lunedì 28 luglio 2014

Una risposta a Renato Massa che ha definito "l'animalismo estremista: una patologia sociale"


Il sistema più comune ed efficace per indebolire un movimento consiste nel ‘far fuori l’ambasciatore’.  

Se si discredita chi comunica il messaggio, esso perde credibilità. Questa strategia si traduce molto spesso nella traduzione di stereotipi negativi riguardanti gli attivisti come quelli dell’amante degli animali piagnucoloso o del misantropo incazzoso. Tali cliché suggeriscono che il movimento è irrazionale e ostile nei confronti degli ‘outsider”, sposta il focus su immagini distorte degli attivisti, distrae dal problema vero, denigra l’emotività di quella che in fin dei conti è una mera questione emozionale, e può mettere a tacere gli attivisti facendoli sentire delle mammolette.” 

(Melanie Joy – Finalmente la liberazione animale! – Edizioni Sonda, traduzione di Simone Buttazzi)

L’autore del pezzo in oggetto, Renato Massa, anziché confutare un’idea tramite argomentazioni preferisce, con un goffo duplice salto mortale, saltare la stessa a piè pari, avvalendosi di alcuni stratagemmi retorici, due in particolare.

Il primo è quello della creazione di un mostro, “l’adepto psicopatico” (scrive proprio: ” Gli adepti – dobbiamo dirlo con chiarezza – sono essenzialmente persone psicopatiche”) – definito tale per sport, sembrerebbe, in quanto immagino che egli non abbia gli strumenti per poter definire una persona psicopatica e, qualora ne avesse, sarebbe stato appunto interessante che egli avesse approfondito e spiegato i motivi che lo hanno portato a una così violenta e definitiva conclusione (tralasciamo inoltre che qui addirittura ci si azzarda a definire tale un’intera categoria di persone);  per di più, “l’adepto psicopatico” sarebbe a suo dire privo di qualsivoglia istruzione scientifica (da qui debbo dedurne che egli, il Massa, conosca per filo e per segno il curriculum vitae di ogni animalista), detto in altre parole: si costruisce ad arte uno stereotipo, una maschera ridicola e caricaturale, e la si appiccica addosso alla persona che si intende denigrare perché quel che conta – lo scopo di tale operazione artificiosamente retorica – non è discutere un’idea, ma squalificare la persona che ne è portatrice onde squalificare l’intera galassia (stratificata, diversificata ecc.) di cui fa parte.

Continua su Gallinae in Fabula.

domenica 27 luglio 2014

"Sbatti il mostro in prima pagina"

"L'azione dei media è quella di far accadere le cose piuttosto che di darne conoscenza."

Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964

Recuperato un testo acquistato la scorsa primavera presso un centro sociale per una serata NoTav in cui era ospite Erri De Luca. Si chiama "Nemico Pubblico" e racconta la storia (VERA, perché quella raccontata dai media è stata costruita per creare un mostro) di Marco Bruno, il ragazzo che "osò" (il mio "osò" è ironico, anzi, sarcastico) chiamare "pecorella" un poliziotto armato fino ai denti, col volto coperto, chiamato a svolgere il proprio "dovere" di disperdere - usando gas (tossici, del tipo vietato nell'EU), manganelli e forza bruta - i manifestanti che avevano bloccato l'autostrada.
Perché Marco è stato dipinto dai media come un mostro? Ovvio, perché dopo il caso avvenuto il giorno precedente dell'altro ragazzo, Luca, che per difendere la valle era salito sul traliccio elettrico e poi era caduto - rischiando la vita (109 giorni in ospedale), a causa dell'inseguimento delle forze dell'ordine fatto senza mettere in sicurezza il posto, senza chiamare i vigili del fuoco, senza rete di protezione ecc. - c'era bisogno di soffocare la crescente simpatia e sostegno popolare al movimento NoTav e quale occasione migliore del discorso di Marco, riportato tagliato e monco della parte finale, per farlo apparire come un movimento violento, irrazionale ecc.? 

