martedì 24 dicembre 2019

Linguaggio e visione del mondo


Ieri ho discusso con una persona che ha manifestato un evidente fastidio di fronte alle mie parole "animali morti ammazzati nel piatto" poiché tale fraseggio allontanerebbe le persone dal veganismo e sarebbe più utile continuare a dire "carne".



Certamente ricordare che quelli che si hanno nel piatto sono individui ammazzati disturba perché per un momento ricompone quella frattura cognitiva che abbiamo interiorizzato sin da quando siamo nati e che ci portiamo dentro da secoli come eredità culturale, ma è proprio ciò che si deve fare, ossia ricomporre l'individuo senziente che è stato al pezzo di carne che abbiamo nel piatto. Questo, ovviamente - questa momentanea e per molti fastidiosa "epifania" - non risolve il problema dello specismo perché gli altri animali continueranno a essere percepiti come esseri inferiori che secondo la morale comune è giusto sfruttare e uccidere, però pone delle domande, degli interrogativi, costringe a testare la validità delle giustificazioni.



Proprio per questo io suggerisco quindi di non usare il termine "carne" e proprio perché è un termine ormai neutralizzato dal punto di vista del significato e di ciò che evoca, che appartiene a un'area semantica cui fanno riferimento altri termini che afferiscono al cibo, al prodotto e quindi svincolati da ogni quesito morale. La "carne" è un alimento, si compra al supermercato, i nostri genitori ce l'hanno data sin da quando eravamo bambini, con amore e affetto, per nutrimento e necessità, è un prodotto che si accompagna alla socializzazione, alle serate con amici e molto altro ancora: sono questi i significati inscritti nel termine.



Invece usare altre parole, più aderenti alla realtà e afferenti ad aree semantiche differenti, costringe a pensare. Mette in discussione il noto, la normalità, si riconnette ad altre associazioni verbali e visive.



Non date retta ai carnisti quando vi suggeriscono di parlare in un altro modo poiché, secondo loro, funzionerebbe di più. Quello che in realtà vi stanno dicendo è: noi continuiamo a essere le persone normali di sempre che mangiano la carne, voi siete i pazzi estremisti che osano disturbare questa rassicurante certezza dicendoci che stiamo mangiando dei cuccioli o i prodotti di esseri schiavizzati.



Forse, finché vivremo, non riusciremo a vedere cambiamenti significativi nel modo di trattare gli animali, ma almeno avremo contribuito a modificare un minimo la coscienza collettiva e il pensiero. Lingua e pensiero sono strettamente collegati. Quando pensiamo usiamo la parole. Senza il linguaggio, noi specie umana, non riusciamo a pensare. Ed è ciò che evoca un termine anziché un altro a costringerci a pensare un qualcosa di preciso anziché altro.



Quando qualcuno ci dice "non devi usare questa espressione" in realtà ci sta dicendo "non devi parlare di questo, non devi pensarci, non devi parlarmene". Vuole imporci la sua visione del mondo.

Ma come attivisti antispecisti noi abbiamo il compito di infrangere e mettere in discussione questa visione.

domenica 22 dicembre 2019

Ancora sullo specismo

Lo specismo si manifesta in tanti modi, per esempio anche affermare che alcune specie siano utili perché significa continuare a vederle in un'ottica utilitaristica, funzionale a qualcosa che porti un qualche beneficio, alla nostra specie o all'ambiente in generale.

Dire di dover proteggere i pipistrelli perché mangiano le zanzare o i gatti perché mangiano topi (e c'è chi addirittura adotta gatti a questo scopo) non è molto diverso dal dire di voler prendere un cane per fargli fare la guardia o una gallina per farle produrre uova. Solo che nei primi casi lo specismo interiorizzato è più subdolo.

Un'altra manifestazione di specismo è quella di prendere a odiare alcune specie poiché secondo alcuni sarebbero predatrici di altri animali e altererebbero gli ecosistemi locali, quindi dannosi. Il danno è l'altra faccia dell'utile.

La specie che più di tutti altera gli ecosistemi - ma che ve lo dico a fare, è cosa nota - è la nostra perché abbiamo mezzi e tecnologie molto impattanti; oltre a ciò siamo la specie che si sposta di più, che viaggia, e che fa viaggiare merci, quindi anche sementi, frutta e verdura (e, ahimè, animali che poi verranno trasformati in prodotti), i quali contengono uova di piccoli animali, parassiti o semi di piante alloctone; la specie che più modifica in modo significativo gli ecosistemi è la nostra. Eppure mai ci sogneremmo (nemmeno l'ecologismo più radicale lo fa, alla faccia della pretesa di essere antispecista) di dire che dovremmo procedere ad abbattimenti selettivi e anche della riduzione delle nascite, alla fine, parlano tutti in teoria, ma nei fatti, nessuno rinuncia davvero a fare figli se ne ha voglia, cioè per un mero interesse altruistico di rispetto del pianeta.
Questo perché ovviamente riconosciamo il valore della nostra vita e lo poniamo al di sopra di tutto, ma non facciamo altrettanto per quella delle altre specie.

Smettiamola almeno di inventarci presunte pericolosità o, al contrario, utilità, negli altri animali.

Gli altri animali non sono né pericolosi o dannosi, né utili. Esistono. Punto. E come tali dovremmo rispettarli.

L'antispecismo è un nuovo modo di ragionare e guardare gli altri animali, non più considerandoli in un'ottica di presunta utilità o dannosità, ma come soggetti che meritano di vivere di per sé.

giovedì 19 dicembre 2019

Cos'è lo specismo?

Lo specismo ha una semplice idea alla base: quella dell'inferiorità degli altri animali.

