lunedì 30 gennaio 2012

Stephen King e l'Effetto Farfalla


Ieri, in tarda serata, ho iniziato a leggere l’ultimo romanzo di Stephen King, 22/11/’63, di cui ho letto commenti entusiastici in internet e su vari blog.
Stephen King è un mio vecchio amore, l’ho letto tantissimo quando ero più giovane, seguendo ogni sua pubblicazione e difendendolo sempre con accanimento dalle accuse di non essere uno scrittore serio. Che nessuno mi tocchi King! Ok, non sarà Dostoesvkij, i suoi romanzi rientreranno pure nella cosiddetta letteratura di genere e di evasione, ma questo non significa un bel niente perché le etichette sono solo delle esemplificazioni che servono a catalogare, a semplificare, appunto.
Ricordiamoci che pure grandissimi autori quali Richardson, Dickens, Poe, Lovecraft sono stati considerati in passato autori di genere, o comunque si leggevano per puro intrattenimento, tanto che molti dei loro romanzi e racconti più famosi uscivano a puntate, con la speranza di far aumentare la tiratura dei giornali, e addirittura - episodio che ho già avuto modo di citare - quando nella Londra settecentesca morì l’eroina Clarissa dell’omonimo romanzo di Richardson, pare che tutte le campane suonarono a morto e che ci fu quello che la Storia riconobbe come il primo episodio di delirio di massa legato ad un fenomeno di quella che oggi chiameremmo fiction.
Quindi, dire letteratura di evasione o di genere in sé non significa nulla. Può trattarsi di romanzi scritti bene, quanto male. E su una cosa non ho dubbi: King scrive da Dio (stavolta scritto con la D maiuscola), è un vero narratore capace di trasportarci dopo solo poche righe, ma che dico, solo dopo tre parole, dentro l’atmosfera, i luoghi, la testa dei personaggi della storia che sta narrando e come descrive lui l’inquietudine di certi posti, la malìa di certi ambienti, il progressivo avvicinarsi del Male e i pensieri e poi quel mondo spensierato e pieno di presagi di cose a venire - fatto di pomeriggi assolati che diventano palpabili, assaporabili, odorabili, visibili tanto da poterli sentire e parteciparvi con tutti i sensi, sì che la lettura di ogni suo romanzo è sempre un viaggio vero e proprio - ecco sì, come descrive lui e come sa narrare le storie, beh, poche chiacchiere perché pochi altri sono capaci di farlo.
E a chi dice che però i suoi romanzi non possono rientrare a pieno titolo nella letteratura alta perché mancano di simbolismi profondi, perché non contengono metafore capaci di sollevarli dal mero dato narrato contingente per elevarsi a considerazioni di respiro universale, beh, io rispondo prendendo esattamente a prestito le parole di un personaggio di quest’ultimo suo lavoro: “alle volte un racconto è solo un racconto”. Ma se è un bel racconto, un bel racconto rimane.
Alle volte un romanzo è solo un romanzo, ma il piacere che ti dà la sua lettura, quel piacere ineguagliabile che solo certe grande narrazioni sanno dare, accompagnato da quella smania di saper come va a finire, di non riuscire a staccare gli occhi dalla pagina nemmeno quando questi bruciano e si sta facendo notte fonda, quel piacere di cui ogni lettore sa bene perché se non l’avesse provato almeno una volta nella vita non sarebbe mai divenuto un lettore (e sempre quello stesso piacere si finisce per ricercare ogni volta, come una droga fantastica provata una volta e da allora sempre ricercata), quel piacere che poi, nei momenti in cui si è costretti a mettere via il libro (per riposare, per lavorare, per uscire, per farsi la doccia ecc.) diventa pienezza dentro al cuore, dapprima presenza silente che accompagna e poi urgenza sempre più invasiva da spingere al desiderio di correre a casa, afferrare il libro, aprirlo alla pagina interrotta, buttarsi sul letto, o sul divano o dove si preferisce e dimenticare tutto, ecco, quel piacere vale da solo a confermare la validità di un romanzo, che sia alta letteratura o solo puro - immensamente piacevole - intrattenimento, poco importa. Ed ogni lettore che ami davvero leggere, proprio l’atto del leggere intendo, del dimenticare tutto, del far sparire le quattro pareti della stanza in cui si è rinchiusi,  dell’essere catturati dalle pagine quasi fosse la tela di un ragno e di morirvi dentro, tra le spire di una storia dalla quale non si riesce a staccarsi, non può non essersi confrontato almeno una volta con questo tipo di letteratura.
Ecco, la maggior parte dei romanzi di King regalano esperienze di questo tipo.
E l’ultimo, 22/11/’63, iniziato ieri sera, si è letteralmente impadronito di me.
Ora non dirò molto, mi riprometto di tornarci sopra quando l’avrò finito - per il momento sono arrivata circa a pag. 225 ed è un tomo di 768 pagine, quindi si può dire che sia praticamente solo all’inizio dell’avventura - per quanto già dentro anima  e corpo - eh sì, anche con il corpo perché poi quando si inizia a leggere un romanzo così non si riesce, letteralmente, ad alzarsi dal divano e si finisce per restare invischiati, risucchiati in questa sorta di sospensione ed astrazione dalla realtà vera che, necessariamente, è da intendersi anche fisicamente -, ma intanto però qualche considerazione interessante (alla faccia di quelli che dicono che i romanzi di King sono banali); la trama in fondo è semplice (il che non vuol dire che lo sia poi la storia con tutta la narrazione degli sviluppi, implicazioni, conseguenze, rapporti di causa-effetto ecc., ed un buon narratore è tale solo quando sa orchestrare un intreccio che abbia poco di meccanico, di automatico, ma risulti organicamente coerente alla struttura stessa del romanzo): siamo nel 2011 ed il gestore di una tavola calda rivela ad un suo cliente, un insegnante di letteratura, un incredibile - letteralmente incredibile - segreto. Nella dispensa della tavola calda esiste una sorta di portale invisibile che permette, attraversandolo (o meglio, scendendo alcuni scalini, e come è descritta magnificamente la sensazione proprio fisica del passaggio), di tornare indietro nel tempo, esattamente al 9 settembre del 1958. In sintesi, sorvolando su tantissime cose che accadranno, colpi di scena e stupori, riflessioni vari, il gestore della tavola calda, malato di cancro ai polmoni ed ormai prossimo alla fine, chiede a Jake, il protagonista, l’insegnante di letteratura, di fare quello che lui, purtroppo, non avrà tempo di fare: ossia tornare nel ’58, attendere fino al ’63 ed impedire che Kennedy venga ucciso perché questo cambiamento nella Storia a sua volta impedirebbe l’accadere di tanti altri fatti e probabilmente contribuirebbe a salvare molte altre vite, oltre a quella del Presidente stesso. Ovviamente a queste conclusioni ci si arriva tramite una serie di ragionamenti e dettagliati riferimenti alla storia americana del periodo.
Da questo punto il romanzo è un vero e proprio tuffo nelle atmosfere della fine degli anni cinquanta, con tanto di dettagli, slang, descrizioni degli abiti, pettinature, automobili, case, strade, paesi, paesaggi, insomma, tutto ciò che serve a restituire al lettore il sapore di quel periodo e della sua cultura popolare, di quella spensieratezza ed ingenuità (e quando passa a descrivere il sapore pieno della birra di allora o della barretta di cioccolata davvero viene da schioccare la lingua sul palato), con toni quasi nostalgici derivati dalla consapevolezza di un mondo, tutto sommato, più semplice e facile da vivere.
Comunque, senza divagare ulteriormente e sintetizzando al massimo (perché comunque oggi non volevo parlare del romanzo in sé, non essendo appunto arrivata nemmeno alla metà), ad un certo punto accade che il protagonista si rende conto che la possibilità di cambiare il passato implicherebbe poi conseguenze sul futuro, conseguenze del tutto imprevidibili (il futuro è sempre quindi condizione imprevedibile, pur provenendo dal futuro stesso rispetto al 1958 perché conoscere il passato e volerlo, potendo, cambiare - e vedremo che comunque non sarà nemmeno così facile perché il passato non vuole essere cambiato - ci troveremmo di fronte ad un’imprevedibilità di conseguenze ed eventi scaturiti dal cambiamento stesso: mentre ora sappiamo esattamente cosa è accaduto negli anni cinquanta ad oggi, modificando alcuni eventi di quegli anni si modificherebbe tutto il resto) e che, maggiore è la portata dell’evento che si intende cambiare nel passato, maggiore sarebbero le conseguenze e reazioni a catena che giungeranno a formare il futuro. E fin qui, nulla da eccepire, mi pare ovvio.
Quel che è interessante, pur non essendo affatto un argomento nuovo, è la riflessione intorno alla teoria del cosiddetto “Effetto Farfalla” (proprio su questo argomento è stato realizzato anche un film molto interessante che si intitola proprio The Butterfly Effect, del 2004, di E. BressJ. Mackye): in pratica, ogni minimo evento, anche il più insignificante quale lo sbatter d’ali di una farfalla, potrebbe, a distanza di settimane, mesi, o anni, avere conseguenze di un qualche tipo magari dall’altra parte del mondo.
Nel romanzo di King tutto ciò è ben presente sin dall’inizio nella mente del protagonista: egli sa che il tornare indietro nel tempo e anche solo il rivolgere la parola ad un passante (rallentandone il cammino, inducendolo a fare delle riflessioni, facendogli venire in mente qualcosa o chissà in quale altro modo) devia in qualche modo il corso degli eventi così che il futuro - ossia il presente in cui si trova adesso, il 2011 - potrebbe essere impercettibilmente o anche significativamente diverso da quello che è oggi.
Quindi dilemmi a non finire, preoccupazioni (potrebbe anche, mutando il passato, far sparire il locale in cui si trova il portale per tornare indietro nel tempo) e, soprattutto, l’idea di voler cambiare non solo quell’evento cardine della storia americana, ossia impedire l’assassinio di JFK, ma anche la storia personale di alcune persone che conosce e che... non hanno avuto una bella vita a causa di un evento che, lontano nel tempo, causò loro una serie di conseguenze devastanti. Tutto ciò però, ossia anche la più minima azione, sconvolge e cambia totalmente le cose. E inoltre ogni volta che si ritorna al presente e poi si decide di tornare ancora al 1958, tutto si annulla e si deve ricomiciare da capo perché è come se nulla fosse mai stato cambiato.
Ora, romanzo di King a parte, ripeto, affascinantissimo, trovo particolamente interessante questo concetto dell’effetto farfalla ed oggi ho pensato (non per la prima volta in verità) a quanto ognuno di noi, anche con la più piccola ed apparentemente personalissima ed insignificante decisione, influisca invece sul corso degli eventi del mondo intero. Mi spiego meglio: apparentemente, se io oggi resto in casa oppure invece decido di uscire, questo dovrebbe non aver alcun valore se non per me, nella mia vita (o al massimo di quella di chi mi sta vicino), ma al mondo intero... che gliene importa? Di fatto nulla. Eppure avete mai pensato quanto invece la vita di ognuno di tutti noi sia impercettibilmente connessa con quella di tutto il resto del mondo e quanto da ogni nostro singolo passo potrebbero derivare una serie di conseguenze inimmaginabili? Uscendo di casa io incontro persone, magari mi fermo a parlare con delle persone, sorrido a o saluto alcune persone, quindi ritardo o anticipo altri gesti e, in ogni caso, metto in moto una serie di impercettibili eventi; e così ognuno di noi. Siamo tutti in movimento, tutti contribuiamo a mandare avanti il meccanismo nascosto degli eventi del mondo, tutti contribuiamo a far girare le rotelle di uno sconosciuto motore, anche quando ce ne restiamo tranquillamente a casa a poltrire sul divano (e a leggere S. King, come sto facendo io da ieri sera).
Non è terribile e meraviglioso tutto ciò? Questa consapevolezza di essere parte di un tutto, di determinare con i nostri piccoli movimenti - sebbene movimenti infinitesimali rispetto agli eventi grandiosi che hanno segnato la Storia - tutta una serie di azioni e di conseguenze che faranno, saranno il futuro del mondo intero.
Io ci ho pensato spesso. Ma attenzione, non in un’accezione destinica, nel senso che tutto si mette in moto affinché si realizzi un disegno, ma proprio nella sola ed unica accezione deterministica di rapporto di causa-effetto, anche a distanza, seppure provocato da impercettibili ed infinitesimali movimenti e piccole azioni del nostro ordinario quotidiano.
Beh, pensateci. E’ una sensazione meravigliosa e terribile al tempo stesso.
Il mio futuro, la mia vita, magari il futuro del mondo intero, è la somma di tutti noi. Che tu oggi, o io, o altri, usciamo di casa o meno, fa una differenza. Che io ora sia qui a scrivere anziché fuori... Tutto ha un peso, tutto significa, anche lo sbatter d’ali di una farfalla.
(immagine: Giorgio Cara)

