martedì 29 novembre 2011

I Giorni Contati di Elio Petri (ed una riflessione sul lavoro)

Cesare (Salvo Randone, eccezionale come sempre), che di professione fa lo stagnaro (termine in romanesco per dire idraulico), un giorno, mentre si trova sull’autobus, assiste alla morte di un uomo, pressapoco suo coetaneo, colto improvvisamente da un infarto. L’evento lo colpisce come una sorta di epifania: resosi conto di aver ormai trascorso buona parte della sua esistenza e di poter anch’egli morire così, di punto in bianco, decide di smettere di lavorare e di godersi il poco tempo che gli resta, tentando di riappropriarsi di quel sacro fuoco della vita che sente ormai spegnersi dentro di sé e di dedicarsi a tutto ciò che aveva trascurato fino a quel momento.
Questo il punto di partenza di uno dei migliori film di Elio Petri, riuscitissimo connubio di neorealismo ed esistenzialismo in una Roma dell’epoca, siamo nel 1962, restituita a partire da tanti piccoli dettagli ma allo stesso tempo trasfigurata oniricamente nell’ottica  deformante del protagonista.
La riflessione esistenziale di Cesare diviene il pretesto per riflettere sulla condizione sociale dell’essere umano, costretto a lavorare per tutta la vita, a veder allontanarsi pian piano tutti gli affetti (cinica la figura del figlio che va a trovarlo solo per chiedergli dei soldi e che si preoccupa della decisione del padre di aver smesso di lavorare solo per paura di doverlo mantenere) per poi improvvisamente giungere al capolinea senza aver avuto il tempo di “vivere” realmente.
Dapprima si pone dunque la questione del lavoro attraverso una scissione dialettica: da una parte ci sono gli amici di Cesare che - da persone pratiche quali sono - lo intendono come mera necessità: “se vuoi mangiare, devi lavorare”; dall’altra c’è la visione esistenziale (“tu sei un esistenzialista senza nemmeno saperlo”, dice un mercante d’arte a Cesare) per cui il lavoro è visto come una sorta di condizione forzata che sottrae il tempo a ciò che realmente si vorrebbe fare e che, distraendo l’essere umano da questioni più filosofiche (“quando lavori non pensi a niente, come distrazione funziona bene”, dirà Cesare ad un certo punto), ne annulla la consapevolezza del vivere.
Il dialogo iniziale evidenzia appieno questa dicotomia: Cesare dice ad un suo amico che vuole smettere di lavorare perché ha visto un suo coetaneo morire e si è reso conto che domani potrebbe toccare a lui; “embeh, pure i neonati muoiono, allora non avresti mai dovuto lavorà”, gli risponde l’amico, come a dire: la consapevolezza della morte, del fatto che tutti siamo destinati a morire, non può essere un pretesto per non lavorare. Lavorare è una necessità dalla quale non si può sfuggire.
Cesare stesso del resto finisce per assumere una posizione ambivalente: avverte quest’esigenza profonda di recuperare il passato, ma pian piano realizza che questo recupero non è più possibile al solo prezzo dell’abbandono del lavoro. Gli amori passati, sono ormai passati ed è impossibile riaccendere vecchie passioni. Il paese natìo è ormai un cumulo di ricordi sepolti da un presente che non gli appartiene più e gli amici di un tempo a stento lo riconoscono, abbrutiti e sconsolati, di una disperazione che è disperazione del vivere, di qualsiasi vivere, a qualsiasi età.
L’arte offre ben poca consolazione, testimone anch’essa del tempo che passa.
Il tentativo di guadagnarsi da vivere ricorrendo agli impicci (truffe, piccoli affarucci illegali) richiede coraggio ed un certo spirito di avventura per il quale bisogna essere nati (e Cesare non possiede né l’uno, né l’altro).
Cosa resta allora se non rimettersi a lavorare, almeno nella certezza di non dover chiedere niente a nessuno e di ingannare così il tempo che passa attraverso la distrazione di giornate piene di lavoro?
E’ un film amaro. Amaro perché ciò che ruba il tempo all’uomo non è solo il lavoro - dal quale pure, volendo e riuscendoci, ci si potrebbe affrancare, ma che si pone comunque nel film come problematica non indifferente - ma il tempo stesso che scorre. La vita, come suggerisce la cupa scena finale, è un cammino che si snoda su un binario limitato, che ha un inizio ed una fine, ed al cui capolinea tutti giungiamo prima o poi. Certo, arrivarci senza alcuna consapevolezza alcuna, dopo una vita di duro lavoro, magari non è il massimo. Ma forse arrivarci consapevolmente è pure peggio. Il momento dell’imbocco del tunnel rimane come visione improcrastinabile ed inevitabile, tutto il resto è ciò che, in qualche modo, è trascorso. Perduto per sempre.
Una delle scene che mi ha intristita di più è quella in cui la figlia della donna presso la quale Cesare sta a pensione, ammettendo la poca voglia di lavorare, dichiara di aver speso i soldi che Cesare le aveva prestato come cauzione per ottenere un lavoro da commessa, per comprarsi una parrucca; Cesare inizialmente la rimprovera, ma poi, seppure con poca convinzione le dice: “ma sì, sì, divertiti pure”. E’ un’incitazione al divertimento connotata però da una nota di profonda amarezza perché tutto è destinato a passare, anche il divertimento. La giovane ragazza è un personaggio tragico perché ha la funzione di ricordare a Cesare quello che egli non è più, ma anche quello che lei diventerà: sono specchi reciproci in cui ognuno vede nell’altro il riflesso del se stesso che è stato o del se stesso che sarà. In entrambe le funzioni c’è il memento del tempo che scorre.
