lenta ruoti perché ti piace il nascere nel tramontare (...)” (gatta) oppure “(…)Torni ogni sera come una foto dove colgo la misura dell’ascolto, perché è bene disperdere ogni cosa come fai tu che mi domini il volto. Dal bordo del presente ti senti al sicuro e ripeti l’immobilità lì dove, colpevole del mio marcire e del tuo segreto (...)” (geco), ma anche “(…) Il sole tramonta o dà le spalle al cortile ed è tardi agli spigoli dei nostri cespugli (...)” (cane).


Spazio, tempo, corpi animali, vicissitudini, lutti, malattie e punto di vista che si sdoppia e da soggetto che quasi si fonde con il proprio spazio abitativo personale (un po’ come i gechi che sembrano appunto farsi tutt’uno con il muro, o i camaleonti che si mimetizzano su ogni piano ove riposano) diventa soggetto che percepisce l’alterità; un’alterità che è esistenza oggettiva e che quindi ci attraversa in quanto esperienza comune. I versi da intimisti, quasi ermetici, nella seconda parte si fanno più distesi e volgono lo sguardo altrove: 

“Lavori da casa – sei smart – 

ogni due ore puoi pisciare

 la pausa delle sette è per cenare 

(mangi tu mangia il gatto) 

Più di tre minuti la telefonata 

non deve durare 

ma tu ascolti la vecchietta 

che ha bisogno di raccontare. (...)

(gatto). 

Tornano quindi gli stessi animali evocati, manifestati nella prima parte, ma ora di segno diverso, “(…) La mosca che ti ronza sulla testa per il lamento del fetore della pala fa più di cento battiti al secondo. La sua vita è più veloce del tuo battito di ciglia: venti volte al minuto per salutare chi ti viene a trovare al capezzale (...)” (mosca).


Come in una sorta di filogenesi evolutiva le vite degli animali umani e non umani si intrecciano e si fondono e talvolta sembra quasi che ci parlino, che siamo noi, che lo siamo stati o che lo saremo in questa esperienza condivisa che è l’esistenza in una casa che è la terra stessa. In una zoologia abitativa, appunto, terra che abitiamo, ma che anche siamo.

Mi viene in mente un film horror giapponese a episodi dal titolo Ju-On; in uno di questi episodi c’è una coppia in un minuscolo appartamento che ogni sera è disturbata dal rumore di un battere ritmico sulla parete accanto che poi scopriamo essere – in una dimensione altra, onirica, ectoplasma materializzatosi dalle paure dell’inconscio –, il battere dei propri stessi corpi morti appesi, impiccati, al soffitto. Protagonista non è la coppia, ma la casa, una casa infestata, maledetta. 

Ecco, in Zoologia Abitativa non si parla di case maledette, ma di case che nell’atto stesso di ospitare la vita ne accolgono anche il divenire, quindi la morte, la vecchiaia, la malattia. In quella stanza ci siamo nati e un giorno ci moriremo, noi diversi in tempi diversi, oppure noi diversi nello stesso attimo, il tempo non esiste. Senza divenire però non ci sarebbe nemmeno la possibilità della vita stessa; si muore solo da vivi, in fondo. E allora la porta d’emergenza, il quarto atto della silloge, è in fondo una luce, una speranza. Le porte d’emergenza si aprono per fuggire (da un incendio, un terremoto, un pericolo), ma qui, a me pare che siano porte di speranza a dirci che qualcosa, di noi, resta.

Questi versi di Teodora Mastrototaro richiedono impegno perché si prestano a molteplici significati (e questa in fondo è solo la mia personale interpretazione, magari diversa dalle intenzioni dell’autrice), ma restituiscono moltissimo. Ne consiglio la lettura ad alta voce perché, al di là del significato, la poesia – o almeno questa di Teodora – è anche e soprattutto musica, suono, versi. Versi, come quelli che fanno gli altri animali, come quelli che lei ha scritto, in una continuità e uno svelare e svelarsi che è sempre nel riflesso degli altri – una coabitazione dei vivi e dei morti, avrebbe detto Capitini – perché senza questo nulla avrebbe senso, nemmeno nascere e morire. 

Ci sono parole che a forza di ripeterle perdono senso, come nei giochini che a volte abbiamo fatto da piccoli. E poi ci sono quelle della poesia di Teodora Mastrototaro che più le ripeti e più si aprono al significato, alla meraviglia, all’epifania. 

“Il vivaio sotto casa è sempre aperto,

trecentosessantacinque giorni all’anno

moltiplicati per i morti

l’unica risposta è questo eterno.


Gli acari e le cimici che infestano le foglie

camminano ammassati ma ordinati

sono gli invitati

al funerale.

(acari).”


martedì 23 aprile 2024

The Shield. La serie.

 

