mercoledì 1 novembre 2023

L'antispecismo e la Palestina: riflessione nel World Vegan Day

 

Foto dalla pagina di Sulala Animal Rescue, associazione che si occupa di sfamare e curare gli animali a Gaza. 

"Abbiamo curato questo cavallo oggi. Aveva una ferita al ginocchio ed è arrivato con dei profughi che stavano lasciando le loro case prima di essere bombardati. Gli abbiamo dato anche cibo e acqua (l'acqua nel litro giallo in macchina)."

***

Oggi è il World Vegan Day e che dire che non sia già stato detto milioni di volte? 

Allora solo un pensiero: assistendo questi giorni alle terribili immagini di sofferenza e morte dei bombardamenti israeliani su Gaza ci sentiamo impotenti e, ognuno a suo modo, invochiamo la pace. Pace, un termine retorico, svuotato del suo significato dirompente perché siamo talmente abituati a leggere notizie di violenza che ci sembra utopico, ingenuo, inutile ambire appunto alla coesistenza rispettosa dei popoli e dei viventi tutti. Inoltre ci sentiamo invisibili e inascoltati di fronte ai giochi di potere delle nazioni, dei grandi Stati, agli interessi economici e alle strumentalizzazioni delle religioni usate come ideologie giustificative. Ci sembra che non abbiamo scelta, se non sperare che non tocchi a noi. 

Eppure ci sono scelte che possiamo fare oggi stesso, in questo momento, adesso, in nome di quella pace e rispetto tra i viventi che nominiamo a vuoto. Per esempio diventare vegani, cioè smettere di essere complici della violenza e dolore su miliardi di esseri senzienti; smettere di essere complici di una guerra che miete più vittime in assoluto poiché continuamente rinnovabili, riproducibili tramite meccanismi infernali, e infiniti, che con neutralizzazione semantica chiamiamo: filiera produttiva, allevamenti, mattatoi, caccia.

Questa è una scelta davvero alla portata di tutti e se non fermerà i genocidi di alcuni popoli o i femminicidi o la schiavitù, beh, almeno fermerà la gigantesca mole di sofferenza che è lo sfruttamento e sterminio degli animali producendo una rivoluzione di portata politica, economica, etica, culturale in senso ampio. 

La gerarchia di valore dei viventi che posiziona gli animali all'ultimo gradino non ha senso, è un'invenzione nostra per poterne giustificare lo sterminio, l'uso e il profitto che ne otteniamo ed è anche funzionale all'animalizzazione dei popoli e individui di cui di volta in volta vogliamo giustificare l'oppressione e l'uccisione, come alcuni stanno facendo adesso nei confronti dei Palestinesi ("Sono bestie", "Sono animali", "Sono luridi topi di fogna") e come si è sempre fatto, dal momento che per credenze culturali gli altri animali sono sempre stati considerati in quanto alterità negativa in opposizione alla costruzione in positivo del concetto di umanità, da cui espellere di volta in volta i soggetti ritenuti scomodi per vari motivi e proprio animalizzandoli. 

Quindi cosa bisogna capire? Perché parlare di veganismo oggi? Che l'antispecismo e il veganismo che ne consegue sono concetti fondamentali da assimilare e accogliere prima di ogni altro discorso possibile sulla pace e le guerre. 

E no, la liberazione umana non è propedeutica a quella animale, ma è quella animale, di tutti gli animali, che va sostenuta e compresa e non soltanto perché banalmente siamo tutti animali, ma soprattutto perché va smantellata ogni idea di superiorità di un gruppo di viventi su altri per qualsiasi ragione inventata culturalmente. E questa decostruzione di un concetto di umanità da cui da secoli non abbiamo fatto altro che far discendere guerre e violenza è possibile solo grazie alla comprensione e accoglimento dell'antispecismo e veganismo che ne consegue.


martedì 19 settembre 2023

Ho visto Barbie

 Il film di Greta Gerwig, intendo.

A visione ultimata il mio primo commento è stato: non capisco perché se ne sia parlato tanto. È solo un grande enorme spot della Mattel con qualche parolina in mezzo come "patriarcato" e "stereotipi femminili" per farlo apparire un film anche femminista. 

Poi sono andata a dormire.

Questa mattina mi sono svegliata e ho iniziato a pensarci e quello che ne sta venendo fuori lo scrivo qui, a caldo, come una serie di appunti e spunti che poi magari rielaborerò meglio. Quindi questa non è una recensione, ma una bozza di riflessioni. 

Intanto, secondo me il fatto che sia un film su cui c'è bisogno di riflettere implica due cose: una è positiva, cioè non offre un pacchetto di contenuti già pronti, ma ti invita a elaborarli; la seconda è più critica perché quei contenuti li trovi solo se ti appartengono già. Questo è ovviamente un problema che si ritrova in tutte le opere polisemiche che hanno sempre diversi strati di significati e non tutti raggiungono tutti.

SPOILER

Il finale in cui Barbie prende consapevolezza di sé e da bambola asessuata diventa finalmente donna con dei genitali e abbandona i tacchi per indossare delle comode Birkenstock (se il corpo ha un peso e valore, devo anche rendergliene conto, non più come orpello estetico, ma strumento che mi permette di muovermi nel mondo e che quindi deve muoversi comodo) è decisivo perché è solo in quel momento che si apre lo spiraglio per un'autentica riflessione femminista e si rimette in discussione tutto ciò che avevamo visto fino a quel momento. Il punto cruciale, cioè la chiave di lettura per analizzare i vari elementi che compongono il film è proprio questa.

È da questo momento in poi che si dipana la dialettica uomo/donna, realtà/finzione, consapevolezza/manipolazione, sesso/genere,  (con buona pace delle identità fluide). 

Barbie non può diventare persona reale e non può comprendere l'oppressione patriarcale finché non ha i genitali e non ottiene i genitali finché non capisce che restando una bambola stereotipo può solo essere realizzata nella finzione, nella sua immaginazione, nel suo essere bambola nel suo mondo (BarbieLand, appunto); un mondo in cui fa solo finta di bere il latte, fa solo finta di guidare, fa solo finta di vivere in una comunità in cui  le varie Barbie sono avvocato, astronauta, presidente, medico, membro della corte costituzionale ecc. e in cui tutto parla di loro, la Storia stessa della fondazione della loro terra è opera loro e ovunque si riflettono e raccontano le loro gesta. Barbie rimane Barbie finché appunto non capisce che tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento le era stato possibile solo perché era a BarbieLand e perché appunto non era una vera donna nel vero mondo reale e che nel mondo reale le cose invece sono ben diverse.  E attenzione!: questo accade anche nell'idea, nell'immaginazione di molti uomini e donne che sono convinti che non ci sia più bisogno del femminismo perché apparentemente noi donne ora abbiamo tutto, possiamo essere davvero chi vogliamo e pensarci libere (come dice la Ferragni e difatti anche lei non vive mica nel mondo reale, o almeno non più ormai, ma in quello dei Ferragnez, molto distante dalle difficoltà della maggioranza e... non so se ve lo ricordate, ma agli esordi del suo blog lei aveva come immagine profilo una foto di lei stessa nuda, ma piallata con photoshop, cioè resa asessuata e con una Barbie in mano. Ed è vero che lei è una persona reale che ce l'ha fatta, ma non possiamo non tener conto della posizione avvantaggiata economicamente da cui è partita).

Peccato che nel mondo reale le cose non siano esattamente così, cioè come in BarbieLand, perché noi donne, in virtù dei nostri corpi biologici - e non semplicemente e banalmente come insieme di stereotipi -  continuiamo a essere uccise, stuprate, molestate, ridicolizzate, sminuite, odiate e non abbiamo mezzi materiali e supporti economici a sostegno perché le Istituzioni magari danno la scorta a chi ha ucciso un'orsa perché ha ricevuto un bel po' di insulti sui social, tra cui forse qualche minaccia, ma non a una donna che viene concretamente e ripetutamente stalkerizzata, minacciata, picchiata. 