Ne I Giorni Contati questa funzione del tempo che passa - e che muta non solo le persone, ma anche i luoghi - è vividamente resa anche attraverso le riprese della città - una nouvelle vague  tutta romana - vista attraverso il vagabondare di Cesare, a piedi, sui tram, sugli autobus, su una vespa (bellissima la scena in cui sale in sella ad una vespa guidata da un ragazzo e chiede di inseguire una camionetta dei pompieri: c’è molto Godard, ma per approdare ad un contesto sociale neorealistico), una città che scorre all’esterno e che diviene a tratti protagonista, ma di cui i sensi ne percepiscono anche i suoni e ne colgono i colori con una rielaborazione del tutto soggettiva.
Non è un film che però intravede una salvezza nella funzione salvifica del ricordo (che fissa il tempo), ma che anzi ne evidenzia tutta l’illusorietà.
L’aspetto che mi ha più colpita, una volta tanto, non è quello di avere tutti - come dice il titolo - i giorni contati e di essere diretti ad un capolinea inevitabile, quanto quello della questione sociale del lavoro.
Anche io penso spesso che il lavoro - così come è strutturato nella nostra società - sia più una sorta di schiavitù, di prigione ripetitiva di gesti tutti uguali che non una reale affermazione della dignità dell’essere umano. Il lavoro rende liberi, certo, nella misura in cui ti affranca dal dover chiedere l’elemosina e ti permette di mantenerti, ma un lavoro che non piace, lo svolgere di una mansione necessaria al fine di guadagnare è anche una forma di schiavitù.
Trascorrere una vita intera nella rinuncia di ciò che si vorrebbe realmente fare nell’illusione che lavorando - una volta messi da parte i soldi, ed ammesso che ci si riesca -  ci si possa permettere poi di fare quello che si vuole fare, ma sempre con quel tarlo della morte che potrebbe sopraggiungere in qualsiasi momento, a me in realtà intristisce molto perché mi viene da pensare che la vita in fondo è adesso, proprio mentre stiamo lavorando e come la stiamo trascorrendo? Lavorando. E allora mi viene voglia di lasciar perdere tutto.
A meno che a uno non piaccia davvero il proprio lavoro e che trovi quelle ore degne di essere vissute.
In generale, a me fanno pena tutte quelle persone che trascorrono 10 - 12 ore in ufficio con la speranza di mettersi da parte un bel gruzzoletto per godersi la vita in un prossimo futuro o per farsi una bella vacanza all’anno; e se poi quel futuro non ci fosse? E se poi quella vacanza non si potesse più fare perché ci si ammala?
Mi viene in mente un amico di mio padre: una persona molto ricca, che aveva una grande fabbrica e che trascorreva veramente dalle 12 alle 14 ore in ufficio ed il tempo rimanente sempre in giro per banche, avvocati e clienti e attività comunque inerenti il lavoro. Una volta mio padre, vedendolo stanco, gli disse: “ma hai un sacco di soldi, ma fatti una bella vacanza, un bel viaggio, lavora meno, mettiti a riposo, goditi la vita”, e lui rispose: “sì, hai ragione, ho intenzione di continuare così ancora qualche anno, poi mi metto in pensione ed inizio a godermi la vita”. Volete sapere che fine ha fatto? A riposo ci si è messo, ma dentro una bara: morto d’infarto dopo qualche mese da quella conversazione che aveva avuto con mio padre.
Allora, prendendo spunto dal bellissimo film di Elio Petri, è come al solito una riflessione esistenziale che vi chiedo; ma anche sociale. Ferma restando l’inarrestabilità del tempo, la difficoltà di godere pienamente, consapevolmente, lucidamente ogni singolo attimo, l’amara constatazione che abbiamo tutti i giorni contati, ma non si può provare a ripensare questo concetto di società basata sul lavoro? Non sarebbe meglio lavorare tutti meno, distribuire meglio le risorse lavorative? Certo, una soluzione simile non la sto pensando certo io per la prima volta. Mi domando però perché ci debbano essere tante visioni e concezioni esistenziali differenti, perché c’è gente che non capisce che è meglio vivere ora bene, anziché domani - un domani che magari non ci sarà?
Questa visione del sacrificio oggi per un domani migliore sicuramente è stata introiettata nella gente anche dalla religione cattolica.
Secondo me è da rivedere proprio questo concetto - e parlo di rivederlo a livello profondo - sul lavoro inteso come mansione che nobilità l’uomo e fatto passare per valore assoluto.
E’ una necessità. Sì, me ne rendo conto. Ma perché dovrebbe essere anche un valore?
Il senso della mia esistenza, come diceva André Breton, io non lo trovo e non voglio trovarlo nel lavoro. Fossi stata Cesare, il protagonista de I Giorni Contati, forse avrei preferito continuare a vagabondare fino alla fine.

