lunedì 29 luglio 2013

Viaggio sola andata

È il loro unico e ultimo viaggio, di sola andata, verso il mattatoio. Ansimano dal caldo opprimente e si lamentano per la costrizione che devono subire. E quello che li attende, non sarà certo migliore. Davvero non ci vergognamo di fare questo ad altre creature? Arrigoni diceva "restiamo umani". Ma no, torniamo animali invece, immedesimiamoci in questi corpi che come noi sono destinati a morire e uniamoci piuttosto in un sentimento di fratellanza anziché illuderci che togliergli la vita possa prolungare la nostra. Non è uccidendo l'altro che salveremo noi stessi. Al contrario, ci condanniamo alla dannazione eterna; non quella veterotestamentaria della punizione, ma quella del delitto commesso che è insieme anche il peggior castigo che potremo mai darci. 

domenica 28 luglio 2013

Antispecismi ad usum proprium - verso una visione olistica

di Andrea Romeo 

Contra principia negantem non est disputandum”[1] 
Introduzione 

Quelli che seguono in queste pagine sono appunti presi in questi ultimi mesi per l’elaborazione della mia prossima ricerca sull’antispecismo. Ma, visto il periodaccio che l’antispecismo sta vivendo in questi giorni, ho deciso di elaborare la bozza e pubblicare comunque questo lavoro adesso. Quindi il lettore troverà certamente dei limiti nel seguente scritto. Tuttavia il mio obiettivo, con questo articolo, è quello di portare alla riflessione e stimolare il dibattito, e non di avere alcuna ambizione di dire verità assolute ed incontrovertibili. Agere sequitur esse[2] – L’ antispecismo metafisico Secondo il filosofo dell’antispecismo politico Marco Maurizi, l’antispecismo nasce metafisico[3]: che significa? Per rispondere a questa domanda facciamo un brevissimo viaggio nel tempo (indietro). L’antispecismo viene definito come quel movimento filosofico e politico che si oppone allo specismo: fin qui non si discute (almeno credo). Il problema sorge invece proprio nel momento in cui si cerca di definire lo specismo. Il termine specismo, coniato dallo psicologo inglese Richard Ryder nel 1974, viene definito dallo stesso come un pregiudizio morale simile al razzismo e al sessismo. Anche Peter Singer, nel suo famoso testo Animal Liberation, definisce lo specismo come: “Un pregiudizio o un atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli interessi dei membri della propria specie e contro i membri delle altre specie.”[4] Ritorna in Singer dunque il termine pregiudizio, termine più o meno ripreso anche, ad esempio, da Tom Regan che definisce lo specismo come attribuzione “ […] di un maggiore peso agli interessi degli esseri umani solo perché sono umani”[5] Ultimamente, un’altra studiosa del fenomeno che spicca per i suoi studi in ambito psicologico sul rapporto tra uomo e animale attraverso la bistecca, Melanie Joy, ha messo in luce il fenomeno del carnismo[6] come “sistema di credenze” trasmesso culturalmente[7]. Leonardo Caffo definisce due tipi di specismo, uno naturale e l’altro innatuale, dove lo specismo risulta “connaturato agli animali umani ancor prima che acquisiscano giudizio critico nei confronti della realtà”. [8] Si osserva dunque come lo specismo, in queste visioni, venga definito come il prodotto del pensiero, una ideologia, un pregiudizio, qualcosa di “astratto” o, come nel caso di Caffo, come innato. Dato un sistema uomo ↔ ideologia ↔ uomo, questi studiosi hanno focalizzato le proprie analisi sul secondo fattore, sulla ideologia che influenza l’uomo (ideologia ↔ uomo), la quale nasce in qualche modo dall’uomo retroagendo sullo stesso – e, di conseguenza, sul suo rapporto con la realtà materiale e quindi col non-umano – e concentrandosi dunque sugli effetti di questa retroazione. 

