giovedì 29 febbraio 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente

 



Non so se qui mi leggono persone diverse rispetto a quelle con cui interagisco sui social, quindi non so se ha senso spammare anche qui la notizia, ma nel dubbio...

Ricordo i primi tempi che scrivevo qui e tutti gli incoraggiamenti che spesso ho ricevuto sul provare a scrivere un romanzo, dal momento che era così evidente la mia passione per la scrittura, per i libri, il desiderio di raccontare, condividere, comunicare. 

In realtà ciò che mi ha sempre frenata dal farlo, a parte l'insicurezza, la paura di fallire di fronte a un obiettivo per me significativo per una serie di ragioni, era soprattutto la mancanza di una storia. O meglio, di storie da raccontare in testa ne avevo tante, ne ho tante perché la creatività non mi manca, ma nessuna di queste aveva un'urgenza e io sono una di quelle persone che scrive solo se davvero sente di voler dire qualcosa.

Poi in questi anni, complici alcuni miei percorsi riguardo tematiche di cui ho parlato spesso anche qui nel blog, ho capito che in fondo c'era una storia che chiedeva di essere scritta perché poteva diventa una testimonianza. 

E quindi, vi presento in anteprima la copertina e il retro del mio romanzo che uscirà a breve (vi dirò poi da quando sarà ordinabile in libreria e on line) e vi riporto il testo di accompagnamento che ho scritto ieri su Fb per farvi capire meglio di che si tratta e la sinossi:

Con tanta emozione e un miscuglio di sensazioni difficili da decifrare, sono pronta a condividere con voi l'anteprima della copertina e del retro del mio romanzo che sarà pubblicato a breve da Marco Saya Editore.

È difficile lasciar andare una storia così, personale, intima, fortemente autobiografica, ma ci riesco proprio perché ora so che l'ho trasformata davvero in un romanzo, quindi Vera, la protagonista, me stessa nelle intenzioni, nel momento in cui ha preso vita sul pc è diventata anche immediatamente altro. E questo filtro che è dato dalla narrazione, e dalla finzione che sempre la accompagna, è anche ciò che ora mi consente finalmente di prenderne congedo, seppur con immenso affetto.

Vai Vera, entra nelle case degli altri e racconta la tua storia, a chi vorrà sentirla. Raccontagli di quell'estate e di come poi sei tornata a riprenderti con orgoglio quello che ti era stato sottratto: la dignità.

Questa è la sinossi, poi nei giorni prossimi magari posterò anche qualche estratto: "È l’estate del 1984. In un paesino del Lazio al confine con la Toscana, la quattordicenne Vera sperimenta la libertà insieme alla cugina Clara. La madre assume psicofarmaci come se fossero caramelle, il padre sta fuori con gli amici e rientra all’alba, le due cugine ne approfittano per star fuori fino a tardi. Le ragazze serie però rientrano a casa presto e così intorno a Vera e Clara iniziano a circolare voci, pettegolezzi, diventano oggetto di scherzi sempre più pesanti, fino alla sera in cui mentre in cielo esplodono i fuochi d’artificio accade un fatto cui Vera non riesce nemmeno a dare un nome. “Buon pane, buon vino e cattiva gente” è un romanzo di formazione postuma, sull’ingenuità adolescenziale e sui bravi ragazzi che se ne approfittano. Quando Vera tornerà al paese per due ragioni ben precise dopo decenni sarà finalmente in grado di dare un nome a quanto avvenuto quella notte, pronta non solo a elaborare il suo passato ma anche a lottare per una causa importante, quella della liberazione animale che in qualche modo sente affine a quanto le è capitato."

martedì 6 febbraio 2024

Un tempo non era così e altre amenità che riguardano la cultura patriarcale, e in più una notizia

 Quando si leggono le notizie di molestie e violenza sulle donne (vedasi altro orribile caso della ragazzina di 13 anni stuprata a Catania da un gruppo di sette ragazzi), puntualmente alcun* commentano dicendo che un tempo questi orrendi fatti accadevano meno e che oggi i ragazzi sono peggiorati ecc. 

Non è così. Le violenze e molestie sessuali ci sono sempre state, solo che un tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, non venivano nemmeno denunciate per una serie di motivi, il che contribuiva a dare una percezione più limitata del fenomeno.

Provo ad elencarne alcuni: 

Fino al 1996 lo stupro non era considerato reato contro la persona, ma solo offesa al pubblico pudore. Figuriamoci molestie o altri tipi di abusi di natura sessuale.