sabato 26 novembre 2011

Pellicce, ovvero una barbarie "alla moda".

Diffondo questo ben documentato articolo scritto da Eloisa del blog Natividad sull'orrore della cattura degli animali selvatici al fine di realizzarne pellicce.
Le foto ed il video mostrati sono crudeli, è vero, ma non sono immagini tratte da un film horror, bensì la pura e semplice realtà di quello che avviene e non bisogna chiudere gli occhi bensì affrontarla per conoscerla; solo conoscendolo, si potrà combattere l'orrore di questo inutile scempio.
E negli allevamenti avviene altrettanto. Gli animali vengono tenuti in gabbie piccolissime, esposti al freddo così che il loro pelo possa crescere più folto, e poi uccisi con metodi altrettanto barbari. Sempre Eloisa, ne ha parlato in quest'altro articolo.
Tutto questo per confezionare le pellicce.
Siamo sicuri che per assecondare uno sciocco diktat della moda (perché solo di questo si tratta) valga la pena di provocare tanto dolore (fisico e psicologico) a delle creature stupende e meravigliose che hanno tutto il diritto di essere lasciate vivere in pace?
Buon fine settimana a tutti.

martedì 22 novembre 2011

Un soldino per i tuoi pensieri

Da un po’ di tempo sono diventata amica di uno zingarello; in realtà lo conosco da tre o quattro anni, da quando ne aveva all’incirca otto o nove; bazzica il quartiere dove abito e va in giro a chiedere soldi, a volte in cambio di un lavaggio dei vetri delle macchine, molto più spesso semplicemente in cambio del suo bel visino, dallo sguardo sveglio ed intelligente e dal sorriso disarmante.
Non ha - non ancora almeno - la faccia abbrutita ed insolente dei suoi amichetti più grandi - e ormai mi chiama per nome, mi chiede “come stai?”, “e il cane come sta?mi dai qualche euro perché la prossima settimana parto, sai, torno a casa, in Romania, è morta nonna, e sto mettendo da parte qualche soldo per il viaggio” e poi “non ti ho più vista, ma dov’eri in questi giorni? E tuo marito, com’è che si chiama, non ho più visto nemmeno lui?” e oggi mi ha detto “mi dai dieci euro? Tra poco è Natale ed ho visto un giubbotto che mi piace tanto, costa trenta euro, ma io ne ho solo venti”, e poi ancora “vuoi che ti aiuti a portare le buste della spesa a casa?”.
Insomma, è nata un’amicizia. Della quale non vado affatto fiera. Perché è un’amicizia ipocrita, come ipocrite sono tutte le amicizie in cui sai che non stai facendo ciò che andrebbe fatto, ma solo ciò che acquieta momentaneamente la coscienza.
Io so che quel bambino anziché dei miei dieci euro avrebbe bisogno di andare a scuola, così da potersi rendere un giorno autonomo, in grado di lavorare per mantenersi senza dover chiedere niente a nessuno. E però, come tutti mi rimetto alle istituzioni, mi rassegno all’idea che io da sola non posso combattere contro la cultura rom che manda donne e bambini a chiedere l’elemosina per strada. So che la cultura rom non è solo questo, che non bisognerebbe mai giudicare le culture “altre” con atteggiamento etnocentrico, ma ora sto scrivendo in veste di cittadina semplice che esce per strada e vede queste donne, che mentono, che fingono di essere vecchie e malate, che sfruttano la retorica spezzacuore dei cuccioli - d’uomo e di animale - per intenerire i passanti, che mandano i loro figli a lavare i vetri, a vendere rose, a suonare sulla metro, a rubacchiare o, nel migliore dei casi, a trovare qualche amica disposta sempre ad elargire un soldino e trova che tutto ciò sia indegno di una società cosiddetta civile. E’ difficile esprimersi sulle altre culture perché il rischio di inciampare nei pregiudizi - non conoscendole dall’interno - è sempre dietro l’angolo.
Sotto il profilo individuale non discrimino nessuno, nel senso che non mi sognerei mai di discriminare qualcuno solo perché appartiene ad una determinata etnia o modello culturale. Però è anche vero che ci sono culture che ammiro di più, altre che mi piacciono meno. Ad esempio non mi piace la cultura musulmana estremista, tipica di certi paesi, quella che impone alle donne di indossare il burqa, o che le considera inferiori (beninteso, trovo che sia una forma di subdola schiavitù anche il tacco 12 considerato necessario per sedurre). E così non mi piace quella parte di cultura rom che manda i bambini e le donne per strada ad elemosinare (o gli adulti uomini a rubare, contrabbandare ecc.). 
Sottolineo: non sto dicendo che la cultura rom sia solo questo, io mi riferisco a questi aspetti negativi (così come potrei citarne altri negativi della mia cultura, o di quella americana, canadese ecc.).
