domenica 28 febbraio 2016

NOmattatoio 15° presidio: il resoconto


CORPI

Non la pioggia fitta,
non la grandine,
non la tempesta.

Non la derisione,
non i divieti,
non la violenza.

Non le lacrime,
non la rassegnazione,
non i muri.

Corpi vivi
in strada
per corpi morti
a pezzi.

Danilo Gatto

Mese dopo mese, con impegno e sacrificio, siamo giunti al quindicesimo presidio della campagna NOmattatoio che si è tenuto ieri, 27 febbraio.

Un presidio parecchio partecipato, con persone venute appositamente da altre regioni d’Italia, compreso il gruppo della Marche/Abruzzo che ci è venuto a trovare per la seconda volta (e di cui speriamo poter ricambiare presto la visita, anche per accrescere la collaborazione e parlare dei tanti progetti in corso). Ringraziamo in particolare Debora, una ragazza venuta dalla Calabria e che ha viaggiato tutta la notte per poter essere sul posto la mattina presto.

Il tempo non è stato dei migliori, c’era freddo e pioggia, ma così come nessuna condizione meteorologica ferma la catena di smontaggio dei corpi animali, crediamo che sia nostro dovere essere comunque su strada, nonostante il disagio. E poi, come ha detto l’attivista Marco, cosa vuoi che siano due gocce di pioggia a fronte dei fiumi di sangue che scorrono nei mattatoi? Ringraziamo quindi a maggior ragione e ancora di più tutte le persone presenti che non si sono lasciate intimorire dal maltempo.


Sappiamo che certe volte non è facile. Il punto è che ci siamo scelti una battaglia difficile, la più difficile di tutte perché l'ingiustizia che combatte non viene nemmeno riconosciuta come tale. Una battaglia di cui probabilmente non vedremo mai la fine. Ma quel che è peggio è che, se anche avessimo la certezza che comunque un giorno lo sfruttamento degli animali finirà, niente e nessuno potrà ridare la vita a quei maiali che abbiamo visto passare ieri. Né a loro e né a tutti gli altri di cui abbiamo a malapena incrociato lo sguardo nei mesi scorsi.

Continua su NOmattatoio.

Qui si può vedere un breve estratto del momento in cui è passato il camion di maiali, in attesa della pubblicazione del video ufficiale.

mercoledì 24 febbraio 2016

Come sono gli Stati Uniti visti attraverso la lente dell'antispecismo? Ho provato a raccontarvelo


It's not what you look at that matters, but what you see.
Henry David Thoreau

Premessa

Tempo fa scrivevo che diventare vegani è “l’inizio di un atto costitutivo che ci muove a un nuovo e diverso sguardo sul reale” (qui). Non diverse le parole di Melanie Joy, la quale sostiene che le persone che mangiano alcune specie animali, mentre ne coccolano altre, hanno gli occhi offuscati dalle lenti del “carnismo” - termine da lei stessa coniato per denominare il concetto culturalmente diffuso di considerare “normale, naturale e necessario” mangiare carne. 
E difatti, come ogni antispecista avrà sperimentato su se stesso, una volta che si è preso gradualmente atto della pervasività dello sfruttamento animale e delle dinamiche di oppressione e dominio interne al sistema in cui viviamo - e che riguardano non soltanto gli animali non umani - si inizia a guardare la realtà con spirito critico e ciò che prima ci appariva normale o non ci appariva affatto, nel senso che non veniva nemmeno notato, improvvisamente si dispiega davanti a noi: una sorta di epifania tragica e dolorosa.  Per dirla con le parole di H. D. Thoreau riportate in epigrafe, non è  importante ciò che guardiamo, ma quello che vediamo. 
Due viaggiatori possono così riportare esperienze nettamente diverse riguardo ai paesi che hanno visitato, così come aver guardato una stessa cosa, ma averla vista in maniera soggettivamente peculiare. Ciò non significa che non esista una realtà oggettiva, ma che il giudizio che ne diamo e l’impressione che ne riceviamo sono sempre filtrati dalla cultura e contesto sociale in cui siamo cresciuti, dal nostro patrimonio esperienziale, e infine dal nostro personale sistema di valori. Esistono indubbiamente forme di ingiustizia sociale che possiamo ritenere oggettive e sono quelle che ledono la libertà e i diritti degli esseri viventi. Credo che nessuno dotato di sano intelletto o di un minimo di coscienza possa oggi ritenere che sia giusto sfruttare, opprimere, mercificare, schiavizzare e uccidere individui senzienti; o ritenere che esistano etnie o individui superiori ad altri. Il problema nasce quando ci sono individui che ancora culturalmente, a dispetto di una serie di caratteristiche che gli vengono ormai riconosciute, non vengono considerati tali. Parliamo degli animali non umani, da una parte ritenuti esseri senzienti, dall’altra mercificati, sfruttati e trattati come mere risorse rinnovabili. A causa di questo sistema di valori in cui nasciamo e cresciamo, talune forme di ingiustizia non vengono percepite come tali. Succede così che, pur guardando a uno stesso soggetto, che può essere il cavallo costretto a trainare la carrozzella per turisti o la vetrina di un negozio che espone indumenti in pelle, solo chi ha smesso da un po’ le lenti della cultura specista sia capace di scorgerne tutte le implicazioni e tutto il dolore che c’è dietro. 