Mi sento orfana di una delle serie più belle di tutti i tempi, quella che forse meglio di tutte ha saputo raccontare senza fare sconti i caratteri complessi degli antieroi. Mi riferisco a The Shield, vista in ritardo di 20 anni, come al solito. 
Ti accorgi che una serie è scritta bene quando, una volta terminata, ti porti i personaggi nella vita reale e continui a chiederti come se la stiano cavando, cosa stiano facendo, se li rivedrai mai e quando, per quante cose sporche e immorali facciano, tu sei ancora lì a fare il tifo per loro e, se non a giustificare le loro scelte, quanto meno a comprenderle. 
Le sette stagioni di The Shield non solo non hanno mai un calo qualitativo, ma, cosa rarissima, direi forse unica, danno il loro massimo nelle ultime due fino ad arrivare a un finale perfetto in cui si chiudono tutti gli archi narrativi.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, vi dico in breve di cosa parla (ATTENZIONE SPOILER): ambientata in un distretto di Los Angeles chiamato Farmington, crocevia di una delle zone più malfamate della metropoli, lì dove si incontrano e scontrano le bande multirazziali dedite ai traffici di droga, armi, prostituzione e riciclaggio, la serie è incentrata sulle vicende di una squadra d'assalto composta da 4 persone e condotta dal detective Vic Mackey, un uomo corrotto ma con una sua etica e senso dell'onore, dedito alle famiglie, sia quella composta dalla moglie e i tre figli, di cui due autistici, che quella definita tale da lui stesso e composta dai membri della sua squadra. 
Attorno a lui si muove il resto dei detective del distretto, ognuno con le proprie capacità e ruolo lavorativo, Capitani, Sergenti, poliziotti di strada, membri della Commissione  interna che in teoria dovrebbe vigilare sull'operato del Distretto, agenti federali, uomini politici ambiziosi e protagonisti vari che occupano ruoli chiave nel mantenimento del sistema in lotta, ma più spesso in affari, e strumentalmente, con i vari pezzi grossi del crimine organizzato. 
La serie inizia in medias res mostrandoci la squadra e il distretto, nei suoi vari ruoli, in azione; non sappiamo e né lo sapremo mai quando e perché Vic e la sua squadra siano diventati corrotti, ma quel che si racconterà durante le sette stagioni è la discesa agli inferi di un legame sempre più malato e folle - tra loro, ma anche con il crimine - che li condurrà inevitabilmente verso il destino che meritano. Un destino che tuttavia, fino all'ultimo, continuiamo a sperare diverso. 
Uno dei momenti più belli è proprio la lettura di una lettera che Shane scriverà al distretto in cui dice qualcosa come: "Non so chi di noi fosse peggio, se Vic o io, ma quello che so è che ognuno di noi due tirava fuori il peggio dell'altro". 
La lettera riassume un po' il senso complessivo della serie: ci sono mondi e personaggi speculari a confronto: il distretto di polizia e il mondo del crimine; la squadra d'assalto corrotta e i detective che agiscono in modo moralmente ineccepibile; i papponi e le donne prostituite sfruttate; i poliziotti e le indagini degli interni; Vic e Shane e gli altri due della squadra, Lem e Ronnie; carnefici e vittime. 
Questi opposti, mondi e micromondi speculari, si combattono, ma anche strumentalmente si usano a vicenda per tornaconti personali, di squadra o per altre infinite ragioni. 
The Shield è infatti una serie senza speranza, amarissima perché nessuno ne esce pulito e persino i detective più specchiati moralmente commettono azioni discutibili e mostrano la loro ferocia e spietatezza anche proprio nel voler restare puliti e punire il crimine come se anche la via della morale fosse alla fine un mezzo per esprimere e sfogare odio, rabbia e frustrazioni o cercare il potere; il punto è che ognuno ha i propri demoni e sono proprio questi ad agire il più delle volte facendo ballare i loro burattini al ritmo di una danza macabra perché è il mondo, il sistema a essere marcio e oscuro e chiunque si muova e agisca al suo interno ha solo l'illusione di scegliere, ma in realtà non fa che adempiere, passo dopo passo, a un destino che non può che essere tragico. 
The Shield può essere infatti definita una tragedia moderna in cui gli eroi usano i mezzi a loro disposizione e agiscono secondo un ruolo specifico, ma senza avere mai contezza del disegno complessivo. Tutti tranne Vic, forse, che è l'unico che probabilmente quel disegno lo vede e lo tratteggia fino in fondo, perdendo tutto, ma non sé stesso perché anche tradendo rimane sé stesso fino all'ultimo, come un vero antieroe che realizza fino in fondo il suo destino e che nel farlo si piega, ma non si spezza essendo tutt'uno con il proprio destino: non individuo, ma uomo che si fa destino e per questo diviene (anti)eroe. 
The Shield è sporca anche nell'estetica, riprese sgranate, macchina da presa a mano, azione tanto spettacolare quanto sempre totalmente realistica e ancora parecchio attuale perché quando la scrittura è eccellente, regge il tempo che passa. 
Unica cosa per me negativa è la breve sigla musicale che arriva dopo i primi minuti di prologo di ogni episodio: assordante e fastidiosa, ma è questione di gusti. Ecco, per me la sigla peggiore nella storia delle serie tv per una serie tra le migliori nella storia delle serie tv. 
So che molti di voi l'avranno già vista, ma se non è così, fatevi un regalo. La trovate su Prime. 
Ah, considerate che una serie come Breaking Bad non sarebbe mai potuta esistere senza The Shield e che quest'ultima fa sembrare la prima come un cartone animato per bambini. 
C'è sessismo, specismo, ma anche sprazzi di umanità ed empatia come ad esempio non si vedono in tante serie patinate e apparentemente più politically correct. Bianchi, neri, ispanici, asiatici, donne, uomini sono solo attori che si contendono il potere a prescindere da etnia o sesso di appartenenza e per questo alcuni dialoghi brillano e risaltano maggiormente, proprio perché non risultano artefatti e frutto di una falsa solidarietà ed empatia, ma risuonano come autentica pietà e compassione, esempio quando Lem difende i galli da combattimento dicendo che sono creature innocenti, ma anche quando, all'opposto, il buon Wagenbach, uccide un gatto solo per cercare di capire quello che provano i serial killer. In una serie patinata e politically correct questa è un'azione che mai si sarebbe fatta mettere in scena da un personaggio tutto sommato positivo e questa è per l'appunto la cifra semantica dell'intera serie. 
Ultima cosa: da vedere assolutamente in lingua originale perché è multiculturale e quindi multilinguistica. Bellissimo anche il modo in cui Vic e gli altri fanno propri alcune espressioni e termini gergali, ma mai in modo colonialista, bensì di mimesi totale con i vari mondi sociali con cui entrano in contatto. 
Potrei parlarne per giorni, ma chiudo qui, sperando di avervi incuriosito abbastanza.

P.S.: l'aspetto meraviglioso di questa serie è che, sebbene i vari protagonisti sembrino, come detto, mossi da un destino più grande di loro, non risultano mai essere al pari di tessere intercambiabili, ma ognuno ha un proprio carattere unico e complesso e quindi risultano vivi, più vivi e realistici che mai, al punto che, come detto all'inizio, a serie terminata si ha come l'impressione che continuino a esistere nella realtà e vien quasi voglia di prendere l'aereo a andare a scovare il distretto di Farmington, ovunque si trovi ( non esiste, in realtà); una chicca: l'entrata principale del distretto dall'esterno si vede solo una volta, quando Vic ne esce ormai senza distintivo, quindi come elemento che finalmente può osservare al di fuori di sé, sebbene non smetta mai di indossare i panni del poliziotto che, per quanto con metodi discutibili, ha come obiettivo ultimissimo, perso tra gli altri legati alla propria sopravvivenza, quello di ridurre il crimine - non eliminare, impossibile perché congenito all'umanità e a un sistema corrotti - e questo lo si capisce benissimo nella scena conclusiva, per quanto aperta.

martedì 26 marzo 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente (Marco Saya Edizioni)



 Un breve estratto.

"Per raggiungere la palestra comunale bisogna arrivare al bar dello sport e poi prendere la salita sulla destra dove c’è il giornalaio e la macelleria, oppure il vicoletto più stretto a sinistra. Entrambi sbucano nella via che da una parte va verso il Duomo e la pineta, dall’altra scende e poi risale e seguendola a destra porta fuori, verso la Cassia. C’è già un bel po’ di movimento, vedo tanti motorini parcheggiati. La partita è già cominciata, i tonfi della palla si sentono da fuori, insieme alle urla, ai fischi e agli incitamenti degli spettatori. Gioca la squadra femminile e molti ci vanno per guardare le ragazze e commentare. Che bel culo, che belle cosce. Quando anche tu avrai un culo così… 

Quella c’ha un culo che parla. Quell’altra c’ha un culo che fa provincia. Alcune si mettono la felpa legata in vita per non farsi guardare il culo. La felpa che poi ogni due per tre devono stringere per fare in modo che rimanga ben avvitata. Tutte energie sprecate, per questo le femmine quando giocano con i maschi perdono sempre. Cercare di essere sexy pure mentre si suda o si fanno le smorfie per la fatica richiede il doppio della concentrazione. E tanto poi alla fine è sempre il culo che ti guardano. O le tette. 

