lunedì 25 febbraio 2019

Sulle intersezioni

Bene evidenziare le analogie nelle varie forme di oppressione, ma ogni lotta deve mantenere un'assoluta autonomia di pensiero rispetto alle altre perché combatte una forma specifica di oppressione.
Per capirci, il femminismo è lotta contro l'oppressione di un sesso sull'altro e deve restare autonomo su questo altrimenti rischiamo che le donne spariscano sullo sfondo di altre questioni prettamente maschili e maschiliste (vedasi movimenti di sinistra che promuovono la prostituzione o la gpa, ad esempio o un femminismo annacquato che lascia intatte le dinamiche patriarcali di oggettificazione e svalutazione dei corpi); l'antispecismo è lotta contro l'oppressione di una specie sulle altre e deve preservare una sua autonomia di pensiero altrimenti rischiamo che gli altri animali spariscano sullo sfondo di altre questioni prettamente umane; a ancora, l'anticapitalismo è lotta contro un determinato sistema economico e tale deve restare, altrimenti rischiamo di sovrapporlo ad altri concetti che esprimono varie forme di dominio (tipo, esempio, il patriarcato), ma preesistenti al capitalismo stesso. 
Ora, si possono riscontrare analogie tra femminismo e antispecismo, simili possono essere alcune forme di sfruttamento e sicuramente spesso le une si appoggiano sulle altre per rafforzarsi reciprocamente (le parti del corpo delle donne nei bordelli vengono vendute come in una sorta di macelleria simbolica e reale al tempo stesso, non vengono mangiate, ma lo stesso consumate, sfruttate, violentate oppure nel linguaggio si denigra il femminile attraverso l'uso di termini che afferiscono al mondo degli altri animali, soggetti già denigrati e già percepiti come inferiori attraverso un'opera di delegittimazione di millenni), però il femminismo si occupa del modo in cui le donne sono sfruttate e l'antispecismo del modo in cui sono percepiti e sfruttati gli animali nella nostra società, in un'autonomia di pensiero che tale deve restare, pur presentando appunto - e questo nessuno lo nega e scusate se lo ripeto - analogie.

Capitalismo e specismo non sono sinonimi

Quando si parla di vittime e sfruttati del capitalismo mi pare che si faccia un po' di confusione.
I pastori sardi, per quanto in misura modesta, sono comunque lavoratori autonomi, imprenditori, piccoli allevatori che si tramandano l'attività spesso di generazione in generazione o che l'avviano di spontanea volontà su un territorio dove tale attività è radicata. 
Queste persone non sono vittime, né sfruttate. Che poi sia un'attività che oggi presenti dei problemi in termini di ricavo, quindi di reddito, è un altro discorso. 
Ma in nessun modo possono essere paragonate ad altre persone di altre situazioni.
C'è differenza ad esempio tra il pastore autonomo sardo e l'immigrato assunto come manodopera dal grosso allevatore del nord per pulire la merda di migliaia di maiali ammassati dentro gli allevamenti intensivi per pochi spicci al giorno.
Sebbene in misura nettamente diversa, l'immigrato in questo preciso contesto è uno sfruttato, una vittima del capitalismo globale, ma, posso affermare con assoluta certezza, sarebbe ben felice di cambiare lavoro se solo gliene venisse offerta l'opportunità. A differenza del pastore sardo che è ben attaccato alla sua attività - che definisce tradizionale - e che non vuole cedere, non vuole riconvertire o dismettere, ma che anzi difende con le unghie e con i denti appellandosi a concetti quali appunto tradizione, lavoro, territorio e via dicendo, in pratica difendendo quanto di più conservatore ci possa essere nella nostra società. Gli stessi concetti che usa il grosso allevatore. Quindi, la differenza è solo sull'entrata di denaro e sul fatto che il grosso allevatore sfrutti anche le persone umane, la cosiddetta manodopera, oltre agli animali, ma entrambi sono imprenditori sulla pelle di vite altrui, quindi rappresentanti di quel dominio che si vorrebbe combattere. 
Il pastore esprime sempre una forma di dominio. Non sarà un capitalista, ma è oppressore nei confronti degli altri animali. Ora, considerarlo meno oppressore solo perché non è capitalista, significa tenere in considerazione minore gli altri animali rispetto agli umani. Come se il fatto di sfruttare anche la manodopera umana fosse più grave che non sfruttare solo gli altri animali. Come se il capitalizzare la pelle degli animali, ossia metterla a profitto, fosse meno grave.

Essere antispecisti significa in primis schierarsi con gli altri animali e di riflesso essere anticapitalisti. Ma non essere anticapitalisti in primis e poi includere un'attenzione anche agli altri animali perché in questo modo li si fa restare sempre comunque sullo sfondo ponendo in primo piano sempre e comunque gli umani. Da cui discendono appunto discorsi come quello di sopra, ossia che il pastore sardo sarebbe uno sfruttato solo perché almeno non è capitalista.