Considerazioni sul Veganismo


La premessa era per introdurre una serie di considerazioni e riflessioni che ho fatto durante un mio soggiorno negli Stati Uniti durato tre settimane: le città che ho visitato sono San Francisco, Los Angeles e New York. Non tantissimo, certo, ossia non sufficiente a comprendere appieno tutti gli aspetti di un paese così immenso e ricco di contraddizioni, ma abbastanza per averne colto alcune differenze rispetto al nostro.
Quello che leggerete, dunque, è un racconto antispecista, ossia un breve reportage dal punto di vista di una persona antispecista e vegana. Non esauriente quindi di tanti altri aspetti o di tutto quello che ho fatto e visto. 
Comincio subito col dire che sotto il profilo della diffusione del veganismo, gli Stati Uniti (o almeno le città dove ho soggiornato) sono qualitativamente e quantitativamene avanti. Ossia è facile trovare cibo vegano, preparato con una cura a dir poco straordinaria - a prova di onnivoro, verrebbe da dire, come se fosse sempre presente l’intento di dimostrare che si può mangiare altrettanto bene senza ingredienti di origine animale -  e tutti sanno cosa vuol dire vegano, ossia sono ben consapevoli della differenza tra vegetarismo e veganismo, anche se alcuni ristoranti si definisco vegetariani, pur essendo alla fine interamente vegani. Meno chiare sono le motivazioni che spingono a diventare tali (e di questo parlerò più avanti). Addirittura ho scovato un ristorante cinese e uno coreano interamente vegani, ossia con piatti delle rispettive tradizioni culinarie, ma veganizzati (entrambi a New York). 


Purtroppo tutti i ristoranti mantengono l’abitudine di chiamare i piatti con i nomi della tradizione, anteponendo l’etichetta vegan: nei menù è facile così trovare del vegan chicken, vegan beef, vegan lamb, vegan fish e via dicendo. Un’abitudine che personalmente ho sempre criticato in quanto non aiuta a far smettere di considerare cibo i vari individui animali; non scardina il concetto, che poi è alla base dello specismo, che degli animali si possa disporre a piacimento come fossero oggetti atti a soddisfare ogni nostro capriccio o (falsa) necessità. Suppongo sia per far capire ai non vegani che tutto può essere veganizzato o per non abbandonare termini cui siamo affezionati in termini di memoria collettiva, tradizioni, ricordi familiari (la nonna che ci cucinava il pollo e via dicendo). Usano molto il quorn, che è un sostituto della carne commercializzato anche in Gran Bretagna e Svizzera, ma non ancora negli altri paesi europei, la cui base è una micoproteina estratta dal Fusarium Venenatum, che non è un fungo vero e proprio, ma un organismo più simile al lievito di birra, per capirci (in rete comunque si possono trovare tutte le informazioni). Questo alimento ha una consistenza e un sapore davvero molto simili alla carne e infatti è consumato anche da moltissimi non vegani anche perché ricco di proteine e povero di grassi e colesterolo. Se c’è una cosa che negli Stati Uniti mi pare infatti abbiano capito è che la carne fa male, soprattutto quella di animali provenienti da allevamenti intensivi e nutriti con mangimi arricchiti di ormoni e antibiotici. Detto in altre parole: il veganismo è assai diffuso sotto il profilo salutista. Specialmente in California, dove tutti sono fissati col fitness e con la salute. La loro, però, non quella degli animali; o, se degli animali, solo in quanto poi destinati a diventare cibo. Non si fuma all’interno dei parchi e in alcune zone e quartieri nemmeno per le strade (questo per dire il grado di salutismo e chissà, magari un giorno vieteranno di mangiare burgers in pubblico). San Francisco in particolare è una città molto “verde”, pare che sia la meno inquinata tra tutti gli Stati Uniti; ci tengono moltissimo alla raccolta differenziata e addirittura hanno abolito l’uso delle buste di plastica dal 2012; usano solo carta riciclata, è diffuso l’uso di pannelli solari e si muovono molto in bicicletta e a piedi (a dispetto delle innumerevoli salite che ci sono). Se c’è una coscienza ecologista abbastanza sviluppata, lo stesso non si può dire, purtroppo, di quella antispecista. Riprendendo il discorso sopra, se tutti sanno cosa vuol dire vegano, pochi ne comprendono appieno il discorso etico che dovrebbe esserne alla base. Non ho notato alcun riferimento agli animali e al loro sfruttamento nei vari ristoranti vegani dove sono stata. Tutt’al più si parla di equilibrio, armonia col pianeta, ma l’aspetto preponderante rimane appunto quello salutista. 
Direi che il mito della carne felice (un mito perché non può esistere nessuna carne felice) ha preso abbastanza piede. Organic, gluten free e free range sono le parole chiave: vale a dire che ovunque si leggono etichette e cartelli che avvertono che nel tal ristorante o cafè o negozio si servono e vendono solo alimenti biologici, senza glutine e carne di animali allevati liberi - un vero e proprio ossimoro, di cui però pochi sembrano essere consapevoli, in quanto nessun animale allevato all’uopo di essere sfruttato e ucciso può essere davvero libero. 