Si tratta di un pregiudizio culturale profondo che poi ne giustifica ogni tipo di sfruttamento, abuso, violenza, ma anche indifferenza e comunque esclusione dalla sfera morale dei diritti. È ozioso stare a chiederci quando e come questo è avvenuto e se mai avesse potuto essere effetto di qualcos'altro perché nei secoli oramai è diventata una causa funzionale e bastevole a sé stessa per continuare a giustificare il trattamento ignobile che riserviamo agli animali.

Quando parlo di trattamento ignobile non mi riferisco soltanto allo sfruttamento degli animali per trarne profitto (allevamenti, macelli ecc.), ma all'insieme di pratiche che adottiamo nei loro confronti: derattizzazioni, disinfestazioni, abbattimenti selettivi o meno, caccia e pesca cosiddette sportive, indifferenza nei confronti delle loro malattie, patimenti, fame, sete, infortuni, incidenti, compravendita di cuccioli, uccellerie, mercificazione di ogni tipo, ma anche pietismo, o, al contrario, attribuzione di qualità magiche, simboliche e comunque in generale il sentimento di essere in qualche modo superiori.
Tutto questo è lo specismo ed è questo che dobbiamo cambiare culturalmente perché è inutile mostrare le sofferenze di cui sono vittime dentro gli allevamenti e i mattatoi se in qualche modo continua a persistere la convinzione radicata che essi siano comunque inferiori e quindi sacrificabili per i nostri interessi poiché le loro esistenze hanno meno valore.

In questi giorni, come ho scritto in qualche post sotto, sto rileggendo 1984 di Orwell. Un romanzo del secolo scorso, non del seicento e nemmeno ottocento. Eppure, quanto specismo trapela da quelle pagine, nonostante sia un romanzo meraviglioso.
Tutto ciò mi ha dato la misura di quanto, ancora nel secolo scorso e purtroppo tutt'oggi, non abbiamo modificato di una virgola la concezione dell'animale-macchina introdotta da Cartesio nel 1600.
Orwell scrive, a proposito della Neolingua: anatrare, cioè starnazzare in modo meccanico come un'anatra.

Ancora nel secolo scorso, ma quel che è peggio ancora oggi, non si riconosce agli altri animali nemmeno la capacità di comunicare: essi emettono versi, in modo ridotto, meccanico, istintivo, per richiamare i piccoli, al massimo, o per esprimere paura. Quando raccontiamo le loro gesta facciamo riferimento all'istinto, non gli riconosciamo intelligenza o azione intenzionale. Solo istinto.
Tutto questo è lo specismo: l'ignoranza sugli altri animali, l'esaltazione della nostra specie in opposizione alla loro denigrazione, e la diversa considerazione morale che ne derivano, anzi, l'esclusione proprio della loro esistenza dalla morale poiché sono oggetti, o al massimo esseri inferiori da tutelare giusto un po', giusto per mostrarci magnanimi (ancora una volta esaltando noi stessi).

Dobbiamo combattere questo. Lo specismo.
Come? Raccontando la verità sulle altre specie, su questi individui, chi sono, cosa fanno, come vivono.

L'antispecismo deve partire da qui, dal riconoscimento della loro capacità di avere esperienza del mondo - questo significa essere senzienti - per arrivare a una considerazione morale paritaria alla nostra.

martedì 17 dicembre 2019

Diciassette dicembre


Cari mamma e papà, il mio primo compleanno senza di voi. Senza l'immancabile telefonata mattutina in cui mi cantavate gli auguri e mi chiedevate come avrei festeggiato.
Per tanti anni l'ho festeggiato anche con voi, quanti bei compleanni, poi, crescendo, questa abitudine si è andata un po' a perdere, ma non ve la prendevate perché per voi l'importante era che stessi bene io.
In questa giornata mi avete spesso raccontato la mia nascita, un po' turbolenta e difficile perché sono venuta al mondo con due mesi di anticipo e quindi è stato necessario ricoverarmi in ospedale, in un altro ospedale, più attrezzato, quello di Viterbo, per mettermi in incubatrice.
Non ascolterò più dalle vostre labbra i particolari minuziosi di come mi avevano sistemata in una scatola delle scarpe avvolta nell'ovatta e con una borsa dell'acqua calda su un lato per tenermi calda e poi trasportata con la macchina di un amico perché l'ambulanza, per le stradine tortuose che portano da Acquapendente a Viterbo, ci avrebbe messo troppo. E poi c'era la neve... la neve, la neve, un particolare significativo, e forse, se non ricordo male, l'ambulanza sarebbe dovuta arrivare da Viterbo e poi tornare indietro, un lasso di tempo troppo lungo per una bambina che pesava solo un chilo e due. La tua coscia grande quanto il mio dito mignolo, dicevi, papà.

Le acque che si son rotte senza alcun preavviso e il panico che fosse davvero troppo, troppo presto, la corsa in ospedale, un battesimo veloce, "la bambina potrebbe morire", aveva detto l'ostetrica. Le strade già bianche, ma in qualche modo a Viterbo ci sei arrivata, mi raccontavate, e ci sei stata due mesi e mezzo, prendendo il latte che mamma si tirava via col tiralatte e poi faceva recapitare in ospedale o ti portava direttamente. Per due mesi ti ho guardata attraverso un vetro. Questa cosa me la dicevi sempre, mamma. Ti guardavo e piangevo, giù le lacrime sulle guance, la paura che morissi, il dolore di non poterti tenere, abbracciare, portare a casa, ma il pediatra mi diceva di non disperare perché eri forte e combattiva. La mattina di Natale ti ho trovata con un fiocco rosso in testa, appiccicato con del sapone sulla testolina senza capelli. Te l'aveva messo un'infermiera e ti mostrò a me attraverso il vetro, dicendomi "la vede quant'è bella?" per tirarmi un po' su.