Quindi, dicevamo, il finale di Barbie è importante perché ribadisce l'identità di noi donne in quanto corpi sessuati diversi dagli uomini e non solo insieme di stereotipi sul genere perché è ovvio che tutti gli stereotipi sul genere femminile sono venuti dopo e sono conseguenza e giustificazione dell'oppressione patriarcale e non causa (stesso rapporto tra questione animale e specismo). Cioè: è proprio in virtù di quei genitali, cioè della nostra biologia che noi donne siamo state oppresse e trasformate in corpi di servizio da usare: sessualmente, per procreare, per svolgere lavori noiosi come la cura della casa e allevare i figli lasciando liberi gli uomini di studiare e dedicarsi alla loro carriera e quindi è ovvio che Barbie può diventare veramente femminista e capire l'oppressione patriarcale solo nel momento in cui prende coscienza di sé come corpo, come persona sessuata e non semplicemente come insieme di stereotipi quale era stata fino a quel momento (sintomatico il fatto che la protagonista si chiamasse proprio Barbie Stereotipo, cioè lei era un insieme di stereotipi sulla femminilità, su quello che la società si aspetta da noi donne). 

Barbie a questo punto, una volta reale, torna nel mondo reale, ma il film finisce, lasciando intuire che comunque avrà capito la differenza tra finzione e realtà e tra la facilità di affermazione in BarbieLand e la difficoltà che invece ancora viviamo e sperimentiamo noi donne, e non solo per affermarci professionalmente, ma per essere semplicemente noi stesse, con i nostri corpi, conformi o meno agli stereotipi; le difficoltà (che causano stress continuo e burn out) per non sentirci da meno in un mondo che è stato fatto a immagine e somiglianza degli uomini e la cui Storia racconta solo le loro gesta; gesta di uomini in guerra che hanno avuto sin dall'inizio dei tempi come fine il dominio e la conquista. 

Interessantissimo il binomio uomo-cavallo, talmente stretto che Ken lo assimila all'idea che si fa di cosa significhi patriarcato. Il cavallo come estensione dell'uomo. E qui ci sarebbero da fare pure tremila riflessioni sullo specismo, ma una su tutte: il dominio è sempre biologico, è sempre biopotere, cioè è sempre dominio sui corpi altrui a partire dalla biologia e spesso è concatenato, intersezionale. Gli uomini hanno dominato i cavalli con la forza bruta (i cavalli sono animali tanto forti e robusti, quanto timidi, paurosi e mansueti - vedete l'importanza della biologia? - Stesso discorso per i bovini), poi con loro, grazie a loro, hanno fatto le guerre e conquistato terre; noi donne, biologicamente obbligate a procreare, allattare, allevare figli, più deboli fisicamente - capite l'importanza della biologia? Quanto siamo state limitate e costrette in ere pre-anticoncezionali e capite perché il femminismo ha sempre lottato per il diritto alla legge sull'aborto e quanto ancora lo scontro si giochi quasi tutto su questo punto? - 

siamo sempre state terreno di conquista dei vincitori, oggetto di scambio, razziate, stuprate, vendute. 

Il mondo attuale è il frutto del dominio maschile e noi donne abbiamo potuto solo giocare a essere protagoniste in BarbieLand. Per questo la Barbie ci è sempre piaciuta: perché poteva essere tutto quello che noi non potevamo essere e che ancora non riusciamo a essere pienamente perché ci portiamo dietro un complesso di inferiorità e incapacità vecchio di millenni grande quanto un'ombra gigantesca da cui non riusciamo ancora a fuggire perché legata ai nostri corpi biologici che la società ci ha fatto sempre percepire come sbagliati, mancanti di qualcosa ("nate da una costola di Adamo"). Perché se a Ken basta dire "Io sono Ken e basta e non l'amico di Ken" per crederci (tanto nel mondo reale funziona esattamente così e ce lo ricorda la Storia), a Barbie non basta più dire che può essere tante cose per sentire di esserlo davvero, ma deve lottare anche solo per rientrare a casa la sera sana e salva. 

Insomma, Barbie è un film sul percorso di consapevolezza di cosa significhi essere donna al di là degli stereotipi e dell'illusione costante di cui dobbiamo disfarci perché no, non basta pensarsi libere per esserlo davvero, così come non basta ancora ottenere una laurea per essere davvero considerate al pari degli uomini. Non basta se ancora veniamo uccise, stuprate, raccontate come mostri se vogliamo abortire o donne snaturate se non vogliamo avere figli, puttane se vogliamo essere libere sessualmente (e per questo stuprate e colpevolizzate); non basta se dobbiamo ancora continuamente dimostrare che siamo donne e non Barbie.


domenica 6 agosto 2023

Post di una femminista acida e cattiva

 Ogni percorso di consapevolezza riguardo le oppressioni e ingiustizie su cui si regge la nostra società è fatto anche di "illuminazioni improvvise" (passatemi il termine un po' new age), o forse dovrei dire rivelazioni, epifanie, boh, scegliete voi.

Per esempio oggi mentre mi facevo la doccia pensavo a quanto nel proclamarmi femminista o ogni qual volta commento qualcosa assumendo una prospettiva femminista, inconsciamente ci tenga a rassicurare i maschi, a non passare per la femminista acida che loro pensano che io sia in qualità di femminista, così assecondando, io, degli stereotipi, e poi rafforzando quello che è evidentemente ancora un pensiero patriarcale interiorizzato.

E così improvvisamente ho pensato: ma perché cribbio io, appartenente al sesso oppresso, dovrei premurarmi di rassicurare i maschi, premettendo che "not all men" (traduzione: sì, lo so, non tutti gli uomini sono oppressori, molesti ecc.) o tranquillizzandoli sul fatto che no, non vogliamo prendere il potere, vogliamo solo poter vivere la nostra vita senza temere di essere uccise, stuprate, ridicolizzate, sminuite e senza dover faticare il doppio per dimostrare che siamo persone complete, intelligenti, capaci, sveglie ecc. 

Ecco, se temete che i piani possano ribaltarsi, che noi stiamo esagerando, che vogliamo prendere il potere e mettervi tutti in castigo zitti e buoni, è un problema vostro. Noi da secoli ci gestiamo la paura e ci barcameniamo tra il desiderio di realizzarci e quello di dover sempre combattere la misoginia e il sessismo e ci sembra veramente assurdo dovervi anche rassicurare sugli obiettivi del femminismo.

Quando il linguaggio esprime il rapporto tra oppressi e oppressori

 Prendo spunto dalla bagarre che si è scatenata in questi giorni sull'utilizzo di un linguaggio abilista da parte di Concita De Gregorio - che non approvo - per ribadire quanto sia importante prestare attenzione a tutte quelle espressioni comuni e a quei termini che, senza che ce ne rendiamo conto (o a volte anche rendendocene conto e fregandocene) rafforzano luoghi comuni falsi su individui appartenenti a determinate categorie o minoranze, così dandoli per scontati, come se appunto fossero esatti.

Pensiamo per esempio agli animali, alla leggerezza con cui si dà del "maiale" a qualcuno per definirne comportamenti riprovevoli, peraltro tutti umani, oppure alla diffusa abitudine di dare a qualcuno della "capra" o dell'"asino" per sottolinearne la stupidità o l'ignoranza, o anche di dare della "pecora" o "pecorone" per indicare assenza di capacità critica. Queste espressioni non fanno che confermare quello che già pensiamo (che molti di noi pensano) sugli animali, ovvero pregiudizi, nient'altro che pregiudizi.
E i pregiudizi contribuiscono a minimizzare nella nostra coscienza e giudizio morale l'entità dei danni che gli animali subiscono a causa dei nostri comportamenti, direttamente o sostenendo tutte quelle pratiche di sfruttamento di cui sono vittime.
Le definizioni linguistiche contribuiscono a creare gerarchie ontologiche, inaspriscono divisioni e discriminazioni, rafforzano e normalizzano oppressioni.
Il linguaggio è da sempre l'arma del potere perché definisce il rapporto tra dominanti e dominati.

mercoledì 26 luglio 2023

Sul cambiamento climatico

 Oggi sono in vena di dispensare banalità ovvie, ma di cui a quanto pare c'è ancora bisogno. 