Detto questo, e nonostante questo, direi, ho avuto un’impressione particolare che solo il futuro potrà dirci se giusta o sbagliata. Magari è solo una mia proiezione eccessivamente ottimista, ma tant’è. Ossia che se esiste una possibilità che il veganismo, a prescindere dalle motivazioni, si diffonda a livello planetario, questo possa avvenire solo dietro la spinta propulsiva degli Stati Uniti. È proprio dal paese dove tutto è nato - semplificando: il mito della carne, il rito del barbecue la domenica, la catena di smontaggio dei grandi mattatoi di Chicago, gli allevamenti intensivi su scala industriale e persino, adesso, il mito della carne felice -  e dove tutto è andato oltre, talmente oltre da arrivare a certe aberrazioni che conosciamo, che tutto potrebbe essere messo radicalmente in discussione. Per assurdo, è solo laddove l’orrore diviene talmente evidente da non risultare più sopportabile, che a un certo punto diventa impossibile ignorarlo. Del resto non dimentichiamo che la teoria antispecista è nata proprio negli Stati Uniti grazie ai due filosofi pionieri, esattamente Peter Singer con la pubblicazione di Animal Liberation nel 1975 (anche se lui è australiano, ma il libro si è preso diffuso nel mondo anglofono) e Tom Regan con The case for Animal Rights del 1983.
Certo, l’aspetto preponderante del salutismo da una parte preoccupa molto perché quella della salute rimane un’argomentazione antropocentrica che nulla smuove a livello di considerazione degli animali non umani e soprattutto pochissimo a livello di messa in discussione dei meccanismi socio-politici che presiedono al mantenimento di un sistema gerarchico e di dominio, eppure c’è chi sostiene, come Melanie Joy, che l’importante sia smettere di indossare le lenti dei carnismo, quali ne siano le motivazioni, per poi arrivare a comprendere tutte le altre istanze e motivazioni etiche e sociali. C’è anche chi dice che si tratti di una fase di passaggio e che sia fondamentale smontare tutte le credenze di cui è intrisa la nostra formazione, ossia che mangiare e sfruttare animali sia normale, naturale e necessario, per poter arrivare a  mettere in discussione tutto il resto e aprirsi a una più ampia e completa critica del sociale. 
Io penso che tutto ciò potrebbe essere possibile solo a patto che noi, e per noi intendo noi attivisti antispecisti, non si smetta di affiancare le argomentazioni etiche e le richieste di giustizia sociale a tutte le altre indirette. Non ci si deve adagiare sulla diffusione di un veganismo salutistico o, peggio, commerciale. Si deve continuare a parlare di animali sfruttati, di mattatoi e di abolizione della schiavitù. Una volta rimosso l’ostacolo della “normalità, salubrità e necessarietà” del mangiar carne, avremo la strada più in discesa per presentare tutto il resto del pacchetto, ossia ciò che ci interessa veramente: abolire totalmente ogni forma di sfruttamento di ogni individuo senziente e farlo non perché questo inquini o ci faccia male, ma unicamente per una questione di giustizia. 
Ancora per quanto riguarda il veganismo, pensavo di trovare più fast food, invece, a parte qualche McDonald’s, non ce n’erano moltissimi. Dev’essere sempre per l’effetto dell’informazione insistente sulla nocività del mangiar carne. Mi dicono però che molto dipende anche dalle zone, ossia che più ci si addentra nei quartieri periferici e poveri e più è facile che ai cafè che servono cibo biologico si sostituiscano fast food o chioschi che vendono hot dog e simili. Che il veganismo sia diffuso lo dicono anche i supermercati che vendono farmaci da banco e integratori. Si trovano facilmente integratori proteici senza latte e uova e il dairy free, ossia senza latticini, è un’etichetta che ho letto abbastanza spesso un po’ ovunque. Magari è sempre per il solito motivo salutistico o per via delle intolleranze, ma di certo un vegano ha vita facile, pure se per gli animali poco cambia. 