 Gioca anche Claudia e le sue amiche. Entrare nella palestra è impossibile, c’è troppa gente, ma si riesce a vedere qualcosa dalla vetrata esterna. Alla fine non è che mi importi molto. 

Sono arrivati anche Bruno Borg, Billo, Fulvio e il resto della banda. Parcheggiano la vespa e i motorini e poi ci si siedono sopra, non scendono nemmeno. Si vede che anche a loro della partita non importa granché. Più che altro seguono lo sciame: si va dove c’è gente, dove c’è qualcosa da fare, dove c’è la fica. 

 Le ragazze vanno dove ci sono i ragazzi. I ragazzi dove c’è la fica. 

 Quando finisce tutti si spostano in massa, rimane giusto qualcuno ad aspettare che le ragazze si rivestano. Ci fermiamo anche noi, il retro della palestra è un posto tranquillo e possiamo fumarci una sigaretta senza essere viste. 

Ci sediamo sugli scalini della porticina da cui si accede agli spogliatoi. Sentiamo le ragazze all’interno parlare mentre si cambiano, il rumore del phon, i commenti sulla partita. La squadra di Claudia ha perso. Dopo un po’ iniziano a uscire. 

Si lasciano dietro una scia di profumo di shampoo e deodorante fresco che si disperde nell’afa della sera, tra il frinire delle cicale e la polvere del piazzale sterrato sollevata dai motorini che ripartono. I capelli ancora umidi che svolazzano nella notte, le gambe abbronzate e lucide di crema che brillano sotto al lampione, ci salutano, salgono sui motorini parcheggiati e dietro a quelli dei loro fidanzati o amici e se ne vanno. 

 Un po’ le invidio. Invidio questo loro muoversi a loro agio nel mondo. Essere sicure e leggere. Brave ragazze che fanno sport e tornano a casa presto, oppure fanno tardi, ma col fidanzato e allora va bene. Chissà se anche loro a volte si sentono sporche, se provano vergogna. 

Sembra di no perché camminano sempre a testa alta. Come se sapessero sempre qual è la cosa giusta da fare, mentre io mi arrovello su tutto, indecisa se seguire i miei veri desideri, le mie pulsioni o quello che ci si aspetta da me. Mi arrovello persino su questioni immaginate nei sogni a occhi aperti, situazioni che non si realizzeranno mai.  Il mio occhio sinistro è affetto dalla sindrome dell’occhio pigro, cioè lo uso meno dell’altro e quando fisso un punto preciso sembra che abbia un leggero strabismo, come se un occhio non seguisse quello che fa l’altro. Questo rende bene l’idea di scissione che a volte c’è nella mia testa. Una parte vuole fare delle cose, l’altra la blocca o fa l’avvocato del diavolo. Invece le altre ragazze mi sembrano tutte ben centrate, senza pensieri in lotta tra di loro.  “Bisogna andare sempre a testa alta” dice mia madre, che per lei significa non far trasparire nulla delle cose che non vanno bene. Io invece cammino un po’ ingobbita perché mi pesano le tette, dice mia cugina; perché vuoi nasconderle e così stringi le spalle, dice la prof di educazione fisica."

Il libro è ordinabile presso il sito della casa editrice stessa, oppure sugli store online, es. Mondadori, e nelle librerie fisiche. 

Sto lavorando per organizzare delle presentazioni sia a Roma, che a Viterbo.

martedì 12 marzo 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente è arrivato!


 Ed eccolo qua!

Il mio romanzo "Buon pane, buon vino e cattiva gente" è finalmente diventato reale.
Lo potete ordinare su tutti gli store online, in libreria e da domani anche sul sito di Marco Saya Editore, che ringrazio con tutto il cuore per averlo pubblicato.

Ovviamente fatemi sapere se vi è piaciuto.


giovedì 29 febbraio 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente

 



Non so se qui mi leggono persone diverse rispetto a quelle con cui interagisco sui social, quindi non so se ha senso spammare anche qui la notizia, ma nel dubbio...

Ricordo i primi tempi che scrivevo qui e tutti gli incoraggiamenti che spesso ho ricevuto sul provare a scrivere un romanzo, dal momento che era così evidente la mia passione per la scrittura, per i libri, il desiderio di raccontare, condividere, comunicare. 

In realtà ciò che mi ha sempre frenata dal farlo, a parte l'insicurezza, la paura di fallire di fronte a un obiettivo per me significativo per una serie di ragioni, era soprattutto la mancanza di una storia. O meglio, di storie da raccontare in testa ne avevo tante, ne ho tante perché la creatività non mi manca, ma nessuna di queste aveva un'urgenza e io sono una di quelle persone che scrive solo se davvero sente di voler dire qualcosa.

Poi in questi anni, complici alcuni miei percorsi riguardo tematiche di cui ho parlato spesso anche qui nel blog, ho capito che in fondo c'era una storia che chiedeva di essere scritta perché poteva diventa una testimonianza. 

E quindi, vi presento in anteprima la copertina e il retro del mio romanzo che uscirà a breve (vi dirò poi da quando sarà ordinabile in libreria e on line) e vi riporto il testo di accompagnamento che ho scritto ieri su Fb per farvi capire meglio di che si tratta e la sinossi:

Con tanta emozione e un miscuglio di sensazioni difficili da decifrare, sono pronta a condividere con voi l'anteprima della copertina e del retro del mio romanzo che sarà pubblicato a breve da Marco Saya Editore.

È difficile lasciar andare una storia così, personale, intima, fortemente autobiografica, ma ci riesco proprio perché ora so che l'ho trasformata davvero in un romanzo, quindi Vera, la protagonista, me stessa nelle intenzioni, nel momento in cui ha preso vita sul pc è diventata anche immediatamente altro. E questo filtro che è dato dalla narrazione, e dalla finzione che sempre la accompagna, è anche ciò che ora mi consente finalmente di prenderne congedo, seppur con immenso affetto.

Vai Vera, entra nelle case degli altri e racconta la tua storia, a chi vorrà sentirla. Raccontagli di quell'estate e di come poi sei tornata a riprenderti con orgoglio quello che ti era stato sottratto: la dignità.