Dicono che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati. Sì, ma nell'arco di migliaia di anni. 

Invece dall'industrializzazione in poi, in pratica da metà ottocento in su, diciamo, che già i treni a carbone inquinavano un casino, abbiamo ridotto il pianeta a una discarica a cielo aperto e contestualmente abbiamo pure distrutto tantissimo verde che serviva a far respirare la terra, accelerando quindi in modo incredibile questo cambiamento. 

Già nel Protocollo di Kyoto del 1997 si invitavano gli Stati e i governi a prendere provvedimenti. Non è una cosa che sappiamo da oggi.

Il Greenwashing non è il fine, come dicono gli ignoranti (non uso il termine complottista perché ormai è un'etichetta che chiunque riempie a modo proprio a seconda di quello che vuole dimostrare), ma semmai la causa del disastro, nel senso che ovviamente gli Stati capitalisti vogliono continuare a spremere il massimo con il minimo dispendio dando l'illusione che stiano facendo qualcosa (appunto il Greenwashing). Il greenwashing è semmai la toppa che vogliono mettere al disastro, un rimedio, una cura palliativa, quando è ovvio che servirebbe una rivoluzione radicale nelle pratiche e consumi. 

Leggete Ecocidio di Rifkin. Un testo interessantissimo che spiega in maniera articolata, ma comprensibile, i danni che diverse attività e pratiche umane (tra cui gli allevamenti, di ogni genere e no, il danno non si limita alla produzione di CO2, ma anche desertificazione e diboscamento) stanno facendo al pianeta.

Elkann e il fallimento della ricerca del tempo perduto

 Voglio dire la mia sul pezzo di Elkann e il suo viaggio in treno. 

Ecco, a parte la descrizione di sé stesso come la parodia di un riccone snob che mi ha fatto pensare a Mr Scrooge o a uno dei tanti personaggi classisti dickensiani, nel suo racconto c'è una sola cosa interessante dalla quale sarebbe potuta scaturire una riflessione di ben altro spessore e anche più interessante per tutti noi: il fatto che stia leggendo Alla ricerca del tempo perduto (e no, non è interessante sapere se fosse in francese o tradotto, o meglio, lo è come caratterizzazione ulteriore della parodia del suo personaggio, ci fa capire che ha studiato il francese, così bene da consentirgli di leggere in lingua originale, ma irrilevante ai fini di questa riflessione che si sarebbe potuta fare). Da questa menzione sarebbe potuta nascere una riflessione nostalgica e malinconica sul tempo che passa, e da qui, non da altro, il rancore verso le nuove generazioni, l'invidia forse per qualcosa che loro hanno e che lui invece ha perduto per sempre: la giovinezza. La giovinezza, Elkann, quella che ti fa sentire in capo al mondo, anzi, il re del mondo (anche se indossi solo un paio di Nike dozzinali e un cappellino da baseball sdrucito e a dispetto del tuo completo di lino firmato e della tua stilografica probabilmente vintage e costosa), quella densa di aspettative per la serata e gli incontri, quella dell'adrenalina per le infinite possibilità di un'estate, delle vacanze, di un viaggio.

La nostalgia di un mondo perduto che nemmeno la più evocativa delle madeleine ti restituirà mai, Elkann, perché se c'è una cosa che ci accomuna tutti, ricchi e poveri, è il tempo che ci sfugge, la sabbia del tempo di cui non ci resta nemmeno un granello tra le dita (come diceva Poe). E avresti potuto scrivere dello scontro generazionale, del bei vecchi tempi passati che ci sembrano sempre migliori, ma perché eravamo giovani e guardavamo al mondo dalla prospettiva delle infinite possibilità. 

Avresti potuto scrivere di questo. E invece, nonostante il tuo bel Proust in francese, edizione limitata, scommetto, ti sei fermato alla formalità delle apparenze e quello che ci ha restituito il tuo pezzo è solo una scialba fotografia del tuo snobismo e classismo. 

Per inciso: anche a me i giovani rumorosi danno fastidio, ma il punto, anzi, i punti, sono tanti altri.

sabato 22 luglio 2023

Non è un paese per donne, Parte 2

 Un altro femminicidio, solito schema, donna lascia il marito violento, violenza conclamata per cui si era anche beccato 8 mesi, fatto che a lui evidentemente era andato poco giù, come osi tu donna ribellarti e così inizia a perseguitarla, la minaccia, le dice io t'ammazzo, lei continua a denunciarlo, guardi che m'ammazza, ormai dovreste saperlo come vanno a finire queste storie visto che c'è un femminicidio ogni tre giorni, MA LE AUTORITÀ NON FANNO NIENTE, as usual, così lei ieri se lo trova davanti con una pistola, prova a fuggire, a raggiungere casa di un'amica, ma viene freddata prima che possa raggiungere il portone. Finisce così la vita di una donna, sull'asfalto rovente in una giornata di luglio. 

Per colpa di un uomo, sì, ma anche dello Stato che è al corrente del tasso altissimo di femminicidi (praticamente una costante: come detto, uno ogni 3 giorni), ma non fa nulla.

E se vai a denunciare uno perché ti stalkera, ti segue, ti minaccia, puoi anche ancora incappare nel paternalista di turno che ti dice: "Signorina, è colpa sua che ha dato confidenza all'uomo sbagliato, noi finché lei non giace in una pozza di sangue non possiamo fare nulla e anche dopo stia tranquilla che troveremo tutte le attenuanti del caso perché si sa che poverino era stressato, depresso, ferito, umiliato, poverino e tutti quello che desiderava era solo continuare a stare con lei, signorina, perché l'amava tanto, ma proprio tanto e tutto quello che lei avrebbe dovuto fare, signorina, era accontentarlo, farlo felice, restare con lui ché Un altro femminicidio, solito schema, donna lascia il marito violento, violenza conclamata per cui si era anche beccato 8 mesi, fatto che a lui evidentemente era andato poco giù, come osi tu donna ribellarti e così inizia a perseguitarla, la minaccia, le dice io t'ammazzo, lei continua a denunciarlo, guardi che m'ammazza, ormai dovreste saperlo come vanno a finire queste storie visto che c'è un femminicidio ogni tre giorni, MA LE AUTORITÀ NON FANNO NIENTE, as usual, così lei ieri se lo trova davanti con una pistola, prova a fuggire, a raggiungere casa di un'amica, ma viene freddata prima che possa raggiungere il portone. Finisce così la vita di una donna, sull'asfalto rovente in una giornata di luglio. 

Per colpa di un uomo, sì, ma anche dello Stato che è al corrente del tasso altissimo di femminicidi (praticamente una costante: come detto, uno ogni 3 giorni), ma non fa nulla.

E se vai a denunciare uno perché ti stalkera, ti segue, ti minaccia, puoi anche ancora incappare nel paternalista di turno che ti dice: "Signorina, è colpa sua che ha dato confidenza all'uomo sbagliato, noi finché lei non giace in una pozza di sangue non possiamo fare nulla e anche dopo stia tranquilla che troveremo tutte le attenuanti del caso  tanto l'avrebbe comunque corcata di botte, prima o poi, ma è così che va il mondo. Un consiglio, se rinasce, la prossima volta si metta con l'uomo giusto perché in definitiva, signorina, la colpa è sempre vostra".

Non è un paese per donne

 Ieri a Viterbo una donna di 30 anni è stata ricoverata in stato di shock, con ferite e abiti strappati, all'ospedale di Belcolle. Arrivata due giorni prima con il treno per andare a trovare un'amica, appena scesa è stata avvicinata da due uomini in una macchina, costretta a salire a forza, rapita e portata in un appartamento, dove è stata stuprata e picchiata per 48 ore.

