domenica 27 febbraio 2011

Olocausto invisibile (IV)

Come ho scritto nel post precedente sono tante le obiezioni che vengono rivolte a noi animalisti ed alcune meritano di essere prese in considerazione più di altre; ora, in particolare, vorrei rivolgermi a tutte quelle persone che sono sensibili alla sofferenza animale, che si dispiacciono e provano rabbia per questo mondo che considera gli animali al pari di oggetti e che però restano convinti che sia inutile combattere contro un sistema così complesso e apparentemente inattaccabile o che anche, pur nella condivisione di determinate riflessioni, scelgono la “passività”. Non avete idea di quante volte ho sentito dire:”sì, hai ragione, mangiare gli animali è una cosa sbagliata, orribile ma... “, e a seguire tutta una serie di giustificazioni e rimandi, e scuse, e pretesti.
Queste persone pensano anche che nel nostro vivere quotidiano ci sia così tanto sfruttamento animale che se anche si smettesse di mangiare la carne o il pesce non cambierebbe nulla; una volta qualcuno mi disse: “e come la metti con tutti quei prodotti di uso molto comune in cui, anche senza che siano indicate direttamente, vengono utilizzate parti di animali? Ad esempio, ti sei mai chiesta perché i fogli di alluminio si separino così facilmente dal rullo?”. Ecco, no, a dire il vero questa non la sapevo. Non sapevo che anche i fogli di alluminio contenessero parti animali. Ma comunque la cosa non mi stupì più di tanto perché sono a conoscenza di un’infinità di prodotti apparentemente “innocenti” che invece contengono parti animali. Purtroppo.
Ora però la mia considerazione è questa. Da qualche parte bisogna pur cominciare. E, come mi ebbe a dire una volta anche Tom Regan - uno dei più grandi e noti sostenitori dei diritti animali, filosofo di fama mondiale, autore di molti saggi sull’argomento, e personalmente mi sento di aggiungere, persona meravigliosa  - lo sfruttamento degli animali è diffuso a livello talmente capillare nella società odierna per cui è facile scoraggiarsi, lasciarsi andare allo sconforto e alla rassegnazione e prendere come pretesto per non agire delle situazioni così estreme e particolari da far perdere di vista il nocciolo della questione;  ma il fatto è che esiste “un centro della ragnatela”  ed è sostanzialmente da lì che bisogna partire, senza perderne di vista il fulcro, senza lasciarsi distrarre da considerazioni che, sebbene non meno cogenti, sarà bene affrontare in un secondo tempo o si risolveranno da sole, in maniera naturale e spontanea perché diretta conseguenza di altre pratiche più diffuse.
Questo “centro della ragnatela” è dato dagli allevamenti intensivi e in genere dall’uccisione di animali per utilizzarne la carne, dalla vivisezione (che include un grandissimo numero di pratiche, sia volte a sperimentare farmaci che prodotti per l’igiene personale, della casa, cosmetici ecc.) dagli allevamenti per pellicce e pellami vari (pellami di animali che “tradizionalmente” non si mangiano e che quindi vengono uccisi esclusivamente per prelevarne la pelle... io trovo mostruoso anche solo scriverla questa cosa...), dall'ignobile “passatempo” della caccia. E questo non perché altri tipi di sfruttamento siano meno nefasti ma perché sono comunque diretta conseguenza di un atteggiamento principale volto a considerare gli animali solo come “risorse rinnovabili”. Se si abbattesse questo centro della ragnatela, se la smettessimo di considerare tutte le meravigliose creature del mondo animale come semplici oggetti messi a disposizione per noi (per il nostro piacere, per il nostro palato, per i nostri usi e consumi) ma per quello che realmente sono, e cioè esseri viventi con tutto il diritto di vivere la loro esistenza sul pianeta terra, allora questo nostro sguardo “altro” darebbe il via ad una rivoluzione di pensiero a 360° e di conseguenza tante altre pratiche e produzioni verrebbero smesse.
Ricordo che le alternative NON animali sono infinite. In ogni settore. La vivisezione ad esempio non serve a NULLA. Ed è comunque una cosa mostruosa. E la si deve considerare sotto il profilo utilitaristico (è inutile e persino controproducente perché i dati ottenuti sono fallaci a causa della diversità genetica e delle condizioni coatte e di stress in cui vengono tenuti gli animali), ma soprattutto etico: vivisezionereste vostro padre, vostro figlio, un vostro amico? E allora perché ritenete giusto farlo sulla pelle di un vostro simile, che soffre e prova dolore esattamente come voi (gli animali sono dotati di un sistema nervoso centrale esattamente come noi!)? C’è tanta di quella documentazione in proposito... un sito su tutti: quello della LAV, che offre una documentazione medico-scientifica e una bibliografia ricchissima ad attestare l’inutilità della vivisezione).
E’ vero che se anche tu, tu che stai leggendo (a meno che non lo abbia fatto già) smettessi di mangiare la carne continuerebbero comunque ad esistere chissà per quanto altro tempo gli orrori degli allevamenti degli orsi a cui si estrae la bile (una delle pratiche più disumane e spietate che abbia mai sentito!), è vero che ancora sarà permessa la caccia alle foche (iniziata in questo periodo nel “civile” Canada...), e tutta un’altra serie di mostruosità ma intanto facciamo qualcosa, partiamo da qualcosa, un qualcosa che, ripeto, si trova proprio al centro di quella ragnatela che bisogna distruggere.
Perché insisto tanto sulla scelta vegetariana - meglio ancora sarebbe vegana -  piuttosto che su altri aspetti della questione animalista? Perché la crudeltà ed orrore di alcune pratiche è ormai evidente e riconosciuto come tale anche da chi fatica ad abbracciare la filosofia animalista in toto; chiunque - a meno che non abbia una seria carenza del senso dell’empatia o che non sia una persona affetta da determinate gravi patologie di natura psichica - non farà fatica a riconoscere come ingiuste e mostruose la caccia alle foche, alle balene, l’abbandono degli animali, il maltrattamento, la fabbrica della bile, gli allevamenti per pellicce dove creature dagli occhi dolci e disperati vengono scuoiate vive e sottoposte ai più crudeli trattamenti, o anche la mostruosità ed inutilità di iniziative ridicole (ma purtroppo non prive di sofferenza per gli animali che vi sono coinvolti) come la corrida, il palio, il combattimento dei cani, dei galli, i circhi ecc.. Sono sicura che tanti sono in grado di provare immenso amore per gli animali d’affezione, e darebbero forse la vita per il loro cane, gatto, furetto, coniglietto ecc.. Ci sono orrori che ormai vengono riconosciuti come tali dalla nostra società (continuano a venire praticati perché il risvolto economico è enorme e il denaro, si sa, soffoca ogni etica, ma inizia comunque ad esserci una reazione sempre più diffusa di sdegno e di avversità). Un grido di indignazione non tarda a levarsi ogni qualvolta la cronaca ci riporta casi di maltrattamento o di pratiche che avvengono in altri paesi e che noi abbiamo provveduto già ad abolire da un pezzo poiché ritenute incivili. Quindi è inutile che io insista su certi orrori. Internet è pieno di “letteratura” in materia, basta avere la voglia di approfondire un minimo.
Quello su cui invece voglio porre l’attenzione - a costo di ripetermi e ripetermi fino alla nausea - è tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi quotidianamente ma non è riconosciuto come tale: un olocausto di proporzioni immense. Quello che non appare evidente - che è celato, camuffato, edulcorato, obliato - è l’orrore nascosto dietro il gesto consuetudinario di comprare, cucinare, mangiare carne di esseri che sono stati uccisi apposta per noi, di esseri che sono nati, allevati, cresciuti al solo scopo di finire bolliti, arrostiti, tranciati, smembrati, divorati. E non è così perché DEVE essere così, è così perché noi, con la nostra indifferenza ed oblio quotidiano, VOGLIAMO che continui ad essere così, permettiamo che sia così. Rinunciare a lottare significa continuare a permettere; significa rendersi complici.
Potrei citarvi tantissime frasi che sono state pronunciate da uomini illustri nel corso della storia e che hanno trovato una stretta attinenza tra quello che avvenne nei campi di concentramento nazisti e tra quello che avviene oggi negli allevamenti intensivi, nei mattatoi, nelle pescherie. “Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali” disse Theodor Adorno. E un giorno vi trascriverò le tante riflessione lasciate da uno scrittore la cui grandezza di artista va di pari passo con quella dell’uomo che è stato. Grandezza di spirito: parlo di Lev Tolstoj, animalista e vegetariano, vissuto nel lontano '800, morto con la speranza che l’evoluzione futura avrebbe prima o poi finito per considerare un abominio lo sfruttamento animale, e lo avrebbe rilegato nel lontano passato da troglodita che la specie umana è convinta di aver superato.
Lasciare che milioni di creature vengano uccise per noi, senza che noi nemmeno ci sporchiamo le mani perché deleghiamo ad altri il compito ignobile di versare il sangue, dimenticare quello che avviene nei mattatoi, voltarsi dall’altra parte, obliare, rimandare, fingere che non sia così, sottovalutare, sono tutti comportamenti volti a favorire gli aguzzini di sempre. Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, dei propri sentimenti, la forza della pietà, a costo di andare contro corrente, di allontanarsi da quella apparente sicurezza che è data dall’approvazione di una massa acritica che non esita a giudicare un fatto “normale” solo perché è compiuto dalla maggioranza. Non sempre quello che la maggioranza pensa e fa è giusto. Spesso gli orrori più grandi avvengono sotto i nostri occhi proprio mascherati da questa apparente “normalità” che li fa apparire “accettabili”. Spesso il Male è più banale (La banalità del Male, scriveva la Arendt) di quello che sembra. Specialmente quando è un Male freddo, lontano, distante nel luogo e nel tempo; vi siete mai chiesti perché sia vietato visitare gli allevamenti intensivi? O i mattatoi? Per non “turbare” la sensibilità di eventuali spettatori. Perché la verità è che nessuno potrebbe assistervi senza restarne estremamente turbato. Ed è così che certi luoghi vengono posti in luoghi irraggiungibili persino dal pensiero. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. L’orrore, il Male, viene allontanato, mascherato, celato. Eppure continua, ogni istante, anche in questo esatto momento. Un olocausto invisibile ai nostri occhi ma non per questo meno efferato, straziante, disperato e mostruoso. Sistematico. Quello che avviene negli allevamenti è uno sterminio SISTEMATICO. Esattamente come fu quello degli Ebrei.
Ma non puoi paragonare... quelli erano uomini, questi sono solo animali... (mi sembra quasi di sentire). Non animali, dico io. Non badiamo all’uso reiterato dei termini linguistici che finiscono per divenire astratti, puri suoni svuotati del loro reale significato o comunque semplici astrazioni convenzionali. Proviamo a chiamarli in un altro modo: sono creature viventi che respirano, soffrono, sentono dolore sia fisico che psichico, hanno una precisa volontà di continuare a vivere conformemente alla loro natura, ossia nei prati, o nei boschi, o sulle montagne, o nel mare, o nelle città accanto a noi nel rispetto reciproco. Sono esseri viventi e senzienti. Sentono. Vedono. Odorano. Hanno dolore. Provano affetto. Rabbia. Frustrazione. Disperazione. PROVANO DOLORE. NON sono SOLO animali. Sono creature viventi. Esattamente come coloro che sono stati deportati e torturati ed uccisi NON erano solo Ebrei, ma erano ESSERI VIVENTI. Specismo e razzismo sono la stessa identica cosa. Entrambi conducono ai campi di concentramento (che si chiamino Auschwitz o “allevamenti intensivi” o “stabulari per la vivisezione”, ripeto, è solo una banale questione di termini).
Bisogna che ci sforziamo di comprendere l’Unicità e Preziosità ed Irriducibilità dell’ESSERE. Di OGNI essere.  Umano o animale poco importa. Sempre ESSERE è.  

