domenica 19 marzo 2023

Sguardi che non possiamo dimenticare

 

Ieri, sotto a un post di un amico, un suo contatto ha chiesto: "Perché posti le foto dei maiali? Tanto non servono a far diventare la gente vegana".

Ora, sorvolando pure sul fatto che il contatto in questione non fosse vegano e fosse infastidito dal fatto che gli si ricordasse CHI era il prosciutto che mangia, la domanda merita una risposta approfondita.

Anni fa, con NOmattatoio, andavamo in prossimità del mattatoio di Roma e fotografavamo i tir pieni di animali che di lì a poco sarebbero stati ammazzati. Non solo maiali, ovviamente, ma anche agnelli, mucche, vitelli, capretti e persino cavalli. 

Non facevamo solo quello, distribuivamo anche volantini, facevamo discorsi al microfono per spiegare il senso delle nostre azioni di protesta, informazione e sensibilizzazione.

Lo facevamo perché la gente non riflette mai sui mattatoi. Non sa nemmeno dove sono situati, come sono organizzati, quanti animali uccidano al giorno e quali sono i passaggi che portano un individuo dalla sua nascita in un allevamento fino allo scaffale di un supermercato; questo perché sebbene siamo letteralmente invasi dalle pubblicità  dei "prodotti", descritti come eccellenze italiane, gustose, sane ecc., si attua una sorta di rimozione collettiva sulla realtà dello sfruttamento animale. 

Attenzione: non è che nel profondo non si sappia perché penso che tutti sappiano che la carne che mangiano è parte del corpo di un animale, ma semplicemente questo fatto viene costantemente rimosso.

Ricordo che la prima volta che vidi un tir pieno di agnellini sperimentai una sorta di epifania dolorosa, come uno schiaffo di realtà arrivatomi addosso, come se solo in quel momento prendessi coscienza di cosa significhi realmente produrre e mangiare carne. 

Allora raccontarlo con immagini e video, mostrare gli sguardi spenti o terrorizzati di questi individui - ognuno diverso dall'altro, anche nelle reazioni all'inferno che stanno sperimentando - ha un senso. 

Lo slogan della nostra campagna era "Se non potete eliminare l'ingiustizia, allora raccontatela a tutti", frase di un rivoluzionario iraniano, Ali Shariati", che poi modificammo in "Il primo passo per eliminare l'ingiustizia è raccontarla a tutti" perché ci sembrava meno rassegnazionista. 

Già, raccontare a tutti la violenza normalizzata nella nostra società, i fiumi di sangue non visti che scorrono tra le intercapedini delle nostre comode cucine dove ci nutriamo di quelle esistenze che avrebbero potuto essere, piene e meravigliose, e invece sono state distrutte per cinque minuti di sapore, di tradizione, ma soprattutto di abitudine, di pigrizia mentale, di indifferenza.

Esistenze annullate per indifferenza e nell'indifferenza. 

Sapendo tutto questo non si può tacere. E se non si tace si deve raccontare. E mostrare. 

Ed ecco il perché di queste foto e video, che forse non saranno sufficienti a far diventare le persone vegane, ma che almeno gli ricorderanno di cosa la nostra specie è capace e di quanto sia facile e banale cancellare individui ed esserne complici semplicemente perché "lo fanno tutti", "si è sempre fatto così".

mercoledì 15 marzo 2023

Il conforto delle parole


Un mio articolo per Essere Vegan in cui analizzo alcuni termini comuni usati dalle persone per giustificare il carnismo: onnivoro, allevamento intensivo, benessere animale.

"Nelle mie discussioni con le persone che mangiano animali ho notato quanto vengano date, con poche varianti, sempre le stesse risposte e che queste tendano a voler essere autoconclusive, totalizzanti, come a voler rassicurare chi le pronuncia, il quale, in tal modo, risolve così ogni dilemma morale.

