mercoledì 26 ottobre 2016

Come Narciso

In un libro che sto leggendo - peraltro bellissimo - trovo la seguente frase: "sereno come un pesce rosso in una boccia di vetro". 
Il mio cuore sobbalza come di fronte a un fatto increscioso e improvviso, la mia mente si rifiuta di accettare un simile obbrobrio. Leggo e rileggo la frase più volte, poi mi domando: com'è possibile che una persona normodotata - e anzi, a giudicare dalle doti narrative della scrittrice in questione, direi più che dotata - possa arrivare a concepire un simile pensiero, incapace di sottrarsi all'evidenza di un mastodontico inganno cognitivo. 
Sereno come un pesce rosso in una boccia vetro. Attenzione, non in un acquario, al limite, ma proprio in una boccia di vetro. 
Come questa: 

Mi chiedo come possa ispirare serenità l'immagine di una prigione di vetro da cui è impossibile evadere; come si possa pensare che girare in tondo tutta la vita possa offrire la possibilità di essere, seppur per un momento, in qualche modo sereni. 
L'unica concessione che vien fatta ai pesci tenuti nelle bocce di vetro è quella di permettergli di respirare e mangiare: un po' come se a noi ci tenessero tutta la vita rinchiusi dentro una cabina telefonica lasciandoci aperta una finestrella per far entrare l'aria e attraverso cui far passare del cibo.
Oh, so già cosa mi obietterà arrivati a questo punto: voi animalisti finite sempre per antropomorfizzare tutto. I pesci non sono come noi. 
Invece, cari miei, l'unica vera antropomorfizzazione attuata è quella di piegare il mondo e le esigenze degli animali ai nostri canoni estetici e culturali in genere (una a caso: gli animali non hanno doveri, non pagano le tasse e quindi non possono avere nemmeno diritti!); l'immagine di un pesce rosso dentro una boccia di vetro può suscitare serenità solo se immaginiamo noi stessi immersi in una piscina alla ricerca di un momento di silenzio, pace e solitudine. L'idea dell'acqua che ci ovatta i pensieri e ci culla come se fossimo ancora dentro al grembo materno. Ma questo è proprio ciò che significa antropomorfizzare, ossia sovrapporre il nostro peculiare immaginario a una scena di dominio e crudeltà. Non riuscire più a vedere l'altro, ma solo noi stessi: come Narciso che si riflette sulla superficie d'acqua. 

venerdì 14 ottobre 2016

Il velo di Maya e d'altri ancora

Indossiamo tutti vari strati di lenti oscurate.
Non solo riguardo la questione animale, che forse è il caso più emblematico, ma anche riguardo altre forme di violenza e discriminazione o, in generale, alcuni aspetti della realtà contemporanea. 
Le lenti più resistenti da togliere sono quelle ideologiche. 
Purtroppo le persone non etichettabili, in grado di pensare con la propria testa senza seguire imposizioni di pensiero varie, sono davvero una minoranza. 
Non c'è ottusità più grande di quella di colui che crede di essere nel giusto perché gliel'ha detto qualcun altro (che sia un testo sacro o politico o spesso un misto di entrambi).

domenica 9 ottobre 2016

Quando il bisogno di confermare l'identità carnista prevale sulla ragione


Post semiserio. Comico, se non fosse tragico, insomma.
Noto un evolversi nelle argomentazione a sostegno del carnismo.
È già la seconda volta che un commentatore sul mio blog, non la stessa persona (a meno che non sia sempre la stessa con due account diversi), replicando a qualche mio post sull'antispecismo mi scrive: "è perché non avete abbastanza fame". Ossia, noi ci occuperemmo degli altri animali perché non avremmo abbastanza fame.
Beh, dai, rispetto al "anche le piante soffrono" è stato fatto un passo avanti. In quale direzione poi, è abbastanza prevedibile. L'abisso dell'ignoranza vi inghiottirà tutti.

Basterebbe leggersi Rifkin o anche qualche banalissimo articolo per capire come siano proprio gli allevamenti a causare la fame nel mondo, sottrazione di terreni, inquinamento, consumo idrico in eccesso; i cereali e terreni destinati agli animali potrebbero essere utilizzati per sfamare direttamente tantissime popolazioni.