Praticamente il peggior incubo che una donna possa immaginare. 

Lo scorso settembre un'altra donna è stata stuprata nei bagni della stazione di Orte. Era andata in bagno, quando ha aperto la porta per uscire si è trovata di fronte un uomo con i pantaloni slacciati e i genitali all'aria che l'ha rispinta all'interno. 

Un altro degli incubi di noi donne. Vi risparmio il racconto di quando, diversi anni fa, ho rischiato la stessa cosa in un locale, per fortuna il mio compagno si accorse di questo ragazzo che mi aveva seguita fino in bagno ed è stato scongiurato il peggio. Ma potrei raccontare tanti altri aneddoti: di molestie, catcalling, violenze scampate ecc. 

Ecco, prima di usare un termine orrendo come "nazifemminismo", conseguente a una falsa idea secondo cui noi donne avremmo già tutti i diritti e vorremmo prevaricare gli uomini, pensate a questo: al fatto che nessuna di noi si sente al sicuro quando viaggia, quando esce la sera, quando si trova su una strada isolata e vede arrivare una macchina, un uomo o più uomini, quando va in un bagno pubblico, entra in un garage o sottopassaggio di notte, attraversa un parco, va a correre su una strada fuori mano ecc. Il più delle volte non succede nulla, ma l'ansia, la paura, lo stress, quelli non mancano mai. E perché a volte è anche questione di fortuna. 

Non siamo nemmeno libere di ubriacarci perché significa comunque abbassare la guardia, e poi magari ti ritrovi nel letto di uno la mattina e giudici e vox popoli ti dicono pure che te la sei andata a cercare perché non sia mai che vedano il fatto che una sia ubriaca come impossibilità a dare il suo consenso e quindi un aggravante che qualcuno si sia approfittato di lei...

Per molti, troppi uomini, come testimoniano fatti recenti, siamo solo pezzi di carne su cui fare commenti di natura sessuale o, peggio, da usare. 

Vero, non tutti gli uomini sono stupratori, molestatori seriali o maschilisti, ma tutte noi abbiamo paura degli uomini. 

Giorni fa ho commentato sotto a un post che parlava dei cronisti Rai licenziati per aver espresso commenti maschilisti su delle nuotatrici, dicendo che hanno fatto bene a licenziarli perché sebbene il provvedimento non risolverà i tanti problemi di una società e cultura patriarcali, è pur sempre un segnale. Gli uomini devono capire che non possono più parlare delle donne in un certo modo. Non lo possono più fare. 

Sotto al mio commento è arrivato un tipo che ha espresso una rabbia e una violenza da far paura perché chi è maschilista e misogino ha paura di perdere il proprio privilegio e potere sessuale. Sì, sessuale, cioè di sesso, del sesso maschile su quello femminile. 

Ovviamente l'autore del post si è guardato bene dal rimuovere quel commento perché molti altri uomini, anche se non sono maschilisti, rimangono comunque solidali al sesso di appartenenza, acquiescenti, zitti. 

Oppure, nella migliore delle ipotesi, vengono a dirci cosa noi femministe dovremmo o non dovremmo fare, e persino per cosa dovremmo indignarci e per cosa dovremmo gioire perché "ci vorrebbe ben altro!", secondo loro, ché tanto le molestie, gli stupri e i femminicidi mica avvengono sulla loro pelle!

Ecco, noi non vogliamo uomini femministi, il femminismo è di noi donne per noi donne, noi vogliamo uomini che isolino e prendano le distanze e sanzionino e condannino la violenza maschile, e gli uomini che la mettono in pratica, nelle sue tante forme, da quella espressa tramite il linguaggio, a quella reale che avviene sui nostri corpi.


venerdì 14 luglio 2023

Coltiviamo l'antispecismo, non la carne

 

Foto di Veganzetta

Un mio articolo per Veganzetta sulla carne coltivata che analizza la questione da una prospettiva antispecista.

Nel dibattito sulla carne coltivata sembrano esserci solo due possibili risposte: favorevoli o contrari. Ogni narrazione alternativa, come quella proposta da Adriano Fragano in questo articolo viene presa come atto di lesa maestà, accompagnato dal ricatto morale: non ci pensi a tutte le vite che potresti salvare?

Eppure trattandosi di un’innovazione importante il discorso merita di essere approfondito sotto tantissimi aspetti, in particolare quello antispecista perché in quanto persone umane attiviste per la liberazione animale dovremmo innanzitutto avere non solo sempre presente l’obiettivo che ci prefiggiamo, ma anche essere in grado analizzare ogni campagna, progetto o invenzione alla luce di quest’ultimo.

In questo articolo vorrei provare a fare un discorso ampio in cui la carne coltivata non è tanto l’oggetto principale, semmai il pretesto.

L’antispecismo (analogamente all’anarchismo), non è una teoria finalizzata a riformare l’esistente – la nostra società, la politica, l’economia, il sistema culturale, simbolico e materiale, entro cui viviamo e di cui assorbiamo e interiorizziamo schemi di pensiero, di valori e morale –, ma a cambiarlo radicalmente.

Uno dei capisaldi del nostro attuale sistema è il dominio: sulla Natura in senso ampio, ossia i territori, le foreste, i fiumi, i mari, le montagne, ecc., le mappe geopolitiche (che vengono ridefinite continuamente in base a interessi economici o di controllo delle risorse) e su tutti i viventi del pianeta, in particolare le minoranze, i più fragili e soprattutto sugli altri Animali. Per giustificare questo dominio la nostra specie nel corso dei secoli ha elaborato ideologie diverse usando di volta in volta le narrazioni più efficaci in base al contesto: razzismo, specismo, sessismo, motivazioni economiche, equilibri politici, per citarne alcune.

Lo specismo, che è quello che ci interessa in questa trattazione, è appunto un’ideologia finalizzata a giustificare, normalizzare e naturalizzare il trattamento di assoluto dominio che riserviamo agli Animali di altre specie; la loro esclusione morale da cui ne consegue la definizione di un sistema di valori del vivente, gerarchico e autoreferenziale, o meglio, autoriferito. Dentro questo sistema specista prendono vita alcune vie di fuga che risultano però illusorie. E lo sono, non tanto perché non vanno dritte al punto, ma perché da questo punto ideale, che nel nostro caso è la liberazione animale (materiale e simbolica) deviano in maniera pericolosa; il problema infatti, metaforicamente parlando, non è il passo intermedio o la deviazione in sé, ma il tipo di deviazione o di strategia attuate.

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martedì 13 giugno 2023

Corpi di servizio

 Per capire cos'è il sessismo e come attua la svalutazione delle donne pensiamo alla narrazione svilente che da sempre viene fatta del termine "casalinga". 

In realtà le donne che non lavorano e si occupano a tempo pieno delle mansioni domestiche sono da sempre donne che si fanno un culo così e che, con il pretesto che appunto non lavorerebbero - perché nella nostra società viene percepito come lavoro solo ciò che è retribuito, altrimenti è un passatempo o un dovere - vengono caricate di ulteriori mansioni relative alla cura, accudimento, disbrigo pratiche burocratiche e cazzi e mazzi vari. 

Mia madre, casalinga, puliva casa, faceva la spesa e giri vari nei negozi tipo calzolaio, lavanderia, farmacia, cucinava, mi veniva a prendere a scuola, mi accompagnava alle varie attività pomeridiane, mi lavava e vestiva e giocava con me (almeno finché non sono stata in grado di fare queste cose da sola), mi aiutava a fare i compiti, stirava e provvedeva ai vari bisogni materiali della famiglia. Non portava i soldi a casa, è vero, ma facendosi carico di tutta la gestione domestica, anche emotiva (i miei bisogni, per esempio), consentiva a mio padre di dedicarsi unicamente al suo lavoro, alla sua carriera. Il mantra di mio padre appena rientrava a casa era: io lavoro, non mi dovete rompere i coglioni, di nessun tipo. E tutto finiva sulle spalle di mia madre. 

