martedì 24 dicembre 2019

Linguaggio e visione del mondo


Ieri ho discusso con una persona che ha manifestato un evidente fastidio di fronte alle mie parole "animali morti ammazzati nel piatto" poiché tale fraseggio allontanerebbe le persone dal veganismo e sarebbe più utile continuare a dire "carne".



Certamente ricordare che quelli che si hanno nel piatto sono individui ammazzati disturba perché per un momento ricompone quella frattura cognitiva che abbiamo interiorizzato sin da quando siamo nati e che ci portiamo dentro da secoli come eredità culturale, ma è proprio ciò che si deve fare, ossia ricomporre l'individuo senziente che è stato al pezzo di carne che abbiamo nel piatto. Questo, ovviamente - questa momentanea e per molti fastidiosa "epifania" - non risolve il problema dello specismo perché gli altri animali continueranno a essere percepiti come esseri inferiori che secondo la morale comune è giusto sfruttare e uccidere, però pone delle domande, degli interrogativi, costringe a testare la validità delle giustificazioni.



Proprio per questo io suggerisco quindi di non usare il termine "carne" e proprio perché è un termine ormai neutralizzato dal punto di vista del significato e di ciò che evoca, che appartiene a un'area semantica cui fanno riferimento altri termini che afferiscono al cibo, al prodotto e quindi svincolati da ogni quesito morale. La "carne" è un alimento, si compra al supermercato, i nostri genitori ce l'hanno data sin da quando eravamo bambini, con amore e affetto, per nutrimento e necessità, è un prodotto che si accompagna alla socializzazione, alle serate con amici e molto altro ancora: sono questi i significati inscritti nel termine.



Invece usare altre parole, più aderenti alla realtà e afferenti ad aree semantiche differenti, costringe a pensare. Mette in discussione il noto, la normalità, si riconnette ad altre associazioni verbali e visive.



Non date retta ai carnisti quando vi suggeriscono di parlare in un altro modo poiché, secondo loro, funzionerebbe di più. Quello che in realtà vi stanno dicendo è: noi continuiamo a essere le persone normali di sempre che mangiano la carne, voi siete i pazzi estremisti che osano disturbare questa rassicurante certezza dicendoci che stiamo mangiando dei cuccioli o i prodotti di esseri schiavizzati.



Forse, finché vivremo, non riusciremo a vedere cambiamenti significativi nel modo di trattare gli animali, ma almeno avremo contribuito a modificare un minimo la coscienza collettiva e il pensiero. Lingua e pensiero sono strettamente collegati. Quando pensiamo usiamo la parole. Senza il linguaggio, noi specie umana, non riusciamo a pensare. Ed è ciò che evoca un termine anziché un altro a costringerci a pensare un qualcosa di preciso anziché altro.



Quando qualcuno ci dice "non devi usare questa espressione" in realtà ci sta dicendo "non devi parlare di questo, non devi pensarci, non devi parlarmene". Vuole imporci la sua visione del mondo.

Ma come attivisti antispecisti noi abbiamo il compito di infrangere e mettere in discussione questa visione.

domenica 22 dicembre 2019

Ancora sullo specismo

Lo specismo si manifesta in tanti modi, per esempio anche affermare che alcune specie siano utili perché significa continuare a vederle in un'ottica utilitaristica, funzionale a qualcosa che porti un qualche beneficio, alla nostra specie o all'ambiente in generale.

Dire di dover proteggere i pipistrelli perché mangiano le zanzare o i gatti perché mangiano topi (e c'è chi addirittura adotta gatti a questo scopo) non è molto diverso dal dire di voler prendere un cane per fargli fare la guardia o una gallina per farle produrre uova. Solo che nei primi casi lo specismo interiorizzato è più subdolo.

Un'altra manifestazione di specismo è quella di prendere a odiare alcune specie poiché secondo alcuni sarebbero predatrici di altri animali e altererebbero gli ecosistemi locali, quindi dannosi. Il danno è l'altra faccia dell'utile.