Prassi metafisicaMens agitat molem[9] 

Restando su una dimensione de-onto-logica, questi approcci hanno il vantaggio di analizzare un dato di fatto, una realtà hic et nunc, smontando, attraverso il ragionamento filosofico, le fallacie del mondo platonico che muove gli individui. I metafisici non si pongono il problema del come e del quando lo specismo nasce, quindi non analizzano l’aspetto storico-materiale del fenomeno, o quando lo fanno, se ne preoccupano in modo superficiale, concentrando le proprie analisi sulla manifestazione dello specismo hic et nunc, muovendosi sul piano della prassi, attraverso strategie fatte, come in un gioco degli scacchi la cui scacchiera è la logica, di mosse e contromosse per lo smantellamento del pensiero specista. L’antispecismo metafisico, quindi, analizza come il mito, retroagito sulla società e, come un burattinaio, la muove, influenza i singoli individui in relazione alla realtà materiale, evidenziando le fallacie dei ragionamenti (su tutti i piani), e cercando di far leva proprio sui bugs dei medesimi per smuovere le coscienze degli individui, o dei gruppi di individui, a cui si rivolge. Non ponendosi il problema dell’aspetto storico-materiale, l’antispecismo metafisico si muove sul piano de-onto-logico, eliminando l’aspetto meramente politico dalla sua prassi, concentrandosi dunque sui singoli individui o gruppi. In altri termini, gli antispecisti metafisici mirano a minare alla base lo specismo, smantellando il mito sul piano ontologico, e rivolgendosi dunque ai singoli individui stimolando un cambiamento dal basso. La forza di questo approccio sta nel fatto che, a prescindere da dove si situa a livello storico la metafisica che muove i cervelli-corpi verso la prassi specista, se in un prima o in un dopo, e a prescindere da come l’ideologia si presenti, dalle sue sembianze e morfologia (se credo religioso o ideologia politica o interesse economico) destruttura l’ideologia che, volente o nolente, è di fatto parte dell’ecosistema ideologia-uomo-realtà. 

Limiti della prassi metafisica - Quo modo? fit semper tempore pejor homo[10].

I limiti della prassi metafisica sono, paradossalmente, nella sua stessa natura. Seppure l’antispecismo metafisico sia stato il propulsore di tutto il movimento portandoci fin dove siamo arrivati – ab tam tenui initio tantae opes sunt profligatae![11] – pur non ponendo la questione sul piano storico e politico (cosa che farà invece Marco Maurizi), ma bensì su quello logico-argomentativo, irrimediabilmente è destinato a fallire, poiché potrebbe arrivare (cosa non del tutto inverosimile) ad una condizione di stasi in cui gli interessi economici di forze molto più grandi dei singoli – siano questi interessi mossi da ideologie o da credenze ad esempio religiose o da questioni meramente economiche – si contrapporranno schiacciando le iniziative di questi, o comunque porranno una barriera insormontabile ai medesimi. In parole povere, seppure il ragionamento de-onto-logico risulta essenziale per lo smantellamento del mito che muove i singoli individui e, attraverso loro, la società nel suo complesso, senza una meta comune e una visione che guardi più lontano, oltre l’aspetto hic et nunc, creando dunque anche coesione tra i soggetti coinvolti, i sostenitori dell’antispecismo rischiano di essere, per restare in tema di animali, meri “raccoglitori di mosche”, ma con una bella retorica.

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mercoledì 24 luglio 2013

Siamo neonati?

Il latte fa bene.
A chi? Solo alle tasche degli allevatori e dell'industria casearia.
Tutti i mammiferi hanno bisogno del latte della propria mamma, fino alle svezzamento.
Dopo, non più.
Perché dovremmo bere, da adulti, il latte di animali di un'altra specie? Non siamo mica neonati. Se veramente ne avessimo bisogno, allora la natura avrebbe fatto in modo che ogni donna continuasse ad allattare i propri figli per tutta la vita.
Avete mai realmente riflettuto su quanto sia innaturale e illogico bere il latte di mucca? Latte che sarebbe destinato solo al suo vitellino piccolo e che ne viene invece privato per essere ingrassato in fretta artificialmente così da diventare carne da macello.