Questa è la sinossi, poi nei giorni prossimi magari posterò anche qualche estratto: "È l’estate del 1984. In un paesino del Lazio al confine con la Toscana, la quattordicenne Vera sperimenta la libertà insieme alla cugina Clara. La madre assume psicofarmaci come se fossero caramelle, il padre sta fuori con gli amici e rientra all’alba, le due cugine ne approfittano per star fuori fino a tardi. Le ragazze serie però rientrano a casa presto e così intorno a Vera e Clara iniziano a circolare voci, pettegolezzi, diventano oggetto di scherzi sempre più pesanti, fino alla sera in cui mentre in cielo esplodono i fuochi d’artificio accade un fatto cui Vera non riesce nemmeno a dare un nome. “Buon pane, buon vino e cattiva gente” è un romanzo di formazione postuma, sull’ingenuità adolescenziale e sui bravi ragazzi che se ne approfittano. Quando Vera tornerà al paese per due ragioni ben precise dopo decenni sarà finalmente in grado di dare un nome a quanto avvenuto quella notte, pronta non solo a elaborare il suo passato ma anche a lottare per una causa importante, quella della liberazione animale che in qualche modo sente affine a quanto le è capitato."

martedì 6 febbraio 2024

Un tempo non era così e altre amenità che riguardano la cultura patriarcale, e in più una notizia

 Quando si leggono le notizie di molestie e violenza sulle donne (vedasi altro orribile caso della ragazzina di 13 anni stuprata a Catania da un gruppo di sette ragazzi), puntualmente alcun* commentano dicendo che un tempo questi orrendi fatti accadevano meno e che oggi i ragazzi sono peggiorati ecc. 

Non è così. Le violenze e molestie sessuali ci sono sempre state, solo che un tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, non venivano nemmeno denunciate per una serie di motivi, il che contribuiva a dare una percezione più limitata del fenomeno.

Provo ad elencarne alcuni: 

Fino al 1996 lo stupro non era considerato reato contro la persona, ma solo offesa al pubblico pudore. Figuriamoci molestie o altri tipi di abusi di natura sessuale.

La mentalità era ancora più maschilista di adesso; se una ragazza veniva stuprata o fatta oggetto di violenza sessuale si pensava che se la fosse andata a cercare, che fosse "merce avariata", che stesse esagerando, che fosse consenziente, che non avesse espresso in maniera abbastanza decisa il suo "no", anche perché molte cose non si sapevano e non interessava saperle: per esempio oggi la psicologia che studia le violenze, e i traumi che ne conseguono, dichiara che quando avvengono fatti simili subentra la reazione chiamata "freezing", cioè la vittima si ammutolisce e si blocca, anche per istinto di sopravvivenza nella paura che oltre all'abuso sessuale possa venire picchiata e uccisa. 

Le famiglie spesso ripudiavano le figlie stuprate o abusate perché c'era il mito della verginità, dell'arrivare illibate al matrimonio. 

Le donne vittime di violenza, in alcuni contesti e situazioni, specialmente in passato, quando c'era meno o zero consapevolezza femminista, non di rado provano un sentimento orrendo: di esserselo in qualche modo meritato, di aver fatto qualcosa che ha incoraggiato gli aguzzini e questo le fa sentire sporche e le dissuade dal denunciare. 

Su questi argomenti, che come sapete mi stanno molto a cuore, ho scritto un romanzo, il mio primo romanzo, che uscirà a breve. 🙂

Ci tengo moltissimo e non solo perché è parecchio autobiografico, ma anche perché si interseca con la tematica antispecista. È una storia di formazione. 

Vi dirò di più nelle prossime settimane, titolo, casa editrice, sinossi, magari vi posto qualche estratto.


venerdì 2 febbraio 2024

Io Capitano

 


E mentre tutti vanno a vedere e scrivono di Povere Creature, io recupero film di qualche mese fa (pure perché qui a Viterbo non ci sono più cinema, fatto che mi rattrista molto, e quindi per vedere i film che mi interessano devo aspettare che escano su qualche piattaforma digitale). 

Io Capitano di Matteo Garrone, candidato all'Oscar 2024, presentato a Venezia lo scorso anno. 

Garrone fa un po' sempre lo stesso film, e lo fa bene, ossia si trova a suo agio nel raccontare delle favole o dei racconti epici e anche Io Capitano non fa eccezione: si tratta di una storia in cui c'è l'eroe, ci sono gli antagonisti feroci, ci sono gli aiutanti, i comprimari che nel corso del viaggio daranno una mano al nostro eroe, c'è il male e il bene e infine l'inevitabile lieto fine. 

L'eroe che si allontana da casa insieme al cugino, una casa dove tutto sommato, a differenza di altre situazioni nel mondo (perché a Garrone non interessa raccontare la realtà, le guerre ecc., ma il viaggio dell'eroe) non stava poi così male, dove aveva affetti, una famiglia amorevole, sicurezza e protezione - raccontata a tinte vivaci, colori accesi, da tenere a mente i bellissimi primi piani in cui Seydou, il nostro eroe, si appoggia alla parete di un bel verde brillante della sua cameretta mentre pensa il suo viaggio e sogna, esattamente come sogna ogni adolescente  - e inizia IL VIAGGIO, chiamato letteralmente così, con l'articolo determinativo a indicare che non si tratta di un viaggio qualsiasi, perché ovviamente non è un viaggio qualsiasi, ma è IL VIAGGIO, simbolico e reale, di formazione e iniziatico. Il viaggio di conoscenza del mondo che l'eroe compie e non per reali necessità (a differenza di quanto avviene nella realtà), ma per pura sete di conoscenza ("Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza", anche se poi Dante posiziona Ulisse all'inferno per aver osato sfidare il limite posto da Dio alla conoscenza, avendo superato le Colonne d'Ercole).

Seydou e il cugino, sebbene messi in guardia dai pericoli e dal rischio di perdere la vita, non hanno la minima idea di quello che li aspetta. 

Non voglio scendere troppo nei particolari, ma il dato rilevante è che Seydou durante il viaggio si spoglia a poco a poco della sua adolescenza e diventa uomo. Come lo diventa? Ovviamente facendo delle scelte a assumendosi delle responsabilità, tra cui la più significativa, quella di intraprendere l'ultimo tratto del suo viaggio superando la prova più grande e più difficile. Non spoilero, ma dal titolo già si capisce. 

Seydou è un eroe perché nel momento in cui decide di partire (non senza aver prima espresso paure e dubbi) porta fino in fondo la sua scelta, non si arrende, non si sposta di un millimetro, affronta e supera ogni momento difficile. Il punto di possibile non ritorno accade a metà, in pieno secondo atto drammaturgico, lì dove nella narrazione classica l'eroe incontra gli ostacoli più duri, viene sottoposto alle sfide più difficili, lì dove si decide il destino dell'eroe e si capisce di che pasta è fatto. 

Le scene nella struttura di detenzione libica in mezzo ai mostri spietati sono le più feroci e violente, anche da un punto di vista psicologico; Seydou è chiamato a lottare tra due poli emotivi opposti: la vigliaccheria e il coraggio, arrendersi o andare avanti. Il mediatore lo stordisce come le sirene con il loro canto, ma lui è irremovibile, non cede. La scena è potente perché comunica il terribile dilemma interiore di Seydou. Altrettanto potente è quella in cui, buttato in mezzo ad altri corpi, attende appoggiato a una parete verdognola scrostata, fatiscente, in questo luogo disperato e violento in mezzo al nulla: la versione infernale della parete verde della sua cameretta, ormai lontana anni luce, irraggiungibile. Il nostro eroe è qui che sperimenta il sentimento più triste, ma anche tra i più belli dell'animo umano: la nostalgia. Il desiderio potente di tornare indietro e insieme la consapevolezza che non sarà possibile. Il desiderio di casa, dell'infanzia, degli affetti perduti. E infatti, come un onironauta, Seydou di notte si alza in volo e torna, torna alla sua casa, al suo paese, dalla sua mamma. 