Sono queste le cose che mi raccontavate, più o meno queste, variando ogni volta qualche particolare, quello sull'orario di nascita, ad esempio, che non mi avete mai saputo dire con precisione. Quello che non variava mai era l'amore che traspariva dalle vostre parole quando ricordavate tutto ciò.

Questo amore oggi mi manca, mi manca moltissimo. Ma in qualche modo sono arrivata fin qui, proprio come quel diciassette dicembre di cinquantuno anni fa arrivai a Viterbo e come ce la feci allora, passando anche attraverso una malattia infettiva che mi indebolì ulteriormente, ce la farò stavolta.
Ah, e la neve mi piace sempre tanto. A volte la sogno e quando la mattina mi sveglio so che quella sarà una giornata fortunata.

Foto presa dal web.

domenica 15 dicembre 2019

Voci nella notte

L'altra notte, nella fase di dormiveglia, ho sentito distintamente nelle orecchie la voce di mio padre, mi diceva qualcosa che non ho fatto in tempo ad afferrare, e poi è svanita.
Un colpo sordo al cuore, la sensazione di precipitare come in un abisso, rammentandomi che non l'avrei mai più sentita, né la sua, né quella di mamma, mi hanno fatto ripensare a questo racconto di Buzzati.

Il registratore

"Le aveva detto (a bassissima voce) l'aveva supplicata sta zitta ti prego, il registratore sta registrando dalla radio non far rumore lo sai che ci tengo, sta registrando Re Arturo di Purcell, bellissimo, puro. Ma lei dispettosa menefreghista carogna su e giù con i tacchi secchi per il solo gusto di farlo imbestialire e poi si schiariva la voce e poi tossiva (apposta) e poi ridacchiava da sola e accendeva il fiammifero in modo da ottenere il massimo rumore e poi ancora a passi risentiti su e giù proterva, e intanto Purcell Mozart Bach Palestrina i puri e divini cantavano inutilmente, lei miserabile pulce pidocchio angustia della vita, così non era possibile durare.
E adesso, dopo tanto tempo, egli fa andare il vecchio tormentato nastro, torna il maestro, il sommo, torna Purcell Mozart Bach Palestrina.
Lei non c'è più, se ne è andata, lo ha lasciato, ha preferito lasciarlo, lui non sa neppure vagamente dove sia andata a finire.
Ecco Purcell Mozart Bach Palestrina suonano suonano stupidissimi maledetti nauseabondi.
Quel ticchettìo su e giù, quei tacchi, quelle risatine (la seconda specialmente), quel raschio in gola, la tosse. Questa sì, musica divina.
Lui ascolta. Sotto la luce della lampada, seduto, ascolta. Pietrificato sulla vecchia sfondata poltrona, egli ascolta. Senza muovere menomamente alcuna delle sue membra, siede ascoltando: quei rumori, quei versi, quella tosse, quei suoni adorati, supremi. Che non esistono più, non esisteranno mai più."

sabato 14 dicembre 2019

L'importanza della lingua e del linguaggio


Un estratto dall'Appendice che spiega come funziona la Neolingua in 1984 di Orwell.
Forse la parte più terrificante ed esplicativa del libro. Tutti dovrebbero leggerla (l'intera Appendice, non mi riferisco solo a questa pagina introduttiva) perché evidenzia la stretta correlazione tra pensiero e linguaggio.
Un vero e proprio trattato di filosofia del linguaggio.

Ho capito anche perché non mi è mai piaciuto usare gli asterischi: perché restringono le possibilità di una lingua, eliminano le differenze.
Tutte le lingue dei regimi totalitari fanno questa cosa qua: usano acronimi,  abbreviazioni, aboliscono parole, abituano le persone a esprimersi e comunicare in un certo modo per indurle a pensare in un certo modo.
A volte leggo dei comunicati che sembrano scritti con lo stampino, stessi termini, sintassi monotona, piatta. Comunicati ideologici che con il tempo abituano a usare in modo automatico e rigido certe espressioni.
Questo impoverisce il pensiero, l'immaginazione, la libertà di ragionare con la propria testa.
Non fatelo: pensate prima di scrivere e di parlare, non usate slogan, non affidate le vostre idee a un gergo solo perché qualcuno vi ha detto che è politicamente corretto. Trovate una vostra voce, sforzatevi di non tirare fuori la prima parola che vi viene in mente, ma cercate un sinonimo, affidatevi alla creatività.
Vale per ogni tematica che state affrontando, l'antispecismo, ma anche la comunicazione di tutti i giorni; a maggior ragione nella scrittura creativa, non usate metafore stantie, soffermatevi sulla scelta di un termine, anche una giornata intera, se necessario. Che le vostre scelte siano le più vicine possibile al vostro sentire interiore e che il sentire interiore non sia un'immagine che si è creata nella vostra mente in modo automatico perché anche quello potrebbe essere il risultato di una povertà di pensiero dovuto alla povertà di linguaggio, specialmente oggi, nell'epoca dei social e quando si legge poco.
Rifiutate i luoghi comuni, le frasi fatte, le abbreviazioni, gli acronimi, i modi di dire.
Che il vostro parlare e scrivere sia la vostra voce e non quella di un movimento o di un partito o di un'ideologia.
Non c'è nulla di più brutto di un parlare ideologico.