Vero, io non ho abbastanza fame, ma nemmeno chi commenta e difende il carnismo pur non avendone necessità alcuna. E così facendo, con le sue (non)scelte causa la sottrazione di risorse a tantissime altre persone nel mondo.
Comunque sono contentissima di essere seguita da diversi carnisti perché alla fine, se si prendono la briga anche di commentare, si vede che sono interessati.
Purtroppo il bisogno di confermare l'identità carnista è forte, me ne rendo conto. E mi piacerebbe che si ponessero obiezioni più sensate, ma tant'è.

Per scoprire cos'è il carnismo: www.carnism.org

P.S.: e comunque, se anche morissi di fame, preferirei mille volte farlo restando abbracciata a un compagno (che sia a due o quattro zampe, rivestito di pelo o piume, squame o con ali), che da sola dopo averlo mangiato. 

venerdì 7 ottobre 2016

I have a dream


Voglio scrivere ancora una riflessione sui fatti del Canada.
Ci siamo indignati tutti eppure, a ben guardare, non è successo nulla di eccezionale rispetto a quanto accade ogni giorno, in ogni momento, in ogni parte del mondo. Migliaia di animali entrano nei macelli e vengono trucidati senza pietà. Incidenti di tir che si ribaltano sono abbastanza frequenti e sempre i sopravvissuti vengono comunque uccisi sul posto, anche se gli attivisti e le associazioni ne chiedono l'affidamento per portarli nei rifugi e curarli.
Eppure l'episodio del Canada ci ha scosso. Ogni tanto succede qualcosa capace di darci una svegliata e di rinnovarci la motivazione a lottare.
Ecco, non lasciamo che rimanga un sentimento isolato, lasciamo che si faccia strada dentro di noi fino a suggerirci magari nuove prospettive per nuove strategie di lotta.
Continuiamo a lottare sempre più indignati e cominciamo anche a far sentire responsabili le persone che mangiano gli animali.
Non è più possibile accettare questo olocausto senza fine.
Gli esecutori dell'uccisione della maialina sono i soldatini del sistema.
Fanno il loro lavoro. Niente di più e niente di meno di quello che facevano i nazisti.
Ma non dimentichiamoci dei mandanti. Perché ci sono i mandanti. Ed è ora che la collettività si faccia carico di questa strage continua.
Dateci una mano anche con NOmattatoio, venite ai presidi, facciamoci vedere che siamo in tanti perché un conto è essere in cento, un altro è quando saremo... in mille, magari. Allora chi ci guarda da fuori ci vedrà da un'altra prospettiva. Capirà che se così tante persone sono scese in strada a protestare contro lo sfruttamento animale, allora forse ci sarà un motivo. Il dubbio si insinuerà nelle loro menti e le loro certezze sulla legittimità del mangiare animali inizieranno a franare.
Le persone comuni, cioè non attivisti, si uniranno a noi e finalmente la liberazione animale prenderà una piega diversa.
Non saremo più percepiti come pazzi estremisti, ma come persone che lottano per qualcosa che ormai ha fatto il suo tempo ed è giusto che finisca.
Ho questa immagine in testa: migliaia di persone davanti ai luoghi di sfruttamento. Che si realizzi o meno, dipende solo da noi.

P.S.: per chi non avesse seguito sui social. In Canada, a Burlington, durante uno dei consueti presidi davanti ai mattatoi del gruppo Toronto Pig Save, un tir pieno di maiali si è ribaltato. Moltissimi sono morti nell'impatto, altri, gravemente feriti, hanno dovuto aspettare ore prima di essere tirati fuori per poi essere comunque uccisi sul posto o, quelli che si reggevano sulle zampe, ancora in grado di camminare, spinti a forza dentro al mattatoio, insieme a quelli illesi. Ha commosso tutti, ma non gli esecutori, il caso di una maialina, ferita che si era accasciata sull'erba - per inciso, erba che annusava e vedeva per la prima volta in vita sua - e di cui gli attivisti presenti sul posto hanno hanno l'affidamento: l'avrebbero portata in un santuario e poi curata. Invece è stata freddata sul posto, davanti a loro, senza pietà alcuna. Poi trascinata via come spazzatura. Di questo ho raccontato più dettagliatamente nel post precedente.
Come ho detto, ciò che ha colpito e smosso il mondo dell'attivismo non è tanto la pratica di uccidere comunque gli animali vittime di incidente (peraltro accade di frequente), ma la freddezza e brutalità degli esecutori che non sono stati mossi a compassione nemmeno di fronte alla sofferenza visibile di questa singola maialina e che l'hanno uccisa quasi in sfregio. Non gli sarebbe costato nulla darla a un santuario, tanto comunque non era più macellabile quindi non c'era nemmeno la squallida scusante del profitto. 