Qui la disperazione di Seydou si fa tangibile, è probabilmente il momento più duro sotto il profilo psicologico, ma regge, anche aiutato da un uomo che lo prende sotto la sua ala protettiva perché, si intuisce, gli ricorda il figlio sedicenne. 

"Mi hai salvato la vita", gli dice infatti Seydou. 

Il viaggio prosegue tra i mostri, gli orchi, ma anche le fatine buone, gli angeli protettivi, la forza di una solidarietà che è solo favolistica. 

Io Capitano è un film bellissimo, a patto che lo si legga, appunto come, racconto epico.

Un film che si regge esclusivamente sul viaggio dell'eroe che si dibatte tra buoni e cattivi, che affronta e supera mille ostacoli.

Un film che senza la carica, lo sguardo - che passa dall'entusiasmo ingenuo alla disperazione della conoscenza -, la straordinaria interpretazione del giovane attore che interpreta il sedicenne Seydou perderebbe parecchia della sua potenza. Seydou è bello, onesto, buono, empatico, coraggioso - e coraggioso proprio perché non si arrende nonostante la paura - responsabile e soprattutto ha fede, come ogni eroe che si rispetti, nel fato, nel destino, in Allah. La sua fede/fiducia, insieme al desiderio potente, gli permetteranno di compiere il suo destino. 

Se vi aspettate un film sui migranti, sui flussi migratori, sulla complessità e durezza di una realtà sociale, avete sbagliato film. Io Capitano è un film sul VIAGGIO di un eroe al pari di quello di Ulisse nell'Odissea. Un viaggio mitologico, una favola. 

Quindi possiamo tranquillamente respingere le critiche sul fatto che racconti solo una parte della realtà, che è infinitamente e complessivamente più dura e disperata e spesso senza lieto fine dei migranti. Nei barconi si muore, le donne vengono stuprate dagli stessi compagni di viaggio e molti rimangono intrappolati in Libia a fare da schiavi, usati come manovalanza, cosa di cui il governo è perfettamente al corrente. 

Seydou alla fine guida un peschereccio, vecchio e arrugginito, ma funzionante, non un gommone. Seydou impara, si assume una responsabilità immensa, si fa uomo e invita i compagni stanchi a fare altrettanto. Seydou è Ulisse che incoraggia e motiva i compagni. 

C'è poco di realistico in tutto ciò, ma come in ogni racconto epico che si racconti, si attinge ad archetipi viscerali, profondi, dell'umanità di sempre e per questo, nella finzione, Garrone realizza un film potente e indimenticabile. Una moderna Anabasi. Seydou non torna a casa, ma trova la sua casa perché trova e conosce sé stesso e perché non c'è viaggio più importante che possiamo fare di quello dentro di noi. Alla fine è lì che dobbiamo andare, a scoprire chi siamo.


giovedì 25 gennaio 2024

La Storia (serie tv)

La Storia, serie per la Rai diretta da Francesca Archibugi, tratta dallo straordinario romanzo di Elsa Morante, è un ottimo prodotto televisivo, pur con tutti i limiti, appunto, del prodotto televisivo. Premetto che ho visto solo i primi 4 episodi e quindi al momento il mio giudizio non può che essere parziale.

Intanto è fedelissima al romanzo (e se non l'avete letto vi consiglio di farlo prima di guardare la serie), poi è ottima la scelta del cast, quasi tutti gli attori sono calati nel ruolo e recitano bene, a parte alcune eccezioni di cui dirò poi. Una menzione speciale al bimbo che interpreta Useppe di cui riesce a rimandarci lo stesso sguardo stuporoso verso il mondo, pieno di innocenza e al tempo stesso di saggezza e conoscenza, come se già sapesse molte più cose di quelle che spetterebbe a un bambino sapere. 

I punti di forza sono quelli in cui si mette in scena la quotidianità in tempo di guerra,   i momenti di solidarietà e il vivere insieme tra gli sfollati, ma anche quelli dei legami affettivi tra Useppe e Nino, Useppe e Ida, Useppe e Eppe Tondo, Useppe, Nino e Blitz.

Buone anche le scene in cui si narrano i vari eventi storici che fanno da sfondo e che determinano le vicende di Ida, Useppe e le altre persone comuni come lei, che poi, nell'opera della Morante, sono i veri protagonisti della storia e della Storia. Appaiono abbastanza didascalici, ma appunto l'intento è quello di fornire il contesto storico per poi far procedere narrativamente gli eventi che coinvolgono Ida, Useppe e gli altri. Come nel romanzo si prediligono i momenti storici più significativi: i bombardamenti, la deportazione degli Ebrei, episodi della Resistenza e dell'organizzazione dei Partigiani. Ho trovato ben ricostruita la scena in cui Ida e Useppe vanno alla stazione di Tiburtina e assistono alla partenza del treno merci che deporta gli Ebrei. È una scena volutamente straziante il cui tragico nonsense è affidato allo sguardo incredulo di Useppe che si chiede il perché della Storia e di Ida che non sa, non può rispondergli, impotente, mentre dal cielo piovono fiocchi di cenere, particolare questo che è presente anche nel libro. 

Ovviamente non ho potuto non pensare all'analogia con i TIR che trasportano gli animali al mattatoio il cui sguardo ci interroga dalle strette feritoie attraverso cui vedranno scivolare via il mondo per la prima e ultima volta. 

L'accenno agli animali vien fatto a un certo punto quando una donna Ebrea dice "ci schedano come le bestie", ma ovviamente il paragone non rileva l'ingiustizia di quanto accade agli animali, che sono bestie e quindi è naturale e giusto che abbiano un trattamento diverso rispetto agli umani, bensì è volto a narrare l'orrore di quanto accade alle persone quando sono trattate come bestie. Forse ci dovrebbe far riflettere, ma come sappiamo ancora non avviene mai abbastanza. 

I punti che finora invece ho trovato deboli sono i dialoghi politici, soprattutto quelli tra Nino e Carlo, per non parlare dell'evoluzione politica di Nino o di Carlo quando decide di unirsi ai Partigiani: assente, nel senso che non viene narrata, ma presentata come un dato di fatto in entrambe i casi. I dialoghi affidati a Carlo e a Nino per parlare delle differenze tra comunismo e anarchia sono troppo semplicistici, così come quelli affidati a Eppe Tondo che però, essendo interpretato da Elio Germano, riesce quanto meno a risultare credibile, anzi, è un bellissimo personaggio, cosa che, mi spiace dirlo, non si può dire di Lorenzo Zurzolo che interpreta Carlo Vivaldi.