venerdì 25 febbraio 2011

Olocausto invisibile (III)

Noi animalisti veniamo spesso tacciati di essere degli estremisti, pazzi esaltati che preferiscono gli animali al genere umano (... con tutti i problemi che ci sono nel mondo, bambini che muoiono di fame, malattie, guerre, lavoro precario, governo ladro ecc. questi vanno a pensare agli animali...  , o - nella migliore delle ipotesi - degli ingenui idealisti che credono ancora che sia possibile cambiare il mondo (... tanto non è che se uno smette di comprarsi la bistecca poi cessano gli allevamenti intensivi, la carne si è sempre mangiata e sempre si mangerà, eh sì, l'uomo è crudele, ci sono le guerre, continuerò a comprarmi la pelliccia perché tanto ormai gli animali sono morti, anche gli animali si mangiano tra loro e noi siamo i predatori più abili e più forti, se la natura è fatta così io che ci posso fare, allora non dovresti mangiare nemmeno la lattuga,  ma se allora fossi su un'isola deserta non ti metteresti a pescare per sopravvivere?... ).
Di idiozie ne sento tante; spesso banali luoghi comuni che vengono ripetuti a mo' di mantra cantilenante, sentendo i suoni che scivolano via attraverso le labbra ma senza comprenderne realmente il significato o senza concedersi un attimo di tempo per elaborare realmente la risposta che si sputa fuori; spesso giustificazioni pronunciate con un certo livore, con tono astioso, tipico di chi si mette sulla difensiva, probabilmente riconoscendo una fondata verità alle accuse mosse dagli animalisti ma troppo preoccupato di dover ripensare e mettere in discussione il proprio stile di vita, preferendo così liquidare il tutto con... il mondo va così da sempre... .
A queste sciocche argomentazioni, e prive di un reale fondamento, se ne potrebbero aggiungere altre e sono sicura che ogni animalista sa di cosa sto parlando, ma per il momento preferisco fermarmi qui per iniziare a demolirle (non che ci voglia chissà quale sforzo mentale... basterebbe riflettere un secondo e, soprattutto, rinunciare alla disonestà mentale tipica di chi ricorrerebbe anche al più squallido dei luoghi comuni pur di avere la meglio in uno scontro dialettico, come fanno molti cacciatori, ad esempio).
Partiamo dall'estremismo di cui vengono tacciati gli animalisti; la questione è molto semplice: o si amano gli animali oppure no. O si ha a cuore la vita di ogni creatura vivente oppure no. O si rispetta la vita oppure no. O si ritiene che uccidere sia sbagliato oppure no. Non si tratta di essere estremisti, si tratta di essere coerenti con i propri principi e con le proprie scelte. Quando si tira in ballo questioni tanto importanti e definitive come la vita e la morte non si può che dare una risposta di tipo assoluto; non è estremismo, è coerenza. Non si può dire: "uccidere è sbagliato ma lo è di meno se... " o parlare di "vivisezione o scuoiamento etico": è una contraddizione in termini. Come quella di molti cacciatori che dicono di rispettare la natura (seeh... quale, quella del giardino di casa loro? Una volta è venuto un tizio a casa mia: come faccio sempre quando entra un estraneo provvedo a richiamare il mio cane ed i miei gatti perché non vadano ad infastidirlo - non tutti amano gli animali infatti e non è che noi animalisti vogliamo costringere tutti ad amare gli animali, noi vogliamo solo che siano rispettati... ma di questo parlerò un'altra volta - e lui mi fa: "no, no, non si preoccupi, a me piacciono gli animali... sono un cacciatore". Ah, beh, certo, infatti notoriamente si uccide ciò che amiamo... ).
Gli animalisti preferiscono gli animali al genere umano? Questa è un'altra tra le considerazioni più stupide che abbia mai sentito; l'amore per gli animali - che quindi include ogni specie vivente, fuori da ogni considerazione specista - è semmai un'estensione dell'amore che proviamo anche per il genere umano. Significa avere un senso della pietà e della comprensione talmente elevato da includere non solo chi ci assomiglia strettamente (come gli altri esseri umani) ma anche chi è diverso da noi geneticamente parlando. Significa avere rispetto per tutte, TUTTE, le creature che abitano il pianeta. Il fatto che poi spesso ci capiti di maledire il genere umano per gli orrori che è in grado di compiere sugli animali è un altro discorso. Personalmente provo un senso di pietà, di sconfitta e fallimento (come essere umano) quando sento parlare di certi orrori. Anche rabbia, certo. E dolore. Lo stesso che proviamo tutti quando leggiamo di omicidi, guerre, stupri, violenze ecc.. Il fatto che esistano persone malate o malvagie o ignoranti (infinite sono le cause che portano a compiere certi atti) non significa odiare il genere umano nel complesso. Nè - come ebbe a pensare dapprincipio Raskolnikov, noto protagonista di Delitto e Castigo -  che sia giusto procedere all'eliminazione fisica di determinate persone considerate un danno per la società. Io non gioisco quando un cacciatore spara ad un altro, quando un torero viene incornato e ferito gravemente da un toro, o quando un macellaio muore d'infarto a causa dello stress lavorativo. Provo invece una profonda pietà. Pietà perché è una persona che ha perso la propria opportunità di evolversi nel rispetto di ogni creatura. Non grido ai vivisezionatori "assassini, che voi siate maledetti" perché persone così sono GIA' maledette. E' il loro gesto imbrattato di sangue che li qualifica e maledice.
E' vero poi che nel mondo ci sono tantissimi problemi molto seri. E' vero che ci sono bambini (ed adulti) che muoiono di fame, persone senza lavoro, malate ecc.. Ma non capisco il nesso. Sul serio. Mi sfugge. Non capisco come occuparsi anche degli animali possa impedire o disturbare le altre opere di carità, soccorso ed impegno civile. Prendersi cura del benessere degli animali può in qualche modo contrastare gli aiuti umanitari? Non credo proprio! La cosa che più mi fa sorridere è che poi - guarda caso - simili obiezioni vengono spesso rivolte proprio da quelle persone che in vita loro non hanno mai mosso un dito per qualcuno, né umano né animale. Quindi, si potrebbe replicare "bello, intanto comincia tu a muovere il culo, poi semmai preoccupati di quello che faccio o non faccio io!"
Inoltre non è che per sostenere la causa animale serva poi tutto questo tempo: intanto basterebbe smettere di comprare carne, di comprare pellicce o articoli in pelle... già sarebbe tantissimo. E con questa rispondo anche all'altra obiezione, cioè che "il mondo non si può cambiare". Questo non è assolutamente vero. Chi dice così è perché in realtà NON lo vuole cambiare. Noi esseri umani abbiamo un potere enorme anche, e specialmente - in quest'epoca di capitalismo estremo - come semplici consumatori. Se calassero gli acquisti di carne molti allevamenti intensivi sarebbero costretti a chiudere. Se nessuno comprasse più la pelliccia, molti animali non verrebbero più scuoiati vivi. Se nessuno portasse più i bambini al circo, non ci sarebbero più animali frustrati per essere addestrati a compiere gesti ridicoli, contrari alla loro natura, solo per il gusto di far ridere un pubblico inconsapevole della sofferenza che c'è dietro. Se si boicottassero determinati prodotti verrebbe meno la sperimentazione animale (ma io preferisco continuare a chiamarla vivisezione perché non è l'adozione di un eufemismo a cambiare l'essenza dell'atto orrorifico in sé). Eh... ma poi se iniziano a chiudere gli allevamenti intensivi molte persone perderanno il loro lavoro... dicono alcuni. Per come la vedo io, far cessare la produzione di un lavoro eticamente scorretto, causa di dolore, sofferenza e morte, può essere solo un bene per l'umanità. Se uno spacciatore viene arrestato, eh beh sì, magari smette di portare i soldi a casa con cui sfamava la famiglia ma ve la sentireste di considerarlo comunque un mestiere che doveva essere salvaguardato? Anche i camorristi ed i mafiosi hanno famiglia e producono e guadagnano denaro. Vi dispiacerebbe però se restassero "disoccupati"? Dite che è una cosa diversa? No. Non è una cosa diversa. E' solo che una professione viene giudicata legale e l'altra no. Ed è solo la cultura in cui si vive che stabilisce gli aspetti giuridici di un'azione.  Ma eticamente, sotto il profilo etico, uccidere un animale ed un uomo è lo stesso ignobile gesto. Il verbo è sempre lo stesso: UCCIDERE. Cambia il paziente non l'essenza del gesto in sé.
Ci sono persone che muoiono di fame. Certamente. Forse pochi di voi sanno che migliaia di ettari di terreni nei cosiddetti paesi poveri vengono coltivati a cereali con cui poi si faranno "papponi" destinati ad ingrassare bovini che poi verranno esportati a nutrire gli abitanti dei paesi occidentali. Pensate allora a quante persone povere potrebbero invece essere sfamate se quei terreni venissero coltivati direttamente a riso o a cereali destinati alla loro diretta nutrizione.
Avete idea di quante calorie abbia bisogno un bovino per crescere ed ingrassare? Avete idea di quante persone - con il medesimo quantitativo - potrebbero essere invece sfamate? Tanto più che quei bovini andranno ad arricchire (che tristezza!) le tavole dei paesi occidentali, paesi in cui si muore per malattie legate all'obesità, ai problemi cardiaci e di cancro: tutte malattie che sono in stretta correlazione con l'alimentazione grassa troppo ricca di prodotti animali.
Alcuni di voi si ricorderanno che nei primi anni '80 ci fu un'enorme carestia in Etiopia, carestia a causa della quale morirono migliaia di bambini ed adulti. Persino il mondo dello spettacolo si attivò, facendo uscire sul mercato un disco chiamato Do they know it's Christmas? - alla cui  realizzazione contribuirono tutti i più famosi cantanti e gruppi di allora riuniti nel nome di Band Aid - i cui proventi sarebbero stati destinati all'Etiopia nel tentativo di alleviare la loro situazione disperata. Fu un'iniziativa che ebbe molto successo e che negli anni si è ripetuta tantissime volte per altre situazioni difficili, in altri contesti ecc..
Forse però non tutti sanno che in quello stesso periodo, sempre in Etiopia, fu smessa la coltivazione,  su migliaia di ettari di terreno, di riso e cereali adatti a sfamare la popolazione umana per essere convertita in culture di mangimi destinate ad ingrassare i bovini, la cui carne, e lo ripeto, sarebbe stata esportata negli Stati Uniti o nella ricca Europa. Quella carestia fu in parte causata ed ingigantita dalle sporche dinamiche economiche dei paesi cosiddetti "ricchi" (ma poveri di spirito, ahimé!).
Smettere di mangiare carne non è solo un gesto di amore e rispetto verso tutte le creature viventi, un gesto di altissimo valore etico degno dei popoli più evoluti ma anche un gesto di enorme solidarietà verso tutti quei popoli che non esitiamo mai a tirare in ballo quando si parla di impegno civile.
Quindi, non solo essere animalisti non significa trascurare altre iniziative di aiuto ed impegno umanitari ma addirittura ne amplifica l'utilità.
Quando rinuncio a comprare la carne aiuto i miei fratelli animali ma anche - sebbene indirettamente - molti miei fratelli lontani, meno fortunati di me. Io che posso scegliere, scelgo di farlo.
Quest'ultima è una considerazione anche utilitaristica, certo: non mangio la carne anche perché contribuisco  a ridurre la fame nel mondo.
Vorrei infatti aggiungere che molte scelte animaliste vengono fatte per motivi secondari: appunto utilitaristici, di salute, o persino religiosi (dei motivi religiosi magari parlerò in un post a parte). Se alla fine questi altri motivi conducono alla scelta di rispettare gli animali a me sta pure bene. Però vorrei dire - ci tengo - che ogni mia considerazione nasce da presupposti esclusivamente ETICI ed ANTISPECISTI. Io ritengo che tutte le creature abbiano il medesimo diritto a vivere in pace la loro esistenza. Punto. Se poi qualcuno sceglie di non uccidere gli animali perché ha a cuore aspetti ecologici, economici, civici o perché la sua religione gli dice che altrimenti non porrà mai fine al suo ciclo doloroso di reincarnazione, a me - ma forse soprattutto a tutti gli animali la cui vita sarà risparmiata - sta bene uguale. Questi però, ci tengo a sottolinearlo, sono motivi secondari, utilitaristici. Motivi che ogni animalista  "puro" pone al di fuori della sua primaria considerazione etica, l'unica la quale davvero può vincere su qualsiasi altra obiezione.
Rispettare tutte le creature viventi è una scelta talmente assoluta e assiomatica che è in grado di reggersi perfettamente su se stessa. Non ha bisogno di altro. Tutte le altre considerazioni sono di supporto o periferiche ma l'unica cui non si può in alcun modo obiettare è quella del rispetto di tutte le creature. E' una scelta di valore talmente assoluto che supera ogni altra considerazione di tipo utilitaristico o economico.
Nei prossimi post metterò a nudo l'infondatezza delle altre obiezioni che ho citato sopra.