giovedì 6 ottobre 2016

Per loro


Permettetemi di condividere con voi un piccolo sfogo personale.
Chi mi conosce sa che durante i presidi al mattatoio io rimango sempre calma. Determinata, ma calma. 
Quando passano i tir pieni di animali non piango, non urlo, non mi dispero. So che sono lì per un motivo, per documentare e raccontare a tutti cosa accade. So che piangere non salverà quegli animali e non servirà in generale un granché.
Vedo, sento, registro tutto, odori, rumori, lamenti dei maiali. Però non mi scompongo mai. 
Non sul momento. Sembro forte e forse lo sono, ma perché non posso fare diversamente. 
Poi torno a casa e nei giorni successivi, quegli odori, quei lamenti, quelle immagini cominciano a lavorarmi dentro ed è allora che si fa sentire. La sento arrivare piano piano, silenziosa, si fa strada un centimetro per volta fino ad avvolgermi tutta. Come un nembo di nebbia. Non è una vera e propria depressione (mancherei di rispetto a chi ne soffre davvero, a chiamarla così), quanto una specie di apatia che mi fa passare voglia di fare qualsiasi cosa: alzarmi, lavarmi, vestirmi, uscire, terminare o iniziare qualsiasi progetto. Mi trascino pesante per casa facendo il minimo indispensabile. Mi occupo dei gatti, trovo un po’ di sollievo leggendo o guardando qualche film o serie tv. Per lo più dormo. Esco se sono proprio costretta, la sera per andare a fare il giro delle colonie o se ho un appuntamento che non posso rimandare.
Sono scontrosa e non ho voglia di parlare con le persone. Non rispondo al telefono. 
Non racconto mai come mi sento quando mi sento così per due motivi: primo perché non mi piace esternare le mie fragilità o fare la vittima (vittima di che? Non sono io la vittima), secondo perché comunque penso che sia sciocco parlare di noi, di come ci sentiamo, del nostro dolore, quando è solo una minima parte infinitesimale di quello che devono passare gli animali. Mi sembrerebbe puro egocentrismo parlare di me e non di loro.
Poi a un certo punto succede che la nube si allenti un po’, lasci filtrare un po’ di luce. Ed è allora che quel dolore si fa sentire in modo diverso. Magari è anche più acuto, nella sua ritrovata o raggiunta nitidezza, ma tutto preferisco fuorché quella coltre apatica che ottenebra pensieri e azione. A questo punto diventa facile fronteggiarlo e rispondergli con una rabbia che è subito trasformata in rinnovata determinazione.
Così mi tornano in mente gli sguardi di tutti quei disperati condannati a morte che ho incontrato e ripeto saldamente: “è per te, per lui, per lei e per tutti voi che continuerò, che ci sarò ancora, non importa quante volte la coltre nebbiosa dell’apatia mi avvolgerà di nuovo”.

Oggi mi sono fatta del male guardando il video della maialina dapprima rimasta ferita nel ribaltamento del tir in Canada e poi trucidata a sangue freddo nonostante le richieste imploranti degli attivisti di salvarla. 
I suoi occhietti chiusi, le ciglia lunghe bagnate di pianto, il suo respiro col fiato mozzato dal dolore e dalla paura, e comunque l’attaccamento alla vita erano qualcosa di immensamente commovente. Eppure chi ha voluto ucciderla non ha saputo vederli e dopo l’hanno trascinata via con la pala di metallo di una specie di trattore, come fosse spazzatura. 
Qualcosa in quel momento ha franato dentro di me e si è sbriciolato. Un pezzo di cuore. Ci ho lasciato un pezzo di cuore su quegli occhi e su quel corpicino, ancora sanguinante, che veniva trascinato via senza alcun riguardo.

Non voglio odiare. Voglio incanalare la rabbia in pensieri propositivi, progetti e azioni. 
Stavolta l’apatia la terrò a bada. Perché non posso sprecare nemmeno un momento di questa mia vita preziosa fintanto che ai miei fratelli verrà tolta la loro, altrettanto preziosa. Quegli occhi mi sono rimasti stampati nella mente e voglio che diventino un simbolo per non arrenderci.
Mai. Lo dobbiamo a loro, a tutte quelle creature indifese che vengono massacrate a migliaia, ogni secondo, senza pietà. 