sabato 28 gennaio 2012

In Ricordo

Il 28 gennaio 1972, esattamente quarant'anni fa, in una clinica di Milano chiamata "La Madonnina", a causa di un tumore al pancreas, moriva uno dei più grandi scrittori e giornalisti (nonché originalissimo e creativo pittore) del novecento: Dino Buzzati.
Lo incontrai - non letteralmente, purtroppo, ma metaforicamente, si intende, attraverso le sue opere - quando avevo solo dodici anni, saccheggiando, come sempre, la libreria di mio padre. Lessi i Sessanta Racconti e, seppure con la scarsa capacità critica e di comprensione che potevo avere all'epoca, rimase in me impresso, per tutti gli anni a venire, il ricordo indelebile di una scrittura meravigliosa - e di un mondo e di una serie di personaggi, immersi in atmosfere spesso inquietanti e misteriose, fantastiche, surreali, oniriche, eppure allo stesso tempo sempre incredibilmente credibili e realistiche - di cui non avrei più trovato eguali.
Eh sì, perché Dino Buzzati era, ed è  tuttora, unico.
Più tardi, nel corso degli anni, e sempre con quella primissima e vividissima impressione della suggestività di quei suoi primi lavori letti, mi avvicinai ad altri suoi racconti (ne ha scritti moltissimi, alcuni brevissimi ma straordinariamente compiuti ed efficaci, così come incisivo e dalle qualità squisitamente narrative sapeva essere ogni suo articolo di giornale) e poi i romanzi, dai più noti ed acclamati, a quelli ritenuti minori, ma sempre apprezzatissimi da ogni suo fedele lettore.
Qui, per ricordarlo oggi, e per non diventare troppo prolissa (ma potrei stare giornate intere a rammentare le sue opere ed i suoi personaggi, la sua capacità di descrivere atmosfere e stati d'animo e di rendere reale l'irreale), citerò solo tre dei suoi bellissimi lavori: Il Deserto dei Tartari - Un Amore e Il Colombre (quest'ultimo è il racconto che dà il titolo all'omonima raccolta).
Si può dire che per l'intera sua esistenza egli non abbia fatto altro che interessarsi alla Morte: temuta, elaborata, raccontata,  riconoscibile, sotto le più svariate forme e metafore, in ogni suo scritto.
Il Deserto dei Tartari è il racconto di un'attesa. Protagonista è il Tenente Drogo, il quale, giovanissimo, viene mandato presso la Fortezza Bastiani, roccaforte estrema che domina la smisurata pianura denominata appunto, il deserto dei Tartari, dalla quale tener d'occhio una probabile avanzata dei nemici. Tuttavia, da molto tempo ormai, nessun nemico sembra più profilarsi all'orizzonte, rendendo l'attesa estenuante e l'atmosfera all'interno della fortezza quasi più simile  a quella di un luogo perso e dimenticato nel nulla, che non a quella di una reale organizzazione di un avamposto militare, per quanto le mansioni e le giornate continuino ad essere serrate e scandite secondo un preciso ritmo militaresco.
L'attesa dei nemici diviene così metafora di quel sentimento che ogni essere umano cova in sé sin dalla nascita e cioè quello di poter vedere finalmente compiersi un giorno nella propria esistenza quell'evento in grado di renderla altamente significativa, riscattandola così dalla monotonia di tanti giorni sempre uguali trascorsi nell'attesa di una svolta cardine capace di imprimerle un senso ed un valore tutto nuovi.
Un giorno però il Tenente Drogo, salendo gli scalini, avverte un senso di stanchezza e pesantezza sulle gambe e realizza così improvvisamente l'inesorabilità del tempo ormai trascorso e di essersi ormai lasciato alle spalle la propria giovinezza senza che l'evento dal quale si sarebbe aspettato gloria ed onori sia ancora giunto. Sentimento questo che si presta anch'esso a divenire metafora, questa volta dell'illusoria speranza covata in segreto da ciascuno di noi di poter restare eternamente giovani, illusione poi brutalmente spazzata via nel momento in cui si diviene consapevoli della propria finitezza nel tempo e della propria mortalità: l'evendo cardine che ciascuno si aspetta e a cui tende in segreto, essendo nient'altro che il confronto con la propria morte. La propria, ma anche la Morte intesa come presenza silenziosa sempre acquattata sulla spalla, sempre intenta a sorprenderci dietro l'angolo, fine ultimo di ogni esistenza.
I sentimenti del Tenente Drogo - della speranza, dell'illusione, dell'attesa, e infine della consapevolezza - esprimono dunque la condizione esistenziale di ciascuno di noi che aspetta, sogna e si illude di compiere chissà quali prodigiose imprese mentre intanto il tempo contina a scorrere e alla fine poco più rimane che un passato da ricordare, gambe stanche sulle quali avanzare ancora un poco e procedere oltre fino... a quel momento che tutti ci attende e che noi, invano, abbiamo creduto di poter sconfiggere ritenendoci capaci di divenire eroi in grado di compiere imprese eccezionali... ma poi si sa, anche gli eroi nulla possono contro il proprio destino.
Un amore è la storia dell'amore tormentato di un uomo per una ragazza molto più giovane di lui che sembra divertirsi a tenerlo sulla corda, a torturarlo sentimentalmente, a concedirglisi per poi sfuggirgli ancora, tenendolo in bilico su una situazione di mai acquisita certezza e stabilità emotiva.
L'uomo non anela altro che ad un po' di serenità sentimentale, a far sua quella ragazza nella speranza di poter vivere un tranquillo, appagante e gratificante quotidiano di coppia.
Tuttavia, ciò che un tempo gli era apparso come la peggiore delle torture possibili - questo rapporto tormentato che pure però lo animava, eccitava, entusiasmava, lo rendeva capace di vivere e sentire pienamente con tutti i sensi acuiti l'esperienza della passione - un giorno gli si rivelerà poi essere invece l'essenza stessa della vitalità e della vita nella sua accezione più piena. E, anche qui, dopo il brusco risveglio della consapevolezza sopravvenuta, null'altro si cela davanti agli occhi che la presenza ingombrante, cupamente maestosa, sovrastante della Morte.
Il Colombre è un racconto brevissimo, dal sapore metafisico, uno di quelli le cui righe finali ribaltano completamente la percezione del significato fino a quel momento intuito e, nel farlo, restituiscono al racconto tutta la completezza del suo senso più intimo e profondo.
Il Colombre è un mostro marino di proporzioni gigantesche, una creatura dai poteri misteriori e temibili che il protagonista Stefano Roi, avvistatola nel giorno del suo dodicesimo compleanno, inizia da quel momento a temere fino a restarne ossessionato per tutta la vita. Finché un giorno, stanco di essere vittima di quella che in cuor suo definisce l'ossessione di una persecuzione, decide di affrontarlo...
Per ovvie ragioni non posso rivelarvi il finale.
Per compensare la mancata rivelazione vi faccio però, a mo' di aneddoto personale, una piccola, personalissima, rivelazione: di tutta la produzione di Buzzati, Il Colombre è il racconto al quale sono più intimamente affezionata e questo perché, più di sette anni fa, ha contribuito a farmi innamorare del mio compagno. Era la prima sera che eravamo usciti insieme ed io non ero ancora del tutto convinta di volerlo rivedere per approfondire la sua conoscenza, poi, giunti a casa sua per un ultimo drink prima di riaccompagnarmi a casa (pensate pure a male se volete!), osservando i tanti libri che aveva nella libreria ed iniziando a discorrere di letteratura, la nostra attenzione cadde su Buzzati. A quel punto disse di volermi assolutamente leggere un racconto, a meno che non lo conoscessi già; si trattava, per l'appunto, de Il Colombre. Io acconsentii e mi misi seduta sul divano ad ascoltare. Arrivati alla fine, immensamente commossa dalla storia meravigliosa e straordinaria che avevo appena ascoltato, accadde qualcosa che potei distinguere e percepire chiaramente, sebbene non altrettanto bene definire e descrivere: fu come il clic di un coperchio che improvvisamente si solleva o come, anche, la sensazione di un movimento improvviso - potei quasi percepirne il suono dentro la mia testa e fin dentro le viscere del mio corpo - che produce una sorta di cambiamento. Fu come vedere lui, con il libro ancora in mano, lo sguardo lucidamente commosso, con occhi nuovi e diversi e fu allora, in quel preciso istante, che mi resi conto di volerlo rivedere ancora, di volerlo conoscere meglio, come se un legame - fino ad allora nascosto ed invisibile - si fosse improvvisamente palesato e ci avesse teso la mano.
E anche fu per me il momento di voler credere e di voler accettare quell'incontro con A. come un dono del destino.
Ed è anche, soprattutto, oltre che, ovviamente, a Buzzati, è anche soprattutto a lui che oggi dedico questo post, vista pure l'occasione della recentissima inaugurazione (appena ieri) del suo blog, Il Dialogo Probabilmente e dove ha  oggi ha pubblicato un brevissimo racconto sempre in ricordo del grande Dino Buzzati.