La mentalità era ancora più maschilista di adesso; se una ragazza veniva stuprata o fatta oggetto di violenza sessuale si pensava che se la fosse andata a cercare, che fosse "merce avariata", che stesse esagerando, che fosse consenziente, che non avesse espresso in maniera abbastanza decisa il suo "no", anche perché molte cose non si sapevano e non interessava saperle: per esempio oggi la psicologia che studia le violenze, e i traumi che ne conseguono, dichiara che quando avvengono fatti simili subentra la reazione chiamata "freezing", cioè la vittima si ammutolisce e si blocca, anche per istinto di sopravvivenza nella paura che oltre all'abuso sessuale possa venire picchiata e uccisa. 

Le famiglie spesso ripudiavano le figlie stuprate o abusate perché c'era il mito della verginità, dell'arrivare illibate al matrimonio. 

Le donne vittime di violenza, in alcuni contesti e situazioni, specialmente in passato, quando c'era meno o zero consapevolezza femminista, non di rado provano un sentimento orrendo: di esserselo in qualche modo meritato, di aver fatto qualcosa che ha incoraggiato gli aguzzini e questo le fa sentire sporche e le dissuade dal denunciare. 

Su questi argomenti, che come sapete mi stanno molto a cuore, ho scritto un romanzo, il mio primo romanzo, che uscirà a breve. 🙂

Ci tengo moltissimo e non solo perché è parecchio autobiografico, ma anche perché si interseca con la tematica antispecista. È una storia di formazione. 

Vi dirò di più nelle prossime settimane, titolo, casa editrice, sinossi, magari vi posto qualche estratto.


venerdì 2 febbraio 2024

Io Capitano

 


E mentre tutti vanno a vedere e scrivono di Povere Creature, io recupero film di qualche mese fa (pure perché qui a Viterbo non ci sono più cinema, fatto che mi rattrista molto, e quindi per vedere i film che mi interessano devo aspettare che escano su qualche piattaforma digitale). 

Io Capitano di Matteo Garrone, candidato all'Oscar 2024, presentato a Venezia lo scorso anno. 

Garrone fa un po' sempre lo stesso film, e lo fa bene, ossia si trova a suo agio nel raccontare delle favole o dei racconti epici e anche Io Capitano non fa eccezione: si tratta di una storia in cui c'è l'eroe, ci sono gli antagonisti feroci, ci sono gli aiutanti, i comprimari che nel corso del viaggio daranno una mano al nostro eroe, c'è il male e il bene e infine l'inevitabile lieto fine. 

L'eroe che si allontana da casa insieme al cugino, una casa dove tutto sommato, a differenza di altre situazioni nel mondo (perché a Garrone non interessa raccontare la realtà, le guerre ecc., ma il viaggio dell'eroe) non stava poi così male, dove aveva affetti, una famiglia amorevole, sicurezza e protezione - raccontata a tinte vivaci, colori accesi, da tenere a mente i bellissimi primi piani in cui Seydou, il nostro eroe, si appoggia alla parete di un bel verde brillante della sua cameretta mentre pensa il suo viaggio e sogna, esattamente come sogna ogni adolescente  - e inizia IL VIAGGIO, chiamato letteralmente così, con l'articolo determinativo a indicare che non si tratta di un viaggio qualsiasi, perché ovviamente non è un viaggio qualsiasi, ma è IL VIAGGIO, simbolico e reale, di formazione e iniziatico. Il viaggio di conoscenza del mondo che l'eroe compie e non per reali necessità (a differenza di quanto avviene nella realtà), ma per pura sete di conoscenza ("Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza", anche se poi Dante posiziona Ulisse all'inferno per aver osato sfidare il limite posto da Dio alla conoscenza, avendo superato le Colonne d'Ercole).

Seydou e il cugino, sebbene messi in guardia dai pericoli e dal rischio di perdere la vita, non hanno la minima idea di quello che li aspetta. 

Non voglio scendere troppo nei particolari, ma il dato rilevante è che Seydou durante il viaggio si spoglia a poco a poco della sua adolescenza e diventa uomo. Come lo diventa? Ovviamente facendo delle scelte a assumendosi delle responsabilità, tra cui la più significativa, quella di intraprendere l'ultimo tratto del suo viaggio superando la prova più grande e più difficile. Non spoilero, ma dal titolo già si capisce. 