Come sono considerati gli animali in genere (a parte il discorso del ritenere normale mangiare alcune specie, intendo)

Sulla considerazione degli animali in generale, infatti, non solo quelli cosiddetti da reddito, le differenze son poche rispetto al nostro paese, anzi, direi che sul trattamento dei randagi noi siamo indubbiamente avanti. Nelle strade delle tre città che ho visitato non ho mai visto un randagio, ma il lato oscuro di questa evidenza non è che il randagismo non esista perché nessuno abbandona più cani e gatti o perché vengono immediatamente adottati, ma semplicemente perché funziona molto bene la politica di cattura e successiva uccisione, allo scadere di una permanenza di 15 gg. circa, nei canili e gattili. I pets, ossia i cosiddetti animali d’affezione come cani e gatti sono molto amati, ma solo i propri, appunto. Esistono parchi a loro destinati, dotati di giochi, ciotole per l’acqua e arricchimenti vari. Spiagge con accesso ai cani e altre no, un po’ come da noi insomma. 
Il lato oscuro delle tre città che ho visto, com’è abbastanza noto, è la presenza di tanti homeless, ossia persone senzatetto che dormono in strada. Credo che pochi paesi siano densi di contraddizioni come gli Stati Uniti. L’ho già detto, e sembra un po’ un luogo comune, ma è davvero così. Se da una parte è il sistema economico che genera queste sperequazioni, se la povertà è sempre il prodotto di un’ossessiva ricerca di incremento della ricchezza e produzione (una vera e propria patologia insita nella logica del capitalismo economico) e se il sistema assistenziale è molto diverso dal nostro, dall’altra ho riscontrato molta più solidarietà tra i singoli che non da noi. Molte persone si prodigano, a livello appunto individuale, non parlo quindi soltanto di associazioni umanitarie e dei loro volontari, a dare conforto ai senzatetto: gli portano bevande calde e coperte, si fermano per due parole di sostegno, c’è, insomma, meno distanza emotiva. Forse perché negli Stati Uniti tutti sono consapevoli della possibilità di potersi trovare un giorno senza null’altro che i vestiti che si portano addosso e nelle persone che dormono al freddo vedono il riflesso di quello che loro stessi potrebbero diventare. Ho notato che molti senzatetto hanno cani. Cani ben tenuti, coperti dal freddo, con pettorina, medaglietta identificativa e tutto ciò di cui possono aver bisogno. Quasi sempre sono cani di razza Pit Bull. Purtroppo non ho avuto modo di chiedere come mai proprio quella razza, ma mi son fatta una mezza idea. I Pit Bull sono considerati cani molto aggressivi (ma non è vero, la loro indole è pari a quella di tutti gli altri cani, tutto dipende dal fatto che avendo una mole robusta vengono spesso acquistati per i combattimenti tra cani o per fare la guardia e quindi addestrati con metodi violenti al fine di provocarne l’aggressività) e per questo sono i più difficili da adottare, quindi i primi a finire uccisi una volta portati in canile; sono un po’ i paria della società, esattamente come i poveri, come i non arrivati socialmente, quelli che non ce l’hanno fatta, come i senzatetto, appunto. E quindi, chissà, le persone senzatetto li adottano volentieri per dargli una chance o perché sentono una vicinanza emotiva con questi cani che molti abbandonano. Non so quanto questa sia una mia visione romantica o quanto corrispondente alla realtà. Magari invece prendono i Pit Bull solo perché pensano che possano difenderli dalle insidie del vivere per strada, avrei voluto domandarlo a qualcuno di loro, ma avevo paura di essere invadente. Peraltro ho notato che quando mi avvicinavo per una carezza, si prodigavano a rassicurarmi sul fatto che fossero cani “buoni e tranquilli”, come a voler sfatare il mito della loro aggressività.  
Per quanto riguarda la fauna selvatica, direi che c’è un invito al rispetto molto più che da noi. Nei parchi delle città è facile vedere scoiattoli, molto amichevoli, così come persone che gli danno da mangiare; lo stesso per quanto riguarda i piccioni e i passerotti, che sono benvoluti e nutriti, anche se in realtà ci sarebbero dei cartelli che vieterebbero di dargli da mangiare in quanto, essendo fauna selvatica, si crede sia preferibile che non debba dipendere dalle cure dell’uomo. Non ho mai visto nessun bambino inseguire piccioni o scoiattoli, cosa molto frequente da noi. E qualcosa mi dice che, se qualcuno lo avesse fatto, sarebbe stato immediatamente redarguito, se non multato, come da avviso sui cartelli. 
A San Francisco, sulla baia, ho potuto vedere le foche che si riposano sulle chiatte ormeggiate a pochi metri dalla riva. Costituiscono una vera attrazione turistica e anche qui ci sono cartelli che avvertono che se qualcuno dovesse infastidirle o maltrattarle, sarà severamente punito dalla legge. 
Non mi addentrerò ulteriormente nel discorso sugli animali che è ritenuto normale mangiare perché non c’è differenza rispetto a noi, tranne, appunto, una maggiore insistenza sul lato salutistico di cui ho parlato sopra.