lunedì 23 gennaio 2012

Piccolo Guasto alla Centrale del Tempo di Ivan Scarcelli

L'autore di questi bellissimi racconti l'ho conosciuto dapprima come Ivaneuscar - autore del blog Almanacco di Conclusioni Provvisorie, che ho seguito sempre con molto interesse. Un giorno ho scoperto che aveva scritto anche dei racconti e, avendo già avuto modo di apprezzare le sue qualità letterarie e lo spessore delle sue riflessioni nel blog, mi sono ripromessa di leggerli quanto prima; in realtà da allora sono passati un po' di mesi (purtroppo il tempo per leggere tutto quello che si vorrebbe non basta mai!), ma poi finalmente li ho letti ed oggi, con molto entuasiasmo, ho voluto anche recensirli per la rivista MENTinFUGA.
Qui vi dirò brevemente che si tratta di sette racconti - come recita il sottotitolo: cronache (quasi immaginarie) - in cui elementi immaginifici, curiose invenzioni, o anche solo dati reali portati alle estreme conseguenze, sì da dar adito ad estrose conclusioni - divengono il pretesto o si fanno argute metafore di riflessioni di chiara ed indubbia natura esistenziale. Come dire? Si parte dal dato immaginifico, ma per approdare a constatazioni - sul cui sfondo si percepiscono note spesso amare e dolenti - in merito alla condizione umana. Per altre informazioni e dettagli più completi sul contenuto dei racconti stessi vi rimando, al solito, alla mia recensione su MENTinFUGA.
Racconti che, come riporta il risvolto di copertina, si inseriscono a pieno titolo nel filone del realismo magico italiano di cui i principali esponenti sono stati Buzzati, Bontempelli, Alvaro, Palazzeschi
E' una lettura che mi sento sinceramente di consigliarvi.
E, casomai passasse di qui, un saluto caro ad Ivan Scarcelli, in arte Ivaneuscar. ;-)

venerdì 20 gennaio 2012

Ritratto di una Segretaria

È intenta a segnare gli appuntamenti sull'agenda, il capo chino, lo sguardo che segue l'andirivieni della penna sul foglio.
Quando si accorge della mia presenza si interrompe, il volto verso di me:
Mi dica - la voce ferma, decisa, in cui percepisco una malcelata nota d'impazienza, di fretta; la stessa che già mi era sembrato di scorgere al telefono.
- Salve, buongiorno, sono qui per all'appuntamento con il Prof. C.
- Nome? A  che ora era l'appuntamento?
Dico il mio nome e l'orario. Lei inizia a dare una sbirciatina al computer e all'agenda insieme, probabilmente per controllare se il mio nome fosse inserito nella lista delle visite del giorno.
La osservo meglio: strano come al solo aver sentito la sua voce al telefono mi fossi già immaginata esattamente quel tipo di persona.
La prima cosa che noto sono i capelli, corti ma non troppo, messa in piega di qualche giorno fa, ma che ancora tiene, un biondo discreto, molto bon ton, pettinati in modo da lasciare sgombro un volto serio, arcigno, lo sguardo duro e deciso, tagliente, le labbra sottili senza traccia di rossetto, le gote arrossate dal riscaldamento artificiale un po' troppo caldo, per i miei gusti, e già un po' cadenti, ad indicare una giovinezza già sfiorita.  Nel complesso una donna che da giovane avrebbe anche potuto definirsi piacente, se non fosse per un insieme spiacevole, di certa sgradevolezza, probabilmente dovuto più al carattere e ai modi di fare emanati, che non dalla durezza complessiva dei lineamenti.
Indossa il tipico tailleur, proprio quello che uno si aspetterebbe di vedere addosso a una segretaria formale ed efficiente: blu, con camicetta bianca, ben stirato, solo le maniche leggermente sgualcite essendo quasi arrivati alla fine della giornata lavorativa. Fa pensare a una tipica segretaria tedesca, dalla dizione dura e controllata, brava nel lavoro, molto organizzata ed efficiente, quasi impassibile nell'esecuzione del proprio dovere.
- Va bene, c'è da aspettare un po', si può accomodare su quel divano per l'attesa. La chiamerò io quando toccherà a lei.
Così a pelle, d'istinto, con quella sua voce decisa, sebbene affatto sgradevole, anzi, con una lieve nota di dolcezza quasi stridente con tutto il resto, mi suscita antipatia. Anzi, sarebbe più corretto dire che è la mia prima impressione di antipatia percepita al telefono a ricevere conferma.
Mi metto seduta e aspetto.
Ci sono diverse persone in sala attesa, trattandosi di un poliambulatorio medico.
Il telefono della segreteria squilla in continuazione e contemporaneamente arrivano altri pazienti che si rivolgono alla donna per chiederle informazioni.
Risponde sempre in quella maniera sbrigativa, quasi a voler risparmiare sulle parole e sul fiato, al limite tra l'efficienza formale e la maleducazione. Appare seccata. Ogni tanto rivolge al telefono squillante vere e proprie occhiatacce di odio.
Segna appuntamenti sull'agenda e poi prosegue ad aggiornare o cancellare files dal computer; ne deduco che, per far prima, preferisca scrivere gli appuntamenti, con i nomi, orari e tutto sull'agenda cartacea e che poi, pian piano, tra un cliente e l'altro, o tra una telefonata e l'altra, inserisca il tutto al computer.
Sono qui da circa un quarto d'ora e già lo squillo pressoché incessante del telefono comincia a darmi sui nervi, soprattutto perché lei non sempre risponde prontamente, a volte lo lascia squillare a vuoto cinque o sei volte, persino sette, fino a che dall'altra parte magari non riattaccano, ma tanto poi, ci riproveranno poco dopo, e gli squilli non faranno che aumentare, aumentare a dismisura; se la prende comoda, a volte risponde, a volte no.
E questo me la rende ancor più antipatica. Anche perché, nei giorni avanti, ricordo bene di aver dovuto attendere per quasi cinque minuti prima che il centralino mi mettesse in comunicazione con la segreteria: ora ho capito perché. Semplice! Non risponde!
A un tratto si spazientisce con un signore anziano, accompagnato dalla moglie, che a malapena si regge in piedi.
La segretaria, sempre con quel tono di voce sfrontato, secco, perentorio, gli chiede il tesserino medico, ma il signore non comprende, pare assente, poverino, è molto anziano, un po' sordo d'orecchie, e si capisce che sta soffrendo molto a dover reggersi in piedi.
La segretaria alza leggermente la voce, scandendo le parole così che il timbro di voce appare ancora più freddo e tagliente, lo sguardo indispettito, le gote - che, noto solo ora, non è il caldo a rendere arrossate, ma i tanti capillari evidenti - continua a ripetere indefessamente la domanda fino a che l'anziano signore capisce e con gesti lenti tira fuori dal portafoglio il tesserino medico.
La segretaria - il telefono sempre squillante in sottofondo - incassa, per conto dei medici del poliambulatorio, discrete cifre in contanti, qualche assegno. Ricevute: pochissime. Lo studio medico è uno dei più noti e ci lavorano fior di dottoroni e luminari. E si sa come succede in certi casi, per favorire il cliente promettono un piccolo sconticino, una piccola defalcazione dalla cifra di partenza - che, è il caso di dire, appare talvolta come decisamente sproporzionata rispetto alla visita eseguita, a volte della durata di poco più di dieci minuti, a volte un semplice controllo o lettura dei referti medici - a patto che il cliente non si aspetti fattura. Come dire: ci si viene incontro. E poi, quale cliente oserebbe mai mettersi contro al proprio medico di fiducia richiedendo la fattura corrispondente all'importo esatto di quanto pagato? Si sa, il paziente si trova in una posizione di netto svantaggio, spesso di mera sudditanza psicologica, in fondo è dall'impegno che il medico metterà nel curarlo che dipende la sua vita. E con la vita, si sa, non ci si scherza. E non conviene, suvvia, indispettire il medico per una mera questione di principio!
Ma questa segretaria, che non voce e gesti professionali continua a sparare cifre altissime, imperterrita ed imperturbabile, e a incassarle senza nemmeno rilasciare uno straccio di ricevuta, a me indispone sempre più.
E poi perché non risponde a quel maledetto telefono? Ma si diverte forse a far risuonare nell'aria quegli squilli acuti, a far attendere la gente dall'altra parte della cornetta che magari sta in ansia, è malata, non vede l'ora di poter avere un appuntamento per potersi finalmente rilassare sapendo che il percorso di guarigione è proprio da lì, da quel semplice appuntamento, che  comincia?
È antipatica. C'è poco da fare. È, come dire, acida, indisponente, arcigna. E anche un po' stronza.
****                 ****                   **** 
Poi a un certo punto si alza.
Però... non è alta come mi sarei aspettata. Anzi, sembra curva, china, le spalle e le braccia, non più sostenute dal piano della scrivania, appaiono improvvisamente cadenti, come svuotate, come private della loro struttura interna.
Sbuffando si dirige verso la rampa di scale che porta al piano di sopra.
La osservo di schiena.
Il culo grosso che ondeggia di qua e di là, le cosce e i fianchi sproporzionati rispetto ai lineamenti aguzzi e taglienti del volto e alla parte superiore del corpo. E poi le gambe, quelle gambe. Gonfie, sformate, la pelle martoriata e segnata da grosse vene  varicose. Le caviglie ancor più gonfie che appaiono segnate e costrette dal bordo della scarpa. La gonna del tailleur è sgualcita, un po' logora nel punto in cui poggia sulla sedia, le scarpe dalla suola consumata solo nella parte esterna, segno di errata ripartizione del peso. Una macchia sul retro della giacca, che prima non si poteva vedere.
Sale a fatica le scale, un gradino dopo l'altro, un lieve affanno è già percepibile, come un sibilo sottile che si insinua nell'aria, le mani che si appoggiano al corrimano, a cercare di alleviare la fatica e sostenere un poco il corpo.
Si volta un attimo al rumore della porta che si spalanca e lascia entrare un nuovo paziente:
- Arrivo subito, mi attenda lì -
La voce è la stessa di prima, decisa, tagliente, dal timbro quasi asettico se non fosse per quella lievissima, sotterranea voce di dolcezza già prima percepita. Ma il volto. Quando si gira, il volto no. Il volto non è più quello di prima. Improvvisamente appare stanco, stravolto, di una stanchezza che non è, non può essere quantificabile, che non può dipendere dal semplice accumulo delle ore di lavoro. È una stanchezza pesante, una stanchezza che fa franare i lineamenti e sciogliere lo sguardo: il suo, ma anche il mio.
Ed è allora che dietro la maschera della segretaria efficiente intravedo la donna. La donna, forse madre, forse solo moglie, forse sola e basta, di mezza età, stanca di vita, che tutte le mattine si alza all'alba per attraversare la città e recarsi sul posto di lavoro, e poi la sera, dopo una giornata trascorsa a rispondere al telefono, prendere e segnare appuntamenti, aggiungere, cancellare, organizzare, ascoltare e rispondere alle richieste e informazioni dei clienti, eseguire mansioni di vario tipo per conto dei medici, salire le scale, quelle scale, con quelle gambe martoriate e doloranti di vene varicose, con quelle caviglie gonfie, a incassare cifre spropositate per conto dei medici, a sforzarsi di essere gentile ed educata controllando l'accento per far uscire un tono neutro, professionale, così come richiesto, e poi a controllare che tutto torni alla sera, e dopo, solo dopo, questa donna che si appresta a recarsi alla fermata dell'autobus che la riporterà a casa, dove altro lavoro domestico probabilmente l'attende e infine il letto, per una notte di sonno sempre troppo breve, fino all'indomani, dove tutto comincerà ancora da capo.
Ed è allora che ho provato un sentimento improvviso, tutto nuovo. Quasi, nuovo. È allora che al posto dell'antipatia fino a quel momento provata, è subentrato qualcos'altro: l'empatia, o forse solo un sentimento di semplice solidarietà femminile. Da donna a donna.
Dopo qualche minuto eccola che scende le scale, torna al suo posto.
Mi chiama:
- Signora R., tocca a lei, il Prof.C.  ora può riceverla.
- Grazie. Molto gentile. Davvero molto gentile. A dopo allora, quando passerò a pagare.