Una di queste è che nell’allevare gli animali non ci sarebbe nulla di male perché noi siamo onnivori e quindi facciamo quello che fanno gli altri animali, solo che abbiamo semplicemente affinato la tecnica, modernizzandola, anche se ovviamente siamo tutti concordi nel ritenere deprecabili gli allevamenti intensivi.

Ecco, onnivoro è già un primo esempio di ricorso a un termine affinché questa assolutezza di pensiero resti salda; un pensiero che non vuole essere problematizzato, pena una dissonanza cognitiva molto forte perché se si ammettesse che mangiare animali non è affatto necessario allora si dovrebbe prendere atto del fatto che si stanno compiendo delle scelte cruente senza necessità e questo non collimerebbe con l’idea che generalmente le persone hanno di loro stesse: un’idea che non di rado include l’amore per gli animali; in pratica ci si autoconvince che mangiare gli animali sia necessario e che quindi non si possa fare altrimenti anche se dispiace, purché, certamente, lo si faccia rispettando le norme sul benessere animale. Ci si convince quindi che il problema quindi non stia tanto nell’uccidere gli animali, ma nei famigerati allevamenti intensivi.

Per continuare la lettura dell'articolo: https://bit.ly/3Te2BGV

venerdì 10 marzo 2023

Uguali nella morte

 



Ho pensato molto se scrivere di questo o meno, e alla fine ho deciso di farlo. 

La tragedia avvenuta di recente in mare ci ha sconvolto, forse più di altre volte, forse perché stavolta le vittime erano bambini e ragazzi, persone con tutta una vita da vivere davanti e che hanno messo a repentaglio proprio per avere una chance di viverla, quella vita. Hanno perso tutto, la vita stessa, nel tentativo di quella chance e anche noi - noi come umanità, come civiltà, come soggetti politici, come società - abbiamo scoperto di aver perso parecchio, cioè la capacità di aiutare chi sta peggio di noi, di essere solidali. 

Da quel giorno infausto ho letto molte dichiarazioni da parte dei soccorritori, in particolare quella di un pescatore, che è diventata virale: racconta il suo dolore, tutto lo strazio e l'impotenza che ha provato nel tirare su dall'acqua quei piccoli corpi ormai morti. 

Un altro, o forse sempre lo stesso, dice che se lui e i suoi compagni pescatori avessero saputo in tempo, se fossero stati avvisati, sarebbero usciti in mare tempestivamente perché i pescatori, si sa, salvano le vite in pericolo in mare.

Mi colpiscono queste affermazioni perché sono la prova evidente di una cecità assoluta nei confronti dello sterminio di tante altre vite, esistenze, che hanno la sola colpa di essere nate in corpi diversi dal nostro. Sterminio che essi stessi compiono.

Parlo degli animali marini, pesci, polpi, crostacei. Tirati su dal mare a migliaia con le reti. Lasciati agonizzare per lunghi minuti, a volte ore o addirittura giorni. 

La cultura in cui sono nati, la tradizione trasmessa di generazione in generazione, la società in cui vivono che normalizza le uccisioni dei pesci e degli animali in generale ha portato questi pescatori a essere desensibilizzati progressivamente fino ad arrivare a maturare un'empatia selettiva. Fino a non percepire le agonie di questi altri corpi che tirano su a migliaia dal mare; con la differenza che questi altri nel mare ci vivevano e che lì sarebbero dovuti restare. 

Mi colpisce questa sensibilità selettiva, questo non saper vedere la morte e la sofferenza se colpisce corpi diversi da quelli umani. 

Si può paragonare la morte di un pesce a quella di un bambino? 

Sì, se riconosciamo il valore ontologico di un individuo che voleva vivere, il suo valore intrinseco, non riducibile a null'altro se non alla sua volontà di essere, di esistere per sé stesso e non in funzione d'altro. 