Questo era un modello di casalinga che oggi per fortuna è stato un pochino superato, ma fino a un certo punto perché la maggior parte delle donne che lavorano anche fuori casa, a meno che non rientrino in una fascia medio alta per cui possono permettersi di assumere una persona che fa le pulizie e le aiuti con i figli, dopo il lavoro tornano a casa e devono farsi il mazzo a sbrigare le mansioni domestiche.

Le statistiche ci dicono che ciò che pesa di più non è tanto lo svolgimento materiale di questi compiti, ma l'enorme carico mentale nell'organizzazione della giornata. 

Gli uomini, tranne poche eccezioni, aiutano, sì, ma su richiesta, non hanno lo stesso carico mentale delle donne. 

Casalinga quindi non è un ruolo svilente, un ruolo che chiunque potrebbe svolgere e per cui non servono particolari qualità e capacità. Fare la casalinga significa avere capacità organizzative elevate, resistenza alla fatica fisica e mentale, enorme capacità di gestione ed elaborazione del proprio sé che deriva dalla frustrazione di non vedere riconosciuta una propria identità lavorativa e quindi enorme capacità di lavoro sulla propria autostima per non sentirsi una nullità: che è esattamente il modo in cui la società patriarcale ha sempre fatto sentire noi donne, anche quando siamo uscite di casa per studiare e lavorare.

Mi chiedono spesso: ma perché voi donne continuate a puntare sul vostro aspetto fisico, a mostrare culo e tette, anche se siete laureate e intelligenti?

La risposta, cari miei, è in quello che ho scritto sopra. Secoli di svalutazione del femminile e dei ruoli ad esso associati non si spazzano via nemmeno con una laurea con lode o con una posizione di prestigio in un'azienda. Si spazzano magari via se riesci a realizzarti un minimo, sempre con la sindrome dell'impostore che ti sussurra nella testa. 

La società per secoli ci ha svilite e ricordato che siamo solo corpi da mostrare, usare, sfiancare, corpi di servizio, e continua a farlo con le continue martellanti, pressanti pubblicità delle creme anticellulite, rassodanti, ringiovanenti e con la narrazione un po' ridicola delle casalinghe (la casalinga di Voghera, ricordate, definizione per antonomasia di una persona mediocre senza particolari talenti e intelligenza, come se appunto fare la casalinga fosse una mansione da poco ecc.) e sottrarsi a questo svilimento è lavoro di una vita, psicologico, politico e sociale.




sabato 10 giugno 2023

Abbiamo bisogno dell'antispecismo

 

Ne hanno bisogno gli animali, ma anche noi, come specie e società. Noi, animali come loro. 

Ogni volta che si viene a sapere di fatti atroci compiuti ai danni degli animali (tipo il caso recente del cane legato a una boa e lasciato affogare, o quello di tempo fa di un altro cane legato a un'auto e trascinato per chilometri fino a morire) si dice che gli individui umani che hanno commesso il crimine sono persone violente e potenzialmente pericolose per l'intera società. 

Bene. Ci sono studi e statistiche che infatti lo dimostrano: la crudeltà sugli  animali è palestra di crudeltà sui viventi in generale perché porta a una desensibilizzazione progressiva. 

Ma che dire allora della violenza generalizzata e normalizzata di cui tutti siamo o stati complici mangiando e indossando gli animali, portando i bambini negli zoo e al circo, uccidendo animali di piccola taglia, in taluni casi bollendoli vivi, tanto per fare alcuni esempi? 

Che dire del fatto che quasi in ogni città esistano quei luoghi chiamati mattatoi in cui persone pagate per uccidere animali trascorrono le loro giornate per far sì che noi (plurale generalizzato, in passato ne sono stata complice anche io) possiamo trovare la fettina già bella e pronta al supermercato? Che dire della caccia e pesca fatte passare come piacevole passatempo? E di quelle mostruosità che sono i laboratori di ricerca fatti passare per luoghi deputati al sacro e intoccabile esercizio della scienza che di fatto ha sostituito la religione, tra cieca fede e ribellione a volte un po' senza piena cognizione di una giusta critica (perché la scienza esige rigore in ogni senso, sia quando la si vuole dimostrare, sia quando la si vuole contraddire. Ma certamente non sulla pelle di individui senzienti, di nessuna specie)? 

Che dire, insomma, della violenza normalizzata che assorbiamo come spugne e interiorizziamo nel profondo dalla mattina alla sera? 

Ecco perché l'antispecismo è una questione seria e non un passatempo di borghesi annoiati. 

La questione animale deve diventare prioritaria per tanti, troppi motivi. 

Non già "Ci sono altre cose a cui pensare". 

È invece urgente che come specie e civiltà ci occupiamo di questo, almeno intanto smettendo di essere complici della violenza sugli animali, che sia legale, normalizzata o meno. 


domenica 19 marzo 2023

Sguardi che non possiamo dimenticare

 

Ieri, sotto a un post di un amico, un suo contatto ha chiesto: "Perché posti le foto dei maiali? Tanto non servono a far diventare la gente vegana".

Ora, sorvolando pure sul fatto che il contatto in questione non fosse vegano e fosse infastidito dal fatto che gli si ricordasse CHI era il prosciutto che mangia, la domanda merita una risposta approfondita.

Anni fa, con NOmattatoio, andavamo in prossimità del mattatoio di Roma e fotografavamo i tir pieni di animali che di lì a poco sarebbero stati ammazzati. Non solo maiali, ovviamente, ma anche agnelli, mucche, vitelli, capretti e persino cavalli. 

Non facevamo solo quello, distribuivamo anche volantini, facevamo discorsi al microfono per spiegare il senso delle nostre azioni di protesta, informazione e sensibilizzazione.

Lo facevamo perché la gente non riflette mai sui mattatoi. Non sa nemmeno dove sono situati, come sono organizzati, quanti animali uccidano al giorno e quali sono i passaggi che portano un individuo dalla sua nascita in un allevamento fino allo scaffale di un supermercato; questo perché sebbene siamo letteralmente invasi dalle pubblicità  dei "prodotti", descritti come eccellenze italiane, gustose, sane ecc., si attua una sorta di rimozione collettiva sulla realtà dello sfruttamento animale. 

Attenzione: non è che nel profondo non si sappia perché penso che tutti sappiano che la carne che mangiano è parte del corpo di un animale, ma semplicemente questo fatto viene costantemente rimosso.

Ricordo che la prima volta che vidi un tir pieno di agnellini sperimentai una sorta di epifania dolorosa, come uno schiaffo di realtà arrivatomi addosso, come se solo in quel momento prendessi coscienza di cosa significhi realmente produrre e mangiare carne. 

Allora raccontarlo con immagini e video, mostrare gli sguardi spenti o terrorizzati di questi individui - ognuno diverso dall'altro, anche nelle reazioni all'inferno che stanno sperimentando - ha un senso. 

Lo slogan della nostra campagna era "Se non potete eliminare l'ingiustizia, allora raccontatela a tutti", frase di un rivoluzionario iraniano, Ali Shariati", che poi modificammo in "Il primo passo per eliminare l'ingiustizia è raccontarla a tutti" perché ci sembrava meno rassegnazionista. 

Già, raccontare a tutti la violenza normalizzata nella nostra società, i fiumi di sangue non visti che scorrono tra le intercapedini delle nostre comode cucine dove ci nutriamo di quelle esistenze che avrebbero potuto essere, piene e meravigliose, e invece sono state distrutte per cinque minuti di sapore, di tradizione, ma soprattutto di abitudine, di pigrizia mentale, di indifferenza.

Esistenze annullate per indifferenza e nell'indifferenza. 

Sapendo tutto questo non si può tacere. E se non si tace si deve raccontare. E mostrare. 