Stranamente mi sorride, sì, è un sorriso quello che accenna.
Un sorriso stanco, ma pur sempre un sorriso.
Ed è così che la sto ricordando in questo momento. Il ritratto di una donna come tante, che lavora, che attraversa mezza città per andare a guadagnare una paga che a malapena basterà per arrivare a fine mese (di contro alle cifre spropositate incassate dai medici, e senza fattura!), una donna che meriterebbe di sorridere più spesso, anzi, di più, di ridere, che meriterebbe di ridere dalla mattina alla sera, e invece - indossata la sua divisa, la sua maschera - ogni giorno si trasforma nella segretaria efficiente.
Giorno dopo giorno, fino a che il tempo non li cancellerà entrambi: il ritratto della segretaria  e quello della donna.

(Rita Ciatti)

mercoledì 18 gennaio 2012

Chiesa e Animali: del perché non posso essere cattolica (insieme ad altri mille motivi)

Ieri sera mi sono imbattuta in questo articolo pubblicato lo scorso luglio su La Bussola Quotidiana; per chi non ne fosse a conoscenza, La Bussola Quotidiana è un quotidiano cattolico d’opinione (così dagli autori stessi esattamente definito), il quale, alla voce “chi siamo”, risponde come letteralmente riporto tramite copia-incolla:
Un gruppo di giornalisti cattolici, accomunati dalla passione per la fede, che vogliono offrire una Bussola “per orientarsi tra le notizie del giorno”, tentando di offrire una prospettiva cattolica nel giudicare i fatti: certi che l’esperienza cristiana è in grado di abbracciare e rispettare pienamente la dignità dell’uomo. Non abbiamo posizioni ideologiche da difendere, fossero anche cattoliche: nel fluire quotidiano delle notizie vogliamo difendere e promuovere una concezione dell’uomo adeguata alla sua dignità. Per questo nessun aspetto della realtà ci sarà estraneo: dalla politica alle relazioni internazionali, dalle emergenze sociali all’economia, dalle espressioni culturali allo sport, tutto sarà giudicato cercando di cogliere nel particolare della cronaca il destino di ogni singolo uomo.

Tale premessa è doverosa per spiegare la fonte dell’articolo verso il quale avverto un preciso dovere civico di replica, non solo in quanto persona che si erge in difesa dei diritti degli animali, ma anche in quanto donna laica che imbattendosi in alcune inesattezze scientifiche avverte il dovere civico di volervi rimediare.
Ho combattuto, combatto e sempre combatterò contro ogni forma di oscurantismo. Specialmente quando questo conduce a discriminare altri esseri viventi, in nome di dogmi, libri sacri, errate cognizioni medico-scientifiche e quant’altro possa permettere e condurre alla vittoria della superstizione sulla scienza e all’oscuramento di fatti empiricamente dimostrabili a favore di altri che rimangono invece solo il frutto della fede e non possono essere in alcuna maniera dimostrati.
Sia chiaro: io non mi pongo contro la libertà di ognuno di voler credere in chi vuole, ma contro tutti coloro che in nome di un qualcosa che non può essere empiricamente dimostrabile pretendono di far discendere un’unica verità e in nome di questa presunta e in nessuna maniera dimostrabile verità, nei secoli hanno perseguitato, giudicato, torturato, condannato, bruciato, ucciso e oggi continuano a giudicare, condannare moralmente e a voler mettere bocca politicamente, ad esempio, tanto per dirne una, sui gusti sessuali di ognuno (prossimamente infatti vorrei replicare anche a un altro articolo, sempre trovato su La Bussola Quotidiana, in cui si condanna l’omosessualità e si osteggia il matrimonio tra persone dello stesso sesso, poiché, secondo la chiesa, causerebbe gravi disordini sociali... come no, e infatti in Olanda, Inghilterra e Spagna dove invece il matrimonio tra omosessuali è permesso tutti i giorni ci sono casi di grave scompiglio sociale... ma per favore!), e persino sull’accresciuta attenzione che buona parte della popolazione sta riservando alla questione dell’antispecismo.
Tuttavia, per non annoiare troppo i miei quattro (pochi, ma buonissimi!) lettori, cercherò di essere breve, sintetica ed essenziale, riportando e soffermandomi solo su alcuni punti salienti:

1) (...) L’uomo, per contro, pur essendo onnivoro-carnivoro (...).

Come ho già avuto modo di scrivere qui sopra, è scientificamente e antropologicamente provato che l’uomo non ha la struttura fisica di un predatore carnivoro: denti poco acuminati, ampiezza della bocca di misura nettamente inferiore rispetto a quella degli animali carnivori, lunghezza dell’apparato digerente molto più vicina a quella degli animali erbivori, mani prensili adatte a raccogliere frutti, mancanza di unghie affilate e robuste ecc., incapacità di correre ad una velocità tale da inseguire, catturare ed uccidere prede se non con l’ausilio di armi, come è avvenuto in seguito all’evoluzione tecnologica; l’essere umano nasce quindi come frugivoro (come molti primati), solo in seguito si è dovuto adattare a diventare onnivoro ed in extrema ratio, carnivoro. L'uomo è carnista, ossia continua a mangiare carne per tradizione, cultura, ideologia.

2) Non conosco nello specifico il pensiero di padre Bianchi, ma ho avuto occasione di sentire quello di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, il quale cita il pensiero classico della Chiesa: gli animali sono "animati", ma la loro anima non è immortale.

Ammetto e confesso che il mio primo impulso è stato quello di lasciarmi andare a una sonora risata, se non fosse che la gravità di una così seria asserzione non lo consente.

Gli animali sono “animati”. Ma che significa “animati”? Anche un giocattolo è animato, anche una macchina telecomandata è animata, anche un peluche è animato, ma credo che non ci sia nessun bisogno di spiegare la differenza che passa tra un giocattolo e un vero animale, giusto? Non vorremo mica tornare alla vecchia teoria seicentesca di Cartesio secondo la quale gli animali sarebbero delle macchine prive di coscienza le quali agirebbero solo in base a un meccanismo che potrebbe essere paragonabile a quello degli orologi? Non vogliamo mica credere a questo che scriveva Cartesio, vero?:

[...]È pure assai notevole che sebbene molti animali in alcune loro azioni dimostrino più industria di noi, tuttavia non ne mostrano alcuna in molte altre: cosicché, ciò che essi fanno meglio di noi non prova che hanno ingegno—ché in tal caso ne avrebbero più di noi e ci supererebbero in ogni attività—, ma piuttosto che essi non ne hanno affatto, e che è la Natura che agisce in loro, secondo la disposizione dei loro organi, così come si osserva che un orologio, pur essendo solo composto di ruote e di molle, conta le ore e misura il tempo più precisamente di noi con tutta la nostra prudenza.[…] dopo l'errore di quelli che negano Dio [...] non ve n'è altro che allontani di più gli uomini deboli dal giusto cammino della virtù che immaginare che l'anima delle bestie sia di natura uguale alla nostra e che, di conseguenza, non dobbiamo temere nulla, né nulla sperare dopo questa sta vita, come le mosche e le formiche;[…] - René Descartes; Discorso sul Metodo.