Ma sappiamo che il valore ontologico degli altri animali è sempre stato arbitrariamente definito inferiore a quello di noi animali umani e che abbiamo giustificato questa presunta inferiorità utilizzando dei parametri esclusivamente umani, cioè il modo in cui noi ragioniamo, facciamo le cose, pensiamo, viviamo, la nostra intelligenza, come se fossimo gli unici esseri viventi e senzienti davvero tali sulla terra e tutto il resto che non assomiglia a noi non fosse nemmeno da dichiararsi tale, ma al massimo una macchina, un prodotto, oppure qualcosa che sì, respira, ma è "povero di mondo" in quanto solo le nostre esperienze contano davvero.

Già questo giudicare se qualcuno è degno di essere definito individuo solo se supera dei test è terribile perché appunto non gli si riconosce un valore intrinseco, ma esso prescinde da varie considerazioni. 

Eppure vivere ed esistere significa lo stesso per tutti gli animali e tutti condividiamo parecchie esperienze e sensazioni: nascere, respirare, vedere, udire, sentire dolore o piacere, muoverci nel mondo, farne appunto esperienza, ammalarci, giocare, sentire in senso ampio, cioè cogliere con i sensi, mangiare, dormire, comunicare e molto altro ancora. 

Già il fatto di nascere implica un dover morire. Quindi dovremmo considerare uguale per tutti, se non proprio la vita, l'esistenza, almeno la morte. 

Ed è in questo riconoscimento, chiamiamola pure agnizione, di essere uguali nella morte, più che nella vita, che dovremmo aver pietà, cioè empatia. E, se proprio non possiamo salvare chiunque, che almeno possiamo rifiutarci di uccidere e di essere complici degli stermini in mare.

Foto: Jo-Anne Mc Arthur.

mercoledì 8 marzo 2023

Destino comune

 Tra le altre cose, il femminismo è presa di coscienza di un destino comune tra simili, tra persone dello stesso sesso. 

È la deflagrazione interna che avviene quando, confrontandoti con altre donne, capisci che non sei la sola ad aver subito certe molestie e ad essere stata vittima di comportamenti che ti facevano sentire a disagio - ma a cui, allora, non avresti saputo dare un nome - e che solo nel momento in cui l'hai appreso hai capito che il tuo disagio era legittimo, giustificato, normale e che no, non eri strana tu, ma erano maschilisti e prepotenti gli uomini che avevi incontrato. 

Per questo il confronto tra donne è fondamentale perché ti fanno capire che certi meccanismi non sono casuali o eccezionali, ma sistemici e culturali.

Ecco, vorrei che l'8 marzo fosse un momento di riflessione per noi tutte e vorrei che anziché mimose venissero distribuiti e regalati libri sul femminismo, saggi o romanzi che siano. 

Poi mi piacerebbe anche che le donne arrivassero a comprendere che se il sesso di appartenenza ci unisce e rende simili in tanti destini, questo è lo stesso per le femmine di altre specie. 

So che la normalità con cui abbiamo sempre sfruttato gli animali e l'occultamento della realtà riguardo la produzione del latte, uova, carne non ci fa percepire gli allevamenti e i mattatoi come sbagliati, eppure lo sono perché sfruttano, controllano e uccidono i corpi delle femmine di molte specie e dei loro cuccioli. Un controllo totale che comprende la visione che abbiamo degli animali concepibile, materialmente e metaforicamente, nei limiti della funzione che gli viene assegnata (da reddito, utili o dannosi, domestici o pericolosi). Non esistono allevamenti etici perché tutti contemplano sfruttamento e fine violenta al mattatoio e questa riduzione della loro soggettività a una funzione.

Se ci riconosciamo come femmine di homo sapiens unite da problematiche simili, facciamo uno sforzo e includiamo nella nostra considerazione morale e nelle nostre battaglie anche le femmine di altre specie, che sebbene non parlino il nostro linguaggio,  comunicano e soffrono non meno di noi. 