La specie che più di tutti altera gli ecosistemi - ma che ve lo dico a fare, è cosa nota - è la nostra perché abbiamo mezzi e tecnologie molto impattanti; oltre a ciò siamo la specie che si sposta di più, che viaggia, e che fa viaggiare merci, quindi anche sementi, frutta e verdura (e, ahimè, animali che poi verranno trasformati in prodotti), i quali contengono uova di piccoli animali, parassiti o semi di piante alloctone; la specie che più modifica in modo significativo gli ecosistemi è la nostra. Eppure mai ci sogneremmo (nemmeno l'ecologismo più radicale lo fa, alla faccia della pretesa di essere antispecista) di dire che dovremmo procedere ad abbattimenti selettivi e anche della riduzione delle nascite, alla fine, parlano tutti in teoria, ma nei fatti, nessuno rinuncia davvero a fare figli se ne ha voglia, cioè per un mero interesse altruistico di rispetto del pianeta.
Questo perché ovviamente riconosciamo il valore della nostra vita e lo poniamo al di sopra di tutto, ma non facciamo altrettanto per quella delle altre specie.

Smettiamola almeno di inventarci presunte pericolosità o, al contrario, utilità, negli altri animali.

Gli altri animali non sono né pericolosi o dannosi, né utili. Esistono. Punto. E come tali dovremmo rispettarli.

L'antispecismo è un nuovo modo di ragionare e guardare gli altri animali, non più considerandoli in un'ottica di presunta utilità o dannosità, ma come soggetti che meritano di vivere di per sé.

giovedì 19 dicembre 2019

Cos'è lo specismo?

Lo specismo ha una semplice idea alla base: quella dell'inferiorità degli altri animali.

Si tratta di un pregiudizio culturale profondo che poi ne giustifica ogni tipo di sfruttamento, abuso, violenza, ma anche indifferenza e comunque esclusione dalla sfera morale dei diritti. È ozioso stare a chiederci quando e come questo è avvenuto e se mai avesse potuto essere effetto di qualcos'altro perché nei secoli oramai è diventata una causa funzionale e bastevole a sé stessa per continuare a giustificare il trattamento ignobile che riserviamo agli animali.

Quando parlo di trattamento ignobile non mi riferisco soltanto allo sfruttamento degli animali per trarne profitto (allevamenti, macelli ecc.), ma all'insieme di pratiche che adottiamo nei loro confronti: derattizzazioni, disinfestazioni, abbattimenti selettivi o meno, caccia e pesca cosiddette sportive, indifferenza nei confronti delle loro malattie, patimenti, fame, sete, infortuni, incidenti, compravendita di cuccioli, uccellerie, mercificazione di ogni tipo, ma anche pietismo, o, al contrario, attribuzione di qualità magiche, simboliche e comunque in generale il sentimento di essere in qualche modo superiori.
Tutto questo è lo specismo ed è questo che dobbiamo cambiare culturalmente perché è inutile mostrare le sofferenze di cui sono vittime dentro gli allevamenti e i mattatoi se in qualche modo continua a persistere la convinzione radicata che essi siano comunque inferiori e quindi sacrificabili per i nostri interessi poiché le loro esistenze hanno meno valore.

In questi giorni, come ho scritto in qualche post sotto, sto rileggendo 1984 di Orwell. Un romanzo del secolo scorso, non del seicento e nemmeno ottocento. Eppure, quanto specismo trapela da quelle pagine, nonostante sia un romanzo meraviglioso.
Tutto ciò mi ha dato la misura di quanto, ancora nel secolo scorso e purtroppo tutt'oggi, non abbiamo modificato di una virgola la concezione dell'animale-macchina introdotta da Cartesio nel 1600.
Orwell scrive, a proposito della Neolingua: anatrare, cioè starnazzare in modo meccanico come un'anatra.

Ancora nel secolo scorso, ma quel che è peggio ancora oggi, non si riconosce agli altri animali nemmeno la capacità di comunicare: essi emettono versi, in modo ridotto, meccanico, istintivo, per richiamare i piccoli, al massimo, o per esprimere paura. Quando raccontiamo le loro gesta facciamo riferimento all'istinto, non gli riconosciamo intelligenza o azione intenzionale. Solo istinto.
Tutto questo è lo specismo: l'ignoranza sugli altri animali, l'esaltazione della nostra specie in opposizione alla loro denigrazione, e la diversa considerazione morale che ne derivano, anzi, l'esclusione proprio della loro esistenza dalla morale poiché sono oggetti, o al massimo esseri inferiori da tutelare giusto un po', giusto per mostrarci magnanimi (ancora una volta esaltando noi stessi).