Comunque, a leggere attentamente, forse si potrebbe evincere che l’autore dell’articolo, riprendendo la posizione ufficiale della chiesa, non intende negare che gli animali abbiano un’anima, solo che, questa, non sarebbe immortale, come invece è quella degli esseri umani che sono fatti a immagine e somiglianza di dio.

Questo dice e asserisce lui (il giornalista de La Bussola Quotidiana). Lo sa lui. Egli sa. Egli conosce. O meglio la chiesa, della quale questo giornalista cattolico (ma un giornalista, per poter essere definito tale, non dovrebbe essere super partes?) si limita ad abbracciare dogmi e teorie.
Io trovo tutto ciò di un’arroganza senza pari. Ammesso e non concesso che esista un’anima e che sia gli animali che gli esseri umani l’abbiano, comunque sia, secondo la chiesa, quella degli animali non sarebbe immortale. Sulla base di quale dimostrazione empirica si possa affermare cio, è il caso di dire che solo dio lo sa.

La scienza invece stabilisce l’esistenza del cervello, organo in grado di elaborare tutte le informazioni ad esso giunte attraverso i cinque sensi. L’anima, concetto e termine assai arcaico, altro non sarebbe che la somma di tutte queste sensazioni, emozioni, percezioni, elaborazioni, ovviamente con vari gradi di complessità.
Tra cervello degli animali e cervello degli esseri umani (animali anch'essi) ci sono sì differenze, ma che non presuppongono minore o maggiore complessità. Semplicemente ogni specie ha un'intelligenza evolutiva diversa.
E cosa c’entra l’immortalità in tutto questo? Essendo il cervello un organo di pura materia, mi pare ovvio che con la fine del corpo fisico è soggetto anch’esso a perire, spegnersi, decomporsi. Questo insegna la scienza. Se poi un qualche tipo di attività energetica dovesse casomai proseguire e rimanere, ammesso e non concesso, non vedo perché il discorso non dovrebbe valere anche per il cervello degli animali. Stessa sostanza.
Animali umani e non, sotto la pelle, siamo fatti della stessa medesima sostanza (per citare un romanzo molto bello di Michel Faber il cui titolo è proprio “Sotto la Pelle”).
Abbiamo gli stessi occhi per vedere e piangere, la stessa bocca per mangiare ed esprimerci - sebbene con linguaggi differenti -, lo stesso naso per odorare, le stesse orecchie per sentire, gli stessi arti per muoverci, nuotare o volare - sebbene differenziabili per numero - gli stessi polmoni per respirare, lo stesso cuore per pompare sangue e mantenerci vitali, la stessa pelle - sebbene di colore diverso e ricoperta o meno di peli o squame che siano - e infine lo stesso cervello per elaborare le informazioni e i messaggi giunti tramite gli organi sensoriali. Non vedo perché a fronte di tante similarità solo una cosa dovrebbe invece essere diversa, e cioè questo presunto concetto di anima degli esseri umani che dovrebbe essere invece diverso e superiore ed in grado di restare immortale mentre quello degli animali non lo sarebbe.
La posizione della chiesa è pretestuosa e indimostrabile. E di un’arroganza mostruosa. 

3) Gli animali allevati sono stati "da sempre" il surrogato della caccia (e della pesca), oggi sempre più necessari anche per evitare la distruzione del sistema naturale…  con 7 miliardi di persone da sfamare.

Ammetto che anche qui ho dovuto tenere a bada il mio impulso a cedere a una sonora risata.
Ma signori miei, miei cari lettori, ma lo sapete che è invece esattamente l’esatto contrario di quanto va affermando l’autore dell’articolo?
Ora, senza stare a snocciolare i tanti testi che si occupano di geografia economica e politica e di politica dell’ambiente in cui si afferma appunto il contrario (un’efficace sintesi del tutto la trovate comunque su “Ecocidio” di Jeremy Rifkin, da me più volte già citato), vi basti fare un semplice calcolo: quanti vegetali deve poter mangiare un bovino per mettere su un chilo di peso? Le fonti mi dicono più o meno 15 kg di vegetali. Ovviamente un bovino, un maiale (che mangia cereali ed altro), un pollo (che, idem, mangia cereali), un ovino (mangia erba) prima di poter essere macellati devono poter mettere su diversi kg. Quindi il totale dei vegetali o cereali che devono mangiare aumenta proporzionalmente. Quante persone sarebbe invece possibile sfamare direttamente con tutti quei quantitativi di cereali e vegetali? Lo sapete che nei paesi cosiddetti del terzo mondo è in atto un grosso processo di desertificazione e deforestazione proprio a causa dell’ingente quantitativo di terreni che vengono usati per far pascolare i bovini e per coltivare cereali e vegetali destinati alla loro alimentazione? Ma non sarebbe meglio destinare quei cereali direttamente alla gente che muore di fame? Anche perché poi tutti questi bovini, ingrassati nei paesi del terzo mondo, verranno invece destinati ai paesi ricchi industrializzati.
Lo sapevate che nel 1982, quando ci fu quella famosa carestia in Etiopia di cui parlarono tutti i media e per cui si prodigarono anche molti gruppi e cantanti rock raccogliendo fondi con i loro dischi, in realtà tantissimi terreni - che potevano essere coltivati a riso, soia ed altri legumi e vegetali per sfamare milioni di gente - furono invece convertiti a terreni per la coltivazione di prodotti per sfamare i bovini?
Queste cose non le dico io, non lo dice un dogma di un testo arcaico, lo dicono fonti autorevoli, con tanto di letteratura e bibliografia in proposito.
Quindi se c’è un qualcosa che sta distruggendo il sistema naturale non è la conversione all’alimentazione vegetariana e la coltivazione dei vegetali, cereali, legumi destinati all’alimentazione umana, che invece sarebbe l’unico passo auspicabile per migliorare le sorti del nostro pianeta, ma, al contrario, l’allevamento - intensivo e non - degli animali e lo sfruttamento del terreno per alimentarli.
Inoltre le deiezioni dei bovini producono CO2, una delle principali cause dell’effetto serra  e del surriscaldamento del pianeta.
Quindi l’affermazione dell’articolista è del tutto errata, sotto qualsiasi profilo la si voglia analizzare.

Mi fermo qui, sebbene, come potrete immaginare, abbia tantissime altre cose da dire.
Mi limiterò ad aggiungere un’ultissima informazione per rendere il quadro maggiormente comprensibile.
Curiosità ha voluto che volessi informarmi su chi fosse l’autore dell’articolo, tale Giuseppe Bertoni.
Vi metto il link al suo curriculum vitae, qui:
A voi le ovvie conseguenze su quanti e quali interessi abbiano giocato a favore del suo articolo, oltre all’ottenebramento di una mente votata ai principi più retrivi ed oscurantisti della religione cattolica.
Cosa strana, la chiesa è sempre pronta a condannare ogni intromissione della scienza in ciò che riguarda la riproduzione dell'essere umano (contraria alla fecondazione assistita, ad esempio), ma quando si tratta di mettere a punto strumenti di biotecnologia - dei quali sembrerebbe occuparsi Giuseppe Bertoni - ogni scrupolo etico viene prontamente messo da parte.

Chiudo poeticamente riportando (lo so che siete stanchi, se mi avete letto fin qui, ma vi prego di fare un piccolo sforzo ancora, ché ne vale davvero la pena), uno dei pezzi più toccanti della storia della letteratura: un estratto da La Pelle di Curzio Malaparte.

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Un giorno Febo uscì, e non tornò più. Lo aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso la porta socchiusa.
Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando. All’alba corsi nuovamente per le strade deserte, fra le mute facciate delle case che, sotto il cielo livido, parevano di carta sporca. Non appena si fece giorno, corsi alla prigione municipale dei cani. Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino. II guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una macchina o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di giovinastri. Mi consigliò di fare il giro dei canai, chi sa che Febo non si trovasse nella bottega di qualche canaio?
Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria dell’Università, alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche. Corsi all’Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro.
Nel pomeriggio tornai all’Università, entrai nella Clinica Veterinaria. Il cuore mi batteva, non potevo quasi camminare, tanto ero debole e oppresso dall’ansia. Chiesi del medico di guardia, gli dissi il mio nome. II medico, un giovane biondo, miope, dal sorriso stanco, mi accolse cortesemente e mi fissò a lungo prima di rispondermi che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarmi.
Apri una porta, entrammo in una grande stanza nitida, lucida, dal pavimento di linoleum azzurro. Lungo le pareti erano allineate l’una a fianco dell’altra, come i letti di una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato, o dal petto spalancato.
Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle venature dei bronchi simili a rami d’albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all’ uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi.
Al nostro entrare tutti i cani avevano rivolto gli occhi verso di noi, fissandoci con uno sguardo implorante, e al tempo stesso pieno di un atroce sospetto: seguivano con gli occhi ogni nostro gesto, ci spiavano le labbra tremando. Immobile in mezzo alla stanza, mi sentivo un sangue gelido salir su per le membra: a poco a poco diventavo di pietra. Non potevo schiuder le labbra, non potevo muovere un passo. Il medico mi appoggiò la mano sul braccio, mi disse: “coraggio”. Quella parola mi sciolse il gelo delle ossa, lentamente mi mossi, mi curvai sulla prima culla. E di mano in mano che progredivo di culla in culla, il sangue mi tornava al viso, il cuore mi si apriva alla speranza. A un tratto, vidi Febo.
Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto. “Febo” dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. “Febo” dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito.
Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: “Non potrei interrompere l’esperienza” , disse, “è proibito. Ma per voi… Gli farò una puntura. Non soffrirà”.
Io presi la mano del medico fra le mie mani, e dissi, mentre le lacrime mi rigavano il viso: “Giuratemi che non soffrirà”.
“Si addormenterà per sempre”, disse il medico, “vorrei che la mia morte fosse dolce come la sua”.
Io dissi: “Chiuderò gli occhi. Non voglio vederlo soffrire. Ma fate presto, fate presto!”.
“Un attimo solo” disse il medico, e si allontanò senza rumore, scivolando sul molle tappeto di linoleum. Andò in fondo alla stanza, apri un armadio.
Io rimasi in piedi davanti a Febo, tremavo orribilmente, le lacrime mi solcavano il viso. Febo mi guardava fisso, e non il più lieve gemito usciva dalla sua bocca, mi guardava fisso con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Anche gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve gemito usciva delle loro bocche.
A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: “Perché questo silenzio?”, gridai, “che è questo silenzio?”.
Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve.
Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: “Prima di operarli”, disse, “gli tagliamo le corde vocali”
.