Ed è per questo, dicevo, che sento la mia amicizia verso quel bambino - seppure sincera nello slancio - ipocrita perché in quel mio donargli qualche spicciolo fingo un’accondiscendenza verso un comportamento culturale che in realtà dentro di me disapprovo. E allora, se fossi davvero sincera con lui dovrei piuttosto dirgli: “non mi piace che i bambini chiedano l’elemosina, vorrei piuttosto saperti sui banchi di scuola, o anche dentro la tua roulotte ma a leggere un libro”. Ma lui è solo un bambino. E quando, in passato, ho provato a fargli discorsi del genere mi trovava sempre un sacco di scuse: “non posso andare a scuola perché mamma lavora e non ho chi mi accompagna” oppure “ma noi cambiamo sempre casa, oggi siamo qui, domani là”, oppure ancora “le scuole le ho finite”.
E poi c’è quella vocina dentro di me che mi ricorda che è davvero pretenzioso pensare di comprendere tutta l’immensa complessità della realtà e che nessuno sa davvero quale sia il bene e quale il male e che se anche un drogato mi chiedesse dei soldi per comprarsi l’eroina ed io, pensando di fare del bene - il suo bene - non glieli dessi, invece magari quel mio non-dare potrebbe provocare una serie di reazioni a catena tutte dirette ad un esito negativo e se invece, al contrario, glieli dessi, qualcuno potrebbe dirmi che ho fatto male, ma io saprei anche che, nell’impossibilità di stabilirlo, forse allora non sarebbe meglio dare a chi semplicemente sta chiedendo aiuto perché tanto, alla fine della fiera, è di questo che si tratta, soltanto di questo, di persone che chiedono e di altre che sono nella possibilità di e che scelgono di dare o non dare dietro l’impulso di un momento?
Perché ogni volta che qualcuno mi tende la mano ho quell’impulso insopprimibile di deviare ed abbassare il mio sguardo pur porgendo quelle quattro monetine sulla sua mano?
Io lo so perché. Perché nel gesto di colui che tende la mano per chiedere io vedo il fallimento della civiltà occidentale. Quella mano tesa è lo specchio in frantumi in cui scorgo le distorsioni provocate dell’avidità dell’essere umano.
E ogni volta non posso fare a meno di pensare che potremmo fare molto di più che dare semplicemente qualche euro, ad esempio ripensare a tutto il nostro sistema e stile di vita che permette una simile sperequazione.
Vorrei chiedervi: con quale disposizione d’animo voi fate l’elemosina, e se la fate?
In quel momento pensate solo al puro gesto di donare perché qualcuno sta chiedendo (potrebbe trattarsi di un sorriso, come di pochi spiccioli, come di un gesto di cortesia qualunque del tipo di far passare avanti una persona in fila al supermercato perché lo ha chiesto), oppure provate pietà, compassione, superiorità, sollievo al pensiero che nonostante tutti i vostri guai almeno voi non siete in quella triste situazione di dover elemosinare, o cos’altro? Rabbia, indignazione, paura?
Ci sono poi anche tutte quelle onlus che chiedono denaro per aiutare i bambini che soffrono la fame ecc., e anche qui io penso che sarebbe più utile consumare (mi rivolgo a chi la mangia, ed auspicabile sarebbe, per motivi etici e di rispetto verso tutte le specie, non mangiarne affatto) meno carne, così da ridimensionare le culture dei cereali destinate ad ingrassare i bovini per favorire invece quelle coltivazioni che potrebbero sfamare direttamente gli esseri umani.
Insomma, dare l’elemosina troppo spesso è un gesto distratto, automatico quasi, dettato dall’impulso del momento di fare del bene, di dare un piccolo aiuto (si fa quel che si può), ma in altre occasioni può diventare un momento di seria riflessione sulla nostra civiltà, sulle nostre scelte, e magari motivo di messa in discussione di tanti atteggiamenti e comportamenti che non sono così granitici come potremmo pensare.
Finisco con una nota positiva: sempre vicino casa mia c’è una signora che ogni sabato si mette a cantare a squarciagola, seduta su un banchetto, chiedendo l’elemosina, e tiene un cartello con su scritto: “sono povera, ma felice”. A me mette alllegria. E penso che sono povera anche io, ma di spirito (anche materialmente, sebbene non quanto lei), perché troppo spesso sono infelice.
Quando lo zingarello oggi mi ha chiesto i dieci euro per comprarsi il giacchetto di Natale ho pensato, in ordine: "in questo periodo ha certamente più soldi lui di me", "è meglio che li dia ad Anna la gattara per comprarci le scatolette per i gatti", "'sto ragazzino si sta approfittando", "è sbagliato dare soldi così, che non risolvono niente, bisognerebbe iniziare seriamente a ripensare questo modello di società, beninteso partendo da me", poi alla fine... mi sa che glieli darò. 
Avrà il suo bel giubbotto nuovo per Natale ed io mi sentirò ipocrita nel vedere per un attimo il luccicchio dei suoi occhi e nel pensare che possa essere abbastanza perché ognuno fa quel che può.
O magari va bene così, che è pretenzioso pensare di abbracciare con un solo pensiero e in un solo gesto tanta complessità di questo nostro misero mondo.