mercoledì 23 febbraio 2011

Dolce Notte di Buzzati e Antichrist di Von Trier

Dolce Notte è un racconto brevissimo di Dino Buzzati, credo che a malapena raggiunga tre pagine,  eppure capace di condurre una riflessione cosmica che nasce dall’osservazione minuziosa di un paesaggio notturno.  Un uomo, di notte,  esce nel giardino della sua casa di campagna su richiesta della moglie che non riesce a dormire serenamente e che ha come l’impressione che fuori, nel giardino, ci sia “qualcosa”.
L’uomo esce e si trova davanti lo splendore di una notte serena; a questo punto segue una descrizione idilliaca di questo giardino rischiarato dalla luce lunare ed immerso in un silenzio quasi irreale.
Improvvisamente però l’uomo, quasi come se i suoi sensi si fossero magicamente acuiti, inizia a vedere, sentire, percepire tutto un “brulichio” di insetti, piccoli animali e anche animali più grandi intenti ad ingaggiare tra loro l’eterna lotta per la sopravvivenza. E, come se all’uomo fosse dato di vivere una sorta di epifania dolorosa, inizia a vedere quel meraviglioso giardino per il luogo che realmente, anche, è: un luogo di orrore e di disperazione, di sofferenza, di angoscia, di puro dolore e terrore. Centinaia, migliaia di creature viventi, dalla più piccola alla più grande, si divorano l’un l'altra a vicenda, sopraffacendosi, sbranandosi, contorcendosi, lottando inutilmente ed ineluttabilmente, gemendo, provando dolore: un ragno-botola  afferra e divora una graziosa cavalletta ancora bambina (sic), ma non fa in tempo a gustarsi la preda che a sua volta finisce nella bocca spalancata di un rospo, il quale, prima del sorgere dell’alba finirà tra gli artigli di un barbagianni; una piccola chiocciola si contorce dal dolore mentre una larva assalitrice la trasforma nel proprio pasto,  un grillo finisce assassinato da una talpa, una farfallina si dibatte spezzandosi le ali attirata dalla luce di una lampada; e così via, tutto un susseguirsi di grida e lamenti strazianti, di corpi che si contorcono, che vengono dilaniati, di zampette staccate a morsi, di teste lacerate da fauci fameliche, di denti aguzzi che strappano e lacerano tenere carni e di urla rivolte lassù, verso quella luna che osserva con un superbo distacco.
E non solo in quel giardino, ma ovunque, in ogni luogo, la stessa reiterata e prolungata agonia. E non solo di notte, ma sempre, al sorgere di ogni alba fino al crepuscolo, per proseguire all’infinito, in una crudeltà senza requie.