San Francisco, le foche, le balene, le orche e i delfini




Sempre a San Francisco ho vissuto quella che resterà per me un’esperienza indimenticabile: il tour in barca per andare a vedere le balene che in questo periodo si trovano a passare a largo della baia per la migrazione. In realtà poi sono riuscita a vedere non solo le balene, ma anche i delfini e, fatto che pare fosse abbastanza inusuale, anche le orche con i loro piccoli. Uno spettacolo davvero unico che proverò a riassumere. L’appuntamento era un mercoledì alle otto di mattina in punto. Ricordo il silenzio della città mentre dall’albergo scendevo verso la baia e il chiacchiericcio insistente delle foche, già in quelle prime ore intente a scambiarsi informazioni, all’approssimarsi del luogo d’incontro. Coperti e attrezzati (saremo stati una quindicina di persone), dietro precise istruzioni prese al momento dell’iscrizione al tour, siamo saliti sulla barca che dopo pochi minuti ha lasciato gli ormeggi per prendere il mare aperto. Siamo passati sotto al Golden Gate (spettacolare!) e accanto all’isola di Alcatraz e dopo circa un paio d’ore di navigazione rilassante (nonostante il vento sferzante e gli spruzzi d’acqua) abbiamo scorto i primi delfini che con fare giocoso saltavano tutti intorno alla barca; si divertivano a inseguirne la scia e sembrava proprio che volessero farsi ammirare. Non so spiegare la profonda commozione che mi ha colto nel vedere per la prima volta questi splendidi animali dal vivo, liberi, nel loro habitat naturale. Una commozione certamente intrisa anche di amarezza. Da una parte avevo il cuore straripante di gioia perché avevo sempre desiderato vederli - ma mai sarei andata in un acquario! -, e dall’altra di amarezza perché è proprio nel vederli così liberi e felici che mi è stato impossibile non pensare a tutti i loro fratelli prigionieri e schiavizzati nei vari parchi acquatici e delfinari. Se solo le persone capissero quanto il mare aperto e la libertà siano i soli elementi in grado di lasciar esprimere tutte le potenzialità e necessità etologiche di queste splendide creature, penso che nessuno vorrebbe più vederle in un acquario. Ho pensato al massacro che avviene ogni anno nella baia di Taiji. A come i cuccioli vengano separati dalla madre e poi rapiti per essere poi rinchiusi per tutto il resto della loro vita dentro una vasca d’acqua, che è un po’ come se a noi ci tenessero prigionieri per tutta la vita dentro una cabina telefonica. Avrei voluto gridargli che ero loro amica e che non avrei mai smesso di lottare per la loro libertà, ma invece ho solo pianto di commozione. 
Stessa emozione mi hanno trasmesso le balene e le orche. Presente sulla barca era un esperto naturalista che ha saputo riconoscere da alcuni elementi il luogo dove si trovavano in quel momento, quali ad esempio un gruppo di uccelli acquatici intenti a spartirsi i resti dei pesci (ahimè, ma questo della predazione è un aspetto della natura che esula dai compiti dell’antispecismo), quindi è stato immediatamente spento il motore della barca, per non disturbarle, e siamo rimasti in attesa. Lo spettacolo del loro corpo sinuoso che si immergeva e fuoriusciva dalle onde non ha tardato a manifestarsi. Non a caso uso il termine “manifestazione”, o meglio dovrei dire “rivelazione” perché è questo il succo della mia esperienza. Mi hanno trasmesso un senso di serenità incredibile e di appartenenza alla natura, la loro appartenenza, nel rimpianto nostalgico della mia, ossia è evidente quanto ne facciano parte, a dispetto della nostra specie che se ne è separata tanto tempo fa e che ha iniziato a volersi distinguere come altro da quel tutto di cui pure faceva parte, attraverso il dominio e la distruzione. Oltre alla consapevolezza che più si osservano gli animali liberi nel loro habitat e più dovrebbe diventare chiaro, a tutti quanti, quanto ingiusta sia la loro prigionia nelle strutture come zoo, acquari e simili. Le orche sono state avvistate improvvisamente, pare infatti che sia abbastanza insolito vederle e non esagero che mi sono sentita davvero fortunata, come se avessi ricevuto una piccola grazia: la loro bellezza è qualcosa di indescrivibile e per di più c’erano anche i piccoli che saltavano insieme alla madre. Siamo rimasti tutti a bocca aperta. Il loro dorso bianco e nero luccicava sotto al sole e, come i delfini, sembrava che volessero farsi ammirare. Sensazione che invece non ho avuto con le balene che restavano più in disparte, più immerse nella natura e meno desiderose di contatti umani. 