lunedì 16 gennaio 2012

Del Sonno, dei Sogni e della Nostalgia (e dell'auto-analisi)

Nostalgia, parola composta, dal greco nostos (ritorno) e algos (dolore), sta ad indicare esattamente il dolore del ritorno, ossia quella forma peculiare di dolore sperimentata quando ci si trova lontani da casa (in tedesco espressa anche come Heimweh, ove Heim significa proprio il focolare domestico, la casa d’origine). Pare che in letteratura sia stata attestata la prima volta nell’Odissea di Omero, a proposito del desiderio lacerante di Ulisse di far ritorno a casa.
Questo è il significato più o meno etimologico, più in generale però il termine nostalgia viene usato anche per indicare quel sentimento di perdita - tanto profondo quanto a volte indistinto - legato ad un qualcosa percepito come perduto per sempre, ad esempio l’infanzia, la giovinezza, un amore del passato, un amico perduto, un’esperienza vissuta ecc..
Credo che la peculiarità dell’unicità di ogni singola esperienza - e proprio per il suo carattere di unicità - contenga in sé il germe di questo sentimento nostalgico, maggiormente percepito quando all’esperienza si attribuisce o si finisce per attribuire un significato specifico.
E’ una condizione, questa della nostalgia, che mi capita di vivere spesso, in particolare in un frangente del tutto specifico: quando vado a dormire di pomeriggio.
Ho deciso di parlarne qui per sapere se accade anche a qualcuno di voi o se, al limite, possa esserci una spiegazione di tipo neurologico (o fisico che sia).
Mi capita ogni tanto di andare a dormire il pomeriggio (conduco una vita con orari piuttosto disordinati, faccio spesso molto tardi la sera, oppure pur andando a dormire ad orari decenti capita che magari non riesca a prendere sonno, di conseguenza a volte la mattina faccio fatica ad alzarmi e resto assonnata durante il giorno, così che, quando mi è possibile, assecondo l’esigenza di fare la cosiddetta “pennichella pomeridiana”) e immancabilmente mi capita di sognare - sogni brevi ma intensi quanto quelli notturni - o mattinieri che siano: pare che in realtà si sogni infatti soprattutto nelle ultime fasi del sonno, quello del primo mattino, anche se si ha l’impressione di aver sognato tutta la notte; fin qui nulla di strano; il punto è che ogni volta che mi risveglio da questi brevi sonni accompagnati da sogni avverto un dolore lacerante, talmente lacerante e straziante da non saper nemmeno come descriverlo: è un po’ come se tutto il peso ed il dolore del mondo si fosse ammassato su di me, un po’ come se io fossi divenuta depositaria di tutto il dolore esistente, in più ha sempre questa connotazione inconfondibile di perdita, di qualcosa che è andato irrimediabilmente perduto. Una condizione nostalgica elevata all’ennesima potenza. Il bello (o il brutto) è che non riesco assolutamente ad identificarne l’origine. Ci può stare che io a volte abbia pensato,  magari prima di cadere nel sonno profondo - diciamo nella fase iniziale ipnagogica in cui le percezioni esterne iniziano a confondersi con le prima, vaghe, aleatorie immagini oniriche -  a situazioni del passato, alla mia adolescenza ed anni trascorsi, ad esperienze gradevoli, belle che hanno contraddistinto il mio passato, e fin qui lo posso capire che magari dalla rielaborazione del tutto nell’attività onirica si possa sprigionare il sentimento della nostalgia, scaturito quindi dalla presa di coscienza di giorni, situazioni, sensazioni che ormai appartengono al passato e che non torneranno mai più, ma come si spiega tutto il resto delle volte in cui invece il pensiero del passato è stato del tutto assente (sia dai sogni, sia dai miei pensieri e riflessioni pre-sonno)?
Da dove viene questo dolore sordo, cupo, ingombrante, quasi soffocante, da costringermi immediatamente ad alzarmi, aprire le tende, prendere aria, prendere contatto con la realtà? E, ripeto, mi accade sempre e solo di pomeriggio, quando dormo di pomeriggio.
Allora ho pensato che potrebbe essere proprio l’effetto dello specifico tipo sonno pomeridiano, di un’attività cerebrale ed onirica in qualche modo diversa rispetto a quella notturna, come se venissero attivate aree del cervello normalmente non implicate durante l’attività notturna.
Qualcuno di voi sa dirmi qualcosa in merito? A voi è mai successo?
E comunque, al di là di tutte le considerazioni di carattere neurologico che si potrebbero fare, mi interessa anche a questo punto intellettualizzare un po’ il tutto, provare quindi a rendere in una chiave letterario-immaginaria (e vagamente psicanalitica) la peculiarità di questo lacerante dolore.
Mi domando allora se non esista davvero un qualche posto specifico dal quale tutti proveniamo, un posto dal quale a forza ci hanno staccato e che ci hanno costretti a dimenticare, ma che, in qualche modo, resta come ricordo soffuso ed indistinto dento di noi. Un posto al quale, inconsciamente, ad un qualche livello profondissimo del nostro sub-conscio, ambiremmo far ritorno ed a cui, talvolta, ci è permesso accedere, ma solo in sogno e solo a costo che si verifichi una determinata attività onirica, possibile solo in specifiche condizioni. Poi il risveglio. E da lì la consapevolezza di aver dovuto subire nuovamente quello strappo originario, quel distacco forzato da un nucleo originario cui avremmo anelato appartenere per sempre. Ed ecco il perché di quel dolore sordo, oppressivo, lacerante, come se tutto lo strazio del mondo fosse compresso in un unico punto e quell’unico punto stesse premendo sul cuore. Un dolore che, a volerlo sciogliere in lacrime, causerebbe un pianto infinito ed ininterrotto fino alle fine dei tempi.
E mi domando allora altresì se questo nucleo originario cui vorremmo disperatamente ricongiungerci non sia altro che il ventre materno, liquido amniotico avvolgente, vita primigenia, inizio di tutto.
Forse è un caso, ma io sono nata di sette mesi, venuta al mondo troppo presto, sopravvissuta per caso; costretta a dovermi separare forzatamente dal ventre caldo di mia madre causa un fibroma che letteralmente stava invadendo il mio spazio vitale: sono nata a dicembre, fuori c’era la neve, in un piccolo ospedale di paese in cui non c’era nemmeno un’incubatrice (parliamo di più di quarant’anni fa, e sì che ora vi ho detto anche la mia età) e quindi, avvoltami in più strati di ovatta e al contatto di una borsa dell’acqua calda, mi hanno infilato di corsa in un’ambulanza e portata all’ospedale della città più vicina. Passata dal calore del liquido amniotico al freddo di una notte d’inverno. Dalla percezione di uno stato di pace assoluta e di completo benessere a quella - già di per sé traumatica - del venire al mondo: esposta al freddo, depositata nel luogo asettico di un’incubatrice, impossibilitata a poter sentire la voce di mia madre, quella voce che avevo imparato a conoscere da dentro la sua pancia. Non sapevano nemmeno se sarei sopravvissuta. Pesavo un chilo e due ed erano tempi diversi rispetto ad oggi.
Forse non c’entra nulla, ma può essere che io continui a portare dentro di me il peso di questo trauma originario della mia nascita, di questo distacco forzato, immaturo, precoce, del passaggio troppo brusco e repentino da uno stato di benessere ad uno di disagio fisico.
E magari questo dolore che immancabilmente si fa sentire al risveglio da un sonnellino pomeridiano non è altro il ricordo di quel primo dolore, cui si accompagna questo sentimento nostalgico profondo scaturito dal desiderio - inconscio, segreto, sotterraneo, viscerale - di voler far ritorno a quel nucleo originario della mia esistenza. Forse morire sarà come tornare. Un annullarsi bellissimo nel più bel ricordo di sé, un ritrovare ciò che di più prezioso un tempo abbiamo avuto e che abbiamo creduto perduto per sempre.

giovedì 12 gennaio 2012

Il Sentiero (On the Path) di Jasmila Žbanić


Segnalo questo interessante film, Il Sentiero, che uscirà nelle sale il 20 gennaio p.v.; interessante per le tematiche affrontate ed anche per lo stile realista-minimalista, con dialoghi ridotti al minimo, scene ravvicinate di intimità domestica e di volti, gesti, corpi in primo piano, a tracciare una soggettività e l’idea di un’ineludibilità del proprio essere con la quale - prima di affrontare qualsiasi cammino condiviso ed anche dopo -  si è costretti a fare i conti.

In sintesi Il Sentiero è la storia di una coppia, Luna ed Amar, e del loro percorso insieme per costruire un futuro, un futuro nel quale progettano di formare una famiglia, avere un bambino e condividere l’esistenza. Poi, come in ogni percorso che si rispetti, si trovano di fronte ad alcuni ostacoli e ad un certo punto quel sentiero che avevano creduto in comune, si divide. Dapprima Amar perde il lavoro, poi incontra un ex compagno d’armi (la storia è ambientata a Sarajevo nei giorni nostri), divenuto wahhabita, e decide di seguirlo nella comunità religiosa in cui vive in cambio di un lavoro. Amar intraprende così un percorso che lo allontanerà da Luna.
Attenzione però, il film non vuole essere, come ha dichiarato la regista stessa, una presa di posizione contro il fondamentalismo islamico in particolare (“ho scelto l’Islam perché è la religione organizzata che conosco meglio”, ha detto) e nemmeno sulla religione in generale, bensì intende raccontare il percorso di vita di una coppia in cui, da un certo momento in poi, uno dei due decide di intraprendere un certo cammino che non potrà essere condiviso dall’altro.

