sabato 18 maggio 2019

Un caso emblematico di specismo

Dalla pagina NOmattatoio

Un caso emblematico di specismo è quanto è accaduto in una scuola elementare di Gioia Tauro: un gattino, "reo" di essersi introdotto all'interno dell'edificio, è stato ucciso a bastonate dal bidello.

Quello su cui ci preme soffermarci è anche la narrazione che ne è stata fatta dalle principali testate giornalistiche, e relativi commenti da parte di moltissime persone. A scandalizzare infatti non è stato tanto il fatto in sé, ritenuto quasi normale nella nostra società che attribuisce giudizi di valore in base all'appartenenza di specie, quanto che sia avvenuto davanti a dei bambini; in altre parole, non è tanto l'azione di efferata violenza su un individuo inerme che si denuncia, ma il possibile trauma che dei bambini potrebbero aver riportato. Rimane centrale l'interesse delle persone umane rispetto a quello di altri individui appartenenti ad altre specie.

Narrazioni simili avvengono continuamente, ossia si condanna la violenza sugli altri animali poiché non educativa, traumatica, o perché potrebbe fungere da palestra alle desensibilizzazione; argomentazioni validissime, ma ancora una volta sbilanciate verso gli interessi umani.

C'è inoltre un'ulteriore considerazione da fare: la notizia ha avuto una certa risonanza ed è stata battuta da tantissimi siti di informazioni poiché comunque la vittima appartiene alle cosiddette specie ritenute "d'affezione" verso cui abbiamo sviluppato un minimo di sensibilità e senso di familiarità. Se si fosse trattato di un serpente, un topo o un cinghiale o qualsiasi altro animale appartenente a specie ritenute - sempre in base a considerazioni di natura specista, ossia che tengono in considerazione esclusivamente i nostri interessi - dannose o pericolose, non se ne sarebbe nemmeno parlato. Difatti, siffatti episodi di violenza verso alcune specie avvengono quotidianamente, anche davanti ai bambini, ma nessuno ci fa caso, talmente sono normalizzati. Si uccidono insetti, si procede a derattizzazioni e simili, si scacciano individui in malo modo senza che tutto ciò costituisca un problema morale e senza che se ne percepisca la violenza.

L'episodio racchiude quindi una triplice valenza specista: a) si è ucciso un gatto e lo si è fatto poiché uccidere un animale non costituisce un problema morale particolarmente grave ed è considerato a livello giuridico un reato minore rispetto a quello di uccidere persone umane; b) se ne parla perché uccidere un gatto è ritenuto comunque leggermente più grave rispetto a uccidere uno scarafaggio, fatto che invece non avrebbe nemmeno costituito una notizia; c) se ne parla comunque sempre relativamente agli interessi degli umani, ossia considerandolo un fatto grave poiché avvenuto in presenza di bambini, il cui interesse e la cui tutela meritano attenzione in modo prioritario, persino rispetto al valore della vita stessa dell'animale, che così finisce per passare in secondo piano.

Ciò che dovremmo imparare a condannare e a delegittimare è la violenza sugli altri animali, tutti, in quanto tale e non soltanto perché dannosa o diseducativa per noi umani.

Per leggere la notizia: https://bit.ly/2WcYBvg

domenica 5 maggio 2019

What will people say


"What will people say" è un'opera potente e sconvolgente ispirata alle vicende realmente accadute alla regista Iram Haq, cresciuta a Oslo, di origini pakistane. 
La protagonista Nisha vive una doppia vita: fuori da casa è una ragazza che vive come i suoi coetanei norvegesi, studia, ha un ragazzo e amiche, va alle feste, si diverte, indossa abiti occidentali; dentro casa è costretta a osservare le tradizioni della cultura d'origine. Quando il padre la sorprende insieme al suo fidanzato viene sottoposta a una punizione esemplare: forzatamente condotta in Pakistan e abbandonata presso dei parenti in un paesino a 350 km dall'aeroporto.
In seguito a un tentativo di fuga non andato a buon fine il suo passaporto viene bruciato e Nisha è obbligata ad adeguarsi alle norme della cultura locale che impongono alle donne di vivere secondo i valori dell'Islam tradizionale.
Trova conforto nell'amicizia con il cugino che in poco tempo si trasforma in una storia d'amore tenera e ingenua; accusata di averlo sedotto e di un comportamento nuovamente disonorevole per la famiglia, viene riportata in Norvegia, dove sarà tenuta sotto stretto controllo dal padre, in un regime di semi-reclusione. Intervengono i servizi sociali per l'infanzia, a conoscenza di un'email che era riuscita a scrivere quando si trovava in Pakistan in cui dichiarava di essere stata rapita e di trovarsi in pericolo. 
La famiglia, resasi conto di trovarsi in una situazione difficile, la sottoporrà a nuove prove difficilissime.