Trovo che ci sia una notevole somiglianza tra il significato di questo racconto ed alcuni aspetti  dell’ultimo film controverso - amato o odiato, senza mezze misure - del regista danese Lars von Trier dal titolo Antichrist, uscito nel 2009.
In quest’ultimo - a differenza che in Dolce Notte -  la situazione di partenza si pone già come esperienza tragica. Una coppia - un uomo ed una donna, che per l’intero film non vengono mai designati con il loro nome, quasi fossero degli archetipi - in seguito alla morte del loro bambino si rifugiano nella loro casa immersa in un bosco denominato “Eden” - nome ovviamente simbolico - nel tentativo di metabolizzare il lutto ricorrendo alla psicanalisi; più esattamente è l’uomo, uno psicoteraupeta, che si fa personalmente carico del dolore della moglie e che cerca di aiutarla a superare il trauma. Pian piano quel bosco quasi incantato, governato da una natura indomita,  da luogo fuori dal tempo e dallo spazio in cui trovare rifugio, accoglienza e cura per il dolore, diventa catalizzatore delle paure e pulsioni più profonde, facendosi espressione dell’ineluttabile agire di un universo maligno, sottoposto alle ferree leggi di un caos ingovernabile ed incomprensibile.
Anche qui la medesima epifania dolorosa di Dolce Notte: “sento il pianto di tutte le creature che sono destinate a morire”, dice la donna (una splendida Charlotte Gainsbourg, la cui interpretazione le è valsa il premio al Festival di Cannes come miglior attrice), e poi, anche “la natura è la chiesa di Satana”, causa e fine di ogni orrore. Associandolo al proprio senso di colpa per la morte del figlio, la donna riconosce nel principio femminino della natura - cui spetta il compito della procreazione - il principio di un Male cui si deve necessariamente soggiacere nel momento stesso in cui si ha  l’empio dono della vita. Empio perché far nascere equivale destinare a morire. Efficace la scena in cui un cervo femmina vaga per il bosco con un feto che le penzola tra la gambe, a conferma della morte che è insita nel principio della vita. Nel trattare il tema della maternità, della procreazione, del femminile che ha in dono il potere di dare la vita e delle conseguenze temibili e nefaste che ogni generazione di "altro da sè" può produrre, Von Trier si accosta a riflessioni di chiaro sapore beckettiano. E’ innegabile che infatti dare la vita è anche, paradossalmente, destinare alla morte, "nasciamo a cavallo di una tomba", ci ricorda il teatro di Beckett (contenente già a sua volta echi di un altro classico teatrale,  La vita è sogno di Calderon de la Barca, in cui il re Basilio rileva come il ventre partoriente sia una sorta di sepolcro).
In questa concezione nascere e morire sono la stessa cosa, non c'è consolazione alcuna nell'esistenza, la natura stessa  e tutto ciò che ci circonda è destinato a morire e ad essere fonte di dolore e sofferenza.
Simile considerazioni non sono nuove in letteratura (e nel cinema, cui spesso si ispira), già Leopardi si era fatto portatore di una visione esistenziale cupa ed angosciosa nell’indifferenza di una natura crudele e priva di pietà. Un pessimismo cosmico che tuttavia non incita all’abbandono in una disperazione senza riscatto ma alla fratellanza nella condivisione di una medesima sorte. Visione che quindi tende a discostarsi - negli esiti - da quella dei due autori sopra (Buzzati e Von Trier).
A tutto questo vorrei infine aggiungere delle personali considerazioni, che riguardano da vicino la maniera con cui spesso l’essere umano accampa scuse ed alibi per giustificare l’ignobile maniera con cui tratta gli animali e in genere le creature più deboli ed indifese.
È vero che nella natura agisce un principio di sopraffazione del più forte sul più debole che non esiteremmo a definire “crudele”, o quantomeno “necessario”. È vero che gli animali si mangiano tra loro, che la pianta più forte soffoca le radici di quella più debole e che l’intero ecosistema si basa su questo eterno - terribile - ciclo di distruzione e morte, di vita che cessa e vita che torna ad essere, di esseri che si mangiano l’un l’altro al fine della reciproca sopravvivenza (“viviamo su una terra di cadaveri”, scriveva Elias Canetti) ma, noi esseri umani, creature eticamente più evolute, che ci facciamo grandi agli occhi del mondo per le nostre raggiunte capacità tecnologiche, che ci vantiamo delle nostre scoperte scientifiche, della capacità di poterci tramandare la conoscenza attraverso l’invenzione della scrittura, che lodiamo la bellezza dei nostri manufatti artistici; noi, che ci vantiamo di aver superato la dura legge hobbesiana della lotta del più forte sul più debole e della sopraffazione vicendevole, noi che ci sentiamo onorati di essere riusciti a stilare una carte dei diritti degli esseri umani, in cui principi etici sconfiggono (o almeno dovrebbero, in teoria) qualsiasi rivendicazione di tipo economico o utilitaristico, come mai - per giustificare il massacro di creature incapaci di difendersi da noi - non esitiamo a tornare ad invocare quello stato di natura che,  nei contesti di cui sopra, consideriamo invece superato da un pezzo?
O ammettiamo di essere anche noi parte di un caos ingovernabile, bestie tra le bestie, pure pulsioni in lotta contro altre pulsioni, senza meraviglia o senso del tragico alcuno quando un nostro simile umano muore, preda di una necessarietà ineludibile, oppure ci uniamo nella constatazione di un medesimo destino che tocca tutti noi esseri viventi - uomini ed animali compresi - e ci riserviamo pietà e comprensione reciproca, senza esclusione alcuna. Senza alibi alcuno teso a giustificare un’uccisione piuttosto che un’altra, a favorire un delitto piuttosto che un altro.
Inoltre, se è vero che nessuno di noi può nulla (nemmeno l’evoluzione tecnologica!) contro lo spietato principio di una natura e di un principio cosmico indifferente al nostro timore della morte poiché nascere e morire è la nostra sorte, perché non cerchiamo almeno di risparmiare e risparmiarci il gesto di una malvagità gratuita, facendo attenzione a non generare più morte e dolore di quelli che siano necessari? Perché calpestare indifferentemente una formica o spezzare crudelmente le ali di una farfalla per indifferenza o, peggio, per diletto? Perché - noi che possiamo, noi esseri che non sprechiamo mai un’occasione per definirci “evoluti” - non cogliamo l’opportunità di smettere di nutrirci del sangue, dei muscoli, della carne, delle viscere di altre creature? Perché destinare quegli esseri ad una sofferenza e all’agonia di una lunghissima prigionia per il nostro solo piacere del palato?
E’ mai possibile arrecare tanto danno e dolore solo per giustificare il nostro gusto (che è comunque, non dimentichiamo, anche un indotto culturale)? 
Perché aggiungere al “pianto di tutte le creature che sono destinate a morire” , già per mano della natura,  altro pianto superfluo, altra sofferenza, altro dolore che potrebbe invece essere risparmiato?
Noi, esseri che abbiamo in comune la medesima capacità di soffrire, perché non cogliere l’opportunità di darci conforto e di destinare quel sentimento meraviglioso che è la pietà e che ci contraddistingue anche come esseri evoluti  a tutto ciò che vive e si agita e soffre - uomini ed animali, medesime creature facenti parte di un medesimo principio vitale - anziché aggiungere ad un destino già crudele altro indifferente e gratuito dolore?
No, non è necessario aggiungere altro dolore. Non è necessario uccidere gli animali.
Si nasce e si muore, e questo è inevitabile. Ciò che si può invece evitare è arrecare dolore ad altre creature.

           

lunedì 21 febbraio 2011

Il Cigno Nero


La prima volta che vidi un film di Darren Aronofsky - per la precisione si trattava di Requiem for a dream - suo secondo lungometraggio - pensai: “questo regista andrà lontano, ha le carte in regola per diventare qualcuno”; e infatti non sarei stata smentita: nel 2009 ha vinto il Leone d’oro al Festival di Venezia con The Wrestler, giudicato miglior film in concorso; premio meritatissimo, peraltro.
Avendo visto tutti gli altri suoi film, da mesi attendevo con trepidazione anche il suo ultimo lavoro: titolo originale Black Swan, da noi uscito nelle sale venerdì scorso come Il Cigno Nero; protagonista - regalandoci un’interpretazione a dir poco strepitosa, capace di raggiungere una grande intensità sin dalle primissime scene - Natalie Portman, affiancata da Mila Kunis (anche lei molto brava) e da Vincent Cassel, attore che ad ogni apparizione mi convince sempre di più.
Il film si chiude con lo schermo che si oscura sullo scroscio di un applauso; a quel punto - se solo fossi meno timida e riservata - avrei tanto voluto alzarmi dalla poltrona a proseguire anche io - oltre la finzione - con un vero, caldo ed emozionato applauso. Il Cigno Nero è bellissimo. Aronofsky continua a confermarsi per il grande autore che è. Il contenuto di questo film - come già in Requiem for a dream - è perfettamente inscritto nelle immagini; questo significa che il regista è pienamente riuscito a trovare PER QUESTO CONTENUTO specifico la FORMA MIGLIORE attraverso la quale abbia potuto essere espresso.