Caso vuole che in questi giorni stia leggendo anche "Finalmente la liberazione animale!" di Malanie Joy e trovo che ci sia una continuità tra i due movimenti, seppure specifici e diversi, continuità quanto meno da ravvisare nei metodi che il sistema (e i media) adotta per reprimere qualsiasi istanza e movimento che si opponga allo status quo.
Uno dei metodi più usato ed anche più efficace per distruggere un movimento, dice la Joy, è quello di farne apparire i rappresentanti come degli invasati, violenti, irrazionali o, nel caso degli animalisti, come delle mammolette ultrasensibili che si lasciano intenerire dagli animaletti graziosi anziché occuparsi di problemi più seri. 
Credo sia importantissimo sapere quali metodi e strategie adotta il sistema per difendere il proprio status quo, non di meno che migliorare i nostri. 

Quindi consiglio la lettura di entrambi i testi.

P.S.: Nemico pubblico non è in vendita presso i canali ufficiali, ma circola durante le serate organizzate per raccontare il movimento NoTav e credo che ovviamente si possa ordinare attraverso i siti di informazione dello stesso. Da antispecista, l'unico appunto che mi sento di fare a Marco è quello di aver usato un nome comune di animale per rappresentare vizi e squallide rappresentazione di potere tutti umani; appunto che rivolgo anche al sottotitolo del testo Nemico pubblico ("pecorelle, lupi e sciacalli"). Ma so, almeno così si legge nel testo, che tale critica gli è già pervenuta da antispecisti interni al movimento NoTav.

martedì 15 luglio 2014

Letture in corso

E che letture! 
Da Middlesex di Jeffrey Eugenides, premio Pulitzer 2003. Storia bellissima, scrittura superba. 

"Notizia storica: gli uomini smisero di essere umani nel 1013, l'anno in cui Henry Ford fece assemblare le vetture sul nastro trasportatore e costrinse gli operai a adeguarsi alla velocità della catena di montaggio. All'inizio gli operai si ribellarono. Lasciarono il lavoro in massa, incapaci di adeguare il corpo al nuovo ritmo della modernità, poi la capacità di adattamento prese il sopravvento: l'abbiamo ereditata più o meno tutti, basta guardare come ci adattiamo all'uso di joystick e telecomandi e a mille movimenti ripetitivi. 
Ma nel 1922 essere una macchina era ancora una novità. 
Dentro la fabbrica mio nonno fu addestrato in diciassette minuti. Parte della genialità del nuovo metodo di produzione consisteva nella divisione del lavoro in compiti che non richiedevano alcuna abilità. Così si poteva assumere personale non qualificato. E licenziarlo senza problemi. Il caposquadra mostrò a Lefty come prendere un cuscinetto dal nastro trasportatore, rettificarlo sul tornio e rimetterlo a posto. Con un cronometrò misurò i tentativi del nuovo operaio poi, con un cenno secco del capo, gli indicò il suo posto alla catena di montaggio. Alla sinistra di Lefty c'era un uomo di nome Wierzbicki; a destra un certo O' Malley. Per un momento furono tre uomini che aspettavano insieme, poi la sirena fischiò.
Ogni quattordici secondi Wierzbicki alesa un cuscinetto, Stephanides lo rettifica e O' Malley lo monta su un albero a camme. L'albero a camme percorre sul nastro trasportatore un giro della fabbrica, attraversa le nubi di polvere di metallo e le nebbie acide, fin quando, cinquanta metri più in su, un operaio lo prende per inserirlo nel blocco motore (venti secondi). Contemporaneamente altri uomini sganciano componenti diverse dai nastri trasportatori adiacenti - carburatore, distributore, collettore di alimentazione - e li collegano al blocco motore. Sopra le loro teste chine enormi stantuffi martellano pugni. Nessuno parla. Wierzbicki alesa un cuscinetto, Stephanides lo rettifica e O' Malley lo monta su un albero a camme. L'albero a camme percorre la fabbrica fino a quando una mano lo prende per inserirlo nel blocco motore, con un movimento sempre più frenetico, adesso, tra gli sciabordii nei tubi e i giri delle pale dei ventilatori. Wierzbicki alesa un cuscinetto, Stephanides lo rettifica e O' Malley lo monta su un albero a camme. Altri operai avvitano il filtro dell'aria (diciassette secondi), collegano il motorino d'avviamento (venti secondi) e montano il volano. A quel punto il motore è finito e l'ultimo operaio lo lascia andare lontano a mezz'aria...
Solo che non è proprio l'ultimo operaio. Più in basso alcuni uomini trasportano il motore per un tratto, mentre gli altri gli spingono incontro lo châssis, attaccano il motore alla trasmissione (venticinque secondi). Wierzbicki alesa un cuscinetto, Stephanides lo rettifica e O' Malley lo monta su un albero a camme. Mio nonno vede soltanto il cuscinetto che ha davanti, le mani che lo spostano, le rettificano e lo riappoggiano sul nastro mentre nel suo campo visivo compare un secondo cuscinetto. La catena di montaggio si spinge giù giù fino agli uomini che forgiano i cuscinetti e caricano i lingotti nelle fornaci; fino alla fonderia dove i negri lavorano con gli occhiali per proteggersi dalla luce e dal calore infernale. (...)