P.S.: leggete leggete leggete la buona letteratura, i classici, soprattutto e i grandi autori moderni, novecenteschi. Chi legge tanto assimila nuovi termini, velocizza il pensiero, mette in moto le idee, l'immaginazione, stimola la creatività.
Ah, se non l'avete ancora fatto, leggete, ovviamente, 1984.

giovedì 12 dicembre 2019

Ancora sulla teriofobia

Uno dei tasselli che tengono insieme quell'insieme di pratiche e narrazioni culturali che definiamo specismo è la teriofobia, che significa, letteralmente, paura degli animali, degli altri animali, certamente, ma anche degli animali che siamo stati, dell'animalità che ci portiamo dentro e che nei secoli è stata definita negativa, sbagliata, sporca, degradante in opposizione al concetto di umanità, cui abbiamo riservato invece tutta una serie di caratteristiche positive.


La teriofobia si manifesta ogni qual volta si inventa la pericolosità di alcune specie selvatiche che, per motivi diversi, convivono nei territori urbani. Spesso si strumentalizzano i bambini affermando che queste specie sarebbero pericolose per loro.

Ora c'è il caso di una scuola in cui hanno nidificato degli aironi e quindi si vorrebbero allontanare poiché ritenuti un pericolo. A Roma sono frequenti i casi in cui si sono lamentate aggressioni di gabbiani, o di altri animaletti selvatici. In questo periodo la Raggi ha emesso un'ordinanza che dice che si possono abbattere i cinghiali che si avvicinano ai centri urbani. In Trentino Alto Adige si abbattono gli orsi. Addirittura, nella mia esperienza da gattara, non vi sto a raccontare quante volte mi son sentita dire che i gatti sporchino o siano un pericolo. Per non parlare dei gesti scaramantici che fanno certuni quando avvistano un gatto nero, e non parlo di vecchietti o persone ignoranti, ma anche di giovani laureati.


Il comune denominatore di tutto ciò è sempre la teriofobia, ossia la paura degli altri animali quando non si possono controllare, quando sono liberi, quando non sono tenuti in schiavitù dentro gabbie e recinti. L'animalità va bene solo se ingabbiata - la nostra compresa - controllata a vista, meglio ancora se produttiva. Un animale libero, se non produce, se non è funzionale a una qualche forma di profitto, è solo un nemico da abbattere.

Non va bene che i gabbiani volino sopra i cieli di Roma, non va bene che gli squali nuotino nei mari, non va bene che gli orsi vaghino nei boschi. Gli animali fanno schifo, sono sporchi, pericolosi.
Ma i mattatoi e gli allevamenti sono il segno della nostra civiltà, pardon umanità.


Di teriofobia avevo parlato anche qui e qui.

sabato 7 dicembre 2019

"Sei bellissima!"

Apprezzo le buone intenzioni di alcuni uomini nel voler combattere i mortificanti canoni di bellezza imposti da una cultura misogina e maschilista, ma quello che davvero bisogna combattere non è il canone in sé, ma il concetto di bellezza associato alle donne.

Si leggono spesso frasi come: tutte le donne sono belle, la bellezza di una donna ecc. (e purtroppo spesso abbinate a immagini stereotipate di donne con bambini in braccio, a riconfermare il binomio donna=madre) ed è proprio questo che implicitamente e profondamente riconferma la natura discriminatoria della donna oggetto ornamentale agli occhi del maschio di turno.

Perché non si dice mai, un uomo è bello anche se ha un po' di pancetta, la bellezza degli uomini, belli anche con dei kg in più ecc.? Perché il concetto di bellezza non è mai assimilato agli uomini: non gli è mai stato chiesto di essere belli esteticamente, ma semmai di successo, prestanti ecc.
Non ho mai visto riviste maschili che spieghino agli uomini come essere belli.

Ecco, bisogna quindi combattere alla radice questo fatto qui, ossia l'idea malsana che una donna debba comunque essere bella. Siamo persone, non oggetti, non paesaggi da ammirare, non soprammobili.

Bellezza e donna è il binomio da abbattere.

P.S.: e anche noi donne dovremmo smetterla di farci complimenti sempre incentrati sulla bellezza. Gli uomini mica si dicono: "sei bellissimo!".


giovedì 28 novembre 2019

Usare il corpo in modo simbolico

Una riflessione che prende spunto da uno scambio di idee sotto a un post di un mio contatto su Facebook: l'oggetto del contenzioso è l'immagine di una donna che si para a seno nudo davanti a un plotone militare. 

Donne che si denudano per proteste di natura politica non sono certo una novità, penso che tutti conosciamo le Femen, ad esempio e anche in ambito animalista abbiamo spesso assistito a proteste contro le pellicce o altre forme di sfruttamento degli animali messe in atto da donne nude. 

Il corpo nudo non è certo qualcosa di cui vergognarsi, anzi, considero per esempio una forma di discriminazione sessista non poter andare a correre al parco a torso nudo quando fuori ci sono 35 gradi, esattamente come fanno molti uomini. Il torso nudo di un uomo dentro palestre o al parco non è un problema, ma se si presentasse una donna senza maglietta e reggiseno verrebbe arrestata o comunque tutti la guarderebbero e i commenti sessisti si sprecherebbero.
Ecco, ho detto la parolina, il problema è appunto il sessismo, non il nudo in sé.
Purtroppo viviamo in una società di stampo maschilista/patriarcale che sessualizza il corpo - o meglio, alcune parti del corpo - delle donne e che le mercifica, simbolicamente e materialmente. Dobbiamo assolutamente combattere tutto ciò e sarei per esempio favorevole a una protesta in cui ogni donna scendesse in piazza a seno nudo per protestare direttamente contro la sessualizzazione del seno (un po' come è avvenuto quando si è deciso di indossare magliette senza reggiseno in solidarietà a Carole Rackete); ma il discorso cambia quando si pretende di usare il seno nudo come provocazione per attirare l'attenzione su un'altra tematica (lo sfruttamento degli animali, la guerra, la religione ecc.) perché in quel caso si ribadisce un concetto: ossia, che noi donne per farci ascoltare non abbiamo altri mezzi che usare il nostro corpo, rinunciando in partenza a usare parole, linguaggio, discorsi non incentrati sul corpo. 
In una società ancora sessista, dove il seno, le natiche, la nudità femminile in generale è sessualizzata, bisogna prestare molta attenzione al modo in cui si sceglie di comunicare perché si rischia altrimenti di ottenere la solita sfilza di commenti sessisti, dimostrando che anziché un cervello, abbiamo solo gambe e tette per attirare l'attenzione.