Questo breve video mostra cosa si nasconde dietro la produzione del latte. 


Immagina se tu...

Finché non riusciremo veramente a immaginarci al posto loro, la liberazione non potrà avere inizio.
Tutto comincia da qui, dall'insostenibilità di questo sguardo che urla e ci chiede: perché?

lunedì 22 luglio 2013

Tra il dire e il fare, ci siamo in mezzo tutti




La nostra vita non è nostra, da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro (Cloud Atlas – Lana and Andy Wachowski, Tom Tykwer)

L’animalista, di questi tempi, conduce una vita tutt’altro che semplice.
Osteggiato dalla pressoché totale maggioranza degli specisti – ossia le persone indifferenti allo sfruttamento e sofferenza degli animali – ritratto caricaturalmente come quel fannullone svitato che non ha nulla di meglio da fare se non occuparsi delle sorti di cani, gatti, mucche ecc., in aggiunta deve anche subire lo sprezzo e la denigrazione di alcuni antispecisti: i quali avrebbero in mente un archetipo dell’animalista che di fatto non esiste – applicabile al massimo solo a pochi elementi – o che, nella migliore delle ipotesi, non corrisponde nemmeno minimamente all’evoluzione di cui il variegato movimento per la liberazione animale è stato protagonista negli ultimi anni.
Spazziamo via subito alcuni fraintendimenti: per animalista qui si intende colui che realmente si impegna per porre fine allo sfruttamento degli animali, nonché colui che lotta contro la discriminazione morale di specie. Non chi vezzeggia il proprio cagnolino, ma poi indossa la pelliccia. Inoltre, poiché l’animalista si impegna a eliminare anche proprio la discriminazione morale di specie, va da sé che è anche, tautologicamente, antispecista, intendendo tale termine nella sua accezione etimologica originaria, la stessa poi divulgata dai padri dell’antispecismo stesso, ossia Peter Singer e Tom Regan. Le volontarie e i volontari dei canili, le gattare e i gattari –  i quali, per inciso, hanno tutto il mio rispetto, trattandosi sovente di persone che destinano quasi l’intero loro stipendio o pensione, nonché buona parte del tempo libero a nutrire e curare colonie createsi a causa dell’indifferenza e inciviltà di altri -  che però discriminano, con i loro comportamenti e scelte, le altre specie animali, non sono animalisti, ma semplici zoofili (provano cioè una passione smodata per gli animali, o per alcune specie animali; questo non significa che tale passione non possa un giorno evolversi in qualcosa di più compiuto e consapevole, come appunto l’animalismo).
Trovo quindi veramente ingeneroso il tentativo di spacciare l’animalista per una versione meno raffinata, quindi più gretta e meno evoluta, dell’antispecista, così come trovo supponente il volerlo dipingere con i tratti di un ingenuotto incapace di comprendere le complesse dinamiche di sistema.

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mercoledì 17 luglio 2013

La possibilità del male


Da diverso tempo vedo che gira questo video, ma non avevo mai voluto vederlo, un po' perché non sempre ho voglia di documentarmi affrontando l'ennesimo orrore che viene perpetrato ai danni degli animali, un po' perché, sono sincera, mi sembrava, a leggere la didascalia, che fosse un po' una stupidaggine... cioè, non mi sembrava possibile.
Infine ho deciso di guardarlo, ma ancora non riuscivo a credere ai miei occhi, com'è possibile, mi son detta, che si possa fare una cosa del genere.
Poi la voce della ragione mi ha risposto: "è possibile, possibilissimo; se tritano i pulcini vivi poiché inutili ai fini della produzione delle uova - e li tritano! - allora è possibile che facciano anche questo; se gettano migliaia di maiali, ancora vivi, dentro una fossa e poi li seppelliscono, allora è possibile che facciano anche questo; se ingozzano le oche fino a farle scoppiare, se bolliscono le aragoste vive, se esistono gli allevamenti intensivi, se esistono gli stabulari per la vivisezione, i mattatoi e tutti quegli altri non-luoghi e strumenti di tortura, allora è possibilissimo anche questo.
E sì, prendono proprio le galline vive, le infilano dentro un rullo che toglie loro le penne e poi le tritano... ancora vive.
Che strana specie che è l'homo sapiens, nevvero?