Seydou è un eroe perché nel momento in cui decide di partire (non senza aver prima espresso paure e dubbi) porta fino in fondo la sua scelta, non si arrende, non si sposta di un millimetro, affronta e supera ogni momento difficile. Il punto di possibile non ritorno accade a metà, in pieno secondo atto drammaturgico, lì dove nella narrazione classica l'eroe incontra gli ostacoli più duri, viene sottoposto alle sfide più difficili, lì dove si decide il destino dell'eroe e si capisce di che pasta è fatto. 

Le scene nella struttura di detenzione libica in mezzo ai mostri spietati sono le più feroci e violente, anche da un punto di vista psicologico; Seydou è chiamato a lottare tra due poli emotivi opposti: la vigliaccheria e il coraggio, arrendersi o andare avanti. Il mediatore lo stordisce come le sirene con il loro canto, ma lui è irremovibile, non cede. La scena è potente perché comunica il terribile dilemma interiore di Seydou. Altrettanto potente è quella in cui, buttato in mezzo ad altri corpi, attende appoggiato a una parete verdognola scrostata, fatiscente, in questo luogo disperato e violento in mezzo al nulla: la versione infernale della parete verde della sua cameretta, ormai lontana anni luce, irraggiungibile. Il nostro eroe è qui che sperimenta il sentimento più triste, ma anche tra i più belli dell'animo umano: la nostalgia. Il desiderio potente di tornare indietro e insieme la consapevolezza che non sarà possibile. Il desiderio di casa, dell'infanzia, degli affetti perduti. E infatti, come un onironauta, Seydou di notte si alza in volo e torna, torna alla sua casa, al suo paese, dalla sua mamma. 

Qui la disperazione di Seydou si fa tangibile, è probabilmente il momento più duro sotto il profilo psicologico, ma regge, anche aiutato da un uomo che lo prende sotto la sua ala protettiva perché, si intuisce, gli ricorda il figlio sedicenne. 

"Mi hai salvato la vita", gli dice infatti Seydou. 

Il viaggio prosegue tra i mostri, gli orchi, ma anche le fatine buone, gli angeli protettivi, la forza di una solidarietà che è solo favolistica. 

Io Capitano è un film bellissimo, a patto che lo si legga, appunto come, racconto epico.

Un film che si regge esclusivamente sul viaggio dell'eroe che si dibatte tra buoni e cattivi, che affronta e supera mille ostacoli.

Un film che senza la carica, lo sguardo - che passa dall'entusiasmo ingenuo alla disperazione della conoscenza -, la straordinaria interpretazione del giovane attore che interpreta il sedicenne Seydou perderebbe parecchia della sua potenza. Seydou è bello, onesto, buono, empatico, coraggioso - e coraggioso proprio perché non si arrende nonostante la paura - responsabile e soprattutto ha fede, come ogni eroe che si rispetti, nel fato, nel destino, in Allah. La sua fede/fiducia, insieme al desiderio potente, gli permetteranno di compiere il suo destino. 

Se vi aspettate un film sui migranti, sui flussi migratori, sulla complessità e durezza di una realtà sociale, avete sbagliato film. Io Capitano è un film sul VIAGGIO di un eroe al pari di quello di Ulisse nell'Odissea. Un viaggio mitologico, una favola. 

Quindi possiamo tranquillamente respingere le critiche sul fatto che racconti solo una parte della realtà, che è infinitamente e complessivamente più dura e disperata e spesso senza lieto fine dei migranti. Nei barconi si muore, le donne vengono stuprate dagli stessi compagni di viaggio e molti rimangono intrappolati in Libia a fare da schiavi, usati come manovalanza, cosa di cui il governo è perfettamente al corrente. 

Seydou alla fine guida un peschereccio, vecchio e arrugginito, ma funzionante, non un gommone. Seydou impara, si assume una responsabilità immensa, si fa uomo e invita i compagni stanchi a fare altrettanto. Seydou è Ulisse che incoraggia e motiva i compagni. 

C'è poco di realistico in tutto ciò, ma come in ogni racconto epico che si racconti, si attinge ad archetipi viscerali, profondi, dell'umanità di sempre e per questo, nella finzione, Garrone realizza un film potente e indimenticabile. Una moderna Anabasi. Seydou non torna a casa, ma trova la sua casa perché trova e conosce sé stesso e perché non c'è viaggio più importante che possiamo fare di quello dentro di noi. Alla fine è lì che dobbiamo andare, a scoprire chi siamo.