I corpi sono fatti della stessa materia, carne, sangue, muscoli e così le emozioni e sensazioni scaturite dal cervello. Se riconosciamo come ingiusto il nostro sfruttamento basato sull'uso dei nostri corpi, allora dobbiamo riconoscere come ingiusto anche quello degli altri animali, delle femmine e dei loro cuccioli.


lunedì 6 marzo 2023

Nessuno tocchi Tina

 

#nessunotocchitina è l’hashtag che è diventato virale in questi giorni nel mondo animalista, e non solo, affiancato agli innumerevoli appelli e petizioni rivolti alle autorità affinché Tina non venga uccisa.

Ma chi è Tina? Nata da una maialina vietnamita domestica (allontanatasi da casa e accoppiatasi con un cinghiale), è stata adottata da Gabriele, che vive in provincia di Novara, quando era ancora cucciola ed è cresciuta con la sua famiglia e i suoi cani, stringendo in particolare un legame molto forte con una cagnolina che l’ha presa sotto le sue cure come se fosse sua figlia.

Tina quindi non è un cinghiale selvatico, pur avendo una parte di geni del cinghiale, ma domestico: a tutti gli effetti un membro della famiglia di Gabriele.

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domenica 5 marzo 2023

Perché sono contraria alla regolamentazione della GPA

 La GPA, ovvero la pratica della gestazione per altri, anche chiamata in gergo "utero in affitto".

 A dire che si è contrari si viene subito tacciati di essere di destra e conservatori, anzi, peggio, di quella destra proprio becera che appartiene ai vari Pillon, Adinolfi, Meloni ecc. 

Eppure io sono contraria alla sua regolamentazione e proverò a spiegare perché, premettendo che non mi interessa che a fruirne siano le coppie omo o etero, infatti sono favorevole all'adozione di bambini da parte delle coppie omo. 

Sono contraria perché è l'ennesimo sfruttamento dei corpi delle donne fatto passare per diritto che si vorrebbe addirittura regolamentare (come la prostituzione). Diritto sì, infatti, ma di chi? Ed è questo il punto, ossia che si tratta di diritti di una parte privilegiata economicamente che può permettersi di pagare una parte svantaggiata economicamente che vede come risorsa il mettere a disposizione il proprio utero per ospitare una gravidanza. Quindi un diritto basato sull'uso del corpo di qualcun'altra. 

Mi viene risposto che si tratta pur sempre di libera scelta. 

Ma questo della libera scelta è un argomento che non può essere sbandierato come un vessillo o uno slogan senza essere problematizzato e analizzato a partire dal contesto socio-economico e culturale entro cui ci troviamo ed entro cui facciamo determinate scelte.

Quando nel mondo non ci saranno più differenze e privilegi sociali, allora forse si potrà parlare di libera scelta di vendersi gli organi, affittarsi l'utero o farsi stuprare a pagamento. Fino a quel momento parliamo sempre di un privilegio da parte di qualcuno sul corpo di qualcun'altra. Regolamentarlo significherebbe legittimarlo, normalizzarlo, renderlo una pratica economica come altre. 

Se una donna benestante, affermata economicamente, che non ha bisogno di guadagnare dalla GPA perché ha già un lavoro deciderà di mettere a disposizione il suo utero per generosità, questi sono affari suoi e in questo caso si potrà parlare di libera scelta; in altri casi invece no. 

Oltre a queste motivazioni legate alla giustizia sociale, ci sono poi considerazioni scientifiche. Ormai sappiamo che i neonati separati dal corpo, odore, voce della propria madre provano un trauma; ancora peggio se questa madre biologica dovesse allattarli perché il legame che si creerebbe con lei sarebbe ancora più forte.