Il film mantiene una tensione narrativa per tutta la durata e sottopone lo spettatore a diversi interrogativi e riflessioni. 
La costrizione e violenza cui viene sottoposta Nisha sono culturalmente accettate, normalizzate e si scontrano con il sistema di valori occidentali che, per quanto ancora patriarcali e maschilisti, purtuttavia consentono, a noi donne, ampi margini di libertà d'azione, ma, come ho detto tante volte, quando si parla di libertà di scelta e d'azione bisogna anche tener conto del contesto culturale entro cui ci formiamo e muoviamo, ragion per cui nemmeno noi donne occidentali possiamo dirci del tutto libere nel momento in cui veniamo letteralmente addestrate a pensarci in un certo modo. Certo, oggi non veniamo obbligate a matrimoni riparatori e combinati se solo veniamo scoperte a baciarci con un ragazzo, né veniamo allontanate e tenute recluse se non adempiamo agli obblighi della tradizione religiosa, ma i femminicidi sono all'ordine del giorno e veniamo derise, bulleggiate o addirittura allontanate dalla comunità sociale più ampia se non rispettiamo determinati canoni di comportamento ed estetici. 
Ciò che sconvolge di questo film quindi non è soltanto la vicenda raccontata, tanto più se si pensa che è ispirata appunto alla biografia della regista e che, come lei stessa ha dichiarato, fatti simili avvengono ancora oggi, ma anche il fatto che, in modo sottile, sappiamo che le differenze sono solo di grado.
Il filo comune conduttore tra due culture così diverse c'è ed il patriarcato. 
Nisha siamo noi. Lo sguardo incredulo, impotente e terrorizzato di fronte alle fiamme che bruciano il suo passaporto è probabilmente lo stesso di ogni donna che diviene oggetto di stalking e minacce e che si sente presa in una trappola da cui nemmeno le autorità, per lassismo e inadempienze delle leggi, possono salvarla. 
Il sentimento predominante durante la visione è appunto quello dell'impotenza. Ed è un'impotenza che di fronte alla prepotenza e violenza maschili tutte noi conosciamo bene. Ma sotterraneamente emerge anche dell'altro: il desiderio di lottare, la voglia di ribellarsi, l'urgenza a farlo, a rischiare la propria stessa vita, pur di cambiare le cose. Se non per se stesse, almeno per le generazioni successive. 
Nisha che guarda un'ultima volta la sorellina minore, sul finale, è un pensiero rivolto al domani. Un domani cui, si spera, anche il padre sarà pronto ad accogliere.

Il film è stato proiettato al Nordic Film Fest che si è tenuto a Roma dal 2 al 5 maggio (oggi ultimo giorno) e alla proiezione era presente la regista che ha risposto a diverse domande del pubblico. Le ho chiesto proprio questo, ossia se oggi la situazione fosse diversa, se le nuove generazioni delle comunità pakistane in Europa fossero più permissive nei confronti delle donne. Mi ha risposto che purtroppo non è così, casi come quello di Nisha avvengono ancora oggi. O ci si adegua alla cultura d'origine, o si va incontro a punizioni durissime che prevedono anche la morte, pure se, ovviamente, ciò dipende da famiglia a famiglia. 
Mi chiedo quale lavoro dovremmo e potremmo fare: sicuramente offrire a queste donne servizi di ascolto e di emergenza. Ma soprattutto lottare per distruggere la cultura patriarcale e le religioni propugnando il femminismo radicale e i valori laici.