Il Cigno Nero è la storia di una trasformazione che porta alla liberazione attraverso il progressivo esperire e contatto del proprio lato oscuro.
Nina, la protagonista, è una ballerina che dedica tutta la sua vita alla danza, alla continua ricerca delle perfezione. L’intensità della passione che lei riversa in questa attività è resa con efficacia sin dalle primissime scene, attraverso le inquadrature del suo volto sofferto, tutto teso nello sforzo di realizzare il proprio sogno e dei movimenti aggraziati e concentrati del proprio corpo - piedi spesso in primissimo piano - che cerca e trova la perfezione del passo di danza. 
Sin da queste prime immagini lo spettatore si rende conto che per Nina danzare significa tutto; si può dire che ella non esista come persona se non nell’identificazione della propria professione; non a caso, quando in una delle scene, dei ragazzi appena conosciuti le chiedono “e tu chi sei?”, lei risponde: “una ballerina”. Come se il suo nome non avesse importanza, come se lei si sentisse “vivere” soltanto attraverso i passi del proprio danzare.
Vive problematicamente il rapporto con la propria madre - in passato anche lei una ballerina che, dopo essere rimasta incinta di Nina, aveva scelto di abbandonare la propria carriera - la quale, dedicandosi completamente alla cura della figlia,  le riserva affetto ed attenzioni pressanti, sicuramente intesi affinché Nina si realizzi, ma con il solo negativo risultato di bloccarla nella propria crescita ed autonomia, facendola restare imprigionata nella propria fragilità ed insicurezza.
Nina è una ballerina tecnicamente perfetta, ma incapace di abbandonarsi alle emozioni del proprio corpo, sia mentre danza ma anche nell’agire quotidiano; questo è anche quello che le dice il famoso regista Thomas Leroy (V. Cassel, perfetto nel ruolo), mentre insieme discutono su chi dovrà intepretare il prestigioso ruolo di “Regina dei Cigni” nel celebre “Il Lago dei Cigni”, la cui Prima servirà anche da consacrazione della nuova stella della Compagnia, dopo che ufficialmente, durante una serata, è già stata salutata la precedente (Beth, interpretata da Winona Ryder, un piccolo ruolo ma molto significativo), ormai considerata troppo “anziana” per danzare.
Thomas Leroy sceglie Nina; sebbene perfetta come cigno bianco ma non ancora abbastanza efficace nell’interpretazione del cigno nero, un ruolo che richiede capacità totale di abbandonarsi alle emozioni, alle percezioni della propria fisicità, in un completo cedimento alla piena natura del proprio essere.
Nina non è un cigno nero perché non è in grado di vivere pienamente il lato più passionale, sensuale e volitivo della propria anima e del proprio corpo. Nina non è un cigno nero perché nella propria remissività - con la madre, con il regista, con le sue compagne di ballo - non riesce ad autoaffermarsi, a far emergere la pienezza del proprio sé.
L’innato istinto a ricercare la perfezione e il sogno di meritare pienamente il ruolo da protagonista che le è stato assegnato - come Regina dei Cigni - ma anche come nuova prima stella del balletto, la porterà ad immergersi anima e corpo nelle prove del balletto, fuori e dentro gli orari di lavoro, attraverso un lavoro di totale immersione teso alla comprensione e immedesimazione della personalità oscura del ruolo del cigno nero,  in un processo di identificazione via via sempre maggiore.
Si può dire che la trasformazione di Nina in cigno nero, inizi sin dalla primissima scena, a nostra e sua insaputa; sin dalla prima scena in cui si sveglia dopo aver sognato di essere stata scelta per interpretare entrambi i ruoli nella nota opera. E quando la realtà esaudisce il suo desiderio ella sa che dovrà cercare la perfezione - fatta non solo di tecnica ma anche di pura emozione e passionalità - dentro di sé, tentando di accogliere quella parte oscura fatta di puro istinto e volizione passionale; non potrà limitarsi ad interpretare un ruolo sul palcoscenico; dovrà andare oltre, diventare ella stessa un vero perfetto cigno nero, nella realtà quanto nella finzione del balletto. Perché la perfezione è immedimazione totale, senza scarto alcuno.
Il film, come ho scritto sopra, è la storia di questa trasformazione. Alla fine, imparando ad attingere alle zone oscure del proprio istinto e dei propri desideri, Nina spiegherà le sue ali sul palcoscenico e da cigno bianco che era stata diventerà il cigno nero più perfetto che si sia mai visto. Da ragazza remissiva e fragile, abituata a reprimere le proprie emozioni e la propria sessualità, si trasformerà in una donna piena di passione e di ardore, non più timorosa di desiderare, di sentire, di volere, di affermarsi nella completezza della propria dualità di bene e male.
Ciò che è estremamente efficace a livello visivo è la lenta progressiva trasformazione di cui lo spettatore prende graduale nota attraverso le percezioni di Nina.
La realtà in cui la protagonista è immersa inizia pian piano ad acquisire una dimensione ulteriore, che è quella delle percezioni allucinatorie del proprio corpo e sul proprio corpo.
Pian piano ella va sostituendo una realtà angosciosa e sempre più disturbante - con delle vere e proprie incursioni nell’horror puro - al lineare svolgersi degli eventi.
Immagina una rivalità inesistente, riversando in questo conflitto tutta la rabbia di cui è capace, imparando a tirarla fuori a poco a poco, imparando a confrontarsi con le proprie ragioni ed i propri desideri, imparando ad attivarsi per esaudirli.
Sottoposta ad uno stress indicibile, delle prove, dell’ansia per il giorno fatidico del debutto sempre più imminente, alle sollecitazioni di una realtà che è percepita sempre più alterata, di una psiche che sembra somatizzare in maniera sempre più evidente a livello proprio fisico le proprie nevrosi ed i propri desideri,  raggiungerà infine, sotto gli occhi di tutti gli spettatori - sul palco, nella finzione della diegesi filmica, sullo schermo per noi spettatori - l’apoteosi della propria introiezione e trasformazione - fin dentro l’ultima cellula della sua anima e del suo corpo -  nel più incredibile cigno nero che si sia mai visto.
Tutta la scena del debutto, sin dall’inquadratura delle dita dei piedi attaccate a mimare i palmipedi, mentre si sta infilando le scarpette da danza, dall’immensa fragilità e debolezza del cigno bianco resa persino nell'insicurezza di un passo sbagliato, in cui letteralmente cade rischiando di compromettere l'esito della prova, fino alla potenza della trasformazione finale nel cigno nero, è di un’efficacia visiva a dir poco strepitosa. Lo spettatore sa cosa sta accadendo, tuttavia non riesce a crederci. Cosa sono quegli strani puntini sulla pelle di Nina, simili a disturbanti ed inquietanti eruzioni cutanee, che vanno e vengono ad ondate, che appaiono e scompaiono quasi fossero il frutto di un’allucinazione ottica? Cosa sono quelle striature di sangue sulla schiena, quelle unghie che si staccano, quella pelle che pian piano - come se vi avessero riversato dentro dell’acciaio fuso - diventa nera e sulla cui superficie iniziano ad apparire strani fenomeni?
Quella che ho trovato magistrale è proprio l’efficacia visiva di questa trasformazione interiore che - lungi dall’essere solo indagata psicologicamente - è  resa visivamente, concretamente, come la più estrema delle somatizzazioni.
Trovo straordinaria la scelta di Aronofsky di mostrare proprio la fisicità di questa trasformazione che in realtà avviene principalmente a livello psicologico ma che, nella stretta correlazione di psiche e corpo, indubbiamente non può che agire e manifestarsi anche a livello fisico.
Tutto quello che avviene nella mente di Nina è mostrato all’esterno; ogni sua percezione altera e destruttura il piano del reale, costringendo lo spettatore a fare i conti con una metamorfosi dell’anima che diventa palese, che è possibile cogliere visivamente fin nelle più impercettibile sfumature. Trovo che questa discesa visiva nelle percezione mentali di Nina, del suo avvertirsi fisicamente sia molto polanskiana. In qualche modo mi ricorda L’inquilino del Terzo Piano, ma anche la follia di Repulsion che da stato mentale diventa luogo fisico.
La mente di Nina diventa così tutt’una con il suo corpo.
Alla fine ella diventa un cigno nero perfetto. Poi, finalmente liberata da ogni rigidità - nell’anima e nel corpo - potrà ritornare ad essere il cigno bianco che era. Interpretando ed accogliendo con una totale immedesimazione - del corpo e dell’anima - il pieno significato del suo ruolo.  Restituendo sul palcoscenico la perfezione di un’interpretazione che è ben oltre la finzione scenica.
Il cigno nero ha liberato il cigno bianco. Il Male ha reso possibile la liberazione del Bene
Può la distruzione portare davvero alla liberazione? O è vero forse il contrario? Solo le personalità che non riescono ad esternare le proprie pulsioni volitive diventano autodistruttive, riversando all’interno quella rabbia e quel dolore che grida di essere esternato.
E’ vero invece che non bisogna temere l’oscuro potenziale distruttivo che risiede in ognuno, perché, nella piena riuscita di un’educazione e formazione non costretta a restrizioni opprimenti o da morbosità affettive - quel era il caso di Nina - conduce a quella completezza assoluta del sé che supera e va oltre ogni costrizione sociale o costruzione di sovrastrutture mentali.
Nina alla fine riesce a portare a compimento dentro di sé la dinamicità delle sue pulsioni più profonde, ma nell’instabilità di un equilibrio per troppo tempo compromesso dalla rigidità di un’educazione opprimente sarà un percorso che porterà anche all’autodistruzione. Non potendo più riversare all’esterno la propria rabbia e frustrazione non le resta che farlo all'interno di se stessa.
Ma anche, la forza del suo desiderio di “essere perfetta”, di “sentire quel ruolo perfetto” si avrà solo al prezzo dell’annullamento di se stessa, nella totale immedesimazione del ruolo. Oltre la finzione. In un’autodistruzione che però è anche costruzione di un nuovo ruolo, è liberazione in un altro sé.
Trasformarsi in altro da sé significa liberarsi e spogliarsi del vecchio sé. E spesso è necessario farlo per approdare ad una nuova e piena consapevolezza. 
E per farlo è altrettanto necessario percorrere i sentieri oscuri del proprio "io" più profondo e nascosto. Abbandonando ogni paura, ogni timore.
A volte è necessario affidare al potenzale distruttivo delle nostre pulsioni il compito di liberarci dal peso di un'identità ingombrante. Per realizzarci - liberarci - nella completezza del nostro essere.

giovedì 17 febbraio 2011

Un oscuro scrutare (e qualche nota sull'autore P. K. Dick)