Los Angeles e, ahimè, gli animali attori

A Los Angeles sono andata a visitare, tra le altre cose, anche gli Universal Studios. Una delle attrazioni del parco è lo spettacolo con gli “animali attori” che sono stati protagonisti di film di successo. Inizialmente non volevo entrare, ma poi ho riflettuto sul fatto che comunque l’ingresso era compreso nel biglietto d’entrata (e non lo sapevo che c’era questa attrazione), ossia non è che avrei dovuto pagare a parte, così, anche per rendermi conto di come li addestrino ecc., ho deciso di vederli. So che non è una cosa che, da antispecista, mi rende particolarmente onore, ma a volte per rendersi conto di alcune cose bisogna anche vederle. E anche qui ho constatato diverse contraddizioni: da una parte ti spiegano che si tratta di animali salvati dalla strada o dal macello (c’erano anche un maiale e alcune galline) e anzi invitano a sostenere i santuari, dall’altra è indubbio che si tratti di una forma di mercificazione dell’animale che comunque è costretto a imparare gesti e comportamenti richiesti dal ruolo che deve interpretare nel film. Gli insegnano a mettersi seduti, a sdraiarsi e fingersi morti, dare la zampa, a portare oggetti e poi li premiano con un biscottino, nulla di particolarmente difficile per un cane o per un maiale, però quel che contesto è il concetto stesso di usare un animale per un film o di insegnargli cose che a lui non servirebbero affatto. Onestamente non mi è parso che fossero maltrattati, ma mi è venuta comunque una gran tristezza perché penso che un gatto, un cane, un topo o un maiale dovrebbero stare con i propri simili o con i loro amici umani o dentro un santuario quando salvati dai tanti luoghi di sfruttamento, ma non dentro un parco giochi, seppure il grado di addestramento non sia paragonabile per violenza a quello di animali selvatici usati nei circhi. 

New York, le botticelle, le pellicce e gli animali-simbolo raffigurati nei musei. E ovviamente i grattacieli.