Pensate a questa situazione: alcune donne si trovano in una stanza insieme ad alcuni uomini e si sta discutendo di una questione molto importante. Gli uomini alzano la mano per comunicare che hanno un intervento da fare e quando arriva il loro turno, semplicemente, parlano; le donne alzano la mano allo stesso modo, ma nessuno le lascia parlare e se ci provano vengono interrotte e zittite perché in una società maschilista è questo che avviene: le donne hanno meno peso politico, si è ancora convinti (cioè, gran parte della società ne è convinta!) che il loro ruolo debba essere solo quello di procreare, dedicarsi alla cura della famiglia e di allietare sessualmente gli uomini. Ora, anziché trovare un modo nuovo per farsi ascoltare e protestare contro questo fatto di risultare invisibili o di essere messe a tacere - cioè contro la loro oppressione - alcune pensano bene di spogliarsi, convinte così di riuscire ad attirare finalmente l'attenzione, convinte che quello sia l'unico modo per attirare l'attenzione. E l'attenzione la ottengono, ma su cosa la ottengono? Sul loro corpo sessualizzato e non su quello che hanno da dire. 
Un autogol pazzesco, a mio parere.

Il concetto dell'autodeterminazione, affermazione e riappropriazione del corpo femminile è importantissimo, ma va saputo condurre con molta attenzione perché giocare con i simboli culturali di una società (e il seno nudo in una società sessista è merce agli occhi del maschio) è sempre molto pericoloso in quanto, se gli individui singoli cambiano relativamente in fretta, non è così per la cultura e sottocultura nel complesso poiché rimangono radicate nel profondo e permangono tra gli interstizi delle società. 
Individui evoluti che usano simboli in un contesto composto per la maggioranza da individui che ancora interpretano quei simboli alla vecchia maniera rischiano di rafforzare quei simboli, anziché rinnovarli o abbatterli.

domenica 24 novembre 2019

La bicicletta

Caro papà, oggi è un mese che sei morto. Continuano a venirmi in mente tanti episodi, ricordi, la forma della tua assenza si ricompone a poco a poco di frammenti. Parole, frame di giornate.
Ricordo quella volta che mi insegnasti ad andare in bici senza rotelle. Eravamo al mare, al Lido di Giannella, sull'Argentario, lungo la stradina che tagliava in due la pineta dentro al resort. Ricordo l'odore della resina e gli aghi di pino sotto alle suole, la luce che taglia gli alberi in quella particolare ora del tardo pomeriggio. Sarà per questo che ancora amo tanto le pinete, quelle sul mare, e poi il crepuscolo, il momento della giornata che preferisco. Lo associo a quelle giornate d'estate, quando tutto era una scoperta e una meraviglia e i dolori e le delusioni si dimenticavano in fretta.
Ricordo la consistenza e il colore del sellino di cuoio, e poi della bici, rossa, il mio colore preferito, quale altro, sennò? Tutto rosso mi regalavate, bici, vestiti, cartella per la scuola, o al massimo blu, che comunque col rosso ci stava sempre bene.
Ricordo l'apprensione di mamma - Lucio, attento che la figlia non cada, che non si faccia male, mi raccomando. Quell'apprensione e ansia che, devo dirvelo, un po' mi è rimasta. Paura di fare le cose, ma poi le faccio, e quindi anche coraggio perché il coraggio non ci sarebbe se non ci fosse anche un po' la paura. A volte sono troppo frenata, lo so, dovrei buttarmi di più, come quella volta che mi tuffai nell'acqua dove non si toccava, ma quella è un'altra storia e lì tu non c'eri e nemmeno mamma.
Quella volta con la bici, però, c'eravate tutti e due, a fare il tifo per me. - Vai, sali su, forza, mi dicesti, inizia a pedalare, che ti tengo io. Mi sistemai sul sellino, sicura della tua presa dietro di me, e lentamente iniziai a muovere i piedi sui pedali. Sentivo il brecciolino scricchiolare sotto le ruote, provai i freni, rimisi un attimo giù i piedi, come a saggiare la possibilità di potermi fermare e scendere, e poi ripresi a pedalare, sempre con te che mi reggevi. Piano piano presi un po' di velocità e sicurezza, sempre di più, fino a che a un tratto mi lanciasti e mi dicesti - Vai, ora vai, non ti fermare, continua a pedalare. E io andai e andai, e a malapena ebbi il tempo di rendermi conto che le tue mani si erano sganciate dal sellino e stavo pedalando da sola. Sulla bici senza le rotelle. Come quelle dei bambini più grandi. Da sola. Pedalavo, pedalavo e a un tratto volavo perché ero così felice e tu, voi, così fieri di me che la felicità si raddoppiava.
E ora continuo a sentire quella voce, la tua voce, che mi dice - Vai, vai, non ti fermare, continua a pedalare. E anche se mi volto e tu non ci sei, e manca il sostegno della tua mano, l'incoraggiamento e lo sguardo fiero nei vostri occhi, io continuo a pedalare. Senza rotelle. Come i grandi.

venerdì 22 novembre 2019

Una testimonianza


Oggi riporto la testimonianza di un ragazzo che ho conosciuto su Facebook e che, a poco a poco, vedendo quello che pubblicavo sugli animali, ha deciso di approfondire l'argomento e infine di diventare vegano, coinvolgendo anche suo fratello. 
È bello sapere che non si scrive invano, che quando si posta o condivide un video, un pensiero, una riflessione, qualcosa là fuori, arrivi. 