Da diverso tempo volevo parlare di Philip K. Dick, soprattutto per mostrare quanto spesso le riduttive e indebite etichette che vengono attribuite a un autore non rendono sufficiente giustizia della validità e importanza dello stesso nel panorama letterario; sugli scaffali delle librerie potrete constatare che i suoi libri sono collocati precisamente nel reparto “fantascienza”. Definire P. K. Dick un autore di fantascienza tout court significa fraintendere - o quanto meno semplificare - l’intera sua opera.
Io non esiterei a collocarlo tra i classici, al pari di un George Orwell o di un Aldous Huxley. Anzi, fosse per me starebbe benissimo anche in mezzo ad un Kafka e perché no a un Dostoevskij.
È vero che P. Dick scriveva storie ambientate in un futuro tecnologicamente più avanzato rispetto al tempo in cui viveva ed è vero che ha coniato tutta una serie di termini e dato vita a "invenzioni letterarie" che sono entrate di fatto nell’immaginario fantascientifico (da una delle sue opere più famose “Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?” è stato tratto quel capolavoro cinematografico che è Blade Runner e  che ha segnato una pietra miliare nella storia del cinema, di fantascienza e non, e altri film sono stati tratti  da altre sue opere e racconti, come ad es. Minority Report di S. Spielberg) ma l’universo e la realtà - o forse sarebbe meglio dire GLI universi e LE realtà - cui egli ha dato vita hanno valore non in quanto sfondi su cui  ambientare delle storie ma in quanto metafore significative di un presente e di una realtà che diviene a-storica, a-politica, a-sociale (a differenza di quanti invece vi hanno letto SOLTANTO una critica del periodo in cui l’autore scriveva) nel momento in cui approfondiscono tematiche esistenziali, metafisiche e religiose fuori da ogni tempo e da ogni contestualizzazione geografica.
Un’opera infatti diventa “classica” quando, superando appunto ogni contesto storico o geografico, si estende a riflessioni di natura universale, in grado di toccare problematiche che appartengono all’individuo tout court, e non solo agli individui di una data epoca storica e di un dato paese. Un’opera diventa “classica” anche quando ha un valore polisemico, ossia è possibile leggervi una pluralità di significati stratificati che vanno oltre il mero piano narrativo.
Tutte le opere di Dick, più o meno note, certamente in maniera più o meno riuscita, soddisfano questi requisiti, ed ecco perché trovo ingiusto che il suo nome non venga annoverato tra i classici o che i suoi libri non vengano letti nelle scuole.
Uno dei temi fondanti la sua opera è quello dell’impossibilità di attribuire una validità certa allo status ontologico del reale; non esiste un unico piano di realtà, ne esistono tanti, e non è mai dato sapere con certezza in quale di questi i suoi personaggi si trovino. Di più. Spesso è l’identità stessa di questi ultimi a scindersi in molteplici specchi, incapaci di stabilire con certezza chi sono e dove si trovano. Più che le certezze, sfuggenti come i frammenti dei sogni, contano le percezioni.
La realtà è ciò che i nostri sensi ci restituisce, ma nella precarietà e illusorietà delle nostre percezioni, che potrebbero essere alterate da allucinazioni, visioni, stati di trance, droghe, stress, malattie degenerative del sistema neurologico, disordini di natura psichica, nevrosi ecc., non ci si può mai fidare abbastanza nemmeno di ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo. Di nulla si può essere sicuri, nemmeno di noi stessi, ci racconta Dick; ed è qualcosa di più forte di un semplice “racconto”, è la potenza di un dubbio che viene ad insinuarsi in noi lettori e che arriva a turbare le nostre certezze. Illusorie.
Un altro dei temi cari a Dick - ma diciamo che coesistono quasi sempre tutti insieme in una medesima storia - è quello della manipolazione mediatica, dell’assoggettamento delle menti alle forze del Potere - un Potere che di volta in volta è incarnato in uno Stato di Polizia, di vari Enti Governativi o di altri meccanismi di controllo - ma che ha valenza anche come potenza di un mistero che svela tutta la debolezza e piccolezza dell’uomo di fronte alla propria incapacità di comprendere forze e meccanismi che sono più grandi di lui, che stanno al di fuori di lui ma che, inaspettatamente, possono giungere anche dalle profondità più recondite del proprio stesso animo, della propria stessa personalità, non meno oscura ed intellegibile di altri meccanismi.
Durante la sua esistenza Dick ebbe diverse crisi, esistenziali e mistiche. Per tutta la vita ebbe problemi economici, infatti per riuscire a vendere (e a mangiare!) doveva fare in modo che l’apparenza di una storia avventurosa e fantascientifica (un genere che in quegli anni - ’60 - ’70 - andava molto forte in America) offuscasse quelli che erano contenuti nobili e di grande spessore. In poche parole, Dick, per vendere, doveva nascondere la propria genialità.
È stato un uomo che per tutta la vita ha cercato la Fede, spinto da un bisogno di afferrare e comprendere l’irraggiungibile. Non ha cercato solo un Dio, ha cercato tutti gli aspetti e le forme o le entità in cui Egli avesse potuto celarsi. Non era “religioso”  nel senso comunemente inteso, si poneva al di fuori di ogni pragmatismo o dogma, era piuttosto un agnostico, cioè colui che cerca, che spera di raggiungere uno stato di grazia nella Fede, che aspetta l’epifania, o qualsivoglia rivelazione.
Poco prima di scrivere Un oscuro scrutare crede di aver avuto una visione mistica, addirittura si convince che suo figlio sia stato salvato da una grave malattia grazie ad una rivelazione profetica.
Sicuramente Dick era un uomo complesso, scosso da profondi dubbi, pieno di inquietudini e turbamenti. Non era un folle però. O, se lo era, era molto più di un folle, lo era nella misura in cui spesso i folli sono soltanto coloro cui è dato percepire un pezzettino di realtà - o irrealtà che sia - che altri non sono in grado di vedere, o di comprendere.
Un oscuro scrutare parla dell’alterazione delle menti dipendenti dalla droga e del pericolo dei danni cerebrali permanenti che a causa di essa possono essere subiti. È un monito ma non un giudizio morale. Dick stesso sicuramente ha fatto uso di droghe. Specialmente negli anni in cui scrive Un oscuro scrutare, e, non a caso, manifestamente, a fine romanzo, scrive una dedica in memoria di tutti gli amici scomparsi a causa della droga o rimasti danneggiati fisicamente e/o psichicamente.
Il protagonista di questo splendido romanzo è Bob Arctor, ed è un infiltrato della sezione narcotici, un’organizzazione che ha il compito di scoprire chi produce e diffonde un nuovo tipo di droga, chiamata sostanza M, in grado di arrecare gravissimi ed irreversibili danni cerebrali.
Per infiltrarsi Bob Arctor dovrà cominciare ad assumere droghe egli stesso e iniziare ad abitare una casa frequentata da tossici e spacciatori, poi dovrà riferire il tutto all’organizzazione, celando ad essa stessa la propria identità per ragioni di sicurezza grazie all’uso di una tuta, cosiddetta “disindividuante” (una delle invenzioni più “belle” di Dick!), la quale, una volta indossata, consente - grazie ad un’elaborata e ingegnosa tecnica - di visualizzare fino ad un milione e mezzo di raffigurazioni fisionomiche di varie persone: uomini, donne, bambini, visualizzati in ogni minimo particolare in grado di cambiare ogni nanosecondo così che mai nessun volto possa essere individualizzato troppo a lungo da essere riconosciuto.
La storia procede con l’acquisizione progressiva di uno stato paranoide da parte del protagonista, il quale si convince di essere stato scoperto come infiltrato e di essere in pericolo di vita. Acconsente così a far mettere sotto controllo da parte dell’organizzazione anti-droga l’abitazione in cui vive con i suoi amici tossici e in cui si dà vita a scenette ed episodi del tutto surreali e nonsense nel pieno di un mood completamente alterato dalle sostanze stupefacenti.
Bob Arctor si trova così nell’ambigua posizione di controllare anche se stesso, le proprie conversazioni e i propri movimenti all’interno dell’abitazione (ricordando che per la sezione narcotici egli è un tossico come gli altri perché essa s-conosce la sua identità per via della tuta "disindividuante" che indossa durante le relazioni).
Bob Arctor è così colui che osserva ed è osservato. Osserva ed è osservato da se stesso. Da un occhio scrutatore che tuttavia, giorno dopo giorno, a causa di un’assunzione di droga sempre più cospicua e che lo rende sempre più dipendente, diventerà un occhio che non è più in grado di distinguere il reale dall’allucinazione, che non è più in grado di ricostituire la propria identità in un tutto unitario, preda di una percezione sempre più schizofrenica di se stesso.
Riuscirà il protagonista, ormai perso nell’universo artificiale della dipendenza da droga e nelle proprie allucinatorie elucubrazioni a portare a termine il suo compito di scoprire la verità sulla sostanza M? Qual è il costo della verità? E’ davvero necessario per riuscire davvero a “vedere” permettere che il proprio “scrutare” si faccia sempre più “oscuro”?
Ovviamente non svelerò il finale né racconterò ulteriori particolari per non rovinare la lettura di questo straordinario romanzo. Che è solo un piccolo assaggio, tuttavia esemplare, del genio di Philip K. Dick.
Infine, per chi non avesse voglia o tempo di cimentarsi con la lettura di un romanzo, consiglio, tanto per avere anche solo una vaga idea della genialità di Dick, anche un suo piccolo racconto dal titolo La formica elettrica.

mercoledì 16 febbraio 2011

Olocausto invisibile (II)