Bravissima Jasmine Trinca, anche nella scena in cui viene stuprata dal soldato tedesco. Una scena complessa, violenta e piena di tutti gli orrori della guerra, compresa l'assurdità di mandare al fronte dei ragazzi giovanissimi che agiscono come uomini feroci, ma sognano la tenerezza della mamma. In Ida non c'è rancore, accetta quanto accade, ma non per arrendevolezza, bensì perché anche lei, come Useppe, è un personaggio oltre la Storia, che quasi la travalica in una consapevolezza metafisica inesprimibile a parole, ma fatta di gesti, sguardi, abbracci. Useppe e Ida sono uguali in questo e per questo, per chi conosce il romanzo, non potrà che finire in un certo modo. 

Vedremo nei prossimi episodi se la qualità si manterrà, tornerò forse a parlarne. 

Si trova su Rai Play.


venerdì 19 gennaio 2024

Julie & Julia

 

Quando guardi un film su Netflix, Prime o altre piattaforme, esce la lista dei film con contenuti simili o che potrebbero piacerti. 

Visto che l'altra sera ho guardato Hunger, mi è stato proposto Julie & Julia, spassosa e ben diretta commedia del 2009 diretta da Nora Ephron, con Maryl Streep e Amy Adams, tratta dal libro autobiografico di Julie Powell ispirato a sua volta al suo blog di grande successo in cui si cimentava nell'impresa di rifare, entro un anno, tutte le ricette del libro della famosa e realmente esistita chef statunitense Julia Child. 

La storia, come tutte le storie, ha vari livelli di lettura e qui il messaggio sotteso è il riuscire a trovare la propria strada e fare di una passione una carriera, risultato che sia Julie che Julia ottengono. Il film si snoda infatti in due diversi momenti temporali alternando la storia di Julia Child agli inizi della sua carriera, negli anni 50, e quella di Julie Powell nel periodo subito dopo il crollo delle due torri. 

Il film è spassoso e motivazionale, o almeno è tale per la maggior parte delle persone perché, essendo un film incentrato sul cucinare ha il solito enorme problema di mostrare ogni specie di animale a pezzi ritenuta commestibile (è mai possibile che in questo genere di film non si cucini mai un piatto di verdure manco per sbaglio?).

Anche qui c'è una scena terribile, resa ancor più terribile dal fatto che sia una scena realizzata apposta per far ridere, cioè con dei momenti e battute che vorrebbero suscitare ilarità. 

In pratica Julie Powell, lavorando al proposito del suo blog, arriva al punto delle ricette di Julia Child in cui deve cucinare un'aragosta viva.

La scena è anticipata diverse volte con battute sul sentirsi "assassina di aragoste" e con il fidanzato che la motiva, il tutto sempre comicamente, come se non si trattasse realmente di uccidere qualcuno, cioè usando la stessa ironia che potremmo fare noi quando buttiamo le patate nell'acqua bollente ("assassini di patate", fa ridere, in effetti). L'aragosta è trattata alla stregua di un vegetale.

Dopo queste anticipazioni arriva il grande giorno e la nostra eroina si reca al mercato a comprare delle aragoste vive. Gliele mettono in una busta e lei inorridisce, ma non per empatia o dilemma etico, bensì per il fastidio di dover fare questa cosa di ucciderle. Apre il sacchetto e vede un'aragosta che la fissa, che muove occhi, agita chele e antenne. La richiude schifata. 

A casa tenta di seguire il consiglio della Child: uccidere le aragoste piantandogli un coltello a colpo sicuro tra gli occhi. Lei però non crede di potercela fare, quindi sceglie l'altra soluzione... e sapete bene di quale soluzione si tratti: gettarle direttamente nell'acqua bollente.

Lo fa, la scena viene mostrata, ma se non altro, essendo un film girato in America dove bisogna rispettare le norme di non maltrattare gli animali sul set (sul set! Fuori le aragoste si possono tranquillamente uccidere) si vede che sono finte o forse vere ma già morte (ma sono chiaramente vere quelle delle scene precedenti in cui vengono comprate al mercato e  messe nella busta). 

Una volta gettate nell'acqua  la nostra eroina, sentendosi finalmente sollevata nell'essere riuscita a portare a termine tale impresa, si affretta a chiudere il coperchio. Il coperchio si solleva e cade a terra, lei fugge terrorizzata, ma ecco che interviene in aiuto il prode cavaliere, cioè il fidanzato, rimettendo subito il coperchio sopra al pentolone e chiudendolo con forza onde impedire ai poveri animali di fuggire dalla pentola, con tanto di espressione soddisfatta. 

La scena ha intenzioni comiche, eppure tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla smaccata conferma dei ruoli di genere per cui alla fine il maschio uccide senza pietà mentre la femmina, che pure non prova chissà quale empatia con le aragoste, si impressiona nel farlo, così come si impressionerebbe nel dover schiacciare un grosso ragno o prendere a bastonate un topo. Infatti il sentimento descritto nella scena è solo uno: la repulsione. E la comicità è su questo che gioca e lavora: la repulsione di dover cucinare ciò che dal punto di vista della considerazione morale è equiparabile a un ortaggio, ma che presenta il fastidioso inconveniente di muoversi, agitarsi - mannaggia, proprio come il cane dell'esperimento di cui parlava Cartesio nel 600 che quando veniva bastonato attivava quel fastidioso guaito, ma, niente paura, si trattava solo di semplice meccanica, al pari del pendolo di un orologio che suona allo scoccare dell'ora -, inconveniente poi appunto risolto brillantemente grazie all'intervento del fidanzato e prova complessivamente superata alla grande con il successo della ricetta riuscita alla perfezione e tutti gli amici a cena che divorano con gusto le povere aragoste. 

Ora il punto qual è? Il punto è che qui non stiamo parlando di una scena comica di finzione che esaspera alcuni aspetti della realtà o che nella realtà non esiste; non stiamo parlando di Fantozzi che cade in maniera rocambolesca dagli scii e poi si rialza tutto ammaccato a rappresentare le sfighe del piccolo impiegato, né di Stanlio & Ollio che si prendono a torte in faccia. Qui stiamo parlando di quello che accade nella realtà: aragoste o altri crostacei bolliti vivi, pesci vivi affettati, quarti di manzi, maiali, polli interi ecc. massacrati nei mattatoi. Individui senzienti, non ortaggi, non vegetali. Individui di cui si ride. E il punto non è solo che si ride della sofferenza di un'aragosta, ma che si ride,  questo l'obiettivo finale, di chi prova empatia o si fa scrupoli di coscienza perché tutta la scena prende per il culo chi realmente avrebbe problemi a uccidere animali e non per semplice repulsione, ma per un pizzico di empatia che pure chi cucina e mangia animali, talvolta ha.  

In altre scene si mostra come disossare un'anatra, come riempire un pollo, teste di maiali e mucche appese al mercato, pesci ecc.

Una commedia come questa, che in una società normale sarebbe invece un horror, piace perché è rassicurante. Non mette in dubbio l'esistente, ma anzi lo conferma.