*** 

Sono vegano da tre mesi. Ho iniziato a non nutrirmi più di animali e dei loro derivati nei primi giorni di agosto. A dire il vero, abbiamo iniziato. Perché si è aggiunto anche mio fratello.
La nostra famiglia e le persone che ci conoscono sono rimaste un po' interdette quando l'hanno saputo. Alcuni ritengono che sia una moda passeggera, una specie di blackout dal quale usciremo grazie all'appetito; altri invece sostengono che abbiamo deciso di passare al veganismo per adattarci ad un regime alimentare sano e in grado di farci stare bene fisicamente. Ovviamente non è così.

Prima di diventare vegani abbiamo preso coscienza di quello che succede agli animali non umani, esseri senzienti dotati di intelligenza, emozioni, sentimenti e caratteristiche fisiche atte alla loro sopravvivenza. Abbiamo avuto la possibilità di vedere coi nostri occhi gli orrori perpetrati nei mattatoi. Abbiamo visto il filmato di un vitellino che cammina in una specie di corridoio stretto - in modo che non possa voltarsi per tornare indietro - e viene spinto verso il suo carnefice con le scariche elettriche di un pungolo. Il cucciolo cerca disperatamente di voltarsi perché sa a cosa sta andando incontro. Pochi secondi prima è toccato ad un suo simile. Sapete già come va a finire.

Abbiamo visto il filmato di una mucca che insegue il suo piccolo, chiuso in una gabbia e potato via su un furgone. La mamma non si arrende e lo segue. Istinto materno. È la prima cosa che ci siamo detti una volta terminata la visione. Abbiamo saputo dei pulcini maschi tritati vivi in quanto inutili al consumo degli umani.
Un altro filmato mostra un maiale che attacca il macellaio che sta per sgozzare quello che potrebbe essere il suo fratellino. I versi disperati del poverino non mi hanno fatto chiudere occhio per tutta la notte. Il modo in cui ha fermato l'aguzzino ed è subito corso dall'amico mi ha aiutato a capire che cos'è il veganismo o, come ormai lo chiamano in molti, l'antispecismo.

È una presa di coscienza. È la consapevolezza di godere di una condizione di privilegi in quanto individui dotati di raziocinio e di cultura. Ed è proprio in base alla cultura che l'essere umano si è - per così dire - affrancato dalla natura, impadronendosi però delle altre specie senza che gli appartengano. Così sono nati i costrutti socioculturali, religiosi e non, che vedono alcuni animali meritevoli di affetto, cure, premure e, come possiamo notare oggigiorno, soggetti a leggi atte a tutelarli, e altri animali chiusi in gabbia per essere esibiti allo zoo opporre in uno spettacolo circense, uccisi per essere trasformati in prodotti, mangiati per soddisfare il palato o usati come vestiti per alimentare la moda capitalista e consumistica.

Sì, il fatto di essere contro la violenza contro cani e gatti non significa che amiamo gli animali, specialmente se poi rompiamo le palle per andare all'acquario o comprare la borsa realizzata con la pelle di coccodrillo. Perché il maiale, la mucca, la gallina, la pecora e la capra, il polpo e il salmone sono senzienti quanto loro. Recenti studi scientifici hanno confermato che il maiale possiede un livello di intelligenza superiore a quello di un cane. Eppure al cane lasciamo la possibilità di sviluppare i propri sensi, mentre ad un maiale chiuso in un allevamento intensivo neghiamo persino gli stimoli più elementari costringendolo a vivere una breve esistenza in luoghi angusti, tra i suoi escrementi e perennemente al buio. Forse l'unico raggio di luce lo riceve quando è diretto al macello.

L'uomo ha creato l'oppressione delle altre specie per soddisfare la propria megalomania. E per quanto si prodighi affinché un governo approvi una legge contro la violenza sugli animali, nel momento in cui appoggia il fatto che ad un vitellino venga tolta la mamma affinché non riceva il latte - che per natura è destinato soltanto a lui, non a noi, che così facendo sembriamo gli eterni poppanti - o che altri animali vengano considerati indegni della vita e della libertà, è da ritenersi specista. Nessuno di noi è esente da un passato specista. Ma ognuno di noi può diventare antispecista per riscattarlo, quel passato, e vivere in un futuro migliore, in cui gli animali saranno liberi di crescere i loro figli e di vivere la loro vita senza essere considerati prodotti di consumo per gli esseri umani.

(Vincenzo Postiglione)

domenica 17 novembre 2019

Luoghi di memoria

Ex mattatoio di Roma, Testaccio.

Un giorno, 
speriamo non troppo lontano,
 tutti i mattatoi saranno i nostri luoghi di triste memoria, 
al pari di Auschwitz.

L'ex mattatoio di Testaccio, come tutti i romani sanno, ma non solo, oggi è diventato luogo di aggregazione culturale. Al suo interno ci sono vari locali a disposizione per iniziative di vario tipo, c'è un museo di arte contemporanea, un supermercato, un bar, ci sono molti spazi esterni per allestire festival, mercatini ecc.

