giovedì 25 ottobre 2018

La fallacia dell'appello alla natura


Uno degli argomenti spesso usato dai sostenitori della vivisezione, ma anche dagli allevatori e dai mangiatori di animali è quello della crudeltà insita nella natura, per cui ciò che fa la nostra specie, compreso appunto torturare animali nei laboratori, non sarebbe nulla di più perverso rispetto al leone che preda la gazzella. Quindi definiscono gli animalisti persone sempliciotte che si sono lasciate influenzare da filmetti alla Disney in cui gli animali vivono in pace in una natura idilliaca.

Ora, da una parte è vero che gli animali in natura sperimentano anche molta sofferenza: predazione, malattie, parassiti, intemperie, fame, sete. Tuttavia vivono anche momenti di pace e relax. Al contrario di come fanno vedere in certi documentari, i predatori non stanno tutto il giorno a inseguire le prede. Non esistono solo stagioni pessime, ma anche bel tempo. E non tutti si ammalano, molti vivono moltissimi anni, diventano anziani.

Il dolore che invece la nostra specie causa agli altri animali è continuo, incessante, senza fine; facciamo nascere individui appositamente per poterli trasformare in prodotti, schiavizzarli, torturarli e li uccidiamo a pochi mesi o pochi anni. Più progrediamo dal punto di vista tecnologico e più rendiamo l'esistenza di miliardi di animali un vero e proprio inferno in terra.
Ora, a parte la differenza qualitativa e quantitativa del dolore che procuriamo, ci sono altre due enormi differenze con il male che si può sperimentare in natura. Una, che quello in natura è un male, per dirla alla Leopardi, indifferente e necessario: necessario quello dei predatori che uccidono per la loro sopravvivenza, indifferente quello delle intemperie o sprigionato da altre cause che sono appunto casuali, cioè non intenzionali. Mentre il male che agisce la nostra specie è intenzionale, cosciente, responsabile. 
Avremmo però la possibilità, in quanto specie che si è evoluta con determinate caratteristiche, di rendere migliore non solo la nostra vita, ma anche quella degli altri animali e di migliorare lo stato del pianeta. Invece stiamo distruggendo tutto per avidità, voglia di prevaricare, di arricchirci, di schiavizzare chiunque sia possibile schiavizzare. Io questo lo chiamo dominio, non natura feroce; dominio che certamente è insito in parte nella nostra natura, come propensione, ma che è stato incentivato, esaltato, organizzato in struttura sociale e tramandato come cultura e che quindi, anziché essere represso, bloccato sul nascere nelle sue primissime manifestazioni, come si fa in alcuni casi, è stato legittimato e normalizzato. Prendete un bambino che, ancora insciente, voglia prendere a sassate una lucertola. Se la mamma interviene a redarguirlo, crescerà imparando che prendere a sassata una lucertola sia una cosa sbagliata e quindi reprimerà e controllerà quel primo istinto a colpirla. Ma se invece vivrà in una società che non solo farà passare per normale prendere a sassate una lucertola, ma addirittura ne sosterrà pubblicamente l'azione, la perfezionerà tecnologicamente, il bambino penserà che sia normale, naturale, necessaria. Così è per tutte le varie forme di dominio sugli altri animali attuali. In nessun'altra specie c'è la ferocia che possediamo noi. Una ferocia organizzata e sistematica, eretta a sistema sociale e per questo ancora più difficile da mettere in discussione.
L'appello alla natura crudele costituisce quindi una fallacia logica enorme perché viene usato appunto per naturalizzare ciò che non è affatto necessario o causale, ma intenzionale e frutto di responsabilità e dinamiche ben precise.