Dopo un discorso del caporeparto sulla necessità di incrementare la produttività, un giorno Lefty accelerò il ritmo rettificando un cuscinetto ogni dodici secondi, anziché ogni quattordici. Tornando dal bagno trovò la parola VERME scritta sul fianco del suo tornio. La cinghia era stata tagliata. Quando suonò la sirena stava ancora cercando una nuova cinghia nel contenitore dei pezzi di ricambio. La catena si era interrotta. 
<Che cosa diavolo combini?> gridò il caporeparto. <Ogni volta che fermiamo la catena perdiamo soldi. Se succede un'altra volta sei licenziato, hai capito?>
<Sì, signore.>
<Bene! Fatela ripartire!>
La catena ripartì. Quando il caporeparto si fu allontanato, O' Malley guardò a destra e a sinistra e poi si protese verso di lui. <Non provare a battere il record di velocità, capito? Perché sennò dobbiamo lavorare più in fretta tutti quanti.>"

domenica 13 luglio 2014

Il seno



Un altro raccontino (sono esercizi di scrittura e li pubblico perché non sopporto di tenere roba, anche se robaccia, nel cassetto).

Sono il seno sinistro di una giovane donna e mi restano poche ore da vivere. Domani mattina presto verrò asportato. Carcinoma duttale infiltrante. 
Non si può fare altrimenti, le hanno detto, o me o lei, ne va della sua vita. 
A proposito di vita, la mia non è stata particolarmente avventurosa, sono uscito poco allo scoperto, sempre nascosto, come se ci si vergognasse di me. Dicono che siano le convenzioni sociali ad aver fatto di me una presenza che ancora suscita scandalo, se non in determinati ambienti e contesti, e pare che decenni fa fosse ancora peggio. 
Ho per questo un ricordo abbastanza nitido della mia adolescenza, quando, protuberanza appena accennata e ancora considerato privo di malizia, trascorsi una delle mie ultime giornate in spiaggia; una delle ultime in cui non fui nascosto sotto quegli orridi costumi a fascia, intendo, a soffocare dal caldo. Ricordo tutto di quella giornata: la freschezza dell’acqua, la carezza delle onde, l’aria frizzantina che odora di salsedine, e poi lo stridere dei gabbiani e le urla giocose dei bambini, non c’è particolare che sia andato perso nella memoria, nemmeno lo sguardo insistente di quel signore e quella tremenda scottatura per la prolungata esposizione al sole. La notte fu un tormento, alleviato soltanto dalle immagini della giornata trascorsa che arrivavano a sprazzi sulla mia pelle, ad alleviare il dolore della pelle arrossata e dolente. Dicono che i raggi uva siano cancerogeni e chissà, forse fu allora che le mie cellule cominciarono a impazzire. “Il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri”, si dice in quel bel film che è Viaggio in Inghilterra, sbirciato da sotto la maglietta della donna cui appartengo. 