Quasi tutte le persone che mangiano gli animali o che li sfruttano ritenendoli mere risorse rinnovabili - al pari di oggetti che possono essere creati e distrutti per la nostra utilità -  considerano naturale ed ovvio farlo. Con ciò intendo che non si pongono minimamente la questione.
Questo atteggiamento non riguarda soltanto il rapporto con gli animali ma un sacco di altre questioni concernenti il nostro vivere quotidiano.
La verità è che ci sono un mucchio di cose che diamo per scontate e che crediamo essere così da sempre mentre in realtà sono soltanto il risultato di quella che definiamo la "nostra cultura". E' sbagliato però considerare le abitudini culturali come un qualcosa di monolitico e di assodato una volta per tutte; nel corso dei secoli infatti si sono verificate - e continueranno a verificarsi - numerose rivoluzioni di pensiero che mutano il tessuto sociale in cui siamo immersi; un esempio su tutti: nell'800 il ruolo della donna nella società era decisamente minore rispetto a quello che poi - grazie ad innumerevoli lotte, discussioni, manifestazioni di piazza, sollecitazioni e provvedimenti legislativi - è stato possibile modificare (e migliorare!). E lo stesso dicasi per un sacco di altre battaglie che sono state condotte nella storia, alcune di esse inizialmente talmente distanti dall'ovvietà dei luoghi comuni in cui la gente era abituata a crogiolarsi da indurre i più a sorridere al solo pensiero che se ne potesse anche soltanto parlare. Battaglie che, per quanto inizialmente ritenute marginali o poco importanti, hanno portato poi a delle vere e proprie rivoluzioni di pensiero.
"Tutti i grandi movimenti, inevitabilmente, conoscono tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l'accoglimento" (John Stuart Mill).
In merito alla questione animalista io penso di essere giunti allo stadio del dibattito. Intanto se ne parla. Anche i mezzi di diffusione di massa quali la televisione (uno degli strumenti più efficaci per creare e mantenere il consenso di uno status quo che non desidera essere messo in discussione e che, nella nostra era, è indiscutibilmente quello del potere economico detenuto da chi produce beni e servizi - di prima necessità o superflui che siano) hanno iniziato a sensibilizzare gli spettatori. Mi dicono (io non guardo la televisione, per scelta, da quasi tre anni, e di questo magari parlerò in un post specifico) che molte trasmissioni promuovono campagne contro l'abbandono degli animali o ne denunciano il loro maltrattamento. Questo è certamente un bene. Sono certa però che queste stesse trasmissioni verranno interrotte da numerosi spot pubblicitari molti dei quali destinati a favorire l'acquisto di salumi, svariati tipi di carne, di pesce, articoli in pelle e via dicendo.
Mi rendo conto che molti faranno fatica a comprendere la contraddizione di tutto questo. Eppure la contraddizione c'è, ed è molto forte.
Per quale motivo è facile riuscire a smuovere nella gente il sentimento della pietà, dell'indignazione, della rabbia e dell'orrore quando vengono mostrare scene di maltrattamenti e di crudeltà gratuita verso cani, gatti o altri esserini considerati d'affezione mentre non si prova lo stesso  medesimo orrore nel vedere il coscio di un prosciutto o quarti di pollo, o cotolette di agnello o tranci di pesce messi in vendita e pubblicizzati? Semplice, risponderanno i più. Perché quelli sono animali che si mangiano! Sono animali nati ed allevati affinché la gente se ne nutrisse!
Siamo sicuri che sia davvero così? Siamo sicuri che davvero esistano animali nati al solo scopo di essere mangiati? E chi lo avrebbe stabilito, di grazia? E perché allora queste specie non sono le stesse in tutto il mondo, in tutti i paesi? In Cina è considerato normale cucinare cani e gatti. Nei paesi musulmani non si mangia il maiale. In Australia mangiano anche i canguri. In tanti altri paesi mangiano animali che noi non mangeremmo. Questo mi dice che non esiste una legge cosmica inscritta nel nostro dna che stabilisce  quali animali vadano mangiati o che si debba mangiare animali. Nè dovremmo lasciare che siano altri - lobbies economiche o precetti di una qualsivoglia religione - a decidere per noi su questioni importanti quali il diritto di mantenere o togliere la vita ad altre creature senzienti.
Vorrei che rifletteste sul fatto che la cultura in cui ci è dato nascere, crescere, formarci è solo un fatto casuale mentre la libertà che abbiamo di assumerci individualmente  - vale a dire singolarmente ma anche come individui nella loro totalità, cioè oltre il semplice ruolo di semplici cittadini o consumatori - la responsabilità di quello che facciamo ci offre la possibilità di compiere scelte di altissimo valore etico e di realizzarci come esseri umani - in possesso di una pietas umanitaria - degni di essere considerati tali.
Che differenza c'è tra un cane ed un maiale? Nessuna. Sono animali entrambi intelligenti ed in grado di stabilire relazioni affettive con gli esseri umani. Perché consideriamo una cosa da non fare bollire un cane mentre con assoluta nonchalance ci facciamo affettare un etto di prosciutto dal salumiere? Perché culturalmente, sin dalla nascita, ci hanno abituato a questo.
Solleviamo allora questo velo di Maya dai nostri occhi ottenebrati dalle abitudini in cui siamo immersi ed iniziamo a vedere le cose per quello che realmente sono.
Apriamo gli occhi sull'orrore degli allevamenti intensivi, dei macelli, degli allevamenti per pellicce, dei laboratori di vivisezione e smettiamolo di considerarlo accettabile solo perché la cultura in cui siamo immersi lo considera accettabile.
Viviamo questa condizione schizofrenica per cui è considerato socialmente accettabile portare al cinema i bambini a commuoversi per storie edificanti sugli animali - raffigurati nei modi più graziosi e teneri -  e poi condurre quegli stessi bambini da McDonald's a mangiare la stessa carne di quegli esseri tanto graziosi per cui fino a qualche momento prima avevano provato sentimenti di amore e tenerezza.
Sin dalla nascita ci condizionano a mangiare a carne. E' difficile mettere in discussione abitudini tanto radicate da essere considerate ovvie, specialmente perché ciò significherebbe mettere in discussione il proprio stile di vita, oltre che se stessi.
Vorrei che vi fermaste un attimo a riflettere su quanto ciò che viene considerato ovvio e naturale invece potrebbe non esserlo fatto; potrebbe essere solo il frutto di abitudini e comportamenti e scelte talmente radicate da essere divenute ormai incriticabili. Fuori discussione. Ma come si può non discutere quando in gioco è la vita di creature senzienti?
Vorrei che questo mio post vi inducesse un attimo a riflettere la prossima volta che andrete al supermercato - solo un attimo - prima di compiere quel gesto tanto banale e consuetudinario di mettere la carne nel vostro carrello. Vorrei che rifletteste che quel prosciutto, o quelle salsiccie, non sono capitate lì per caso: sono lì perché qualcuno ha ucciso delle creature; spesso dopo anni di indicibili sofferenze trascorsi in gabbie talmente strette dove a malapena riuscivano a muoversi; in luoghi dove mai hanno potuto vedere la luce del sole o sentire il vento sulla loro pelle.
Vorrei che riusciste a fare lo sforzo di immaginare il maiale che era stato prima di venire trasformato in mortadella, prosciutto, salsiccia ecc.. Vorrei che provaste per un attimo a guardarlo negli occhi: senza fatica riuscirete a scorgervi lo stesso identico sguardo del vostro cane, o del gatto, o di tutte le altre creature che mai vi verrebbe in mente di uccidere. Non è necessario amare gli animali per decidere di non ucciderli. Basterebbe riconoscere in loro il medesimo principio vivente che è in voi. Si chiama empatia. Non a caso uno dei motivi - tra gli altri - per cui gli antichi Greci mettevano in scena le tragedie era anche quello di smuovere negli spettatori il sentimento dell'empatia, affinché essi, immedesimandosi, potessero apprendere ed edificarsi. L'empatia è un segno della civiltà.
Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. E l'altro non è solo chi ci assomiglia fisicamente ma anche chi - pur nelle innumerevoli differenze e diversità - condivide con noi alcune caratteristiche significative. Gli animali indiscutibilmente sentono, percepiscono, respirano, soffrono, amano, riconoscono, desiderano portare avanti quel principio cardine che è il loro diritto alla vita. Un animale che corre felice in un prato desidera continuare a farlo. Chi sono io per impedire ciò?
Un animale nato dentro una gabbia in un capannone sovraffollato di un allevamento intensivo desidera essere libero e correre fuori a respirare aria pulita. Chi sono io per impedire ciò?
Pensate che l'acquistare la carne di animali che ALTRE persone hanno ucciso per voi vi renda meno responsabili? SBAGLIATE!
Se solo imparassimo a riconoscere davvero l'orrore che ci circonda forse ci penseremmo due volte prima di compiere delle scelte che incidono così profondamente sulla vita di altre creature. Nate con l'unica sfortuna di essere intellettivamente o fisicamente più deboli, ma fors'anche quella di condividere il pianeta con noi. Un'ultima riflessione: noi consideriamo un segno della nostra raggiunta grande civiltà quello di proteggere le minoranze, i più sfortunati di noi, i derelitti, gli esseri che non sono in grado di badare a se stessi quali i neonati, gli anziani, i malati ma solo quando si tratta di "esseri umani" o al più dei "nostri" animali. Per tutte le altre specie invochiamo e/o applichiamo di fatto sempre la "legge del più forte". Vi sembra coerente?



martedì 15 febbraio 2011

Olocausto invisibile (I)