mercoledì 16 novembre 2011

Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn

Sull’onda del successo di Drive, ho voluto guardare questo film del medesimo regista, uscito nel 2009.  In genere non scrivo dei film che non mi piacciono, le cosiddette recensioni negative che stroncano il lavoro altrui in poche parole non fanno per me. Per natura amo parlare di ciò che mi appassiona e non di quello che mi lascia indifferente; la critica o il biasimo da parte mia generalmente scatta per qualcosa che mi sta molto a cuore (es. la cultura dello sfruttamento animale), il resto preferisco ignorarlo.
Stavolta però farò un’eccezione perché Nicolas Winding Refn è già diventato un regista di culto e ovunque mi giri non faccio che leggere giudizi esaltanti i suoi lavori.
Se Drive è davvero un ottimo film, un quasi capolavoro, sostenuto da un’apoteosi registica e dall’emanazione di una forza tutta interna alle immagini capaci di rendersi significanti senza che il tutto risulti menomato da una sceneggiatura fin troppo semplicistica, in Valhalla Rising invece si capisce benissimo che il regista aveva tentato lo stesso procedimento, fallendo però miseramente; qui Nicolas Winding Refn ha la presunzione di realizzare una narrazione mitologica lavorando per sottrazione sui caratteri - a ricoprire funzioni archetipiche e non già la mera rappresentazione di un ruolo - e sulle immagini di un’ambientazione naturale che ha dovuto sopportare il peso di una fin troppo eccessiva sofisticazione (nel senso di ritocchi al computer in post-production) per rendersi suggestivamente atemporale.
Le riprese lente, gli estenuanti e ripetitivi quadri dei volti in primo piano posizionati sulla destra (o a sinistra) dello schermo, quasi ad uscir fuori dai margini, in contrasto con la parte sinistra (o destra) in cui una natura bellissima, ma selvaggia sembra voler farsi strada nello schermo, a poco servono se non ad esemplificare in maniera fin troppo coatta il dominio di forze incontrastate di cui lo stesso protagonista - One Eye - si fa portavoce.
Non bastano riprese di sofisticata bellezza e scenari ripresi dall’immaginario classico a restituire tutta la forza del Mito che si congiunge con la Storia. Il lungo viaggio sulla barca dei Vichinghi cristiani, in mezzo ad una nebbia densa e che rende la realtà inintelligibile, rimanda in maniera fin troppo scoperta al simbolo cristologico de La Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, ove al sacrificio dell’albatross si andrà a sostituire quello cui assisteremo nel finale.
La vicenda narrata ha un significato, sì, ma rimane l’impressione ineludibile che il grande dispiego di mezzi - al servizio di un progetto comunque di enorme ambizione e pretenziosità - si sia rivelato per essere ricco nella forma, ma ben povero nella sostanza.     
Scene inutilmente violente, di una violenza che anziché rimandare ad ingovernabili forze ancestrali sanno tanto di omaggi ad un certo cinema di tarantiniana memoria.
Anche in Valhalla Rising è tutto superficie, come in Drive, solo che mentre in quest’ultimo riesce ad emergere la forza sotterranea delle funzioni archetipiche cui i personaggi si piegano, nel precedente lavoro del regista danese tutto sembra sommariamente rimanere a livello di intenzione registica senza che le immagini riescano a prendere quel corpo e quella consistenza vitali per trasformarla in un’opera significativa. Un'ottima descrizione che però non ce la fa a diventare narrazione, priva di uno specifico quid.
In sostanza, un’operazione virtuosistica e nulla più, riscattabile solo nell’ottica di un esercizio in funzione del riuscito successivo Drive.
  