Dobbiamo combattere questo. Lo specismo.
Come? Raccontando la verità sulle altre specie, su questi individui, chi sono, cosa fanno, come vivono.

L'antispecismo deve partire da qui, dal riconoscimento della loro capacità di avere esperienza del mondo - questo significa essere senzienti - per arrivare a una considerazione morale paritaria alla nostra.

martedì 17 dicembre 2019

Diciassette dicembre


Cari mamma e papà, il mio primo compleanno senza di voi. Senza l'immancabile telefonata mattutina in cui mi cantavate gli auguri e mi chiedevate come avrei festeggiato.
Per tanti anni l'ho festeggiato anche con voi, quanti bei compleanni, poi, crescendo, questa abitudine si è andata un po' a perdere, ma non ve la prendevate perché per voi l'importante era che stessi bene io.
In questa giornata mi avete spesso raccontato la mia nascita, un po' turbolenta e difficile perché sono venuta al mondo con due mesi di anticipo e quindi è stato necessario ricoverarmi in ospedale, in un altro ospedale, più attrezzato, quello di Viterbo, per mettermi in incubatrice.
Non ascolterò più dalle vostre labbra i particolari minuziosi di come mi avevano sistemata in una scatola delle scarpe avvolta nell'ovatta e con una borsa dell'acqua calda su un lato per tenermi calda e poi trasportata con la macchina di un amico perché l'ambulanza, per le stradine tortuose che portano da Acquapendente a Viterbo, ci avrebbe messo troppo. E poi c'era la neve... la neve, la neve, un particolare significativo, e forse, se non ricordo male, l'ambulanza sarebbe dovuta arrivare da Viterbo e poi tornare indietro, un lasso di tempo troppo lungo per una bambina che pesava solo un chilo e due. La tua coscia grande quanto il mio dito mignolo, dicevi, papà.

Le acque che si son rotte senza alcun preavviso e il panico che fosse davvero troppo, troppo presto, la corsa in ospedale, un battesimo veloce, "la bambina potrebbe morire", aveva detto l'ostetrica. Le strade già bianche, ma in qualche modo a Viterbo ci sei arrivata, mi raccontavate, e ci sei stata due mesi e mezzo, prendendo il latte che mamma si tirava via col tiralatte e poi faceva recapitare in ospedale o ti portava direttamente. Per due mesi ti ho guardata attraverso un vetro. Questa cosa me la dicevi sempre, mamma. Ti guardavo e piangevo, giù le lacrime sulle guance, la paura che morissi, il dolore di non poterti tenere, abbracciare, portare a casa, ma il pediatra mi diceva di non disperare perché eri forte e combattiva. La mattina di Natale ti ho trovata con un fiocco rosso in testa, appiccicato con del sapone sulla testolina senza capelli. Te l'aveva messo un'infermiera e ti mostrò a me attraverso il vetro, dicendomi "la vede quant'è bella?" per tirarmi un po' su.

Sono queste le cose che mi raccontavate, più o meno queste, variando ogni volta qualche particolare, quello sull'orario di nascita, ad esempio, che non mi avete mai saputo dire con precisione. Quello che non variava mai era l'amore che traspariva dalle vostre parole quando ricordavate tutto ciò.

Questo amore oggi mi manca, mi manca moltissimo. Ma in qualche modo sono arrivata fin qui, proprio come quel diciassette dicembre di cinquantuno anni fa arrivai a Viterbo e come ce la feci allora, passando anche attraverso una malattia infettiva che mi indebolì ulteriormente, ce la farò stavolta.
Ah, e la neve mi piace sempre tanto. A volte la sogno e quando la mattina mi sveglio so che quella sarà una giornata fortunata.

Foto presa dal web.

domenica 15 dicembre 2019

Voci nella notte

L'altra notte, nella fase di dormiveglia, ho sentito distintamente nelle orecchie la voce di mio padre, mi diceva qualcosa che non ho fatto in tempo ad afferrare, e poi è svanita.
Un colpo sordo al cuore, la sensazione di precipitare come in un abisso, rammentandomi che non l'avrei mai più sentita, né la sua, né quella di mamma, mi hanno fatto ripensare a questo racconto di Buzzati.