Dal costume a fascia, visto che la mia vitalità si faceva sempre più incontenibile -  esplosiva, diceva la mia donna, con un tono misto a orgoglio e preoccupazione - si passò a comprarmi vari tipi di indumenti, alcuni, debbo ammettere, davvero carini e sexy e che mettevano in risalto la mia rotondità, ma comunque sempre molto scomodi. Un vero e proprio supplizio il solo pensiero di non potermi più muovere liberamente, per non parlare dei fastidiosi arrossamenti e pruriti che mi provocavano quelle orribili stoffe sintetiche, gancetti di metallo e sostegni rafforzati con cui si pretendeva di volermi sorreggere mentre in realtà mi si costringeva a un’immobilità insopportabile.  
- Io non voglio essere sostenuto – urlavo da sotto quelle ridicole armature, non ho bisogno di stampelle per tenermi in piedi, mica sono invalido! Non capivo perché in alcuni contesti la visione di un seno era fonte di ammirazione – come nei musei ad esempio, penso a La Fornarina o a La Venere, che avevo sbirciato a fatica sempre attraverso le magliette della mia donna – mentre in altri mi veniva sbattuta in faccia l’accusa di volgarità. 
Ogni tanto ci provavo a fuoriuscire, giusto per dare un’occhiata al mondo come si deve, ma subito venivo rimesso al mio posto; e sì, perché vivere quasi costantemente sotto ai vestiti era come girare con una coperta sopra alla testa. Provateci voi, e poi vedrete quanto sia scomodo! 
Dev’essere strano il mondo e in tutti questi anni – sarà per via della coperta sopra alla testa - non sono ancora riuscito a capirlo. Come un bullone non può comprendere quasi nulla struttura totale che pure contribuisce a tenere in piedi, così io a malapena conoscevo i miei vicini di corpo, ma poco o nulla sapevo della realtà esterna, ad accezione della cabina doccia o della camera da letto, al massimo di qualche camerino dei negozi. Mi intrattenevo sovente in conversazione con la pancia, che stava poco più sotto di me: quanto mi affascinava il mistero dell’ombelico! Passavo ore e ore a fantasticare sulla sua natura. Poi un giorno, avrei scoperto tutto...
Eppure se c’è un qualcosa che ho imparato è che in certe situazioni non serve capire, non serve porsi domande, ma basta semplicemente sentire, esserci, starci dentro. 
È così infatti che ricordo il periodo più strano e particolare della mia, seppur breve, esistenza. E, decisamente, anche il più bello!
Le alterazioni ormonali erano cominciate nove mesi prima: ogni giorno che passava le mie fibre si addensavano conferendomi un turgore mai sperimentato prima e le mie dimensioni aumentavano progressivamente come se dovessi contenere chissà che cosa. Mi fu riservata ogni cura, massaggi con creme e lozioni ammorbidenti ogni sera, olio di mandorle sparso senza parsimonia sulla mia pelle, come se dovessi essere preparato per chissà quale evento speciale.  Un mistero che accettai senza riserve, intuendo che qualcosa di grosso doveva certamente essere in serbo per me. Mi furono comprati dei vestiti nuovi, certo meno maliziosi e sexy dei completini che avevo conosciuto fino a quel momento, ma sicuramente più pratici e comodi. Finalmente mi sentivo a mio agio. In pace con me stesso. 
Poi un giorno, dopo tutti questi mesi di preparazione – in cui, stranamente, anche la pancia al di sotto di me crebbe in maniera spropositata – avvenne un miracolo: ci fu un gran subbuglio, come una specie di terremoto, un’esplosione vulcanica, non saprei come definirla, tra pianti, urla, chi correva di qua e chi di là, un gran frastuono. Fino a che, quando le cose si furono un po’ placate, vidi lui: un esserino tenero e urlante, diretto verso la mia parte più delicata: poi la sua piccola bocca mi strinse e fu allora che sentii quel liquido caldo fuoriuscire da me. E poi tutto mi fu chiaro, o meglio, non esattamente, ma lo accettai e lo vissi con ogni fibra del mio essere. Avrei voluto che durasse per sempre, ma ogni cosa ha un inizio e una fine e la mia è ormai prossima. 
Mio fratello, il seno destro che ha vissuto le mie stesse esperienze e che in tutti questi anni è stato il mio confidente prezioso, dice che non sa come riuscirà ad andare avanti senza di me e che la sua vita, dopo che domani io sarò stato fatto a pezzi, non avrà più alcun senso.
Io sono sicuro invece che quando vedrò il luccichio della lama del bisturi avvicinarsi penserò alla meraviglia e allo stupore di quel periodo così bello, quando mi sono fatto vita liquida per placare i pianti del piccolo e, senza rimpianti e con la speranza che il mio sacrificio non sia vano, chiuderò gli occhi, per sempre.  

(Rita Ciatti)

mercoledì 9 luglio 2014

Lacrime di gioia

La storia dell'elefante Raju che piange lacrime di gioia nel momento in cui si rende conto che sta per essere liberato dalle catene che lo hanno tenuto imprigionato per cinquant'anni, praticamente una vita intera, ha fatto il giro del mondo, è finita sui media nazionali e ha commosso tantissime persone.
E ancora una volta constato tristemente come la storia di UN SINGOLO immediatamente coinvolge emotivamente, smuove i cuori, fa indignare, fa venire voglia di ribellarsi a questa società crudele che tratta gli animali come cose, mentre rispetto a tutti gli altri miliardi che più o meno subiscono la sua stessa sorte si continua a procedere nell'indifferenza più assoluta. 