giovedì 11 luglio 2013

Lo sguardo di un vegano





Oggi riflettevo su quanto l’uso sempre più pervasivo che facciamo della tecnologia ci stia modificando le funzioni cognitive della mente. Rapportarci continuamente alle macchine indubbiamente dà luogo a una mutazione del cervello, non in senso strettamento biologico, non ancora almeno, ma sicuramente per ciò che concerne le sue funzioni e gli schemi cognitivi. Del resto siamo già oltre l’umano, viviamo con gli auricolari perennemente inseriti nelle orecchie, facciamo degli iPad e smartphone vari, estensioni dei nostri arti superiori e orizzonti visivi. Osservando le persone in strada è facile rendersi conto di come esse abbiano accesso a una costante duplice visione della realtà, quella che si sta svolgendo concretamente attorno a loro – e di cui a volte non sembrano nemmeno rendersene pienamente conto – e quella che si materializza virtualmente sugli schermi dei loro telefoni. Le persone sono materialmente sedute sugli autobus, ma interiormente sono proiettate quasi costantemente dentro un secondo universo parallelo, che è il virtuale visualizzato sugli schermi dei loro apparecchi. È in atto inoltre un’autorappresentazione dei singoli che è la maniera in cui scelgono di darsi nel virtuale.
Tutto ciò modifica inesorabilmente le funzioni mentali e procede nel costituire un’interiorizzazione del reale certamente diversa da quella che avevano i nostri antenati.
Questo è un discorso che certamente meriterebbe ben altri approfondimenti, ma qui ho voluto piuttosto usarlo come prologo ad introdurre una riflessione di ben altro tipo, quella sul veganismo, in analogia con quanto detto sopra proprio sul piano della modificazione delle nostre funzioni cerebrali e quindi dell’intera cornice cognitiva.
Penso a quanto l’essere diventata dapprima vegetariana e poi vegana abbia modificato nel tempo la mia percezione del reale, al pari di quanto possa averlo fatto ad esempio l’uso del pc e l’invadenza della tecnologia in genere.
Quando giorni fa parlavo dell’opportunità, se proprio non vogliamo dire necessità, per un antispecista di divenire vegano non mi riferivo infatti tanto al discorso della coerenza, né a una fantomatica purezza o atteggiamento di superiorità morale con tanto di condanna verso quanti ancora non lo sono, quanto piuttosto a questo graduale e progressivo processo che è la conquista dell’arrivare a vedere l’animale come effettivamente l’altro senziente che è e mai più come cibo o indumento vestiario. L’interiorizzazione di questa nuova consapevolezza non è un atto immediato, tuttavia: possono volerci anni, sebbene non è detto che sia sempre così.  
Quello che intendo semplicemente dire è che diventare vegani, smettere di mangiare animali, è sicuramente qualcosa di molto più complesso del mettere in atto una coerenza con quanto si professa a parole: è l’inizio di un atto costitutivo che ci muove a un nuovo e diverso sguardo sul reale.
Non mi interessa qui entrare nel discorso della sua efficacia o meno come mezzo di boicottaggio finalizzato ad abolire i macelli, non mi interessa nemmeno stare a calcolare se e quante vite animali il diventare vegani potrà salvare (non che non mi interessi in assoluto, dico relativamente a questa mia breve riflessione); quello che mi interessa è la considerazione del veganismo nel suo darsi come processo di lenta trasformazione del nostro sguardo sul reale. In questo senso esso è tra gli atti più rivoluzionari che un individuo possa compiere nella propria esistenza. E rivoluzionario perché esso rivoluziona la maniera di vedere le cose, nonché la percezione e considerazione che abbiamo degli animali e del resto dei viventi. E la rivoluziona perché fintanto che noi nelle vetrine dei negozi continueremo a vedere solo capi di vestiario e non quel che resta di un animale straziato a morte, non ci interrogheremo mai nemmeno a fondo sui meccanismi politici, sociali e culturali che consentono e legittimano questo stato di cose.
Non si diventa vegani per cambiare il mondo; bensì è il mondo che cambia – o meglio, la percezione che abbiamo di esso – nel momento in cui si diventa vegani. Diventarlo presuppone certamente un grande atto di volontà che è principalmente e preliminarmente intellettuale e che solo in un secondo tempo spalancherà anche i canali del sentimento.
Non si è vegani perché si è sentimentali, si diventa sentimentali – ossia pieni di sentimento di rispetto ed empatia nei confronti di tutti gli esseri senzienti – nel momento in cui si smette di vederli e percepirli come cibo.
Senza questo nuovo sguardo sul reale, la liberazione animale continua a rimanere svuotata della sua essenza.
Senza questo nuovo sguardo che realmente, empaticamente incontra lo sguardo dell’altro animale, la liberazione animale non ha inizio dentro di noi e se un qualcosa non ha prima inizio dentro di noi, difficilmente potrà attuarsi all’esterno. 