(Nella foto, lei è quella a terra. Qui era ferita, ma viva. Il suo compagno sta cercando di confortarla, poi l'hanno preso e, visto che non era ferito, spinto e fatto camminare a forza fino all'entrata del mattatoio. Lei è stata trucidata poco dopo, davanti agli attivisti. Ha impiegato lunghi minuti per morire).

P.S.: per saperne di più su quanto è accaduto in Canada, seguite la pagina FB Toronto Pig Save o anche NOmattatoio. 

Disumano? No, solo troppo umano.


Pensiamo a quanto spesso usiamo il termine "disumano" per indicare qualcosa di orribile, di incredibilmente crudele, di particolarmente sadico compiuto verso qualcun altro.
Eppure, a ben guardare, dovremmo usare proprio il termine umano, anzi, troppo umano, giacché si tratta sempre di comportamenti, pratiche e azioni messi in atto da qualcuno della nostra specie.
Ciò che ci fa sentire superiori, speciali e quindi legittimati a dominare, sfruttare e compiere azioni spregevoli spacciandole per normalità è proprio quella sostanza che costituisce l'abisso che ci separa dagli altri animali - un insieme di racconti, credenze e mitologie frutto di una narrazione collettiva che è poi la storia della nostra cultura.
Solo riavvicinandoci al mondo animale da cui proveniamo, saltando dentro quell'abisso per risalirne nudi, al netto di ogni sovrastruttura culturale, ritrovandoci dunque gli animali che tutti siamo, potrebbe farci diventare di nuovo capaci di comprendere l'orrore che avvolge e annienta gli altri animali o chiunque di volta in volta sia paragonato a loro al fine di poterlo impunemente schiavizzare o uccidere.

martedì 4 ottobre 2016

Animali tra gli animali. Noi siamo come l'altro


Ogni giorno raccontiamo cosa sono costretti a subire gli animali negli allevamenti, mattatoi, laboratori per la vivisezione, zoo, circhi e altri luoghi di detenzione.
Eppure questo non sembra minimamente scalfire la coscienza di molti. 
Sapete perché? Perché in fondo resiste l'assurda concezione che essi, in quanto animali diversi da noi, soffrano in maniera anche minore rispetto a noi. 
Persino chi li ama e rispetta, sotto sotto, continua a illudersi (forse anche per legittima difesa, altrimenti impazziremmo tutti) che il lutto di una mucca che si vede portare via a forza il proprio figlio sia facilmente dimenticabile e quella perdita non la segni così come segnerebbe una madre umana.
"Provate a immaginare cosa si provi a vivere dentro una gabbietta", diciamo agli altri. Ma si continua a pensare che noi, in quella situazione, soffriremmo molto di più e che invece un visone, un uccellino o un'oca o una gallina, in fondo, sappiano farsene una ragione.
Questo si chiama antropocentrismo. E finché non lo abbatteremo, potremo fare nulla o poco per gli altri animali in quanto non si riuscirà a far capire alle persone che essi vivono giorni infernali, che ogni loro momento è un vero inferno e che lo sopportano (quelli che non muoiono, quelli che resistono) solo perché non hanno davvero alcuna scelta.
Parliamo di progresso civile e morale, convinti che così come noi abbiamo ottenuto dei diritti riusciremo facilmente a estenderli anche agli altri animali. Ma sospendere questi diritti, anche per quanto riguarda noi, è un attimo. Continuamente avvengono sospensioni di diritti in ogni angolo del globo. È successo a Genova, dentro la scuola Diaz, dove le persone erano solo carne da macello, succede in questo momento in Siria o altrove. Succede nelle stanze buie del potere all'oscuro delle telecamere. La verità è che i diritti sono un'illusione. Un'illusione che deve fare i conti con la nostra tendenza al dominio, alla sopraffazione, alla crudeltà. Tutti tratti della nostra specie. Tutti tratti antropocentrici. 
Se non fosse che è un pensiero assurdo e privo di senso, sarei estinzionista. Ma proclamarsi tale è assurdo perché se non siamo capaci di compiere il minimo gesto di altruismo rispettando il prossimo, il confine del corpo altrui, come possiamo pensare di compiere il sacrificio massimo di lasciar estinguere la nostra specie per un bene superiore?
Che ci rimane? Abbattere l'antropocentrismo, l'abbiamo detto, e possiamo farlo con l'aiuto della scienza e dell'etologia; e poi, una volta abbattuto il confine ontologico tra noi e gli altri animali, sforzarci di immedesimarci nell'altro, di metterci nei suoi panni, di diventare l'altro che sta nella gabbia e assecondare il suo desiderio di liberarsi.