Inoltre, ci si appella alla natura per giustificare la violenza sugli animali, ma ce se ne discosta quando vogliamo dimostrare di essere una specie superiore (sempre al fine di sfruttare gli altri animali per i nostri interessi, ovvio!). 

martedì 23 ottobre 2018

Distopie attuali


Com'è possibile che un uomo come Trump sia diventato Presidente degli Stati Uniti?
A questa domanda risponde Michael Moore andando indietro di qualche anno, decennio addirittura, facendo una panoramica ampia da un punto di vista politico e sociologico. 
Ho trovato molte affinità con la situazione attuale italiana: la scomparsa di una sinistra che stia veramente dalla parte delle persone comuni, riforme che agevolano i ricchi, un clima generale di sfiducia nella politica e nella possibilità di cambiare le cose. E nel bel mezzo della crisi economica, l'uomo che promette di cambiare le cose, di risollevare il paese, guadagnandosi un'aura di rispettabilità che improvvisamente conferisce legittimità a idee prima impensabili e impronunciabili ad alta voce. 
L'aspetto più pericoloso è proprio la sottovalutazione di alcune frasi, buttate lì quasi come boutade, ma che improvvisamente si animano di vita propria, passano di bocca in bocca, vengono retwittate, diventano virali. Si passa dallo stupore, scandalo indignazione per arrivare all'accettazione. Ciò che fa paura, se lo ripeti tante volte, diventa quotidiano, ordinario, con l'ausilio di fake news create ad arte.
I dittatori, i mostri della storia non si presentano così, sono il frutto di un preciso clima politico che rende possibili le loro performance e rendendole possibili, le legittima. Si comincia per scherzo (come cominciò la Lega anni fa) e si finisce per entrare in Parlamento. Si butta una frase lì, si mettono in discussione leggi fino a quel momento intoccabili, si pensa che sarà impossibile tornare indietro, che l'opposizione non lo permetterà mentre in sordina inizia la limatura dei diritti.
Come dice Moore, abbiamo l'abitudine a credere che la democrazia sia una conquista dell'occidente che niente e nessuno potrà mai spazzare via, ma in realtà non solo è roba recentissima (fino a settanta anni fa le donne non votavano), ma non si è mai veramente realizzata, dal momento che media e politici sono al soldo delle varie lobby di industriali.

Un documentario da vedere assolutamente per comprendere alcuni meccanismi e anche per rendersi conto del tragico periodo in cui stiamo vivendo.

domenica 21 ottobre 2018

Liberazioni per la Liberazione

Sono totalmente d'accordo sul fatto che l'antispecismo debba essere anche anticapitalismo, antifascismo, combattere la società patriarcale, l'omofobia, la transfobia ed essere contro ogni forma di sfruttamento e discriminazione del vivente, ma penso altresì che poi debba declinarsi nella propria specificità (così come ogni altra lotta), altrimenti ci potremmo trovare nella situazione spiacevole e imbarazzante di dover esprimere solidarietà ai macellai; ora, comprendo che anche i macellai siano persone sfruttate, anelli di una catena di sfruttamento appena appena sopra agli animali che uccidono, ma nella relazione specifica che si viene a instaurare in quel contesto lavorativo sono pur sempre gli oppressori; così riguardo al femminismo: l'operaio sfruttato che torna a casa e picchia la moglie o la considera oggetto sessuale a sua disposizione, in quella specifica relazione è oppressore. 
Quindi ogni lotta deve teorizzarsi politicamente in modo autonomo e non può in alcun modo diventare secondaria rispetto ad altre. La lotta per la liberazione animale non è secondaria a quella contro il capitalismo, così come il femminismo non è secondario ad altre lotte. Sono tanti e diversi tasselli che devono esprimersi e rivendicare le proprie posizioni autonomamente, fermo restando il disegno più grande che li comprende tutti che è quello della liberazione totale e che si potrà realizzare solo quando ognuna di queste rivendicazioni avrà successo. Ognuna di queste. Non può esistere liberazione totale finché ci sarà anche un solo maiale oppresso, o donne sottomesse o persone omosessuali o trans discriminate.

mercoledì 17 ottobre 2018

Sguardi violenti


A proposito di circhi, zoo, zoomarine, acquari, agriturismi e strutture simili: molte persone, pur dichiarandosi contrarie alla detenzione di animali selvatici, affermano di volerci portare i bambini perché manifestano il desiderio di conoscere e vederli dal vivo.