Il luogo è frequentato da tante persone che ogni giorno percorrono quelle stradine interne, che entrano o danno un'occhiata in alcuni dei locali in cui ancora si può vedere molta dell'attrezzatura originaria (carrucole, ganci che pendono dal soffitto, vasche per liquami e dove veniva scolato e raccolto il sangue, stalle di sosta, abbeveratoi), ma non mi pare che sia un luogo di memoria di quel che è stato una volta, se non in modo molto superficiale. E del resto è anche vero che di luoghi di memoria del passato si può parlare solo quando quel passato non esiste più, mentre invece di mattatoi in funzione è pieno il mondo e anche nella stessa Roma c'è quello sulla Palmiro Togliatti.

Mi domando: quante di queste persone, nel loro viavai, prese dall'evento del momento, alzando gli occhi e vedendo quelle carrucole e ganci arrugginiti, probabilmente ancora intrisi del sangue dei poveri animali, saranno in grado di riflettere sull'orrore, la violenza, la paura, l'angoscia che ha pervaso quel luogo? Quanti sentiranno le grida degli animali risuonare ancora attraverso le pareti?

  
 




giovedì 14 novembre 2019

Amabili Resti

Ieri sono andata a ritirare le ceneri di mio padre. Me le hanno consegnate dentro un'urna, un barattolino nero con una targhetta appiccicata su un lato recante nome, data di nascita e morte di papà. Poi mi hanno consegnato una sacchetta di velluto per infilarci il tutto.
Con questo sacchettino mi sono incamminata verso la macchina, parcheggiata poco distante dagli uffici amministrativi del cimitero, sotto la pioggia, ombrello in una mano, urna con le ceneri nell'altra.
Descritta così sembra il racconto di una situazione surreale. E lo è stata, infatti.
Ciò che mi ha turbata e distrutta psicologicamente è l'aspetto della dissociazione cognitiva che in quel momento mi si è spalancata davanti come un abisso: faccio fatica a ricondurre la persona viva che è stata mio padre - la sua camminata, per esempio, la sua voce, il suo sguardo - al mucchietto di resti che tengo sotto al braccio e che appoggio sul sedile della macchina, quasi fosse una borsa, un pacchetto, un oggetto.
Amabili resti, dice Alice Sebold in un suo bellissimo romanzo. Ma pur sempre resti.

Mio padre era un individuo, con i suoi pensieri, una sua esistenza, ha vissuto e mi ha messa al mondo e mi ha trasmesso delle cose. Ora è un mucchietto di cenere raccolto dentro un'urna. La persona che fine ha fatto? Faccio fatica a collegare le due cose: l'immagine che ho nella mia memoria, il ricordo di lui e quello che ora sta dentro un'urnetta.

Una dissociazione cognitiva in piena regola. Ho riflettuto un po' su questo. E per associazione non ho potuto non pensare al tipo di dissociazione cognitiva che riguarda il modo che le persone hanno di pensare agli altri animali; o meglio, che si sperimenta nel momento in cui i loro resti, trasformati in prodotti, appaiono davanti ai loro occhi sotto forma di prodotti alimentari o di cibo cucinato.

In questo caso si verifica esattamente il contrario: si conoscono bene i resti, non si fa fatica ad accettarne la realtà, ma si fa fatica a ricollegarli all'individuo vivo cui sono appartenuti. Perché non lo si è mai incontrato, mai conosciuto e perché c'è anche tantissima ignoranza sugli altri animali. Non sappiamo chi sono perché non li vediamo mai e se li vediamo sappiamo relazionarci a loro nella sola maniera che ci hanno insegnato, attraverso una relazione di dominio.

Anche quel pezzo di mortadella sul banco frigo potrebbe essere visto come un amabile resto, anziché come un prodotto da consumare e digerire. Ma per farlo serve di riconoscere l'individuo a cui è appartenuto e averlo saputo, se non proprio amare, almeno considerare nel suo valore intrinseco.

È tutta una questione di sguardi, di prospettive, di pensieri e di incontri, ossia di esperienze. Quelle esperienze che agli animali sono negate di default, quegli sguardi e incontri che ci sono preclusi.
Consumare i corpi degli animali impoverisce anche la nostra realtà e percezione che abbiamo del mondo.

Mio padre non è solo quei resti perché nella mia memoria continua a persistere quale la persona che è stata, esperienza straniante a parte della dissociazione momentanea che ho provato; ma anche gli altri animali non sono solo quel cibo che comprate al supermercato, anche se nella mente avete pochi riferimenti da richiamare alla memoria.

L'antispecismo, scrivevo l'altro ieri in un post su Facebook, è il punto di vista degli invisibili, ma è anche, soprattutto, la ricomposizione di una frattura, il riempimento di un abisso, quello che ci si spalanca davanti nel momento in cui neghiamo il corpo, la vita, le esperienze degli altri animali.

lunedì 11 novembre 2019

Eden (ma paradiso per chi?)


Eden è tratto da una storia vera e racconta la storia di una ragazza americo-coreana che viene rapita in Nuovo Messico e deportata in Nevada per essere usata, insieme a tante altre, anche bambine, come oggetto sessuale: ossia viene prostituita.

Il film racconta dell'Organizzazione di cui è vittima, un'associazione a delinquere in cui lo sfruttamento delle ragazze prostituite affianca anche il traffico di droga e la vendita di neonati (le ragazze rimaste incinte vengono fatte partorire e poi gli vengono sottratti i bambini). Le ragazze, dopo qualche anno, sfiancate dallo sfruttamento e ormai troppo grandi per continuare a esercitare - perché i clienti vogliono sempre carne fresca e giovane - vengono poi fatte sparire, cioè uccise. Il tutto con l'aiuto di uno sceriffo compiacente e corrotto e di vari attori in gioco che si impegnano a far filare tutto liscio e a controllare il territorio.
Eden capisce che l'unico modo che ha per sopravvivere è allearsi con i suoi rapitori e schiavisti e dopo due anni di prigionia riesce a fuggire.