lunedì 3 ottobre 2016

Misoteria per Di versi animali: siamo tutti corpi animali

(foto di Alessandra Antonini)

Misoteria per Di versi animali, questo il titolo scelto per un evento che si è tenuto durante la serata di venerdì, a Roma, presso il Caffè letterario di Trastevere. 
Non a caso ho scelto il termine “evento” perché è stato qualcosa di più della somma delle parti di quanto era in programma e perché c’è stato un filo conduttore a legare insieme il tutto, rendendo la serata veramente coinvolgente per tutti quanti vi hanno partecipato. 
Ma vediamolo un po’ più da vicino. Reading poetico, performance interattiva con Alfredo Meschi e mostra fotografica e poi, per finire, breve presentazione della campagna NOmattatoio. A leggere la descrizione uno si sarebbe immaginato quattro eventi separati gli uni dagli altri, per quanto legati dal filo conduttore dello specismo (misoteria significa, semplicemente, odio per gli animali, dove, per animali, si intendono tutti gli animali, specie homo sapiens compresa). 
E invece nel dispiegarsi dei quattro diversi momenti non si è avvertita cesura alcuna e, come poi mi ha detto Marco, la soddisfazione è stata proprio nella realizzazione di quanto era stato prima immaginato. 
Al solito, non si realizza che ciò che è stato prima in qualche modo desiderato. 
Nell’ambiente raccolto e caldo della saletta, la serata è cominciata con una chiacchierata per presentare gli autori, Marco e Alfredo, e anticipare qualcosa delle loro opere. Ma il tutto è durato davvero pochi minuti perché poi siamo stati immediatamente chiamati a prender parte e a diventar parte delle stesse:  da una parte, prestando ascolto alle poesie di Marco recitate con giusta e coinvolgente misura da Paola Simonetti, dall’altra, chiamati a interagire con i nostri corpi alla performance di Alfredo. 
La parola chiave, il filo conduttore dell’intero evento, come significante e come significato, è il corpo. I nostri corpi, che sono fatti di pelle, carne, ossa e si esprimono e agiscono nel mondo attraverso i canali sensoriali; e i corpi degli altri animali che a malapena si muovono nell’oscurità di terrificanti lager invisibili ai nostri occhi. Il senso di tutto è ridare invece visibilità a tutti questi individui dimenticati, farli uscire dal gigantesco cono d’ombra dell’indifferenza in cui, “sotto gli occhi distratti del mondo” vengono sospinti a forza dall’arrogante antropocentrismo e misoteria che, purtroppo, è la maniera in cui si è espresso nei secoli il dominio che contraddistingue la nostra specie.

Alfredo ha usato il proprio corpo in maniera radicale. La performance è il suo corpo. Un corpo sui cui si è fatto tatuare 40.000 X, una per ogni animale che muore al secondo (e parliamo solo degli animali uccisi a fini alimentari: dal conteggio sono esclusi infatti gli animali uccisi per la vivisezione, pellicce o che periscono negli altri non-luoghi di detenzione come zoo, circhi ecc.). Ma ogni X rappresenta anche altro, ad esempio l’euro che attraverso le tasse lo stato ci prende per partecipare agli armamenti di guerre volute dai governi solo per l’accaparramento di materie prime di altre zone del mondo o, tutte insieme, gli anni che dovrebbe lavorare un operaio cinese per guadagnare quanto guadagna uno stilista famoso in un singolo giorno. 
Le X sono segni incancellabili. Sono ferite, cicatrici, sono il marchio indelebile della sofferenza partecipata e condivisa. 
Ma il segno indelebile di una sofferenza partecipata e condivisa sono anche i versi delle poesie di Marco. Di versi animali perché raccontano delle ingiustizie che subiscono gli animali, ma perché anche suppliscono, questi versi, i loro lamenti  inascoltati, senza scarto alcuno. La poesia per Marco è la trascrizione a riposo dell’immediatezza di un sentire, quindi di un dolore, di uno strappo che viene poi dolorosamente ricucito sulla pagina. 