martedì 8 novembre 2011

Quando sono triste

Ti ricordi quella sera in quella bettola di Parigi? Fuori pioveva a dirotto, proprio come in questo momento e noi stavamo bevendo da... non so più quante ore. Vino rosso francese. Prima ci eravamo fatti tutti quegli scalini per salire fin lassù, fino al Sacre Coeur, giusto per vedere che effetto avrebbe fatto vedere la città da quell'altezza. Ma dopo un po’ ci siamo stancati di osservare il panorama e siamo tornati giù. E lungo la discesa c’era quel negozio che esponeva tutte quelle parrucche colorate. O forse no. Forse quello l’avevo sognata un’altra volta, ma adesso si è un po’ tutto confuso nel ricordo.
Io avevo quell’ombrello buffo con i gatti disegnati e tu non la smettevi più di scattarmi tutte quelle foto sotto la pioggia finché non ti sei accorto del Sacre Coeur visto da sotto, con le gargolle stagliate contro il nero della notte, forme fantastiche che apparivano e sparivano all’improvviso tra i rami degli alberi mossi dal vento.
Le scarpe inzuppate di pioggia e il rosso del vino sulle guance. E l’odore di una primavera che improvvisamente sapeva di autunno; proprio in quel momento lì, quando ci siamo voltati ed abbiamo visto quel signore che dormiva sui gradini di un palazzo insieme al suo cane e tutti e due si tenevano stretti stretti sotto una coperta troppo piccola che li lasciava scoperti a metà.
E poi siamo entrati in quella bettola, dove c’eravamo solo io e te. Io e te ed il barista.
E ci siamo seduti al tavolo vicino alla finestra che dava sulla strada e tutti e due improvvisamente ci siamo sentiti un po’ stanchi e infreddoliti. E forse anche tu ti sei sentito triste come me, anche se non te l’ho detto e tu non me l’hai detto, ma invece abbiamo ordinato dell’altro vino rosso.
E’ stato allora che ho tirato fuori la poesia della Szymborska. Proprio così: ho aperto quel portafoglio rosso tutto sformato che mi avevi regalato tanto tempo fa ed ho tirato fuori quel pezzetto sgualcito di giornale su cui era stampata La Stazione. Tu non volevi crederci che mi sarei messa proprio lì, in quella bettola dove eravamo solo io e te, a declamare la poesia, ma tanto c’eravamo solo io e te, il barista nel frattempo era andato non so dove, forse a fumarsi una sigaretta sotto la pioggia, e così ti ho letto ad alta voce proprio tutta la poesia e poi ho cercato di spiegarti perché proprio quella, perché la tenevo nel portafoglio e perché mi piacesse tanto.
Ma tu ad un certo punto hai smesso di ascoltarmi: temevi che avremmo potuto perdere il treno. Mentre io continuavo a dirti che era bello così, che fuori era appena passata una ragazza e che, proprio come nella poesia, probabilmente era diretta dove avrei potuto essere io. O te. O tutti e due insieme. E che se una cosa avviene, allora avviene per tutti. Significa proprio questo, esistenza oggettiva.
E allora, quando capitano quei momenti, quando oltre a quel grumo sordo e cieco che si espande da dentro e sembra avere la forza di cancellare tutto e di lasciare che null’altra percezione all’infuori del vuoto e del senso di inutilità possa esserci, ecco, allora ricordati che non è proprio davvero così.  
Fuori dalla portata della nostra presenza, altrove, altrove, c’è sempre una ragazza che prende un treno ed un ragazzo che si siede accanto a lei e poi tutto ricomincia ancora. 

La stazione

Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Eri stato avvertito

con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire

all'ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.

E' scesa molta gente.

L'assenza della mia persona

si avviava verso l'uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito

frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro

qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati

un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.

ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L'insieme restava al suo posto.

I particolari si muovevano
sui binari designati.

E' avvenuto perfino

l'incontro fissato.

Fuori dalla portata

della nostra presenza.

Nel paradiso perduto

della probabilità.

Altrove.

Altrove.
Come risuonano queste piccole parole. 

(Wislawa Szymborska)


lunedì 7 novembre 2011

No comment!


La giornalista giustamente si chiede: ma uno così - a prescindere dalle incommentabili follie che dice sui cani - come può fare il consigliere provinciale?
Quello che dice questo tizio è talmente improponibile da avermi provocato una reazione del tutto opposta a quella che solitamente provo in questi casi: ossia una risata incontenibile. No, davvero, non si può far altro che scoppiargli a ridere in faccia a uno così perché indignarsi ed arrabbiarsi significherebbe prenderlo sul serio. E invece non si può prendere sul serio uno così. No, no, mi rifiuto.
Ma chi l'ha votato?
Vi prego di notare il perfetto italiano (la barbariA), nonché la dizione impeccabile!
Ma d'altronde, lui vive nella realtà ed è stato eletto dal popolo! E conosce la legge, ma non quella legge nello specifico (ne conosce qualcuna a caso).
E, soprattutto, ha lanciato una nuova moda: si esce con il pezzo sopra del pigiama!
Ragazzi, scusate se una volta tanto sono poco seria, eh sì che la questione è della massima serietà perché le cose che propone questa specie di minus habens sono di una gravità indicibile, ma io più guardo questo video, più osservo questo tizio e più non ce la faccio a smettere di ridere.
E' che il riso, a volte, diventa l'ultima ed unica arma di difesa che si possiede.

sabato 5 novembre 2011

In memoria di Barry Horne


“La lotta non è per noi, non per i nostri bisogni personali. È per ogni animale che ha sempre sofferto ed è morto nei laboratori di vivisezione e per ogni animale che soffrirà e morirà in quegli stessi laboratori, a meno che noi non faremo cessare ora questo sporco business. Le anime degli animali torturati gridano per la giustizia, le loro urla da vivi sono per la libertà. Noi possiamo creare quella giustizia e dargli quella libertà. Gli animali non hanno nessuno tranne noi, non possiamo abbandonarli”