Molte più informazioni in merito ed una riflessione un pochino approfondita potrete comunque leggerle qui, nella recensione che ho scritto per MENTinFUGA.

martedì 10 gennaio 2012

Roku e Hex

Riporto dal sito della Lav  il seguente articolo, ma la notizia comunque è stata riportata nei giorni scorsi anche su tutti i giornali; non volevo parlarne, ma poi ho visto questo video, di cui ho trovato il link sempre sul sito della Lav e mi sono sentita sopraffare dalla tristezza.  E vi prego di guardare il video.
E' vero, le scimmiette sono quanto di più dolce e meraviglioso io abbia mai visto in vita mia, ma non posso fare a meno di domandarmi quale futuro abbiano. Mi fanno una pena e tristezza infinite.
Vedere degli esserini trattati al pari di fenomeni da baraccone, costantemente esposti all'occhio dei riflettori, manipolati con guanti asettici, impossibilitati a ricevere l'affetto di una madre amorevole, smarriti in un mondo di cui non potranno mai capire le leggi. Venuti al mondo senza alcun fine di quello di dimostrare che l'essere umano può assomigliare all'invenzione - da egli stesso creata - di un dio.
Non so voi ma io in quegli occhietti ci leggo esclusivamente una cosa: "?". Un enorme punto interrogativo. Un gigante "Perché?" rivolto all'universo.

E subito mi è venuto in mente un altro "perché?", quel perché che il piccolo Useppe, protagonista de La storia di Elsa Morante, sofferente di epilessia, rivolge alla madre proprio all'uscita dall'ospedale dopo aver dovuto subire una delle tante visite mediche: egli alza gli occhi al cielo e sconsolato, in preda ad una disperazione, smarrimento e sofferenza senza nome, rivolge, alla madre e all'universo insieme, questa semplice domanda: "ah ma', pecché?".
Si nasce senza un perché, senza alcuno scopo nella vita se non quello che ad ognuno di noi piacerà darle, possibilmente - per quanto mi riguarda - nel tentativo di evolvermi ed evitare di causare meno male e dolore possibili in aggiunta a quello che è nella nostra condizione sperimentare ("sento il pianto di tutte le creature che sono destinate a morire" dice Charlotte Gainsbourg in Antichrist di Lars von Trier, film da me stra-citato), ma si nasce almeno da un atto di amore, sebbene a volte egoistico e sebbene non sempre (il piccolo Useppe de La Storia nasce in seguito ad uno stupro, ad esempio), soprattutto si nasce per assecondare l'istinto di perpetuazione e sopravvivenza della specie.
Nel caso di queste scimmiette però non posso fare a meno di domandarmi: perché far venire al mondo delle creature che soffrono, sentono, provano sentimenti solo allo scopo di poter dimostrare che è possibile farlo? Non hanno genitori, non avranno probabilmente prole, e comunque sia perché l'essere umano è dovuto intervenire sulla "creazione" in laboratorio di altre specie? 
Attenzione eh, io non sono affatto contraria alla fecondazione assistita ad esempio (non essendo religiosa, né conservatrice, né creazionista), ma in questo caso si tratta solo di aiutare la specie umana a riprodursi là dove non riesce da sola; è vero che personalmente non ho nemmeno voluto figli perché non ho mai sentito questa necessità di riprodurmi, mai avvertito questo istinto materno tanto decantato, ma comunque posso comprendere la necessità di alcune coppie di avere figli e quindi non ci vedo nulla di male nella fecondazione assistita e nemmeno in quella in vitro; questo per ribadire che il mio non vuole essere un atteggiamento anti-scientifico, purché la scienza agisca nel rispetto di tutte le specie e non provochi dolore, non faccia esperimenti inutili, non sperimenti sugli animali e sugli uomini.
Il caso di queste scimmiette però è totalmente diverso. Non si è trattato di dare una mano a due scimpanzé che volevano avere un cucciolo e non ci sono riusciti. Non si è trattato di un gesto di amore e nemmeno di quello istintuale di riprodursi.
Qual è il senso di questo esperimento allora? Di questo aver dato vita a degli esserini che poi saranno costretti a vivere tutta la loro esistenza chiusi dentro la gabbia di un laboratorio? Costantemente monitorati, studiati, osservati, manipolati, prese di mira dai media e dagli "studiosi" di tutto il mondo. L'unico senso è quello di dimostrare che lo si può fare. Un esperimento fine a se stesso. Che comporterà sofferenza, smarrimento, alienazione, dolore agli esserini stessi. Che sarà fonte di sofferenza inutile.
Ma avete visto quegli occhietti? Ma quanto smarrimento vi leggete? Io mi sento male solo a pensarci.
Immaginate voi stessi venuti al mondo in un laboratorio, in un mondo di cui non comprendete il senso e le leggi, senza mai avere una carezza, un abbraccio, una manifestazione di amore ed affetto. Immaginatevi chiusi in gabbia, costretti ad essere "studiati", manipolati, toccati, fotografati, accecati dalle lampade dei riflettori, costretti a viaggiare e ad essere spostati all'interno di gabbie per essere mostrati a convegni ecc.. (perché questa è la sorte che attende queste scimmiette!) e magari usati anche per testare farmaci, per capire se vi ammalate e come e non oso immaginare per chissà cos'altro. Che pensereste?
A me sembra che a questo tipo di esperimenti, come del resto ad ogni altro fatto sulla pelle di qualsiasi altro vivente, si possa dare solo un nome: ARROGANZA
Ecco, quando leggo notizie del genere io maledico la specie umana. Sì, la maledico e maledico me stessa di farne parte.

domenica 8 gennaio 2012

E dio creò la mucca e le disse: ...



Prendendo spunto dall’ultimo post di Masque, autore dell’interessante blog Il Neurone Proteso, torno a parlare di antispecismo, tematica quanto mai interessante e che riguarda TUTTI da vicino... sì, TUTTI da vicino, cari specisti onnivori, ed è inutile che voi diciate: “ah, che palle, qui si parla di animalismo, antispecismo, vegani e vegetariani, è tutta roba che non mi interessa”, perché la questione di CHI vi mettete nel piatto invece riguarda proprio voi e dovrebbe interessare  esclusivamente voi; noi animalisti infatti faremmo volentieri a meno di parlare delle crudeltà inflitte agli animali se non ce ne fosse bisogno, ed è inutile che vi tappiate le orecchie e copriate gli occhi per non sentire e non leggere perché tanto siete ancora proprio voi a dovervi confrontare con la bistecca che vi occhieggia dal piatto e con la striscia di sangue che vi trascinate dietro - sebbene invisibile - e ancora voi a dover fare i conti con le tante contraddizioni che avete l’abitudine di sparar fuori per giustificare l’abitudine di nutrirvi di animali. Che possiate almeno imparare a controbattere risparmiandoci un po’ di ovvietà.
Diciamo che durante questo periodo di feste appena trascorso ho avuto modo di raccogliere un bel po’ di materiale interessante, essendomi trovata più spesso a contatto (cene fuori, inviti vari nelle case ecc.), oltre che con i soliti amici, anche con persone poco conosciute e persino del tutto sconosciute.
Trovarsi a tavola (ristorante o casa) con persone nuove è per noi vegetariani e vegani sempre un momento “particolare”- e, prendendolo per il verso giusto, anche momento di grande ilarità - perché immancabilmente ci sarà quello che farà domande, che vorrà sapere (domande alle quali, peraltro, quando evidenziano una onesta e sana curiosità, si risponde sempre molto volentieri), e ci sarà anche quello che, con due frasi perentorie pronunciate a mo’ di slogan che non ammette repliche, ci terrà  a dire la sua. A quel punto o si risponde seriamente correndo il rischio di trasformare la serata in una diatriba pesante tra specisti ed antispecisti, oppure si farà finta di non aver sentito e si proseguirà mangiando in tutta tranquillità, o anche si risponderà con una battutina lieve ed ironica - della quale difficilmente verrà colto il sarcasmo sottinteso - a stemperare il tutto.
Personalmente ho adottato questo sistema: ad ogni banalità ed idiozia sentita, butto giù un sorso di vino. Finisco sempre per tornare a casa ubriaca, ma almeno impedisco alla sconforto ed alla disperazione di avere il sopravvento. Certo, il mio fegato ne sta risentendo un pochino, ma almeno la mia salute mentale ringrazia.
Ammetto infatti di essere un po’ stanca e di non aver avuto negli ultimi giorni tutta questa voglia di replicare e di affrontare argomenti per me serissimi, così il più delle volte ho preferito far finta di non aver sentito continuando a dialogare sommessamente con il mio bicchiere.
In realtà dentro di me ho preso nota di tutte le assurdità e banalità che ho avuto modo di raccogliere in queste serate, deduzioni e conclusioni che adesso è giunto il momento di proporvi in tutto il loro splendore.
Se qualcuno si dovesse riconoscere come autore di queste banalità, o vi si dovesse anche solo ri-conoscere nel senso di condividerle, non se la prenda. Colga semmai l’occasione per riflettere e per cominciare ad elaborare in maniera un pochino più articolata la cultura specista in cui è immerso. 
Iniziamo con la lista di assurdità e banalità:
 
1) “ci sono animali nati ed allevati apposta per essere mangiati; ergo, è giusto mangiarli. Questi animali dovrebbero ringraziare l’uomo perché se non fosse per lui non sarebbero nemmeno mai venuti al mondo”.

Un cane incontra una mucca: “ciao mucca, qual è il tuo scopo nella vita? Il mio è quello di riportare indietro la palla al mio padrone” - “ah, beato te, il mio è quello di finire nel piatto, però sono tanta contenta eh, contentissimissima, altrimenti non avrei mai avuto questa stupenda possibilità di nascere per stare poi rinchiusa in una gabbia tutta la vita e poi di venire uccisa e mangiata”.