Tra il corpo in scena di Alfredo, insieme a cui è stato invitato a interagire parte del pubblico, e il suono dei versi di Marco - suoni spesso anche onomatopeici, duri, sferraglianti, metallici, come dure e sferraglianti e metalliche sono le catene che imprigionano gli animali - non c’è stata soluzione di continuità alcuna. Siamo stati, per pochi attimi, solo corpi intrecciati che si muovevano e grugnivano o respiravano insieme. Qualcuna ha pianto, qualcun altro si è commosso dentro restando impassibile fuori, altri hanno ascoltato in silenzio. L’atmosfera era carica di emozione e di un senso ulteriore al tutto che si è andato ad aggiungere ai singoli significati dei gesti in sé. Un’epifania, se vogliamo. 
E abbiamo scoperto, o semplicemente riscoperto, il valore modestissimo, ma allo stesso tempo anche immenso dell’unicità del nostro corpo. Immenso non perché eccezionale, ma perché irripetibilmente unico e parte irrinunciabile dell’insieme di tutti i viventi sul pianeta. 
Insieme, sul palco – ad accompagnare ogni nostro gesto lento le voce di Paola che recitava le poesie - anche noi ci siamo disegnati le X sul corpo. E poi abbiamo scelto una frase ciascuno che ci siamo ancora scritti a vicenda e abbiamo intrecciato le nostri mani, i nostri sguardi, i nostri odori, esattamente come fanno tutti gli animali, solo che noi, a differenza di quei corpi che sono ammassati dentro i tir per andare a morire o dentro le stanze buie di un capannone dove si lavora a cottimo, eravamo in pace e rispettosi l’uno dell’altro. 
La lezione più importante è stata capire e riscoprire che il confine è sempre il corpo dell’altro. Un confine che sfuma nel mio e che riconosco come parte del mio in quanto esattamente come il mio (a prescindere dal colore della pelle o dal fatto che si abbiano quattro zampe o due o che sia ricoperto di peli, di piume o di scaglie)  e che sempre e solo dovrebbe essere percorso da carezze di gentilezza e mai da violazioni e dominio. 
Forse, l’unica maniera per interrompere questa violazione e queste continue pratiche di violenza che avvengono ai danni di una moltitudine inimmaginabile (tutta quella moltitudine che abita i piani bassi e gli scantinati del grattacielo del potere, per citare la metafora di Horkheimer) è riappropriarci allora del valore immenso del nostro corpo, farne terreno e strumento di lotta e quindi usarlo per dare voce a tutti coloro che sono stati messi a tacere; ma anche, riconoscerci corpi tra corpi, arrivare a sentire che siamo tutti nient’altro che corpi animali destinati presto a perire. Riconoscerci nella fragilità del maiale che sui camion della morte va a morire (come abbiamo potuto vedere nei video girati durante i presidi NOmattatoio, presentati a fine serata), così come nella testimonianza di un corpo, come quello di Alfredo, che non teme di esporsi nudo tra gli altri e che proprio in questa disarmante vulnerabilità ritrova la forza di essere intrecciato agli altri.

domenica 2 ottobre 2016

Come si combatte l'ansia del fare? Facendo.

A volte stare a preoccuparsi troppo del come fa perdere di vista l'obiettivo o la cosa in sé. 
Non mi riferisco qui soltanto alla liberazione animale, ma a ogni nostro progetto, azione o proposito della vita di ogni giorno.
Oggi pomeriggio, per dire, volevo andare a correre. Però subito mi sono venuti in mente tutti gli ostacoli possibili: pioverà, non pioverà, farà freddo, farò tardi, ci sarà confusione e via dicendo. A un certo punto mi sono resa conto che il tempo stava passando e anziché attivarmi per fare quello che volevo realmente fare - andare a correre - lo stavo sprecando in timori e supposizioni varie. Così ho fatto una cosa molto semplice: ho visualizzato l'atto in sé del correre, ho infilato le scarpe e sono uscita.
Ora, questo è un esempio molto piccolo e anche banale, se vogliamo, però contiene in sé una grande piccola verità.
Se vuoi fare qualcosa: falla. Inizia a farla. Non importa come, non importa gli ostacoli che si presenteranno, intanto inizia a fare, prova a fare, che è già fare e tutto il resto si risolverà man mano.
E per iniziare l'importante è non perdere di vista l'obiettivo della cosa in sé. Bisogna visualizzarlo. Sentirlo. E far scivolare tutto il resto sullo sfondo, lasciare che ogni preoccupazione, ansia o supposizione rimangano così sfocate da non sopraffare più la cosa in sé.