Bellissimo Raju, io sono tanto tanto felice per te, ma rimane pur sempre una felicità a metà finché soltanto un animale ancora resterà in gabbia, schiavo del dominio dell'uomo, costretto passare quello che hai passato tu (mi vengono in mente in questo istante, per dirne una, gli orsi della luna e le terrificanti "fabbriche della bile"). 

Comunque goditi la tua libertà, ti auguro ancora tanti anni di vita e che tu possa viverli pienamente fino a dimenticare l'orrore che hai subito.





martedì 8 luglio 2014

Del sentire in un certo modo

(Foto di Andrea Festa)

Ieri sera inavvertitamente ho schiacciato e ucciso una lumaca. E dire che ci presto sempre tanta attenzione, ma ieri sera proprio non l'avevo vista. 
Provo un dispiacere enorme, sapere che un attimo prima era lì che si godeva una passeggiata notturna in cerca di cibo o magari, chissà, per accoppiarsi e quello dopo, puff, non c'era più - la sua esistenza stroncata in un attimo per un'inezia, un nonnulla, il normale svolgersi dell'esistenza di un'altra persona (la mia) - mi ha fatto precipitare in un'angoscia enorme. E ancora qui che poi alla fine parlo di me, della mia angoscia, mentre lei non esiste più.
E ora venitemi a dire che la natura è bella, che vivere è meraviglioso, che in una notte stellata nulla potrà mai accadere di brutto e terribile. 
Non l'ho fatto apposta, è vero (ma intanto lei non esiste più) e infatti qui non è questione di etica e morale, ma di acutezza nel sentire tutto il male del vivere e non esiste filosofia che possa giustificarlo o spiegarlo o dargli un senso. E non c'è consolazione perché mentre contro i mali del mondo, cioè della società che abbiamo eretto noi, si può lottare preservando la speranza che le cose vadano meglio, contro questo tipo di male qui non c'è nulla che vi si può opporre. Lo si può solo accettare. Se ci riesce. E quando ci si riesce. Tutte le altre volte si muore un pochino dentro e allora capisco le persone che dicono che al posto del cuore hanno solo un buco nero, capisco i cinici, i pessimisti, capisco Cioran, Leopardi, von Trier e compagnia bella.
E un conto è capire intellettualmente certi discorsi, un altro il sentire.

sabato 5 luglio 2014

L'orsetto di peluche

Un raccontino.