Ma vi rendete conto dell’assurdità?

Questa assurda deduzione deriva da una visione utilitaristica dell’esistenza diffusa in primo luogo dalla religione cattolica, secondo la quale l’uomo nascerebbe per un preciso fine, quello di lodare e servire dio al fine di ricongiungersi con lui dopo la sua morte - solo se però si comporta bene e si pente delle sue eventuali malefatte, ché uno può anche uccidere però l’importante è pentirsene poi - essendo la vita solo un momento di passaggio, un luogo ove, eventualmente, mettere alla prova la fede dell’uomo nei confronti del suo creatore. Per la chiesa cattolica esiste solo l’aldilà. Il fine ultimo dell’uomo è ricongiungersi a dio e brillare della sua luce riflessa per l’eternità.
Attenzione però perché solo l’uomo sarebbe stato fatto ad immagine e somiglianza di dio, tutto il resto invece sarebbe stato “creato”, in un’accezione unicamente utilitaristica e strumentale, unicamente allo scopo di servire l’umanità (e quest’ultima dio, insomma, ognuno con un preciso scopo, e che non si osi mettere in discussione questa piramide di potere e privilegi). Gli animali quindi sono stati creati affinché l’uomo se ne servisse (per lavorare, per sfamarsi, per vestirsi, finanche per allietare le sue dure giornate di lavoro usandoli come “diversivo amicale”).
Ma vi rendete conto che tutto questo discorso è un discorso antiscientifico, antievoluzionistico e volto a propagare e tramandare una cultura retriva e totalmente superata?
Solo l’uomo ha l’anima? E, di grazia, in cosa consisterebbe questo concetto di anima per cui solo l’uomo la possiede mentre gli animali no e quindi per questo non importa se li si uccide, strumentalizza, mangia? 
Ci aveva già provato Cartesio a rispondere alla domanda su cosa fosse l’anima (quello stronzo di Cartesio, aggiungerei io, visto che dobbiamo anche alle sue teorie del tutto errate, se nella cultura occidentale per tanto tempo, e per alcuni ancora oggi, l’animale viene considerato al pari di una macchina, incapace di provare dolore, sentimenti e di essere consapevole della sua esistenza), finendo per cacciarsi in un ginepraio di congetture alla fine delle quali si è dovuto inventare un sistema di collegamento del tutto arbitrario tra sensi, puramente meccanici, ed “anima” al fine di riuscire a dimostrare l’esistenza di quest’ultima appellandosi così e rielaborando il concetto affatto nuovo del dualismo anima-corpo.
 
2) Anche io sono contraria alle pellicce, però posso capire quelle di coniglio o gli accessori in pelle  perché tanto i conigli, mucche, vitelli ecc. vengono comunque uccisi per essere mangiati e quindi tanto vale usare anche la loro pelle.

Un visone incontra un coniglio che piange: “perché piangi?”- “ho sentito dire che con la mia pelliccia vogliono guarnirci il collo di un giaccone” - ah, e perché ti lamenti? Tanto saresti morto comunque per finire nel piatto di qualcuno ed essere mangiato” - dici davvero? A questo non ci avevo pensato, sai? Allora se è così cambia tutto” e se ne va via tutto saltellante, contento e sfavillante di gioia e letizia.

Anche qui, vi rendete conto dell’assurdità?

Ma per quale motivo dovrebbero esistere morti meno inique ed uccisioni più giustificate e giustificabili rispetto ad altre?
Ma... uccidere, non è sempre... uccidere?

3) Ma la carne che compro al supermercato è di un animale già morto. Non l’ho mica ucciso io.

Possibile che ci sia gente che non riesca a fare due più due? Possibile che a queste persone non venga in mente che più carne, pesce, uova, latte vengono acquistati e più animali vengono allevati ed uccisi per soddifarne la richiesta?

4) (questa è vecchia, l’ho già riproposta, ma è anche la più gettonata): è giusto che ognuno si senta libero di fare quello che crede. Ognuno ha il diritto di mettere nel piatto quello che gli pare.

Innanzitutto questa frase andrebbe riformulata così: “di mettere nel piatto CHI gli pare, e non COSA o QUEL, visto che si sta parlando di esseri viventi.”

Secondo poi, mi domando con quale faccia tosta ci si possa appellare ad una libertà e diritto di scelta quando ciò che queste persone impediscono e soffocano è proprio la libertà ed il diritto di continuare a vivere di altri esseri viventi.

5) Anche gli animali si uccidono tra loro per mangiare. Se incontrassi un orso in una foresta, lui mi ucciderebbe senza nemmeno pensarci un attimo.

Gli animali vivono in uno stato di natura ed alcuni di essi sono carnivori. L’uomo no, non è carnivoro, è onnivoro, il che significa che volendo potrebbe mangiare di tutto (anche carne umana), ma che non è necessario che si nutra di altre specie animali o della sua per vivere bene.
A quanti di voi è capitato di trovarsi faccia a faccia con un orso o con uno squalo che vi voleva mangiare?
A quanti di voi capita invece di entrare in un qualsiasi supermercato, alimentari, bar, ristorante e di vedere esposti migliaia di cadaveri di esseri un tempo viventi e che sono stati uccisi apposta per finire nel vostro piatto?
L’uomo non vive più in uno stato di natura da secoli. Vive in realtà urbanizzate e civilizzate. Smettetela di fare appello alla “natura” solo quando vi fa comodo giustificare l’uccisioni degli animali per soddisfare l’egoismo del vostro palato e poi, al contrario, in altri contesti, riempirvi invece la bocca di parole come progresso, tecnologia, premio nobel, arte, intelligenza, evoluzione, filosofia, morale, etica, conquista della luna, divano comodo sul quale mi spaparanzo a guardare un film in 3D, informatica, realtà virtuale, mondo digitale, iPhone, iPad e che figata la tecnologia per vantarvi e mostrarvi in tutto il vostro fulgore di specie evoluta che vive in realtà ipertecnologizzate.
Come ci si può appellare alle leggi della natura dall’alto di un grattacielo dal quale inviamo sms con telefonini sofisticatissimi?

Le cose sono due: o confermiamo la nostra evoluzione di specie, ma allora sarebbe ora di farlo anche sotto il profilo etico e quindi dovremmo smetterla di utilizzare le nostre capacità ed abilità fisiche ed intellettuali per dominare, sottomettere, sfruttare, schiavizzare, torturare, uccidere altre specie; oppure, se proprio non si riesce a meno di appellarsi alla “natura” dovremmo, per onestà intellettuale, considerare lecito, “naturale”, “normale” ucciderci anche tra di noi, essendo animali tra gli animali che non hanno mai smesso di comportarsi in base alla sopraffazione del più forte sul più debole.
E siccome non ci piace questo discorso della sopraffazione quando limitato alla sola nostra specie e tutti allora siamo pronti a tirare in ballo parole come empatia, etica, giustizia, democrazia, non-violenza, non-razzismo, uguaglianza ecc., allora dovremmo, per onestà intellettuale, estenderlo a TUTTE le altre specie viventi.
O siamo agenti morali, o non lo siamo.
O siamo esseri dotati di intelletto, empatia, amore e quindi in grado di prenderci cura e di aiutare chi è più debole (i bambini, gli animali, gli anziani, i malati) oppure siamo predatori istintivi in mezzo ad una giungla. Il che potrebbe starmi pure bene, ma allora, caro specista, non venirmi a parlare di tuoi diritti e di tue libertà di compiere scelte, o di democrazia.

6) Mangio gli animali perché la loro vita non può essere minimamente paragonata a quella di un essere vivente: gli animali sono meno intelligenti, non sono in grado di creare l’arte, di parlare, di leggere, di scrivere, non hanno inventato i telefonini ecc..

Questo è un discorso del tutto errato sotto il profilo scientifico. Paragonare una specie ad un’altra è cosa del tutto fuorviante in quanto ogni specie porta magnificamente a compimento quelle caratteristiche  e quell’intelligenza che le è propria come specie e fare paragoni è assurdo almeno quanto lo sarebbe paragonare i versi di una poesia con la carrozzeria di un’automobile. Ogni specie è un mondo a sé, sebbene tutte partecipino e condividano il medesimo principio della vita e tutte siano necessarie ed ugualmente importanti a mantenere e preservare l’equilibrio sul pianeta terra.
Un discorso del genere comunque, implicitamente ammettendo che si possa abusare di altre specie solo perché ritenute inferiori, conduce, nelle sue estreme manifestazioni, al razzismo ed ai campi di sterminio. Qualora si ammettesse il principio che sia lecito usare, schiavizzare e torturare altri esseri viventi solo perché ritenuti meno intelligenti, allora si aprirebbe il campo a qualsiasi altra ipotesi, congettura, parametro discriminante.
Siamo tutti diversi, specie e specie, uomini e donne, adulti e bambini, anziani e giovani, cani e gatti, pesci e rettili, umani e non umani, singolo individuo e singolo individuo, ma tutti abbiamo qualcosa in comune: la vita, la qualità inerente dell’essere vivi. Qualità quindi NON utilitaristica e strumentale  (non quindi animali nati per essere mangiati), ma inerente (animali nati per vivere, esseri viventi perché portino a compimento la qualità inerente del vivere).
Non si può utilizzare la diversità come parametro discriminante perché è un qualcosa che è già stato fatto in passato ed ha condotto a degli esiti a dir poco mostruosi: schiavitù dei neri, campi di sterminio nazisti, gulag comunisti, xenofobia, sessismo, maschilismo, omofobia, inquisizione cattolica sono tutti esiti mostruosi che discendono da questo unico concetto: discriminare un altro essere vivente sulla base della sua diversità di colore della pelle, nazionalità, religione, sesso, idee politiche, specie.
Essere specisti vuol dire discriminare sulla base di una diversità di specie. Si tratta del medesimo atteggiamento e della medesima radice che conduce al razzismo, all’omofobia, all’intolleranza religiosa e a tutte le altre terrificanti manifestazioni di cui l’essere umano nei secoli ha dato prova di sé, a dispetto della sua pretesa superiorità intellettuale ed intelligenza.