Pubblicato anche su Asinus Novus.

lunedì 8 luglio 2013

Incontri notturni



 (Foto presa da www.giannicarluccio.it)

Roma di notte è in mano a creature notturne, misteriose e affascinanti.
Gironzolando per viuzze e vicoli silenziosi un po' appartati capita di fare strani incontri: una famiglia di topi che banchetta furtiva i resti di un pasto, comunità di scarafaggi che danzano lievi sull'asfalto, coppie di pipistrelli che volteggiano nel cielo inseguendosi per gioco.
Mi rendo conto di quanto ognuna di queste creature si goda appieno la città e scegliendo come dimora un monumento famoso, il tetto di una chiesa o il sottoscala di un palazzo signorile, semplicemente li "viva" più di quanto noi, pur con tutte le dissertazioni sull'estetica e le varie attribuzioni di significato di questa o quell'opera d'arte, riusciremo mai a fare.
Ore e ore a discutere sulla bellezza di Roma, tentando di afferrarla mentre continua a sfuggirci.
Poi basta la corsa libera di un topo con il suo squittio che rimbomba nella notte per farmi capire quanto effimero e ridicolo sia tutto l'apparato della nostra cultura antropocentrica.
Quanto siamo tronfi e pieni di noi.
Vorrei posarmi sui monumenti come i gabbiani, considerarli come semplici luoghi per sostare, nell'attesa di spiccare il volo ancora una volta.

sabato 6 luglio 2013

Disattivazione selettiva della coscienza

"Succede che si compiano atti di violenza senza nemmeno essere consapevoli che si sta contravvenendo al proprio codice etico. Questo succede perché la violenza non è solo quella, facilmente riconoscibile e stigmatizzabile, che proviene dall'azione di impulsi sfuggiti al controllo della coscienza, non è solo espressione di psicopatologia, ma più comunemente è frutto del pensiero lucido, dell'interpretazione che si dà dei fatti; spesso commettere violenza è un comportamento indotto dal ruolo che si ricopre. (...). Allo stesso modo uccidere, vivisezionare, macellare gli animali sono azioni che avvengono nell'ambito di una totale regolamentazione, all'interno della legittimazione sociale e quindi con la conservazione di positivo rapporto della realtà circostante, rapporto che anzi si ammanta di maggior prestigio quando la propria identità viene sancita e riconosciuta.
Così per esempio lo studente o il ricercatore che taglia, ustiona, acceca un gatto ridotto all'impotenza non vede se stesso come un sadico nell'esercizio delle sue più esecrabili performance, ma attraverso il suo ruolo pubblico, quello di una persona che esegue un lavoro rispettabilissimo: pertanto, grazie a un meccanismo di disattivazione selettiva della coscienza, è legittimato a non provare senso di colpa alcuno, nessuna vergogna, addirittura nessuna pena l'animale: di lui percepisce solo l'aspetto di cavia, mentre tutte le sue caratteristiche di essere vivente, senziente e sofferente vengono relegate nell'area di non percezione, chiusa alla coscienza"