Queste parole appartengono a Barry Horne, attivista per la liberazione e i diritti degli animali,  morto dieci anni fa, il 5 novembre 2001, al Ronkswood Hospital, a Worcester, Gran Bretagna, a causa di complicazioni al fegato dopo l’ennesimo sciopero della fame indetto per protestare contro il governo inglese che aveva promesso di fare un’indagine pubblica sulla sperimentazione animale.
Ci sono tantissimi siti che parlano di lui, quindi non starò a scrivere tutta la sua storia nei particolari, i suoi numerosi successi, l’ingiustizia della dura condanna dopo l’arresto nonostante non abbia mai - MAI - ferito, né inteso ferire alcun essere umano durante le sue azioni.
Certo, era un attivista, uno che non si limitava a provare pena e a versare qualche lacrima per tutti i miliardi di animali che muoiono ogni anno a causa dell’uomo, ma che agiva, consapevole del fatto che “se non si agisce si giustifica, se non si combatte non si vince e se non si vince si è responsabili delle morti e delle sofferenze che continuano a ripetersi all’infinito”.
Io vi faccio questa semplice domanda: se qualcuno dei vostri familiari, un figlio, un genitore, un fratello, venisse catturato, chiuso dentro una gabbia, torturato, ucciso, e voi aveste la possibilità di rompere quelle sbarre e di liberarlo, pur sapendo di violare la proprietà privata della struttura in cui è rinchiuso e di danneggiare quegli stessi strumenti che sono sono serviti a torturarlo, lo fareste?
Sareste per questo dei terroristi, solo perché avete distrutto delle prigioni e liberato degli esseri innocenti?
Se aveste avuto la possibilità di entrare nei lager nazisti, di tagliare quel filo spinato che era un affronto alla libertà di tanti esseri viventi, e se aveste avuto la possibilità di distruggere le camere a gas e tutti gli edifici ove il dolore e la sofferenza si consumavano ogni secondo, lo avreste fatto?
Barry Horne non ha fatto nulla di più e nulla di peggio.
Ha liberato moltissimi cani beagle e altri animali destinati ai laboratori di vivisezione, danneggiato fabbriche in cui venivano prodotte pellicce, organizzato presidi di fronte a questi lager per raccogliere firme e sensibilizzare l’opinione pubblica e ha ottenuto moltissimi successi, riuscendo di fatto a far chiudere molti reparti di pellicce dei grandi magazzini. Ha tentato persino la liberazione di un delfino confinato da moltissimi anni dentro una piscina in cui a malapena riusciva a compiere un giro, purtroppo non riuscendo a portare a termine l’azione.
Le sue azioni, e ci tengo a ribadirlo, sono sempre state dirette contro strutture e MAI contro esseri viventi. Contro strutture di prigionia causa di sofferenza di tantissimi animali.
Ha combattuto per restituire la libertà, per far cessare il dolore, si è schierato a fianco degli sfruttati e delle vittime del mondo; sin da giovanissimo si è sempre distinto per il suo impegno contro ogni forma di abuso e potere, tanto rivolto alle persone quanto agli animali, tanto che prima di dedicarsi a tempo pieno alla causa animalista si era anche impegnato nelle lotte antifasciste e di supporto alla causa dell’Irlanda del Nord; perché l’ingiustizia, sebbene sia declinabile in migliaia di forme, ha un’origine comune; perché in qualsiasi paese si vada, il dolore delle vittime e l’arroganza degli aguzzini hanno la medesima radice.
Si è messo contro un sistema forte, prepotente, invasivo; si è messo contro il sistema dominante del business legato allo sfruttamento degli animali. E per questo ha pagato.
Ha pagato perché non si è fatto mettere paura, ha pagato perché non si è fatto piegare, ha pagato per il suo coraggio e coerenza di mettere in atto quanto andava professando a parole, nel tentativo di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere.
E noi ora dovremmo fare tesoro delle sue battaglie e fare in modo che la sua morte prematura abbia avuto un senso: continuare a combattere - grazie agli sforzi congiunti di pensiero ed azione - l’arroganza, la mostruosità del potere economico e della cultura dominante che considerano gli animali come semplici oggetti e che dispensano loro dolori e sofferenze inauditi.
La liberazione degli animali, come ho già avuto modo di scrivere, comincia qui, ora, anche attraverso le nostre piccole - grandi - ordinarie scelte.
È sbagliato però fare di Barry Horne un eroe; e non perché non lo sia effettivamente stato, bensì perché, così facendo, è come se volessimo porre una distanza tra lui e noi, adducendo implicitamente il pretesto che certe battaglie spettino solo a persone dotate di una natura eccezionale.
Ogni volta che chiamiamo qualcuno “eroe”, è come se ci lavassimo le mani di tutte le battaglie che siamo tenuti a compiere in difesa dei più deboli implicitamente asserendo ed ammettendo che “lui sì, perché era un eroe”, “noi no, perché siamo comuni mortali”.
Ebbene, Barry Horne era una persona umilissima e semplice, e se si è comportato da eroe non è perché avesse chissà quale predisposizione genetica, bensì perché ha scelto di agire senza stare ad aspettare che qualcun altro lo facesse al posto suo.
Barry Horne era uno di noi, gli animali che ha salvato erano esseri viventi come noi, noi possiamo scegliere se restare a guardare questo immane scempio che è lo sfruttamento degli animali oppure, al contrario, darci da fare.
Il destino è quello che costruiamo attraverso le nostre scelte. Il nostro, quello dei nostri simili - umani e animali (e ricordatevi che chi sfrutta gli animali, solo perché esseri deboli, indifesi e considerati, a torto, inferiori e perché, sulla base di questa debolezza, natura indifesa e pretesa di inferiorità sente di poterlo fare, è uno che, adottando i medesimi parametri, potrebbe sfruttare qualsiasi altro essere indifeso e debole o considerato inferiore: lo specismo è infatti la base del razzismo e di tante altre discriminazioni, ma agli animali dobbiamo rispetto a prescindere dagli eventuali interessi e benefici che questo farebbe ricadere anche su di noi) - e del mondo che ci ospita. E le scelte implicano sempre l’azione - fosse anche quella, semplicissima, del rifiuto di mettere nel carrello una bistecca o di indossare una pelliccia.
To be or not to be?”, si domandava Amleto? Giungendo alla conclusione che è solo attraverso l’azione che si può pienamente essere.
In memoria di Barry Horne (1952 - 2001).

mercoledì 2 novembre 2011

Cosmopolis di Don DeLillo

Qui potete trovare la mia recensione, pubblicata qualche giorno fa sulla rivista online MENTinFUGA.
Ricordo che da Cosmopolis il regista David Cronenberg ha tratto il suo ultimo lavoro, finito di girare lo scorso maggio ed attualmente in fase di post-produzione.
Non so voi, ma io non vedo l'ora di vederlo. Intanto vi consiglio caldamente di leggere il romanzo di Don DeLillo, un vero gioiello di contenuto e stile.