Quel giorno Mark aveva osservato a lungo la ragazzina e pensò che, proprio come la madre, aveva quello sguardo assorto sulle cose che poteva essere facilmente scambiato per reticenza.
Avevano l’abitudine comune di starsene tutti pomeriggi nella parte meno frequentata del parco: la bimba perché si era invaghita di una vecchia altalena arrugginita ignorata dagli altri bambini; la madre perché cercava il silenzio per leggere; lui perché si era affezionato alla loro presenza discreta.
Mark era vedovo, figli non ne avevano avuti e ogni tanto fantasticava su come sarebbe stato se insieme alla ragazzina silenziosa adesso ci fossero stati anche i suoi. 
A dire il vero quella non era l’unica fantasticheria cui si lasciava andare; pensava anche a come avrebbe potuto, prima o poi, rivolgere due parole alla donna, magari invitarla per un caffè o una birra al pub, senza risultare invadente. 
Mark non si aspettava più molto dalla vita, nel senso di progetti o di attese di felicità a lunga durata; tutto quello che cercava erano brevi momenti di bellezza da cogliere al volo, tanto più preziosi quanto transitori e magari un’amicizia sincera che potesse alleviare un poco la sua solitudine. Si era fatto l’idea che anche la donna dovesse sentirsi molto sola, non parlava mai con la figlia se non per rivolgerle frasi che avessero un’utilità immediata e mai, mai una volta l’aveva vista in compagnia del marito o di qualche amica. Ma comunque ciò che immediatamente l’aveva attratto di lei era il suo aspetto fisico: nulla gli era mai sembrato tanto struggente e desiderabile quanto la fragilità di quel corpo che stava per cedere al tempo ed era rimasto come ossessionato da quelle linee attorno alla bocca che di lì a poco ne avrebbero offuscato la precisione e nitidezza. 
Sentiva avidamente il bisogno, quasi una pulsione trattenibile a stento, di passare la lingua su quelle piccole crepe. 
Anche attorno alla bocca della ragazzina un giorno sarebbero apparsi quei segni, poteva già scorgerne la trama sotterranea nella pelle. 
Pensava a tutte queste cose seduto sulla panchina, dopo che bimba e madre se n’erano già andate da un po’, la prima facendogli ciao con la manina da poco distante, la seconda un impercettibile segno del capo, quando qualcosa di scuro nei pressi dell’altalena attirò la sua attenzione. Avvicinandosi di qualche passo scorse Ben, l’orsetto di peluche che la piccola si trascinava dietro ogni giorno e che ogni tanto spingeva sulla vcchia altalena cantandogli versi di una filastrocca triste. Strano che la ragazzina l’avesse dimenticato, forse era stata distratta dai suoi pensieri. 
Come spinto da una decisione improvvisa lo prese in mano, gli diede una scrollata per ripulirlo dalla terra e lentamente si avviò verso la casa della donna e della bambina. Sembrava in trance. 
Percorse a lunghi passi il viale alberato del parco per immettersi sulla strada, stringendo l’orsetto spasmodicamente tra le mani come se in esso fosse contenuta l’irripetibile possibilità di afferrare al volo un’occasione che altrimenti non si sarebbe forse mai più ripresentata e che era ben deciso a non lasciarsi scappare.
Non pensava a cosa avrebbe detto una volta che avesse bussato alla porta e si fosse trovato la donna davanti, si stava concentrando sulle emozioni dell’incontro in sé, sull’avverarsi concreto di questo contatto inedito.
L’intimità di quel momento, trovarsi di fronte a lei al di fuori del solito contesto, era ciò che contava. Il resto sarebbe venuto da sé. 
La morbidezza dell’orsacchiotto sotto le dita cos’altro poteva essere, infine, se non la promessa che tutto sarebbe andato bene?
Continuava a stringerlo forte, come se avvertendone la consistenza reale sotto alle dita anche la vaghezza del suo piano e del suo desiderio potesse farsi concreta, prendere una forma meglio definita. 
Quando fu praticamente di fronte alla casa fu assalito per la prima volta da un dubbio. E se ad aprirgli fosse venuto il marito?
Così decise di passare dal retro e di provare a dare uno sguardo all’interno dell’abitazione, stringendo l’orsetto ancora più forte come se solo dalla forza di quella presa fosse dipeso il buon esito dell’incontro. 
Un incontro, solo questo cercava, un contatto, un incoraggiamento, la corrente di due sguardi che si riconoscono in cerca dello stessa spinta ad andare avanti, la bellezza del mondo che non è nelle cose definite e piene, ma nelle cose che stanno per morire. Pensava che lei avrebbe capito e poi e poi... chissà il resto sarebbe venuto da solo.
Tutto sembrava far da sfondo perfetto ai suoi pensieri, le ombre del crepuscolo, i fiori che nell’aria fresca della sera avevano piegato la corolla senza più difesa. 
Un chiarore tenue proveniva dalla vetrata che doveva delimitare il soggiorno della casa e l’uomo, senza timore di essere visto, si avvicinò quasi spavaldamente.
Un refolo improvviso di vento si infiltrò tra i suoi abiti leggeri, Mark rabbrividì e le sue dita strinsero l’orsetto ancora più forte, come se avesse paura che potesse volare via. 
Guardò dentro e vide che le due donne erano sole: la ragazzina si era addormentata sulla moquette, accanto a quaderni e libri sparsi su cui probabilmente si era esercitata fino a qualche momento prima.
La donna era sdraiata di fianco sul divano, semiavvolta da una coperta, lo sguardo rivolto verso quello che, dai bagliori che mandava, doveva essere un apparecchio televisivo. Chissà cosa stava guardando? La curiosità di infilarsi in quell’intimità gli fece raddoppiare la presa sull’orsetto. Il peluche morbido gli rimandò la consistenza della moquette su cui la bimba, stanca della giornata, era crollata; e la morbidezza del divano su cui stava la donna. 
Il momento gli sembrò propizio, dovevano essere sicuramente sole, il marito certamente non c’era altrimenti, a quell’ora di sera, quando le famiglie si riuniscono per cenare, sarebbe stato insieme a loro.
Con pochi balzi si spostò sul fronte del villino, salì i due scalini della veranda e, continuando a stringere l’orsetto, suonò il campanello. 
Dopo qualche secondo di silenzio, sentì provenire dall’interno un rumore di sedie spostate e di passi strascicati. 
La porta si socchiuse leggermente mentre una voce flebile e stanca chiese “chi è”. 
- Buonasera signora Jerkins, sono Mark Tompson, ci siamo incrociati qualche volta al parco. Sono venuto a riportarle una cosa, un giocattolo che penso possa appartenere a sua figlia. 