(da "Noi abbiamo un sogno" di Annamaria Manzoni)

Quasi tutti gli orrori compiuti nei confronti degli animali sono possibili anche, anzi, io direi soprattutto, perché il singolo è deresponsabilizzato per tutta una serie di motivi.
Veicolare l'ulteriore messaggio che tutto sia imputabile soltanto al sistema e che diventare vegani non servirà a nulla è, a mio avviso, pericolosissimo, in quanto esonera ulteriormente il singolo dalle proprie responsabilità e gli impedisce l'accesso a una piena consapevolezza persino di come questo sistema funzioni. Se è indubbio che sia il sistema a creare una distanza spesso incolmabile tra le proprie azioni e gli effetti che ne scaturiscono, se è vero che il cosiddetto "male freddo" impedisce di cogliere la portata della tragedia dell'inferno cui condanniamo miliardi di animali al minuto, altrettanto vero è che il singolo avrà interesse nel voler comprendere i meccanismi del sistema solo e nella misura in cui se ne sentirà adeguatamente coinvolto e in cui sentirà di poter partecipare in prima persona allo smantellamento di ciò che gli appare come ingiusto. Altrimenti siamo al disfattismo e qualunquismo.
Affermare che diventare vegani sia inutile, che le piccole scelte di ogni giorno non contino, ché tanto prima si dovrà decostruire il sistema, darà al singolo la sensazione di enorme impotenza e lo deresponsabilizzerà ulteriormente, facendo sì che veramente tutto resti così com'è.
L'impegno delle minoranze può fare la differenza solo a patto che ci sia piena consapevolezza e assunzione non solo della propria responsabilità, ma anche della possibilità di attuare un cambiamento.
Ripetere continuamente "la colpa è del sistema", "i singoli sono presi nel sistema e quindi l'individuo non ha responsabilità" è come dire "il mondo va così, è sempre andato così".
Invece serve consapevolezza e assunzione di responsabilità.
Non moralismo, ma impegno. Che è cosa ben diversa.
Non colpevolizzare, ma rendere responsabili e consapevoli, che è cosa ben diversa.

lunedì 1 luglio 2013

Selezione della specie

Curioso come la specie umana applichi il fatalismo della "selezione della specie" solo alle altre specie, ma mai alla propria.

Molto comune il seguente dialogo:

- Ho trovato un animale ferito, l'ho preso e portato dal veterinario.

- ah, ma non puoi prendere tutti gli animali feriti che trovi, così non si finisce più.

- dunque secondo te avrei dovuto lasciarlo lì?

- sì, dai, sarebbe potuto sopravvivere come anche morire, è la selezione della specie, funziona così, i più forti sopravvivono, gli altri non ce la fanno. Triste, ma è così.

- bene, come mai non applichi lo stesso ragionamento a te stesso?

- in che senso?

- nel senso che quando ti viene una malattia, tipo, che so, una polmonite, lasci decidere alla selezione della specie, senza curarti.

Antispecismo, come dice Oscar Horta, non è solo lottare contro lo sfruttamento istituzionalizzato degli animali, ma anche considerare il valore dei singoli individui delle altre specie al pari del nostro. Dunque, così come ci fermeremmo a soccorrere una persona investita da un'auto - e non ci verrebbe mai in mente di dire "lasciamola lì, la selezione della specie farà il resto" - lo stesso dovremmo fare nei confronti di tutti gli animali in difficoltà.

Selezione della specie... fuck you!