In queste trattative sembra non esserci spazio per i diritti dei bambini che vengono acquistati, seppur con desiderio e amore, come fossero oggetti (e sì, sono anche contraria all'acquisto di cuccioli di animali perché la vita non si compra); parliamo di bambini che hanno già avuto un forte legame con la madre biologica quando erano dentro il suo ventre, di cui conoscono appunto la voce, l'odore, il corpo. 

Ammetterei l'affido di un bambino, a titolo gratuito, nel caso in cui una donna restasse incinta, non volesse abortire, ma non volesse nemmeno diventare madre. 

Poi, in tutto ciò sembra anche non esserci spazio per le emozioni e i sentimenti. Una donna che accetta per denaro di portare avanti una gravidanza per altri, è sicura di non provare poi amore per quel bambino, di non provare un trauma al distacco, dopo il parto e l'allattamento? Durante la gravidanza avvengono tantissime trasformazioni fisiche che hanno ripercussioni fortemente emotive. Dopo la gravidanza spesso si verifica anche la depressione post partum, malattia che a volte perdura ed è anche difficile da curare. 

Durante la gravidanza possono insorgere varie patologie, compreso il diabete. Non si sta chiedendo a una donna di fare una cosa da poco. Certo, immagino che metta i conto tutto ciò, eppure non tutto può essere pianificato quando di mezzo ci sono questioni come i sentimenti, le emozioni, gli ormoni, i corpi. 

Per questi motivi sono contraria, tranne casi eccezionali in cui non ci sia mercificazione e sia un atto di piena generosità. 

Non si può essere progressisti sulla pelle degli altri, anzi, delle altre in questo caso, come se i corpi delle donne non fossero già stati abbastanza sfruttati nei secoli. 

I nostri uteri non sono contenitori, non siamo contenitori, e i bambini non sono merce. 

Una società veramente evoluta faciliterebbe il percorso di adozioni e aiuterebbe i tanti bambini orfani a trovare una famiglia.

Un concetto di maternità veramente evoluto non si basa sul bisogno incondizionato di avere un figlio che sia sangue del proprio sangue, ma sul concetto ben più ampio di cura, di amore, di affetto, di accompagnamento e percorso educativo di un bambino per fornirgli tutti quegli strumenti di cui avrà bisogno da adulto; bambino anche adottato. Ma non comprato.


venerdì 3 marzo 2023

La guerra spietata ai cinghiali

 

Da qualche anno il nostro paese ha dichiarato guerra agli animali selvatici e in particolare ai cinghiali.

È iniziata dapprima con accordi tra le singole regioni e i municipi, come a Roma, quando nel 2019 fu siglato il primo piano di abbattimento tra Comune di Roma e Regione Lazio – poi rinnovato sotto le successive amministrazioni -, in Toscana con la legge Cremaschi, poi a seguire in Liguria, Reggio Calabria, Campania e altre ancora. Una guerra spietata accompagnata da un odio feroce per questi animali pacifici e da episodi di crudeltà inaudita, come il recente caso di un cinghiale investito e poi lasciato agonizzare a bordo strada per circa 16 ore o l’altro in cui ad alcune volontarie di un Rifugio è stato impedito di soccorrere un cucciolo di cinghiale caduto in un fossato, che poi è stato freddato davanti alle volontarie stesse.

Un elemento essenziale di ogni guerra è infatti la propaganda, cioè la diffusione mediatica di notizie funzionali a far credere che esista un problema o una vera e propria emergenza così creando un clima di terrore, odio o comunque di preoccupazione per poi giustificare le varie misure in corso.

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giovedì 2 marzo 2023

Proteus, eroe o schiavo?


 Una riflessione critica sui cani impiegati in varie mansioni al servizio della nostra specie, partendo dalla storia di Proteus, il cane divenuto suo malgrado “eroe”.