Ed ecco il perché di queste foto e video, che forse non saranno sufficienti a far diventare le persone vegane, ma che almeno gli ricorderanno di cosa la nostra specie è capace e di quanto sia facile e banale cancellare individui ed esserne complici semplicemente perché "lo fanno tutti", "si è sempre fatto così".

mercoledì 15 marzo 2023

Il conforto delle parole


Un mio articolo per Essere Vegan in cui analizzo alcuni termini comuni usati dalle persone per giustificare il carnismo: onnivoro, allevamento intensivo, benessere animale.

"Nelle mie discussioni con le persone che mangiano animali ho notato quanto vengano date, con poche varianti, sempre le stesse risposte e che queste tendano a voler essere autoconclusive, totalizzanti, come a voler rassicurare chi le pronuncia, il quale, in tal modo, risolve così ogni dilemma morale.

Una di queste è che nell’allevare gli animali non ci sarebbe nulla di male perché noi siamo onnivori e quindi facciamo quello che fanno gli altri animali, solo che abbiamo semplicemente affinato la tecnica, modernizzandola, anche se ovviamente siamo tutti concordi nel ritenere deprecabili gli allevamenti intensivi.

Ecco, onnivoro è già un primo esempio di ricorso a un termine affinché questa assolutezza di pensiero resti salda; un pensiero che non vuole essere problematizzato, pena una dissonanza cognitiva molto forte perché se si ammettesse che mangiare animali non è affatto necessario allora si dovrebbe prendere atto del fatto che si stanno compiendo delle scelte cruente senza necessità e questo non collimerebbe con l’idea che generalmente le persone hanno di loro stesse: un’idea che non di rado include l’amore per gli animali; in pratica ci si autoconvince che mangiare gli animali sia necessario e che quindi non si possa fare altrimenti anche se dispiace, purché, certamente, lo si faccia rispettando le norme sul benessere animale. Ci si convince quindi che il problema quindi non stia tanto nell’uccidere gli animali, ma nei famigerati allevamenti intensivi.

Per continuare la lettura dell'articolo: https://bit.ly/3Te2BGV

venerdì 10 marzo 2023

Uguali nella morte

 



Ho pensato molto se scrivere di questo o meno, e alla fine ho deciso di farlo. 

La tragedia avvenuta di recente in mare ci ha sconvolto, forse più di altre volte, forse perché stavolta le vittime erano bambini e ragazzi, persone con tutta una vita da vivere davanti e che hanno messo a repentaglio proprio per avere una chance di viverla, quella vita. Hanno perso tutto, la vita stessa, nel tentativo di quella chance e anche noi - noi come umanità, come civiltà, come soggetti politici, come società - abbiamo scoperto di aver perso parecchio, cioè la capacità di aiutare chi sta peggio di noi, di essere solidali. 

Da quel giorno infausto ho letto molte dichiarazioni da parte dei soccorritori, in particolare quella di un pescatore, che è diventata virale: racconta il suo dolore, tutto lo strazio e l'impotenza che ha provato nel tirare su dall'acqua quei piccoli corpi ormai morti. 

Un altro, o forse sempre lo stesso, dice che se lui e i suoi compagni pescatori avessero saputo in tempo, se fossero stati avvisati, sarebbero usciti in mare tempestivamente perché i pescatori, si sa, salvano le vite in pericolo in mare.

Mi colpiscono queste affermazioni perché sono la prova evidente di una cecità assoluta nei confronti dello sterminio di tante altre vite, esistenze, che hanno la sola colpa di essere nate in corpi diversi dal nostro. Sterminio che essi stessi compiono.

Parlo degli animali marini, pesci, polpi, crostacei. Tirati su dal mare a migliaia con le reti. Lasciati agonizzare per lunghi minuti, a volte ore o addirittura giorni. 

La cultura in cui sono nati, la tradizione trasmessa di generazione in generazione, la società in cui vivono che normalizza le uccisioni dei pesci e degli animali in generale ha portato questi pescatori a essere desensibilizzati progressivamente fino ad arrivare a maturare un'empatia selettiva. Fino a non percepire le agonie di questi altri corpi che tirano su a migliaia dal mare; con la differenza che questi altri nel mare ci vivevano e che lì sarebbero dovuti restare. 

Mi colpisce questa sensibilità selettiva, questo non saper vedere la morte e la sofferenza se colpisce corpi diversi da quelli umani. 

Si può paragonare la morte di un pesce a quella di un bambino? 

Sì, se riconosciamo il valore ontologico di un individuo che voleva vivere, il suo valore intrinseco, non riducibile a null'altro se non alla sua volontà di essere, di esistere per sé stesso e non in funzione d'altro. 

Ma sappiamo che il valore ontologico degli altri animali è sempre stato arbitrariamente definito inferiore a quello di noi animali umani e che abbiamo giustificato questa presunta inferiorità utilizzando dei parametri esclusivamente umani, cioè il modo in cui noi ragioniamo, facciamo le cose, pensiamo, viviamo, la nostra intelligenza, come se fossimo gli unici esseri viventi e senzienti davvero tali sulla terra e tutto il resto che non assomiglia a noi non fosse nemmeno da dichiararsi tale, ma al massimo una macchina, un prodotto, oppure qualcosa che sì, respira, ma è "povero di mondo" in quanto solo le nostre esperienze contano davvero.

Già questo giudicare se qualcuno è degno di essere definito individuo solo se supera dei test è terribile perché appunto non gli si riconosce un valore intrinseco, ma esso prescinde da varie considerazioni. 

Eppure vivere ed esistere significa lo stesso per tutti gli animali e tutti condividiamo parecchie esperienze e sensazioni: nascere, respirare, vedere, udire, sentire dolore o piacere, muoverci nel mondo, farne appunto esperienza, ammalarci, giocare, sentire in senso ampio, cioè cogliere con i sensi, mangiare, dormire, comunicare e molto altro ancora. 

Già il fatto di nascere implica un dover morire. Quindi dovremmo considerare uguale per tutti, se non proprio la vita, l'esistenza, almeno la morte. 

Ed è in questo riconoscimento, chiamiamola pure agnizione, di essere uguali nella morte, più che nella vita, che dovremmo aver pietà, cioè empatia. E, se proprio non possiamo salvare chiunque, che almeno possiamo rifiutarci di uccidere e di essere complici degli stermini in mare.

Foto: Jo-Anne Mc Arthur.

mercoledì 8 marzo 2023

Destino comune

 Tra le altre cose, il femminismo è presa di coscienza di un destino comune tra simili, tra persone dello stesso sesso. 

È la deflagrazione interna che avviene quando, confrontandoti con altre donne, capisci che non sei la sola ad aver subito certe molestie e ad essere stata vittima di comportamenti che ti facevano sentire a disagio - ma a cui, allora, non avresti saputo dare un nome - e che solo nel momento in cui l'hai appreso hai capito che il tuo disagio era legittimo, giustificato, normale e che no, non eri strana tu, ma erano maschilisti e prepotenti gli uomini che avevi incontrato. 

Per questo il confronto tra donne è fondamentale perché ti fanno capire che certi meccanismi non sono casuali o eccezionali, ma sistemici e culturali.

Ecco, vorrei che l'8 marzo fosse un momento di riflessione per noi tutte e vorrei che anziché mimose venissero distribuiti e regalati libri sul femminismo, saggi o romanzi che siano. 

Poi mi piacerebbe anche che le donne arrivassero a comprendere che se il sesso di appartenenza ci unisce e rende simili in tanti destini, questo è lo stesso per le femmine di altre specie. 

So che la normalità con cui abbiamo sempre sfruttato gli animali e l'occultamento della realtà riguardo la produzione del latte, uova, carne non ci fa percepire gli allevamenti e i mattatoi come sbagliati, eppure lo sono perché sfruttano, controllano e uccidono i corpi delle femmine di molte specie e dei loro cuccioli. Un controllo totale che comprende la visione che abbiamo degli animali concepibile, materialmente e metaforicamente, nei limiti della funzione che gli viene assegnata (da reddito, utili o dannosi, domestici o pericolosi). Non esistono allevamenti etici perché tutti contemplano sfruttamento e fine violenta al mattatoio e questa riduzione della loro soggettività a una funzione.