Leggo cose sinceramente imbarazzanti, del tipo meglio un anticapitalista onnivoro che un vegano capitalista: entrambi non hanno nulla a che fare con l'antispecismo. Il primo perché se si mangiano gli oppressi e ci si schiera con i pastori sardi semplicemente non si è antispecisti. Il secondo perché un veganismo svuotato delle sue istanze più radicali è solo una dieta. Ma, ad ogni modo, dominio e capitalismo non sono sovrapponibili perché il dominio è agito ed è sempre stato agito anche in contesti e società non capitalistiche. Le società rurali e pastorizie esprimevano già un dominio. Nella Grecia classica le società arcadiche esprimevano già forme di dominio sugli altri animali. Anche se non si trattava di capitalismo.
Capitalismo e dominio non sono sovrapponibili. 
Capitalismo e specismo non sono sovrapponibili.
Il pescatore di una piccola isola, per quanto faccia la fame, esprime comunque dominio sugli animali e specismo. Ora, stigmatizzare solo il capitalismo, ma non il dominio in ogni sua forma, non è antispecismo. Stigmatizzare il capitalismo, ma non riconoscere lo specismo come forma peculiare di oppressione sugli animali non umani non è antispecismo. È solo appunto anticapitalismo. Anticapitalismo miope perché non solo non tiene conto delle vittime non umane, ma non le riconosce nemmeno come soggetti.

P. S.: c'è anche chi farebbe ricondurre la nascita del capitalismo alle prima società stanziali alla fine del neolitico. Ma a maggior ragione allora, in tal senso, pure i pastori sarebbero dei capitalisti.

giovedì 21 febbraio 2019

Da referenti assenti a individui

Per chi li sfrutta, gli animali non vengono proprio riconosciuti come individui, non sono un interlocutore dialettico, sono solo oggetti o macchine, tanto quanto potrebbe esserlo il bullone del pezzo che un operaio sta assemblando.
Che vengano riconosciuti come individui è proprio lo step principale della nostra lotta, altrimenti il nostro metterne in discussione lo sfruttamento non verrà nemmeno preso in considerazione. Che ci piaccia o meno stiamo ancora a questo punto e ci stiamo perché l'oppressione degli altri animali è millenaria ed è un'ideologia che abbiamo interiorizzato nel profondo.
L'abbiamo visto bene nella questione attuale del latte, dove in nessun discorso si fa riferimento alle vere vittime, ai veri soggetti in gioco, che sono le pecore e i loro figli e non i pastori o le loro famiglie, tanto meno il dogma del lavoro tradizionale che pare che sia una cosa intoccabile. 
Intoccabili dovrebbero essere le vite altrui, ma per parlare di diritto e rispetto della vita bisogna riconoscerla nei soggetti di cui si parla, bisogna riconoscere e individuare i veri soggetti del discorso.

Ora, il punto non è che IO non li riconosca come individui, io li riconosco come tali, altrimenti non sarei diventata antispecista, non sarei vegana, non mi sarei attivata in questa lotta di giustizia, il punto è che quando si dà per scontato, nella comunicazione, che il soggetto di cui si parla sia percepito all'esterno e dagli altri alla stessa maniera in cui lo percepisce chi sta mandando un massaggio, si sta facendo una comunicazione autoreferenziale e per questo inefficace e fallimentare. 
Il linguaggio, i segni, tutto quanto nella nostra cultura è basato su convenzioni comunemente accettate e soprattutto condivise perché se non c'è condivisione non ci si capisce. 
Ora, se quando si parla della questione del latte attuale, per dire, io penso alle pecore sfruttate e il mio interlocutore invece vede solo i pastori o il latte come prodotto, è ovvio che non ci capiamo. Non ci rappresentiamo proprio la stessa immagine mentale. Comunicare la nostra è importante perché così si attua uno spostamento di prospettiva, ma, ed è qui che subentra la difficoltà massima, se non riesco a scalfire l'immagine interiorizzata da millenni di cultura specista della pecore come mezzo di produzione anziché come individuo, quale effettivamente è, il mio discorso di lotta contro l'oppressione degli altri animali risulterà bizzarro, estremista, nel migliore dei casi come il risultato di un'affezione particolare verso gli animali che non deve necessariamente essere condivisa da tutti.
Quindi il punto su cui dobbiamo insistere, lavorare, qual è? Riuscire a far capire che gli altri animali sono individui e non oggetti. Ma mai in nessun modo comunicare dando per scontato che gli altri li vedano già così.
Di fatto sono ancora referenti assenti. In ogni discorso. Il latte è un alimento e chi lo produce, la pecora, è assente dal discorso e dall'immagine mentale. Al suo posto si parla del pastore, come se lo producesse lui, anche se di fatto lui possiede e schiavizza dei corpi affinché lo producano e affinché possa trarne profitto. Il pastore (allevatore) di fatto è un ladro di vite e lavoro altrui. Un po' come il padrone della fabbrica, certo, ma gli animali non occupano nell'equazione lo stesso posto dell'operaio, bensì del bullone che lavorano e al posto dell'operaio al massimo c'è la semplice manodopera assunta per pulire e fare lavori più pesanti.
Bisogna lottare affinché gli altri vengano presi in considerazione in quanto individui, affinché li si riconosca come gli ultimi sfruttati della piramide, e non come semplici mezzi, oggetti, prodotti.
Bisogna cambiare i significati recepiti all'esterno. Rendere gli animali da referenti assenti a individui.