Il registratore

"Le aveva detto (a bassissima voce) l'aveva supplicata sta zitta ti prego, il registratore sta registrando dalla radio non far rumore lo sai che ci tengo, sta registrando Re Arturo di Purcell, bellissimo, puro. Ma lei dispettosa menefreghista carogna su e giù con i tacchi secchi per il solo gusto di farlo imbestialire e poi si schiariva la voce e poi tossiva (apposta) e poi ridacchiava da sola e accendeva il fiammifero in modo da ottenere il massimo rumore e poi ancora a passi risentiti su e giù proterva, e intanto Purcell Mozart Bach Palestrina i puri e divini cantavano inutilmente, lei miserabile pulce pidocchio angustia della vita, così non era possibile durare.
E adesso, dopo tanto tempo, egli fa andare il vecchio tormentato nastro, torna il maestro, il sommo, torna Purcell Mozart Bach Palestrina.
Lei non c'è più, se ne è andata, lo ha lasciato, ha preferito lasciarlo, lui non sa neppure vagamente dove sia andata a finire.
Ecco Purcell Mozart Bach Palestrina suonano suonano stupidissimi maledetti nauseabondi.
Quel ticchettìo su e giù, quei tacchi, quelle risatine (la seconda specialmente), quel raschio in gola, la tosse. Questa sì, musica divina.
Lui ascolta. Sotto la luce della lampada, seduto, ascolta. Pietrificato sulla vecchia sfondata poltrona, egli ascolta. Senza muovere menomamente alcuna delle sue membra, siede ascoltando: quei rumori, quei versi, quella tosse, quei suoni adorati, supremi. Che non esistono più, non esisteranno mai più."

sabato 14 dicembre 2019

L'importanza della lingua e del linguaggio


Un estratto dall'Appendice che spiega come funziona la Neolingua in 1984 di Orwell.
Forse la parte più terrificante ed esplicativa del libro. Tutti dovrebbero leggerla (l'intera Appendice, non mi riferisco solo a questa pagina introduttiva) perché evidenzia la stretta correlazione tra pensiero e linguaggio.
Un vero e proprio trattato di filosofia del linguaggio.

Ho capito anche perché non mi è mai piaciuto usare gli asterischi: perché restringono le possibilità di una lingua, eliminano le differenze.
Tutte le lingue dei regimi totalitari fanno questa cosa qua: usano acronimi,  abbreviazioni, aboliscono parole, abituano le persone a esprimersi e comunicare in un certo modo per indurle a pensare in un certo modo.
A volte leggo dei comunicati che sembrano scritti con lo stampino, stessi termini, sintassi monotona, piatta. Comunicati ideologici che con il tempo abituano a usare in modo automatico e rigido certe espressioni.
Questo impoverisce il pensiero, l'immaginazione, la libertà di ragionare con la propria testa.
Non fatelo: pensate prima di scrivere e di parlare, non usate slogan, non affidate le vostre idee a un gergo solo perché qualcuno vi ha detto che è politicamente corretto. Trovate una vostra voce, sforzatevi di non tirare fuori la prima parola che vi viene in mente, ma cercate un sinonimo, affidatevi alla creatività.
Vale per ogni tematica che state affrontando, l'antispecismo, ma anche la comunicazione di tutti i giorni; a maggior ragione nella scrittura creativa, non usate metafore stantie, soffermatevi sulla scelta di un termine, anche una giornata intera, se necessario. Che le vostre scelte siano le più vicine possibile al vostro sentire interiore e che il sentire interiore non sia un'immagine che si è creata nella vostra mente in modo automatico perché anche quello potrebbe essere il risultato di una povertà di pensiero dovuto alla povertà di linguaggio, specialmente oggi, nell'epoca dei social e quando si legge poco.
Rifiutate i luoghi comuni, le frasi fatte, le abbreviazioni, gli acronimi, i modi di dire.
Che il vostro parlare e scrivere sia la vostra voce e non quella di un movimento o di un partito o di un'ideologia.
Non c'è nulla di più brutto di un parlare ideologico.