Se ci riconosciamo come femmine di homo sapiens unite da problematiche simili, facciamo uno sforzo e includiamo nella nostra considerazione morale e nelle nostre battaglie anche le femmine di altre specie, che sebbene non parlino il nostro linguaggio,  comunicano e soffrono non meno di noi. 

I corpi sono fatti della stessa materia, carne, sangue, muscoli e così le emozioni e sensazioni scaturite dal cervello. Se riconosciamo come ingiusto il nostro sfruttamento basato sull'uso dei nostri corpi, allora dobbiamo riconoscere come ingiusto anche quello degli altri animali, delle femmine e dei loro cuccioli.


lunedì 6 marzo 2023

Nessuno tocchi Tina

 

#nessunotocchitina è l’hashtag che è diventato virale in questi giorni nel mondo animalista, e non solo, affiancato agli innumerevoli appelli e petizioni rivolti alle autorità affinché Tina non venga uccisa.

Ma chi è Tina? Nata da una maialina vietnamita domestica (allontanatasi da casa e accoppiatasi con un cinghiale), è stata adottata da Gabriele, che vive in provincia di Novara, quando era ancora cucciola ed è cresciuta con la sua famiglia e i suoi cani, stringendo in particolare un legame molto forte con una cagnolina che l’ha presa sotto le sue cure come se fosse sua figlia.

Tina quindi non è un cinghiale selvatico, pur avendo una parte di geni del cinghiale, ma domestico: a tutti gli effetti un membro della famiglia di Gabriele.

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domenica 5 marzo 2023

Perché sono contraria alla regolamentazione della GPA

 La GPA, ovvero la pratica della gestazione per altri, anche chiamata in gergo "utero in affitto".

 A dire che si è contrari si viene subito tacciati di essere di destra e conservatori, anzi, peggio, di quella destra proprio becera che appartiene ai vari Pillon, Adinolfi, Meloni ecc. 

Eppure io sono contraria alla sua regolamentazione e proverò a spiegare perché, premettendo che non mi interessa che a fruirne siano le coppie omo o etero, infatti sono favorevole all'adozione di bambini da parte delle coppie omo. 

Sono contraria perché è l'ennesimo sfruttamento dei corpi delle donne fatto passare per diritto che si vorrebbe addirittura regolamentare (come la prostituzione). Diritto sì, infatti, ma di chi? Ed è questo il punto, ossia che si tratta di diritti di una parte privilegiata economicamente che può permettersi di pagare una parte svantaggiata economicamente che vede come risorsa il mettere a disposizione il proprio utero per ospitare una gravidanza. Quindi un diritto basato sull'uso del corpo di qualcun'altra. 

Mi viene risposto che si tratta pur sempre di libera scelta. 

Ma questo della libera scelta è un argomento che non può essere sbandierato come un vessillo o uno slogan senza essere problematizzato e analizzato a partire dal contesto socio-economico e culturale entro cui ci troviamo ed entro cui facciamo determinate scelte.

Quando nel mondo non ci saranno più differenze e privilegi sociali, allora forse si potrà parlare di libera scelta di vendersi gli organi, affittarsi l'utero o farsi stuprare a pagamento. Fino a quel momento parliamo sempre di un privilegio da parte di qualcuno sul corpo di qualcun'altra. Regolamentarlo significherebbe legittimarlo, normalizzarlo, renderlo una pratica economica come altre. 

Se una donna benestante, affermata economicamente, che non ha bisogno di guadagnare dalla GPA perché ha già un lavoro deciderà di mettere a disposizione il suo utero per generosità, questi sono affari suoi e in questo caso si potrà parlare di libera scelta; in altri casi invece no. 

Oltre a queste motivazioni legate alla giustizia sociale, ci sono poi considerazioni scientifiche. Ormai sappiamo che i neonati separati dal corpo, odore, voce della propria madre provano un trauma; ancora peggio se questa madre biologica dovesse allattarli perché il legame che si creerebbe con lei sarebbe ancora più forte.

In queste trattative sembra non esserci spazio per i diritti dei bambini che vengono acquistati, seppur con desiderio e amore, come fossero oggetti (e sì, sono anche contraria all'acquisto di cuccioli di animali perché la vita non si compra); parliamo di bambini che hanno già avuto un forte legame con la madre biologica quando erano dentro il suo ventre, di cui conoscono appunto la voce, l'odore, il corpo. 

Ammetterei l'affido di un bambino, a titolo gratuito, nel caso in cui una donna restasse incinta, non volesse abortire, ma non volesse nemmeno diventare madre. 

Poi, in tutto ciò sembra anche non esserci spazio per le emozioni e i sentimenti. Una donna che accetta per denaro di portare avanti una gravidanza per altri, è sicura di non provare poi amore per quel bambino, di non provare un trauma al distacco, dopo il parto e l'allattamento? Durante la gravidanza avvengono tantissime trasformazioni fisiche che hanno ripercussioni fortemente emotive. Dopo la gravidanza spesso si verifica anche la depressione post partum, malattia che a volte perdura ed è anche difficile da curare. 

Durante la gravidanza possono insorgere varie patologie, compreso il diabete. Non si sta chiedendo a una donna di fare una cosa da poco. Certo, immagino che metta i conto tutto ciò, eppure non tutto può essere pianificato quando di mezzo ci sono questioni come i sentimenti, le emozioni, gli ormoni, i corpi. 

Per questi motivi sono contraria, tranne casi eccezionali in cui non ci sia mercificazione e sia un atto di piena generosità. 

Non si può essere progressisti sulla pelle degli altri, anzi, delle altre in questo caso, come se i corpi delle donne non fossero già stati abbastanza sfruttati nei secoli. 

I nostri uteri non sono contenitori, non siamo contenitori, e i bambini non sono merce. 

Una società veramente evoluta faciliterebbe il percorso di adozioni e aiuterebbe i tanti bambini orfani a trovare una famiglia.

Un concetto di maternità veramente evoluto non si basa sul bisogno incondizionato di avere un figlio che sia sangue del proprio sangue, ma sul concetto ben più ampio di cura, di amore, di affetto, di accompagnamento e percorso educativo di un bambino per fornirgli tutti quegli strumenti di cui avrà bisogno da adulto; bambino anche adottato. Ma non comprato.


venerdì 3 marzo 2023

La guerra spietata ai cinghiali

 

Da qualche anno il nostro paese ha dichiarato guerra agli animali selvatici e in particolare ai cinghiali.

È iniziata dapprima con accordi tra le singole regioni e i municipi, come a Roma, quando nel 2019 fu siglato il primo piano di abbattimento tra Comune di Roma e Regione Lazio – poi rinnovato sotto le successive amministrazioni -, in Toscana con la legge Cremaschi, poi a seguire in Liguria, Reggio Calabria, Campania e altre ancora. Una guerra spietata accompagnata da un odio feroce per questi animali pacifici e da episodi di crudeltà inaudita, come il recente caso di un cinghiale investito e poi lasciato agonizzare a bordo strada per circa 16 ore o l’altro in cui ad alcune volontarie di un Rifugio è stato impedito di soccorrere un cucciolo di cinghiale caduto in un fossato, che poi è stato freddato davanti alle volontarie stesse.

Un elemento essenziale di ogni guerra è infatti la propaganda, cioè la diffusione mediatica di notizie funzionali a far credere che esista un problema o una vera e propria emergenza così creando un clima di terrore, odio o comunque di preoccupazione per poi giustificare le varie misure in corso.

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giovedì 2 marzo 2023

Proteus, eroe o schiavo?


 Una riflessione critica sui cani impiegati in varie mansioni al servizio della nostra specie, partendo dalla storia di Proteus, il cane divenuto suo malgrado “eroe”.