A New York purtroppo ci sono le carrozze per turisti trainate dai cavalli che stazionano davanti a Central Park e anche un piccolo zoo all’interno del parco stesso. So che spesso vengono organizzati presidi per protestare contro questa inutile e crudele tradizione, ma non mi è capitato di assistervi nei giorni della mia permanenza (altrimenti vi avrei senz’altro partecipato). In generale non ho visto attivismo, ad eccezione di volantini affissi in giro per la città volti a informare sulla crudeltà delle pellicce e dei piumini d’oca, con immagini abbastanza eloquenti e di banchetti di associazioni per aiutare cani e gatti. Lo specismo, per chi è antispecista, risalta comunque agli occhi abbastanza facilmente, che sia identificabile attraverso i colli di pellicce che guarniscono i cappucci degli indumenti dei passanti (diffusi come da noi, del resto la moda, nell’era della globalizzazione, è uguale un po’ dappertutto) o persino all’interno dei musei; già, i musei, pieni di capolavori dell’arte dove gli animali sono sempre lì a raffigurare altro: in veste di simboli o comunque come strumenti nelle mani degli individui della nostra specie. Nature morte con soggetti di cadaveri animali o scene di caccia sono abbastanza frequenti nell’arte classica. L’arte contemporanea, che dovrebbe essere più attenta a certe tematiche, non ne è immune: installazioni con animali tassidermizzati rattristano e provocano anche un certo ribrezzo e le abbiamo viste al MoMA (ma mi è capitato svariate volte anche qui in Italia). Gli individui morti (spero non uccisi all’uopo, almeno) non sono mai lì a rappresentare loro stessi, la loro unicità, per quanto violata, ma sempre per simboleggiare la caducità o discorsi sulla morte o altro, ma esclusivamente da un punto di vista antropocentrico. 




Una cosa mi ha colpito di New York (che comunque ho trovato molto bella, al di là del discorso antispecista): i grattacieli, così come le insegne mastodontiche, di sera sono sempre illuminati. Se da una parte questo rende la città scintillante e le conferisce un’atmosfera adrenalinica unica, dall’altra porta a riflettere sull’enorme, inquantificabile, spreco di energia elettrica e quindi relativo inquinamento e guerre per accaparrarsi il petrolio. Mi dicono però che i grattacieli rimangono sempre illuminati, di notte, anche per impedire che gli uccelli vadano a sbatterci contro. Non so quanto sia vero. 

Conclusioni

Difficile trarre delle conclusioni definitive perché il mio è stato comunque un soggiorno troppo breve e per il solito discorso delle contraddizioni di cui ho già detto tante volte. Quel che è certo è che in generale ho provato la sensazione di un paese la cui politica alimenti la distruzione della natura e dei suoi abitanti, ingabbiato dentro un sistema che genera sperequazioni, sfruttamento e schiavitù, da una parte, e dei suoi abitanti che tentano, su vari livelli, di tapparne le falle, ma senza metterne in discussione alla radice ciò che ne è la causa, dall’altra: ossia la logica di dominio e sfruttamento. 
Però, come già detto a proposito del veganismo, penso che se c’è una possibilità che sia una che il mondo cambi, essa non possa che partire da lì, dal paese in cui tutto è cominciato e da dove questo sistema folle è partito per andare via via colonizzando il resto del mondo, anche solo a livello culturale. C’è voglia di migliorarsi, di fare, di godersi la vita. Quello che si deve ancora capire è che potremmo stare tutti davvero meglio se anziché alimentare la competizione, l’efficienza economica basata su presupposti legati solo all’aumento del potere e del guadagno e schiavizzarci gli uni con gli altri ci impegnassimo a diffondere il concetto che si può vivere anche senza dominio e prevaricazione. Forse gli Americani hanno solo bisogno di essere informati maggiormente (eludendo quindi i media proni al sistema), ma quel che è certo è che prendono la felicità e il desiderio di raggiungerla molto più sul serio di noi (noi Europei siamo più nichilisti, più notoriamente seri e cupi e troppo inclini a riflettere sulle varie questioni esistenziali e meno a vivere la vita per quello che è, nel momento, al di fuori di ogni speculazione teorica. Gli homeless sorridono e ti dicono buona giornata. Non so quanto sia posa e quanto un sorriso vero che viene da dentro, ma comincio a pensare che ci credano veramente in tutti quei modi di dire di prendere la vita con ottimismo e via dicendo). Durante questo viaggio ho cercato di portare con me il desiderio di scoperta di un paese nuovo (relativamente nuovo, visto che culturalmente siamo stati abbastanza colonizzati, a partire dai film, la musica ecc. e a volte avevo la sensazione di aver già visto tutto, altre di stare su un grande set cinematografico, pure se poi è la vita vera di tutte le persone che abitano lì e alla fine tra realtà e finzione non si riesce più a capire dove finisca l’una o cominci l’altra), insieme a uno sguardo scevro da pregiudizi, ma sempre critico. 