Due considerazioni: i desideri sono legittimi, ma il diritto di realizzarli calpestando gli interessi altrui non lo è. Io anche desidero tanto poter vedere leoni, delfini, elefanti, ma il mio desiderio non è più importante del diritto alla libertà di questi individui. Non è giusto che siano catturati o fatti riprodurre in cattività al solo scopo di soddisfare i desideri di individui paganti. Non tutti i desideri possono essere legittimamente realizzati; non tutto può essere negoziabile economicamente e non dovrebbero esserlo i corpi altrui. La seconda è che non si riesce a uscire dalla dimensione antropocentrica che vede l'homo sapiens come soggetto guardante e tutte le altre esistenti come oggetto da guardare, studiare, sfruttare, manipolare, uccidere. 
C'è, nella visita allo zoo (circhi ecc.) questa duplice violenza. Una, ovviamente, quella di finanziare strutture che appunto imprigionano individui e li domano con metodi coercitivi, a dir poco; la seconda quella di assoggettarli al nostro sguardo, di renderli oggetti che noi guardiamo dall'alto di un piedistallo, ergendoci come superiori, che è già una violenza di per sé, anche se meno evidente poiché più simbolica. La violenza dello sguardo di chi vede gli altri come oggetti.

Il vetro o le sbarre che separano noi da loro, prima che materiali, sono simbolici, ontologici. Lo zoo, i circhi, rafforzano lo show della superiorità umana. Una superiorità di Potere.





Immagini scattate allo zoo di Roma, nel 2103, da Andrea Festa, che è andato come giornalista e quindi non ha pagato il biglietto. 

mercoledì 10 ottobre 2018

Cosa, non come

Ogni forma di lotta contro una determinata oppressione può solo prendere vita in una data epoca e non prima. Così è solo quando siamo arrivati alle catene di smontaggio dei grossi macelli di Chicago e agli allevamenti intensivi che abbiamo potuto prendere coscienza dell'orrore dello sfruttamento animale. Questo non vuol dire però che ciò che dobbiamo combattere sia solo la forma più estrema di una pratica e che basterebbe ritornare a forme di allevamento del passato, ma dovrebbe servire a mettere in discussione l'essenza della pratica in sé, a riflettere sull'aberrazione di un intero sistema che considera gli altri animali come risorse da consumare anziché individui senzienti. 
Lo svelamento dell'orrore degli intensivi e dei macelli, tramite immagini, investigazioni, documenti di vario genere, dovrebbe essere come un riflettore che illumina e mette a fuoco il nemico da colpire, non un raggio distorto che svia l'attenzione da cosa per concentrarsi sul come.

lunedì 8 ottobre 2018

La fiera degli orrori


"Queste so' quelle che ce magnamo dopo", dice uno, rivolto a suo figlio, che annuisce, ma forse non comprende fino in fondo il peso di quelle parole. 
"Queste" sono un piccolo numero di pecorelle che si fanno coraggio stando vicine tra loro, ammassate verso il punto più lontano dallo sguardo dei visitatori, protette da una staccionata e al riparo sotto a un tendone. Un riparo dalla pioggia, ma non dagli sguardi volgari di chi, in quei musetti spaventati, vede solo del "cibo" prossimo a essere consumato. 
Poco più avanti c'era lo spazio con i cavalli, tirati a lucido e dal passo apparentemente elegante, ma dallo sguardo oppresso e mortificato di chi ha dovuto subire un addestramento forzato e quindi violento. A caratteri cubitali campeggia la scritta "doma dolce" su dei cartelli affissi tutti attorno, ma anche in questo caso, come in quello di "benessere animale negli allevamenti" l'accostamento dei termini esprime una realtà ossimorica, l'inconciliabilità di due concetti. La doma è per sua natura un piegare la natura di un animale selvatico, una repressione delle sue abilità, necessità, potenzialità. E infatti lo vedevi questo cavallo, montato a turno da decine di bambini urlanti in fila uno dietro l'altro, prostrarsi di fronte al frustino e reprimere con immenso sforzo il desiderio di fuggire via, di saltare oltre quell'angusto recinto per immaginarsi altrove, a correre su verdi prati senza l'assillo di eseguire ordini di un padrone in cambio di un po' di cibo.

Ancora avanti c'era lei, una civetta con gli occhi feriti dalla luce diurna e la zampina legata, esposta come un fenomeno da baraccone ai ghigni degli astanti. 