P.S.: leggete leggete leggete la buona letteratura, i classici, soprattutto e i grandi autori moderni, novecenteschi. Chi legge tanto assimila nuovi termini, velocizza il pensiero, mette in moto le idee, l'immaginazione, stimola la creatività.
Ah, se non l'avete ancora fatto, leggete, ovviamente, 1984.

giovedì 12 dicembre 2019

Ancora sulla teriofobia

Uno dei tasselli che tengono insieme quell'insieme di pratiche e narrazioni culturali che definiamo specismo è la teriofobia, che significa, letteralmente, paura degli animali, degli altri animali, certamente, ma anche degli animali che siamo stati, dell'animalità che ci portiamo dentro e che nei secoli è stata definita negativa, sbagliata, sporca, degradante in opposizione al concetto di umanità, cui abbiamo riservato invece tutta una serie di caratteristiche positive.


La teriofobia si manifesta ogni qual volta si inventa la pericolosità di alcune specie selvatiche che, per motivi diversi, convivono nei territori urbani. Spesso si strumentalizzano i bambini affermando che queste specie sarebbero pericolose per loro.

Ora c'è il caso di una scuola in cui hanno nidificato degli aironi e quindi si vorrebbero allontanare poiché ritenuti un pericolo. A Roma sono frequenti i casi in cui si sono lamentate aggressioni di gabbiani, o di altri animaletti selvatici. In questo periodo la Raggi ha emesso un'ordinanza che dice che si possono abbattere i cinghiali che si avvicinano ai centri urbani. In Trentino Alto Adige si abbattono gli orsi. Addirittura, nella mia esperienza da gattara, non vi sto a raccontare quante volte mi son sentita dire che i gatti sporchino o siano un pericolo. Per non parlare dei gesti scaramantici che fanno certuni quando avvistano un gatto nero, e non parlo di vecchietti o persone ignoranti, ma anche di giovani laureati.


Il comune denominatore di tutto ciò è sempre la teriofobia, ossia la paura degli altri animali quando non si possono controllare, quando sono liberi, quando non sono tenuti in schiavitù dentro gabbie e recinti. L'animalità va bene solo se ingabbiata - la nostra compresa - controllata a vista, meglio ancora se produttiva. Un animale libero, se non produce, se non è funzionale a una qualche forma di profitto, è solo un nemico da abbattere.

Non va bene che i gabbiani volino sopra i cieli di Roma, non va bene che gli squali nuotino nei mari, non va bene che gli orsi vaghino nei boschi. Gli animali fanno schifo, sono sporchi, pericolosi.
Ma i mattatoi e gli allevamenti sono il segno della nostra civiltà, pardon umanità.


Di teriofobia avevo parlato anche qui e qui.

sabato 7 dicembre 2019

"Sei bellissima!"

Apprezzo le buone intenzioni di alcuni uomini nel voler combattere i mortificanti canoni di bellezza imposti da una cultura misogina e maschilista, ma quello che davvero bisogna combattere non è il canone in sé, ma il concetto di bellezza associato alle donne.

Si leggono spesso frasi come: tutte le donne sono belle, la bellezza di una donna ecc. (e purtroppo spesso abbinate a immagini stereotipate di donne con bambini in braccio, a riconfermare il binomio donna=madre) ed è proprio questo che implicitamente e profondamente riconferma la natura discriminatoria della donna oggetto ornamentale agli occhi del maschio di turno.

Perché non si dice mai, un uomo è bello anche se ha un po' di pancetta, la bellezza degli uomini, belli anche con dei kg in più ecc.? Perché il concetto di bellezza non è mai assimilato agli uomini: non gli è mai stato chiesto di essere belli esteticamente, ma semmai di successo, prestanti ecc.
Non ho mai visto riviste maschili che spieghino agli uomini come essere belli.

Ecco, bisogna quindi combattere alla radice questo fatto qui, ossia l'idea malsana che una donna debba comunque essere bella. Siamo persone, non oggetti, non paesaggi da ammirare, non soprammobili.

Bellezza e donna è il binomio da abbattere.

P.S.: e anche noi donne dovremmo smetterla di farci complimenti sempre incentrati sulla bellezza. Gli uomini mica si dicono: "sei bellissimo!".