(Le foto sono di Andrea Festa, tranne la prima e quelle del cibo che sono state scattate da me).

mercoledì 17 febbraio 2016

C'era una volta un gatto...

Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato; ritira
le unghie nelle zampe, lasciami sprofondare nei tuoi
occhi in cui l’agata si mescola al metallo.
(Charles Baudelaire, Le chat)

Sono moltissimi gli animali che nella nostra cultura rivestono ruoli simbolici o su cui circolano miti e leggende popolari che continuano a resistere ancora oggi. Basti dare un’occhiata, anche superficiale, all’iconografia classica e religiosa, per rendersene conto.

Tra tutti, il gatto occupa una posizione assolutamente centrale. Oggetto di culto e venerazione di moltissimi popoli pagani del passato, in particolare nella cultura egizia – considerato una vera e propria divinità: la dea Bastet, figlia del dio del sole Ra, era per l’appunto una figura teriomorfa rappresentata con la testa di un gatto – con l’avvento della religione cattolica e in particolare nei secoli oscuri della persecuzione di chiunque non fosse ottemperante al suo credo, ha subito via via lo stratificarsi di una serie di superstizioni e credenze che purtroppo sopravvivono, anche se in forma residuale, ancora oggi. Sembra incredibile a dirsi, eppure c’è ancora chi considera portatore di sfortuna l’attraversamento della strada da parte di un gatto nero e non sono poche le persone che di fronte a tale evento mettono in atto azioni scaramantiche come il fermarsi e lasciare che passi un’altra macchina.

Continua a leggere su GraphoMania.

E per saperne di più sulla festa del gatto o sul gatto in generale, qui.

martedì 16 febbraio 2016

Il sistema reagisce. E noi gli diamo una mano.

Ciao a tutti. Non sono sparita, semplicemente non ho aggiornato il blog per un po' perché sono stata in viaggio negli Stati Uniti. Ma di questo, ossia delle mie impressioni, scriverò più dettagliatamente nei prossimi giorni; nell'attesa però vi propongo un articolo sull'attivismo antispecista che avevo scritto poco prima di partire e che era stato pubblicato su Veganzetta. 




Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento esponenziale del numero di persone vegane e con esso anche la reperibilità di prodotti vegan nei supermercati, nonché un gran fiorire di ristoranti, punti vendita, e locali pubblici. Significa che “stiamo vincendo”, come dicono alcuni? Se intendiamo l’aver guadagnato una fetta di mercato e la possibilità di trovare prodotti vegani con più facilità rispetto a un decennio fa, allora probabilmente sì.
Non si comprende, però, come potrebbe portare alla liberazione animale il ridurre il veganismo a una semplice scelta alimentare personale, scelta che nulla o poco incide sulle dinamiche di oppressione e dominio di quella massa di schiavi a costo zero che sono gli Animali non umani e della loro considerazione all’interno di una società antropocentrica e specista fondata sul denaro, sui confini, sulle gerarchie e le esclusioni.
I social network hanno dato visibilità anche alle battaglie animaliste e ai contenuti più specificamente antispecisti e, sebbene le discussioni più serie e la loro portata filosofica e culturale raramente riescano a raggiungere giornali e TV (l’informazione teorica antispecista è per lo più di nicchia, e le riflessioni sull’attivismo sono circoscritte a ben precisi e numericamente limitati ambienti), qualche eco arriva anche all’esterno; il punto è che il messaggio giunge distorto e spesso pericolosamente snaturato.
Se si parla di animalismo, lo si fa solo e sempre quando qualche gruppetto o addirittura singolo – per nulla rappresentativo della poliedricità del movimento – si fa notare per qualcosa di negativo: risse verbali, aggressioni o banalizzazione del messaggio. Peggio ancora, si prende magari uno dei tanti commenti letti in rete e lo si cita come esempio di tutto un pensiero. Un po’ riduttivo, no? E’ possibile che la normalizzazione del fenomeno veganismo da un lato e la demonizzazione dell’attivismo animalista dall’altro, possano essere definite entrambe come reazioni del sistema funzionali al mantenimento dello status quo, per quanto apparentemente di segno contrario.
Cerchiamo di analizzarle entrambe.

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