Silenzio, la donna da dietro la porta non disse nulla; nell’angusto spiraglio che si era aperto Mark intravvide le sue pantofole blu.
Provò a dire qualche altra frase. 

- Mi pare che sua figlia porti spesso con sé un orsetto di peluche. Prima di rientrare a casa l’ho notato ai piedi della vecchia altalena e ho pensato di farle cosa gradita nel venire a riportarglielo. 

Ancora silenzio da parte della donna, ma intanto tolse il chiavistello e spalancò la porta.

- Sa, non vorrei disturbarla... - disse Mark trovandosela improvvisamente davanti illuminata dal chiarore della lanterna che si trovava proprio sopra alla porta e che la donna doveva aver acceso da dentro.

C’era luce in effetti, eppure le parve che i colori ambrati e caldi del crepuscolo si fossero improvvisamente spenti e che tutto fosse scuro e opaco. Una sensazione indecifrabile su cui però non ebbe il tempo di indugiare.
La donna allungò la mano come per afferrare l’orsetto che lui continuava a mantenere tra le dita, ma quasi inconsapevolmente adesso, come se improvvisamente se ne fosse dimenticato.

Lei sorrise, disse qualcosa come un “grazie”, dopodiché fece una cosa che Mark a quel punto non si aspettava più – lo invitò a entrare.
Lui entrò e appena dentro posò l’orsetto sul primo mobile che trovò.
Seguì la donna che gli fece strada nel soggiorno, la stessa stanza che lui aveva osservato poc’anzi da fuori. 
C’era odore di chiuso, come se le finestre non fossero state aperte da diversi giorni e un chiarore tenue, appena diffuso dalle due lampade posizionate agli angoli della grande vetrata che dava sul giardino.
La bimba si svegliò e lui, sentendo di dover giustificare la sua presenza, improvvisamente si ricordò dell’orsetto che aveva posato all’ingresso. 
Accettò il bicchierino di liquore che la donna volle offrirgli e rimase in piedi ad attenderla. 
Quando lei tornò lo invitò a sedersi sul divano, dal quale trasse via imbarazzata la coperta lacera e un pochino sporca nella quale era avvolta poco prima, prima che Mark suonasse al campanello.

- La ringrazio davvero molto per averci riportato Ben, l’orsacchiotto, chissà se lo avremmo ritrovato domani – disse la donna per rompere il ghiaccio.

- Si figuri, di nulla – rispose Mark – mi spiace avervi disturbate, ma ho pensato che fosse una buona idea...

- nessun disturbo -  fece lei e bevve un sorso dal suo bicchierino.

Mark, sentendosi rinfrancato dal calore del liquido ambrato che gli aveva pervaso lo stomaco si guardò attorno in cerca di uno spunto per qualcosa da dire, che so... si aspettava forse un dipinto o una foto di famiglia. La sua attenzione si posò invece su una piccola cornice appesa al muro di fronte che conteneva una medaglia d’oro. Non gli ci volle molto per riconoscerla, anche lui era stato militare tanti anni prima e sapeva bene cosa quell’oro significasse; quel sinistro luccichio, che era toccato anche a Paul Roth, con il quale erano cresciuti insieme, nella stessa piccola città, e che adesso gli riportava alla mente lo sguardo distrutto dei genitori di lui che aveva purtroppo dovuto incrociare durante la funzione per la quale aveva avuto 24 ore di permesso. 
Improvvisamente si sentì come se il suo corpo lo stesse abbandonando, vuoto e al tempo stesso ingombrante, di troppo, inutile, sopraffatto da un senso di stanchezza e sconforto. 
Trovò una scusa e se la sbrigò in fretta. Nell’uscire dette un’ultima occhiata all’orsetto che era rimasto sul mobile. 
Corse via nella notte, sentendosi più solo che mai.

(Rita Ciatti)