Proteus era un cane “impiegato” per cercare e sottrarre i feriti dalle macerie del recente terremoto avvenuto in Turchia. Ne scrivo al passato perché purtroppo durante una di queste operazioni il suo cuore ha cessato di battere, sembra per l’eccessiva fatica cui era stato sottoposto; infatti, così riportano i media, aveva “lavorato” instancabilmente per due giorni. I media locali e internazionali lo hanno trasformato in un “eroe”, suo malgrado, e gli hanno dedicato anche una statua. Proteus, che in effetti porta il nome di un dio della mitologia greca, veniva dal Messico ed era stato inviato in Turchia insieme ad altri cani allevati ed addestrati a svolgere il “lavoro” di soccorritori di feriti.

Ho messo alcuni termini tra virgolette perché sono termini che mal si addicono ai cani e agli animali in generale. Curioso come nella nostra società specista stiamo sempre a specificare di prestare attenzione a quello che diciamo sugli animali perché è sbagliato antropomorfizzarli – cosicché non si può nemmeno dire che abbiano sentimenti, ricordi, propositi, volontà e intenzioni in quanto agirebbero solo per una sorta di automatismo – eppure non ci facciamo scrupoli ad attribuirgli concetti e termini quando ci fa comodo usarli per i nostri fini.

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lunedì 13 febbraio 2023

Blonde (film di Andrew Dominik)

 

Tratto dall'omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, Blonde è un film bellissimo. 

Difficile isolare un solo elemento narrativo perché ce ne sono tanti. 

Il principale è lo scollamento tra l'identità di Norma Jean - una ragazza con un passato doloroso e traumatico, quindi immensamente fragile, alla disperata ricerca di una figura paterna che poi tenterà invano di trovare negli uomini con cui ha delle relazioni (sintomatico il fatto che li chiami tutti "Daddy") - e l'immagine pubblica della diva Marilyn, luminosa come una stella del firmamento, ma anche sola, proprio come le stelle. 

Gli elementi più belli del film sono altri a mio avviso, per esempio l'incapacità di Norma Jean a opporsi a ciò che le veniva chiesto di fare ed è in questa incapacità a dire no, o debolezza con cui lo dice, che poi si traduce in un'accondiscendenza esteriore, che si snoda il dramma più significativo; un dramma polisemico, dalle molteplici interpretazioni, un dramma secolare e generazionale, il dramma di tutte le donne: quello di essere usate dagli uomini, di essere sminuite nel non essere considerate nient'altro che corpi, madri e mogli o stelle di Hollywood. Allora forse questo tratto marcatissimo dell'incapacità di opporsi è innanzitutto l'incapacità della società di allora di ascoltare le donne, che però si traduce in inevitabile senso di colpa personale perché scambiata appunto per accondiscendenza. 

(Rircordate il MeToo?).

Norma Jean dice "no" tante volte, ma lo dice flebilmente, talmente flebilmente da non essere sentita. O si fa solo finta di non aver sentito?

Norma Jean viene usata dagli uomini, da Hollywood, dai suoi amanti, da chiunque. Spesso si riferisce a sé stessa come "a un pezzo di carne"  ("Non voglio essere un pezzo di carne", "Sono solo questo, dunque, un pezzo di carne fresca consegnata a domicilio?), viene svilita in ruoli cinematografici spesso frivoli ("Sono stanca di salire sul set per essere sminuita"), dove doveva interpretare solo la donna sexy e compiacente, magari un po' stupida, non viene presa sul serio ai provini, non viene minimamente considerata per la sua intelligenza, è solo un corpo che incarna il desiderio di ogni uomo, o meglio, un corpo dietro l'immagine patinata e costruita a tavolino per rappresentare proprio quei desideri lì. Persino Arthur Miller, che pure le riconosce cultura e intelligenza, la usa, usa le sue idee, le sue frasi pronunciate in privato e si compiace nell'esporla come Marilyn. 

Il destino di Norma Jean è il destino di tutte le donne dell'epoca, famose o meno. Chiamate a recitare dei ruoli prestabiliti dalla società, e poco importa che siano quelli domestici della brava moglie e mamma o quelli di una star di Hollywood.