Va bene uccidere le aragoste gettandole in pentoloni di acqua bollente, va bene decapitare polli e disossare anatre, va bene tutto pur di inseguire il successo, realizzarsi, divertirsi. 

Il film è del 2009, non di decenni fa. E comunque anche oggi, come si è visto in Hunger,  gli animali nel cinema continuano a essere rappresentati come cibo, ossia sono semplicemente dei referenti assenti (dell'uso degli animali nel cinema ho parlato anche in un capitolo del mio libro). 

Attenzione: io non sono a favore della cancel culture. Io penso e rilevo il modo in cui gli animali sono raccontati nelle varie forme di produzione culturale. Lo faccio ovviamente al fine di mettere in discussione lo specismo, convinta che, solo rendendo visibili le ideologie oppressive violente ma normalizzate e finanche naturalizzate, le si possa combattere.

mercoledì 17 gennaio 2024

Hunger

 


Ieri sera ho visto Hunger, un film su Netflix, ambientato in Thailandia, che racconta la storia di una ragazza che lavora come cuoca senza pretese nel chiosco di famiglia. Viene notata dal sous-chef di uno chef famosissimo che cucina solo per gente ricchissima e potente che la convince a fare un tentativo per entrare nel suo team e in breve inizia il suo apprendistato presso questa sorta di divinità della cucina, tanto enigmatico, quanto scontroso e aggressivo (per usare un eufemismo).

Il film nelle intenzioni non è malvagio perché si filosofeggia sul Potere, sui privilegi dei ricchi, sulle sperequazioni sociali e sui vari simbolismi e sovrastrutture culturali legate al cibo che potrebbero essere riassunti nella frase "I poveri mangiano per riempirsi la pancia, di conseguenza il cibo deve soprattutto assolvere quella funzione, non importa la qualità, mentre i ricchi, che hanno soddisfatto il bisogno primordiale di avere la pancia piena, mangiano cibo speciale e costoso per sentirsi speciali", concetto questo ben rappresentato in sociologia dalla piramide di Maslow. 

Per farla breve, la protagonista, che vuole diventare speciale, insegue il successo come chef a costo di grandi sacrifici, ma poi capisce che non ne vale la pena e trova la giusta via. Anche perché comprende che l'essere speciali è poca cosa senza l'affetto e l'amore. 

Hunger, dunque, è un film incentrato sul cibo come metafora, sebbene si dichiari quasi immediatamente che appunto esistono due tipi di fame, quella dei poveri e quella dei ricchi, come abbiamo detto.

Il cibo dei ricchi come metafora del potere è una lettura scoperta e esplicita; quello dei poveri che può essere anche amore, idem. 

Ma veniamo al vero motivo per cui l'ho guardato: volevo capire se ci fosse una riflessione sul cibo animale, sul VERO costo del cibo non in termini di denaro, ma di vite, di individui unici e irripetibili. 

Ovviamente non c'è. 

Cucinano sempre e solo pesci e crostacei, che mostrano vivi, appena pescati, addirittura comprati direttamente sui pescherecci, e poi carne. 

In una scena si vede l'uccisione di un'aragosta. A me è sembrata reale. 

In un'altra si arrostisce l'intero corpo di un manzo. Poi gamberi, pesci di ogni tipo mostrati mentre si dibattono (a me sono sembrati tutti reali). 

L'unica scena davvero interessante, sebbene disgustosa, è quando servono a una tavolata di uomini ricchi e potenti della carne servita su una salsa rosso sangue a emulare proprio il sangue. Segue una carrellata in cui si vedono in primo piano queste bocche che masticano con avidità con tutta la salsa rosso sangue che gli cola dalle bocche. Bocche distorte, ghigni mostruosi, sguardi orcheschi, rumori amplificati. Nelle intenzioni registiche una bella metafora del Potere che divora il mondo, ma la critica sullo sterminio degli animali è assente perché anche la protagonista, l'eroina positiva della storia che rinuncia al successo e al potere per continuare a condurre la piccola attività di famiglia, cucina pesci e animali terrestri di ogni tipo. 

C'è un momento in cui l'occasione per riflettere sugli animali viene servita su un piatto d'argento: quando lo chef famoso accompagna dei ricchi cacciatori per cucinargli un uccello, appena ucciso (questo si vede che è finto) appartenente a una specie protetta, ma la nostra eroina ha una sola obiezione: è illegale. Lo chef famoso rilancia che non dovrebbe esserci differenza tra una gallina e un uccello protetto, peccato che tale spunto di riflessione non venga colto nel modo giusto (perché proteggiamo alcune specie e altre no? Solo perché alcune sono a rischio estinzione?), ma invece il tutto rimanga sul piano della legalità sì/legalità no. 

In conclusione, il film è un'allegoria smaccata ed esplicita sul Potere e il successo e su quanto si sia disposti a perdere per inseguirli. Peccato che non si rifletta mai sul vero costo del cibo animale, su ciò che realmente va perduta: la vita di milioni, miliardi di individui senzienti. 

Nota: amici e amiche antispeciste, vi avviso: ci vuole un bello stomaco per guardarlo, per noi alcune scene sono quasi insostenibili.


giovedì 11 gennaio 2024

L'ordine del tempo

 

Oggi invece NON vi consiglio un film. Ossia l'ultimo della Cavani, L'ordine del tempo. 

Un gruppo di amici, tra cui un paio di Fisici, apprende che sulla terra potrebbe abbattersi un enorme meteorite, chiamato Anaconda (sic!), che porterebbe alla fine della nostra specie. Le probabilità sono altissime. 

Sì, il pretesto è lo stesso di Melancholia di Lars von Trier, ma non solo i due film sono imparagonabili, ma direi che filosoficamente sono proprio agli antipodi. 

Melancholia immensa allegoria della depressione e del nichilismo, L'ordine del tempo invece della gioia di vivere, apprezzamento del presente, dell'amore e snocciolamento di pensierini del tipo: tanto poi, meteorite o meno, la fine arriverà comunque per tutti, se non altro a livello individuale, se non di specie, ma l'amore è l'unica forza che supera il tempo, anche se il tempo non esiste e non c'è una legge fisica che possa spiegarlo (l'amore, come l'amore superi il tempo). 

Qualcuno ha scomodato Rohmer perché è un film basato sui dialoghi tra questo gruppo di amici cinquantenni che tirano le somme della loro vita, rimpianti e progetti futuri, sempre che il mondo non finisca. 

Ragazzi, non scherziamo. Non bastano degli attori che parlano attorno a un tavolo a fare Rohmer. E nemmeno un asteroide che, forse, sta per colpire la terra a fare von Trier.

Non basta nemmeno la musica struggente a indurre la nostalgia e forse l'unica scena degna di nota è loro che ballano su Dance me to the end of love di Leonard Cohen, ché se il film fosse finito in quel modo e in quel momento, un gruppo di cinquantenni che balla in maniera un po' goffa e arrugginita (con tanto di accenno di mossetta sensuale di una) e che si prende infine scherzosamente a cuscinate mentre il mondo sta finendo sarebbe stato pure, tutto sommato, una figata. E invece no. 