Proteus era un cane “impiegato” per cercare e sottrarre i feriti dalle macerie del recente terremoto avvenuto in Turchia. Ne scrivo al passato perché purtroppo durante una di queste operazioni il suo cuore ha cessato di battere, sembra per l’eccessiva fatica cui era stato sottoposto; infatti, così riportano i media, aveva “lavorato” instancabilmente per due giorni. I media locali e internazionali lo hanno trasformato in un “eroe”, suo malgrado, e gli hanno dedicato anche una statua. Proteus, che in effetti porta il nome di un dio della mitologia greca, veniva dal Messico ed era stato inviato in Turchia insieme ad altri cani allevati ed addestrati a svolgere il “lavoro” di soccorritori di feriti.

Ho messo alcuni termini tra virgolette perché sono termini che mal si addicono ai cani e agli animali in generale. Curioso come nella nostra società specista stiamo sempre a specificare di prestare attenzione a quello che diciamo sugli animali perché è sbagliato antropomorfizzarli – cosicché non si può nemmeno dire che abbiano sentimenti, ricordi, propositi, volontà e intenzioni in quanto agirebbero solo per una sorta di automatismo – eppure non ci facciamo scrupoli ad attribuirgli concetti e termini quando ci fa comodo usarli per i nostri fini.

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lunedì 13 febbraio 2023

Blonde (film di Andrew Dominik)

 

Tratto dall'omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, Blonde è un film bellissimo. 

Difficile isolare un solo elemento narrativo perché ce ne sono tanti. 

Il principale è lo scollamento tra l'identità di Norma Jean - una ragazza con un passato doloroso e traumatico, quindi immensamente fragile, alla disperata ricerca di una figura paterna che poi tenterà invano di trovare negli uomini con cui ha delle relazioni (sintomatico il fatto che li chiami tutti "Daddy") - e l'immagine pubblica della diva Marilyn, luminosa come una stella del firmamento, ma anche sola, proprio come le stelle. 

Gli elementi più belli del film sono altri a mio avviso, per esempio l'incapacità di Norma Jean a opporsi a ciò che le veniva chiesto di fare ed è in questa incapacità a dire no, o debolezza con cui lo dice, che poi si traduce in un'accondiscendenza esteriore, che si snoda il dramma più significativo; un dramma polisemico, dalle molteplici interpretazioni, un dramma secolare e generazionale, il dramma di tutte le donne: quello di essere usate dagli uomini, di essere sminuite nel non essere considerate nient'altro che corpi, madri e mogli o stelle di Hollywood. Allora forse questo tratto marcatissimo dell'incapacità di opporsi è innanzitutto l'incapacità della società di allora di ascoltare le donne, che però si traduce in inevitabile senso di colpa personale perché scambiata appunto per accondiscendenza. 

(Rircordate il MeToo?).

Norma Jean dice "no" tante volte, ma lo dice flebilmente, talmente flebilmente da non essere sentita. O si fa solo finta di non aver sentito?

Norma Jean viene usata dagli uomini, da Hollywood, dai suoi amanti, da chiunque. Spesso si riferisce a sé stessa come "a un pezzo di carne"  ("Non voglio essere un pezzo di carne", "Sono solo questo, dunque, un pezzo di carne fresca consegnata a domicilio?), viene svilita in ruoli cinematografici spesso frivoli ("Sono stanca di salire sul set per essere sminuita"), dove doveva interpretare solo la donna sexy e compiacente, magari un po' stupida, non viene presa sul serio ai provini, non viene minimamente considerata per la sua intelligenza, è solo un corpo che incarna il desiderio di ogni uomo, o meglio, un corpo dietro l'immagine patinata e costruita a tavolino per rappresentare proprio quei desideri lì. Persino Arthur Miller, che pure le riconosce cultura e intelligenza, la usa, usa le sue idee, le sue frasi pronunciate in privato e si compiace nell'esporla come Marilyn. 

Il destino di Norma Jean è il destino di tutte le donne dell'epoca, famose o meno. Chiamate a recitare dei ruoli prestabiliti dalla società, e poco importa che siano quelli domestici della brava moglie e mamma o quelli di una star di Hollywood.

L'ossessione di Norma Jean per il padre, quel "Daddy, Daddy, Daddy" che risuona come un mantra sulle sue labbra imbronciate è il segno di una precisa concezione della donna dell'epoca: donne fragili, bambine, bisognose di una figura maschile accanto che le guidi, che scelga e decida per loro (sottotesto: le donne non sanno cosa è giusto per loro).

A Norma Jean non è concesso affrancarsi da questo ruolo di bambina, infatti non le è concesso nemmeno essere madre e ogni volta che ci prova fallisce miseramente, per sfortuna o perché qualcosa di più grande di lei glielo impedisce. Soprattutto Marilyn non può essere madre perché deve continuare a essere il sogno proibito di ogni uomo, il sex symbol per antonomasia, l'attrice da cui spremere soldi, su cui guadagnare soldi a palate. 

Per la società del tempo non è previsto che il corpo di una stella si sformi e infatti non la vediamo mai con la pancia. 

"Dunque è per questo che ho ucciso il mio bambino?" dice, distrutta dal senso di colpa, mentre un pubblico in visibilio la seppellisce sotto uno scroscio di applausi.

Credo che il dramma di Norma Jean sia soprattutto in questo di scollamento, più che in quello della ragazza e la diva: nell'impossibilità di conciliare i suoi desideri più profondi (essere amata per quello che è, avere una famiglia, un bambino) con ciò che il mondo voleva che lei rappresentasse, il desiderio degli uomini. E dal senso di colpa che ne deriva per non riuscire a identificarsi pienamente con Marilyn e non riuscire a essere pienamente Norma. Ciò che vive appieno invece è la scissione, il turbamento, lo straniamento di una scissione che tiene a bada con gli psicofarmaci e l'alcol perché essere scissi è doloroso, è traumatico. 

Alla fine, preso atto di questa impossibilità a essere, Norma Jean stessa ha bisogno di Marilyn, capisce che data l'impossibilità di essere sé stessa non le rimane che la maschera e la invoca, la chiama, spera che arrivi, che non la deluda, che non la tradisca, che non la lasci sola perché è tutto quel che ha: "Entra nel cerchio di luce e portalo sempre con te". 

Gli ultimi minuti sono quanto di più struggente il cinema ci abbia regalato: muore sola. Vediamo il suo corpo dapprima illuminato da un raggio di sole, che piano piano, con il passare delle ore, svanisce. Vediamo il passaggio del tempo, dalle tiepide luci dell'alba, a quelle accese del primo pomeriggio, poi il tramonto e infine la notte. E  nessuno si accorge di lei. Nessuno sa che la stella si è spenta per sempre. Cosa può rappresentare meglio la solitudine di una donna che muore da sola in un appartamento e nessuno si accorge di lei?

Una menzione speciale alla fotografia, alle luci, che sono superlative e alle trovate estetiche che non sono mai estetizzanti, ma raccontano sottotesti importanti. 

Norma Jean è spesso in controluce, a rilevare la sua doppia identità. Sempre al centro dello schermo, come una stella, ma spesso dai primi piani la telecamera si allontana e si allarga sulle persone che la circondano, non di rado la folla e i fotografi o il pubblico di una sala cinematografica. Dunque lei diventa piccina piccina, sopraffatta, ma costretta a ridere, a essere Marilyn. Sintomatica la scena - una delle più belle - in cui arriva a un evento pubblico insieme a Miller e quando scende dall'auto si sforza di sorridere: intorno a lei bocche distorte, enormi, ghigni feroci, la folla che, letteralmente, la divora. 

Il dramma di essere Marilyn, dunque, ma soprattutto il dramma di essere donna e cioè di non riuscire a essere sé stessa, a Hollywood, come nella società del tempo. 

So che il film è candidato agli Oscar. Spero che vinca.