L'ossessione di Norma Jean per il padre, quel "Daddy, Daddy, Daddy" che risuona come un mantra sulle sue labbra imbronciate è il segno di una precisa concezione della donna dell'epoca: donne fragili, bambine, bisognose di una figura maschile accanto che le guidi, che scelga e decida per loro (sottotesto: le donne non sanno cosa è giusto per loro).

A Norma Jean non è concesso affrancarsi da questo ruolo di bambina, infatti non le è concesso nemmeno essere madre e ogni volta che ci prova fallisce miseramente, per sfortuna o perché qualcosa di più grande di lei glielo impedisce. Soprattutto Marilyn non può essere madre perché deve continuare a essere il sogno proibito di ogni uomo, il sex symbol per antonomasia, l'attrice da cui spremere soldi, su cui guadagnare soldi a palate. 

Per la società del tempo non è previsto che il corpo di una stella si sformi e infatti non la vediamo mai con la pancia. 

"Dunque è per questo che ho ucciso il mio bambino?" dice, distrutta dal senso di colpa, mentre un pubblico in visibilio la seppellisce sotto uno scroscio di applausi.

Credo che il dramma di Norma Jean sia soprattutto in questo di scollamento, più che in quello della ragazza e la diva: nell'impossibilità di conciliare i suoi desideri più profondi (essere amata per quello che è, avere una famiglia, un bambino) con ciò che il mondo voleva che lei rappresentasse, il desiderio degli uomini. E dal senso di colpa che ne deriva per non riuscire a identificarsi pienamente con Marilyn e non riuscire a essere pienamente Norma. Ciò che vive appieno invece è la scissione, il turbamento, lo straniamento di una scissione che tiene a bada con gli psicofarmaci e l'alcol perché essere scissi è doloroso, è traumatico. 

Alla fine, preso atto di questa impossibilità a essere, Norma Jean stessa ha bisogno di Marilyn, capisce che data l'impossibilità di essere sé stessa non le rimane che la maschera e la invoca, la chiama, spera che arrivi, che non la deluda, che non la tradisca, che non la lasci sola perché è tutto quel che ha: "Entra nel cerchio di luce e portalo sempre con te". 

Gli ultimi minuti sono quanto di più struggente il cinema ci abbia regalato: muore sola. Vediamo il suo corpo dapprima illuminato da un raggio di sole, che piano piano, con il passare delle ore, svanisce. Vediamo il passaggio del tempo, dalle tiepide luci dell'alba, a quelle accese del primo pomeriggio, poi il tramonto e infine la notte. E  nessuno si accorge di lei. Nessuno sa che la stella si è spenta per sempre. Cosa può rappresentare meglio la solitudine di una donna che muore da sola in un appartamento e nessuno si accorge di lei?

Una menzione speciale alla fotografia, alle luci, che sono superlative e alle trovate estetiche che non sono mai estetizzanti, ma raccontano sottotesti importanti. 

Norma Jean è spesso in controluce, a rilevare la sua doppia identità. Sempre al centro dello schermo, come una stella, ma spesso dai primi piani la telecamera si allontana e si allarga sulle persone che la circondano, non di rado la folla e i fotografi o il pubblico di una sala cinematografica. Dunque lei diventa piccina piccina, sopraffatta, ma costretta a ridere, a essere Marilyn. Sintomatica la scena - una delle più belle - in cui arriva a un evento pubblico insieme a Miller e quando scende dall'auto si sforza di sorridere: intorno a lei bocche distorte, enormi, ghigni feroci, la folla che, letteralmente, la divora. 

Il dramma di essere Marilyn, dunque, ma soprattutto il dramma di essere donna e cioè di non riuscire a essere sé stessa, a Hollywood, come nella società del tempo. 

So che il film è candidato agli Oscar. Spero che vinca.