E poi la teca dei coniglietti, cuccioli immobilizzati dalla paura e le caprette, i vitellini, tutti esseri dolcissimi spinti a divenire attori loro malgrado di un'esibizione pornografica in cui ognuno di loro vale per il peso della propria carne un tanto al chilo. 

Un evento di grandi proporzioni, questo messo in piedi dalla Coldiretti lo scorso fine settimana a Circo Massimo, un grande inganno mediatico in cui si è sfruttata vergognosamente l'innocenza dei bambini e degli animali, entrambi usati come richiamo: i primi, per indurre i genitori a portarli a fargli conoscere da vicino gli animali (gli stessi che poi, in un altro momento, saranno sgozzati e fatti a pezzi - ma questa parte, ovviamente, è stata ben tenuta nascosta), i secondi, doppiamente sfruttati: come soggetti pubblicitari dal vivo e, a seguire, come prodotti su cui lucrare.

Nel mezzo, un profluvio nonché un effluvio disgustoso di bancarelle che vendevano cibo, cioè parti di animali fatti a pezzi e prodotti derivati dal loro sfruttamento.

Una fiera degli orrori, una rappresentazione straordinaria dell'ordinaria banalità del male che è la realtà degli allevamenti, ma che ormai sempre più, nel tentativo di ripulirsi la facciata, mostra il suo lato grottesco e non si fa scrupolo di strumentalizzare l'ingenuità dei bambini.

Solo per questo io, se fossi in voi, consumatori di prodotti animali, cioè di individui violentati e fatti a pezzi, due domande me le farei.

#stoconglianimali

sabato 6 ottobre 2018

Stare con gli animali e non con gli allevatori

I termini "benessere animale" e allevamento sono inconciliabili.

Negli allevamenti, in qualsiasi allevamento, anche quello composto da dieci individui che vivono in spazi all'aperto, gli animali esistono per il solo e unico fine di essere trasformati in prodotti alimentari o di fornire prodotti alimentari.

Immaginate una comunità di persone umane che faccia nascere bambini al solo scopo di mangiarli o che allevi donne al solo scopo di farle partorire per poi prendergli il latte che sarebbe destinato al loro bambino e che quello stesso bambino gli venga sottratto per essere ucciso. Ora, anche nelle migliori condizioni, cioè nella condizione in cui queste comunità fossero provviste di ogni tipo di arricchimento (biblioteche, cinema, piscine, spazi verdi su cui giocare, cibo ottimale ecc.), ciò rappresenterebbe comunque un'aberrazione ai nostri occhi perché l'aberrazione è nella finalità dell'esistenza di tali luoghi e non nelle modalità o forma esteriore (a tal proposito vi invito a leggere un romanzo bellissimo del premio Nobel Ishiguro Kazuo dal titolo Non lasciarmi - ne ho parlato qui e qui. Non è un romanzo antispecista, ma per analogia può far comprendere benissimo il punto di vista che ho espresso qui sopra).

Perché il discorso dovrebbe cambiare se al posto delle persone umane ci mettiamo quelle non umane?

Non si può rispondere alla domanda dicendo che si tratterebbe di una strategia perché sono le strategie stesse che indicano l'obiettivo e se le strategie non chiedono l'abolizione di ciò che costituisce un'aberrazione allora non la intaccano minimamente, ma anzi, la rendono meno visibile e per questo la rafforzano.

Chi mi conosce sa che raramente critico i soggetti, ma sempre i concetti. Però questa volta, per onestà intellettuale, io devo dirlo: CIWF è un'associazione di allevatori che quindi ha tutto l'interesse nel continuare ad allevare gli animali. Una campagna promossa da CIWF è peggio che welfarista: è semplicemente conservazionista.  

Si tratta di un ombrello che mette gli allevatori al sicuro da possibili crisi dovute all'aumento di un consumo critico. Le persone vogliono ancora mangiare animali e bere latte, solo che vogliono farlo con la coscienza a posto, senza sentirsi dire che stanno sostenendo un sistema di crudeltà. E così gli allevatori gli danno quello che cercano: allevamenti senza crudeltà.

A un certo punto bisogna decidersi, o si sta con gli animali o con gli allevatori.