Ho avuto un solo unico sussulto sul finire, quando il film avrebbe potuto avere un senso ed è nel momento in cui nel giardino della bella villa sul mare (e no, non basta nemmeno la location a fare Rohmer) entra in scena un bambino sui 10 anni. 

Ho pensato: ecco dove voleva andare a parare, il tempo non esiste, l'evento cosmico della meteora in qualche modo è avvenuto, ma non ha distrutto il mondo, ha solo riportato loro nel passato, sono di nuovo bambini, ma è bellissimo, ho pensato, stupenda allegoria del tempo che veramente non esiste, oggi siamo sul punto di morire, ma siamo anche di nuovo bambini, adolescenti, siamo tutto insieme in un'unica esplosione di vita perché l'universo si dilata e comprime. Certo, da un punto di vista della Fisica magari non ha senso, ma un finale così avrebbe funzionato, narrativamente sarebbe stato perfetto. 

E invece no, il ragazzino che entra in scena all'ultimo - ATTENZIONE STO PER FARE SPOILER - è il figlio segreto di uno dei protagonisti. 

Marò. 

Liliana Cavani, perché? 

Perché chiudere così la tua carriera? 

Nota a margine: generalmente non scrivo recensioni negative, ho sempre pensato che sia uno spreco di tempo, i film si consigliano, non si Sconsigliano e anche quando per collaborazioni con riviste mi prendevo l'impegno di recensire film che non mi erano piaciuti, lo facevo sempre con enorme rispetto, cercando di valutare le intenzioni più che la resa e mettendo in evidenza gli aspetti più riusciti e questo perché so quanto sia difficile creare, pensare, immaginare e dare vita alle storie e in qualche modo l'impegno di chi ci prova va sempre, se non proprio premiato, almeno riconosciuto e rispettato. 

Però la Cavani ha quasi 90 anni, penso che non debba dimostrare nulla e secondo me in questo film voleva dire molto, ma le è riuscito male. 

Chi voglio veramente criticare invece è chi cialtronescamente scomoda Rohmer o von Trier. 

Dai, non scrivete di cinema se non siete capaci di distinguere opere e registi così distanti.


mercoledì 10 gennaio 2024

La società della neve

 Ormai questo blog è abbandonato a sé stesso, riporto solo giusto qualcosina che voglio salvare dal susseguirsi del presente sui vari social in cui scrivo, tanto per far sì che i miei scritti non vadano perduti come lacrime nella pioggia e anche perché ormai, a parte progetti un po' più strutturati, scrivo direttamente dal cellulare e quindi non salvo nemmeno sul pc.

Detto questo, torno a parlare di cinema con un film visto di recente, anche se in verità il film che più mi ha colpito visto di recente è Speak No Evil, ma di cui non voglio parlare per una serie di motivi (troppa fatica parlare di opere polisemantiche), e invece parlerò di questo perché ci ho infilato in contropiede pure l'antispecismo, o meglio il carnismo. 



"Il passato è ciò che cambia di più". Inizia più o meno così il nuovo film, presentato allo scorso festival di Venezia, sui sopravvissuti delle Ande. 

Un fatto che all'epoca colpì il nostro immaginario e il cui clamore perdura ancora oggi. 

Lessi il libro, credo di aver visto almeno un paio di film, ma questo, dal titolo "La società della neve" è diverso per vari motivi. 

Innanzitutto la durata, 2 ore e 20, funzionale allo scopo di restituire ai protagonisti una dimensione a tutto tondo, un carattere, delle caratteristiche psicologiche e fisiche, un passato, interessi, sogni, desideri, progetti, obiettivi. Il film infatti inizia ben prima dell'incidente aereo, racconta le relazioni tra loro, con i loro familiari, fidanzate, amici. 

Poi l'incidente, certo, mostrato nei minimi particolari per il tempo, suppongo, che impiega un aereo effettivamente a cadere. A quel punto siamo dentro la storia, non più spettatori esterni, ma i vari protagonisti. 

Il resto del film è una storia di sopravvivenza dura, durissima, in cui per oltre due mesi dispersi in mezzo alla neve delle Ande hanno dovuto far fronte a fame, sete, freddo, e persino la sfiga - tragedia nella tragedia - di essere seppelliti da una valanga, nella quale il già decimato gruppo subisce ulteriori perdite. 

"Il mondo ci ha abbandonato" dice la voce narrante, ossia il racconto di uno dei sopravvissuti, il punto di vista privilegiato attraverso cui si racconta la storia e che continua a far sentire la sua voce anche dopo che è morto. 

Di diverso, dicevo, rispetto ai precedenti, è l'aver privilegiato i dilemmi etici e filosofici rispetto alla spettacolarizzazione. 

Dilemmi sul mangiare i corpi dei loro compagni morti, ad esempio, ma non solo. 

"Chi eravamo, chi siamo stati sulla neve?" e poi ancora, "Siamo tutti morti lassù, solo che qualcuno è tornato". 

Il film mi ha fatto pensare, mutatis mutandis, a "La sottile linea sottile rossa" di Malick, pur con le dovute differenze registiche, ossia l'essere umano che si pone domande su di sé, Dio o l'universo in un contesto in cui la quotidianità è stata spazzata via da fatti o contesti eccezionali. 

È un bel film che mi ha lasciato un'unica grande domanda e che si ricollega alla frase con cui il film inizia, sul passato che cambia. 

Perché io penso che in un contesto simile di sopravvivenza e trauma non ci sia stato spazio per porsi domande di quel tipo o per i dubbi etici sul mangiare la carne dei compagni morti. Io penso che le domande siano arrivate dopo, una volta riconquistata la civiltà (o presunta tale). Solo dopo avranno potuto chiedersi "Come abbiamo fatto?", ma non tanto per darsi risposte essi stessi perché loro sapevano benissimo come hanno fatto, cioè era pura fame, semplice questione di sopravvivenza, non c'era altra scelta, ma questa era la domanda che si faceva la gente e a cui hanno dovuto rispondere; gente scandalizzata e inorridita di fronte al superamento di un tabù culturale - per ovvi motivi appunto di sopravvivenza -, che però non si fa alcuno scrupolo, la gente intendo, a divorare corpi di animali e senza che vi sia motivo alcuno legato alla sopravvivenza.

Questo siamo nelle corsie dei moderni supermercati. Altro sono stati i sopravvissuti nella neve, più animali e meno umani, se vogliamo perché è l'umanità talvolta a essere feroce e non l'animalità che risponde solo alle necessità, straordinarie o ordinarie che siano.

Non chiediamoci allora, come hanno fatto loro, come hanno potuto loro, bensì, come possiamo noi oggi divorare i nostri fratelli animali. E senza che vi sia necessità. 

La società della neve, tratto dall'omonimo romanzo, lo trovate su Netflix e ve lo consiglio.