Amo gli animali. Tutti. Non li mangio e non li considero esseri da sfruttare a proprio piacimento per i più svariati scopi.
Molte altre persone amano gli animali. Ma solo i propri, o, al più, quelli considerati d’affezione.
Costoro tracciano una linea di demarcazione tra alcune specie ed altre. Inorridirebbero al pensiero di mangiarsi un cane o un gatto ma considerano “naturale” arrostire un maiale o un agnellino, bollire viva un’aragosta, o friggere un vitellino.
Questo atteggiamento si chiama specismo. Lo specismo si radica nella convinzione della superiorità di una specie rispetto ad un’altra - tipo quella umana su quelle animali - ed in nome di questa presunta superiorità - intellettuale o fisica che sia - si autolegittima a sopraffare, uccidere, sfruttare. 
A ben guardare questa definizione si attaglia benissimo anche al concetto di razzismo. Infatti in passato alcune razze - tipo quella bianca - sentendosi superiori ad altre - tipo quella nera - si sono arrogate il diritto di sfruttarle.
Lo specismo, così come il razzismo, considera la diversità come un pretesto per porre in atto la più abietta delle discriminazioni e per compiere impunemente il più nefando degli atti: quello di uccidere altre creature viventi.
L’antispecismo, che ne è l’esatto contrario e che poggia le proprie basi di pensiero su concetti di natura filosofica, antropologica, scientifica ma, prima di tutto, etica, non nega la diversità di una specie diverso ad un’altra, né intende affermare che gli animali abbiano la stessa intelligenza o capacità di pensiero dell’essere umano, anzi, riconosce la loro deminutio in termini strettamente intellettivi ma, proprio per questo, si pone come obiettivo la loro tutela e cura, e NON lo prende invece a pretesto per giustificarne l'asservimento, lo sfruttamento, e l'atto più estremo e nefando che si possa compiere: l'uccisione. 
Gli animali sono i nostri fratelli più deboli, più vulnerabili, sono creature incapaci di difendersi dai pericoli cui la società moderna li espone, sono, in primis, esseri che hanno tutto il diritto di condividere questo pianeta con noi e a noi, esseri intellettivamente, eticamente e tecnologicamente superiori spetta il compito di difenderli, di aiutarli, nello stesso identico modo con cui ci verrebbe naturale difendere un nostro fratellino minore o un bambino incapace di badare a se stesso.
In questo, come in molti altri post che seguiranno parlerò diffusamente dell’animalismo e di una delle conseguenze più dirette che è la scelta del vegetarianesimo.
Parlerò soprattutto dell’inganno in cui molti di noi sono caduti - me compresa, per lungo tempo - ossia quello di considerare “naturale” ciò che in realtà è soltanto un indotto culturale.
Noi non siamo più esseri che vivono in uno stato di natura ma siamo esseri totalmente impigliati nella ragnatela culturale che noi stessi abbiamo intessuto. Siamo talmente intrisi  nelle nostre sovrastrutture culturali da non riuscire più a credere che - così come le abbiamo innalzate - potremmo demolirle, affrancandoci da quelle abitudini o comportamenti o gesti quotidiani privi di un valore etico.
Se siamo superiori agli animali lo siamo nella misura in cui noi possiamo scegliere come agire mentre loro possono solo dare risposte di tipo istintuale o affettivo.
Gli animali uccidono perché è nella loro natura e non sono in grado di costruire un apparato etico e filosofico in grado di stabilire concetti come quello di “giusto” e “sbagliato”, “legale” o “illegale”; fanno quello che nella loro natura è necessario fare.
Allora la questione è questa: o noi, per giustificare l’uccisione di milioni di creature ogni giorno ammettiamo di non essere diversi da loro, cioè riportiamo noi stessi al rango di animali (ma allora dovremmo demolire le nostre città ipertecnologiche e ritornare ad uno stato di natura), oppure dovremmo essere in grado di trovare una risposta più soddisfacente, coerente ed inattaccabile con la quale continuare a giustificare questo sterminio che avviene giorno dopo giorno, sotto gli occhi di tutti. E non si pensi che acquistare la fettina di carne resa asettica e depotenziata dall’orrore del sangue versato perché “igienicamente” adagiata su una vaschetta di polistirolo o avvolta in uno strato di cellophane, ci renda meno aguzzini rispetto a chi, dentro i mattatoi situati lontani dai luoghi abitati affinché la sofferenza non possa giungere a sconvolgerci, impugna mannaie e coltelli  e privi milioni di creature del loro diritto a correre sui prati, prati che - fuori da ogni visione antropocentrica - non appartengono solo a noi.
Quando mi capita di affrontare questo argomento nel quotidiano - a tavola con amici, con conoscenti, nelle più svariate occasioni sociali - mi sento rivolgere un’infinità di obiezioni: alcuni argomenti sono talmente ridicoli che nemmeno meriterebbero di essere presi in considerazione, altri invece offrono notevoli spunti di discussione.
Da questo momento mi propongo quindi di affrontare la tematica dell’animalismo tentando di rispondere a quelle che sono ormai diventate le cosiddette “F.A.Q.” (ossia, dall’inglese, “Frequently Asked Questions”: domande poste più di frequente).
Ovviamente non potrò fronteggiare tutte queste obiezioni, domande, riflessioni in un unico post, quindi ne dedicherò uno per ognuna di queste e lo farò intervallandoli con altri post di altro genere in cui parlerò di libri o cinema o di attualità, o di qualsiasi altra cosa avrò voglia di scrivere.


lunedì 14 febbraio 2011

Il dolce domani

Un primo breve (spero!: la sintesi non è mai stata il mio forte!)  post per dare vita a questo spazio che vorrei riuscire a rendere davvero “mio”, senza censure (soprattutto le mie!), senza riserve (soprattutto le mie!), senza giudizi (temo soprattutto i miei!). Uno spazio in progress, capace di aderirmi addosso giorno dopo giorno, senza che ci sia uno scollamento tra quello che sentirò davvero di dire e quello che poi sceglierò davvero di scrivere.
Pirandello diceva che solo i matti sono davvero liberi di dire tutto ciò che gli passa per la testa, perché tanto sono matti. Ecco, la mia ambizione è quella di provare l’ebbrezza di questo tipo di libertà, quella che si esime persino dai giudizi con cui tendiamo a definire noi stessi, individui senzienti e percipienti quel sé che, per quanto irriducibile a se stesso, resta comunque imprigionato nelle gabbie delle sovrastrutture sociali e culturali, delle fobie, delle nevrosi, della lotta continua per emergere vincenti dal giudizio che si ha di se stessi.
Spero che questo blog mi aiuti a sentirmi libera. Anche, e, soprattutto, libera da me stessa. 
Perché ho scelto di chiamarlo come l’omonimo, bellissimo, film del regista Atom Egoyan?
Perchè, oltre ad essere uno dei miei film preferiti, è anche un film che parla di uno dei miei argomenti preferiti, cioè la morte.
Ora qualcuno potrebbe pensare che io sia una maniaco-depressiva-sfigata e grattarsi anche un po’ le palle, oppure potrebbe pensare che questo sia uno di quei blog pedanti e retorici in cui si cerca di parlare delle solite questioni esistenziali o, al contrario, potrebbe anche incuriosirsi e decidere di andare avanti. La verità è che, qualsiasi sia la risposta,  prima o poi comunque toccherà ad ognuno di noi di fare i conti con la morte, e così io, intanto, nell’attesa, mi preparo.
Da piccola pensavo alla morte con sollievo, ero convinta che in quel momento finalmente mi sarebbe stato svelato il segreto della vita. Poi, crescendo, ho cambiato idea. La morte ha iniziato a farmi paura.
Poi ancora, ho capito che non è tanto la morte in sé a farmi paura quanto il pensiero che, quando avverrà, non ci sarà nessun segreto da essere svelato. Ed è stato allora che ho potuto realizzare che la mia paura della morte non è in realtà che paura della vita, o meglio, paura che la mia vita possa sprofondare un giorno in un gran vuoto esistenziale, in un abisso di nonsense quotidiano che si dà come semplice attesa della fine (un po’ alla Beckett, diciamo).
Sono quindi giunta alla conclusione che il modo migliore per prepararsi alla morte sia quello di vivere, tentando di dare un senso al tempo, smettendo di percepirlo come un bonus fino ad esaurimento ma come opportunità per fare qualcosa di buono (mi dicono che è anche quello che suggeriva Heidegger in Sein und Zeit). E quando intendo buono non intendo nemmeno qualcosa di costruttivo, che tanto tutto finisce prima o poi, ma proprio di buono. Nel senso che: visto che siamo tutti sulla stessa barca, uomini ed animali compresi,  tutti diretti alla medesima destinazione finale, cerchiamo almeno di aiutarci a vicenda, facendoci del bene, o, almeno, senza farci del male.
Ecco, mi rendo conto che a leggermi così uno si possa fare un’idea sbagliata di me, percependomi come persona sdolcinata, buonista e, peggio ancora, moralista. Ma non mi importa. Ho detto che voglio sentirmi libera, dai giudizi degli altri e da quelli di me stessa, ossia di quello che io possa pensare che gli altri pensino di me.
Penso spesso alla morte. E’ vero. E più che la mia - che temo in senso proprio fisico e psichico - mi annichilisce il pensiero  di quella delle persone a me care. Però, a pensarci, o anche solo ad immaginarla, anche un po’ morbosamente se vogliamo, mi aiuta perché in un certo senso mi permette un confronto diretto con l’evento, per quanto fittizio, solo immaginato.
Il dolce domani perché un domani può esistere solo se c’è anche un oggi. Perché è proprio quel domani a dare un senso all’oggi.
Per restare in tema, ieri sera ho visto Dead Man di Jim Jarmusch (parlerò spesso di libri letti e film visti): ecco, questo è un film che offre un punto di vista originale ed inedito sulla morte. L’intera vicenda del protagonista infatti, che compie un itinerario fisico ma anche psichico, si snoda come viaggio iniziatico verso l’ineluttabilità della morte. Ad aiutarlo un Indiano psico-pompo, colui che, dopo il trapasso, guida le anime alla loro destinazione finale. La storia narra il viaggio di un semplice contabile che si chiama William  Blake, proprio come il noto poeta e pittore, e che, proprio come tale viene creduto dall’Indiano Nessuno, convinto che il poeta sia capitato per caso nel mondo dei vivi e che sia meglio aiutarlo a traghettarlo al di là, in quello dei morti. Nello scarto tra la tragicità della vicenda reale, tra pericoli e difficoltà varie, del contabile Blake e l’ironia dell’equivoco generato dal suo nome, si celano inaspettate situazione grottesche ma si rivela, ancor più inaspettata, anche la poesia. In una terra sempre più alienata e desolata il giovane Blake ha modo di confrontarsi in maniera sempre più ravvicinata con la morte, fino a che,  l’ultima scena, ce lo consegna ormai rappacificato, su una canoa che ondeggia nel mare, con il volto disteso, i lineamenti rilassati, pronto per il viaggio finale (e mi ha richiamato alla memoria quel bellissimo quadro di J.W. Waterhouse che è "Lady of Shalott"). Ed è una scena capace di trasmettere, paradossalmente, una calma incredibile, e calore, e pace. Che quasi quasi vien voglia di trovarsi lì, accanto a lui (anche perché è un Johnny Depp che sta di un figo pazzesco!).
Una scena che, non a caso, mi conferma quanto scritto sopra, e cioè che se c’è un qualcosa che dobbiamo temere quella non è la morte ma piuttosto l’idea  di una vita non vissuta nella piena consapevolezza.
Questo è per darvi un’idea di quanto tutto ciò che vedo o leggo o sperimento nella mia quotidianità serva a darmi il metro di misura del mio essere. E chissà, forse se ieri sera non avessi visto Dead Man non avrei parlato, in questo mio primo post, della morte. Magari il blog nemmeno l’avrei chiamato Il dolce domani. O magari non l’avrei aperto proprio.
Vorrei che questo spazio, oltre tutto ciò che ho scritto sopra, fosse un mio Stream of Consciousness, un luogo dove lasciare che avvenga il miracolo delle parole scritte che materializzano i pensieri.
Oggi c’è stato Dead Man e Il dolce domani, e tutto questo pensare alla morte di questi giorni. Domani chissà. Potrebbe essere una riflessione scaturita da una lettura o da un episodio vissuto.
Perché io sono i miei pensieri molto più di quanto qualsiasi altra definizione potrebbe dire di me.