sabato 2 febbraio 2019

Produzioni culturali

Gli altri animali si sfruttano unicamente per il profitto (almeno nei paesi occidentali capitalisti, in altri paesi sono comunque usati come risorse rinnovabili o mezzi di sussistenza, sempre considerati prodotti o macchine per produrre). 
Poi, per giustificare il loro utilizzo, ossia per evitare che si obietti al fatto che esseri viventi vengano schiavizzati, uccisi, reclusi ecc. si usano una serie di giustificazioni che servono a normalizzare, legittimare, sminuire quel che gli viene fatto e questo insieme di argomentazioni/giustificazioni è quel che chiamiamo specismo. Lo specismo si appoggia su un pilastro fondamentale, che è l'antropocentrismo. Per sminuire quel che gli viene fatto ci si appoggia a delle credenze, errate sotto ogni punto di vista, che li vorrebbero meno capaci di sentire, di comunicare, di avere sentimenti, di provare dolore e gioia, di capire il mondo, di rendersi conto delle terribili torture che gli vengono continuamente inflitte. 
Tutta la nostra produzione culturale (filosofia, economia, diritto, religione, scienza, arte, media, quindi cinema, televisione, giornali, letteratura, quindi linguaggio verbale e visivo, ma anche il sistema scolastico e praticamente ogni attività di tipo intellettuale o pratico, inclusa la politica*) è funzionale a giustificare lo sterminio degli animali e lo fa attraverso una continua propaganda resa invisibile dal fatto che appunto si presenta come neutra, normale, naturale e approvata dalla legge. Questa propaganda è invisibile perché altro non è che la cultura in cui nasciamo, ci formiamo e viviamo. È molto difficile mettere in discussione qualcosa che ci viene propinato in un certo modo sin da quando nasciamo e in cui siamo immersi, ma non impossibile. Basta capire che di normale e naturale nello sfruttamento degli animali non c'è niente, che esso non ci è necessario per vivere, ma che è finalizzato solo al profitto di chi li fa nascere, alleva e uccide. 
Se un domani venisse fatta una nuova legge che consentisse di macellare i cani o i gatti o, che so, persone anziane, e ci volessero convincere della sua giustezza e necessità attraverso una continua propaganda che fa uso di pubblicità, articoli di giornali, scene di quotidiana normalità nei film e nelle letteratura, ci accorgeremmo subito che si tratta di una forzatura, la percepiremmo come ingiusta e insorgeremmo; ma se fossimo nati in un sistema così? Se sin da piccoli fossimo stati abituati a considerare normale uccidere cani, gatti e persone oltre una certa soglia di età, la cosa ci stupirebbe? Certo che no.
Ed ecco perché non ci sorprende oggi sapere quel che accade agli altri animali. Perché siamo stati convinti ad accettarlo come naturale. In realtà siamo stati vittime di un'ideologia invisibile. Un'ideologia funzionale a sostenerne l'oppressione, il dominio, la schiavitù per il profitto.

Ogni tipo di oppressione ha bisogno di un'ideologia funzionale a giustificarla.
Ma arriva un momento in cui si scopre che il re è nudo, come si suol dire e queste giustificazioni sono un castello di carta, di simboli, di modi di dire, che però producono violenza vera; oggi sappiamo che non abbiamo una reale necessità di mangiare e sfruttare gli animali e quindi dobbiamo opporci in tutti i modi possibile alla loro oppressione. 
Ognuno ha senz'altro modo di agire con più efficacia in base alle proprie competenze nel settore in cui lavora e si confronta.
I medici e ricercatori, i filosofi, gli artisti, i giornalisti, gli attivisti, che ognuno lasci la propria impronta in base alle proprie capacità. Un approccio multidisciplinare è necessario. Senza escludersi a vicenda. Purché il messaggio sia comune e compatto e che sia un messaggio RADICALE, ossia di lotta contro l'oppressione, il dominio, lo sfruttamento, la mercificazione, il massacro in sé degli animali e NON sulle modalità di continuare a farlo.

*La distinzione tra politica e cultura non ha senso perché la politica è sempre un prodotto della cultura, ossia rientra in tutto ciò che la nostra specie produce, di intellettuale o materiale che sia. Quando si parla di cultura infatti va considerato tutto ciò che l'homo sapiens fa, pensa, concretizza, tanto i frutti più eccelso della sua mente (filosofia, arte ecc.), quanto i risultati più bassi. Il modo in cui amministriamo, gestiamo, ci relazioniamo con gli altri è politica, ma il teorizzarlo e metterlo in pratica fa sempre parte di quell'insieme di attività che chiamiamo cultura.
Detto in parole più semplici: ogni attività dell'essere umano rientra in quel che definiamo cultura. 
P.S.: anche gli altri animali producono cultura, non solo la nostra specie; sebbene in modi diversi da noi.