Ve lo consiglio perché il film offre una panoramica molto realistica dell'industria del sesso in Nevada, ma non solo. Ovviamente le ragazze, recluse dentro capannoni e accompagnate dai clienti di volta in volta, sono continuamente vessate e minacciate: minacciate di essere uccise se solo provano a raccontare ai clienti di non essere consenzienti o si mostrano sgarbate; gli vien detto che la loro famiglia verrà uccisa se solo provano a ribellarsi; drogate, picchiate, sottomesse nello spirito e nel corpo, alcune ancora bambine, comunque tutte minorenni.

L'analogia con gli allevamenti degli animali è sempre presente. Queste ragazze non sono più individui, ma oggetti per ottenere profitti. 

Si trova su Amazon Prime, ma essendo del 2012 penso sia facile reperirlo anche altrove. Aggiungo che il film non ha scene sessualmente esplicite, ma riesce benissimo a raccontare l'orrore e la disperazione che queste ragazze vivono.

mercoledì 6 novembre 2019

Se niente importa


Giorni fa io e mio marito siamo stati vittime di una truffa telefonica, per fortuna ce ne siamo resi conto praticamente quasi subito e siamo andati a sporgere denuncia.
Abbiamo quindi appreso che si tratta di truffe molto frequenti: praticamente ti chiamano spacciandosi per il tuo operatore (a me hanno detto proprio che era l'amministrazione della Telecom), ti dicono che a partire dal prossimo mese ci sarà un aumento di 15 euro o di un tot per cento sulla bolletta e quindi ti fanno una serie di domande trabocchetto a cui tu, ingenuamente, rispondi sì o no oppure "ho capito", "ne prendo atto"; in questo modo, tagliando vari pezzi della conversazione, ti fanno un nuovo contratto telefonico. Chiamando la Tim per avere conferma del tutto, ci è stato risposto che si era trattato appunto di una truffa perché loro (Tim) non fanno mai contratti o comunicazioni relative a eventuali aumenti tramite procedure telefoniche e ci hanno suggerito di correre subito a denunciare il tutto.
Al solito, parto da un aneddoto personale per arrivare a un ragionamento più ampio e che spero sia interessante per tutti voi.

Come sappiamo viviamo in una società e in un paese difficili: contratti precari, disoccupazione, sfruttamento, mancanza di obiettivi a lungo termine, ignoranza collettiva ecc.; tutto ciò favorisce imprenditori, piccoli, medi o grandi, ad approfittarsi delle persone in difficoltà. Lavorare nei call center è logorante e alienante e sicuramente coloro che accettano lo fanno poiché spinti da necessità. Ma rendersi complici di truffe solo per guadagnare pochi spicci - quanto danno per ogni contratto portato a termine? Trenta euro? - è comunque un atteggiamento infame e sbagliato. Non si può giustificare il truffatore (che poi spesso truffa persone anziane e sole che nemmeno si rendono conto di essere state truffate, salvo poi trovarsi addebiti onerosi sulla pensione) con la scusa che non si trova lavoro, che sono tempi difficili, che bisogna pur guadagnare. Perché, di nuovo ri-cito Safran Foer (o meglio, sua nonna), "se niente importa", allora veramente mangiamoci tra di noi e facciamo prima.

Tutto questo per arrivare anche al discorso dei macellai o di chi svolge altri lavori che comportano violenza su altri esseri viventi. Se niente importa, se c'è necessità di lavorare, se la società fa schifo, veramente siamo autorizzati a fare di tutto?

Ora, so bene che una truffa è una truffa, ossia riconosciuta dal nostro ordinamento giuridico, mentre macellare e sfruttare animali è considerata una pratica normale dalla maggioranza delle persone, ma il nostro compito di antispecisti non dovrebbe essere proprio quello di mettere in discussione questa normalità e di prendere posizione ponendoci dalla parte delle vittime?
Io non dico che dobbiamo fare una guerra contro i macellai (o cacciatori, vivisettori, allevatori), ma nemmeno essere compiacenti e comprensivi perché, poverini, hanno bisogno di lavorare.
Potreste pensare che io parli da una posizione privilegiata, innanzitutto di bianca occidentale, poi di donna (e in quanto donna comunque vittima della cultura patriarcale) di origini borghesi che nella vita ha avuto molto, innanzitutto la possibilità di studiare, pensare, riflettere; sì, è vero, ma anche Marx quanto teorizzò il Capitale partiva da una posizione privilegiata, e così Che Guevara o i pensatori anarchici, questo per dirvi che non è perché parto da una posizione privilegiata non ho occhi per vedere le ingiustizie e non abbia il diritto di ribellarmi ad esse e di chiamare assassini o truffatori chi si approfitta di chi sta ancora più sotto di lui nella scala gerarchica sociale, verticale o orizzontale che sia.
Io sono privilegiata, ma ho lo stesso il diritto di dire che il macellaio fa un lavoro ignobile, violento, che uccide e che, dalla posizione in cui si trova dentro il luogo di lavoro, anch'egli è un privilegiato nei confronti dell'animale cui sta per tagliare la gola perché, in fin dei conti, lui alla fine torna a casa, mentre il maiale viene fatto a pezzi da un suo collega e una casa, cioè una famiglia, un habitat consono, non ce l'ha mai avuto perché altri, gli allevatori, lo hanno fatto nascere recluso e già prodotto da consumarsi di lì a pochi mesi.
Tutti siamo vittime rispetto a qualcun altro, tutti occupiamo un certo gradino o una certa posizione della scala sociale che ci pone come aguzzini e vittime allo stesso tempo nei confronti di qualcun altro; l'operaio che uccide gli animali, vittima di un sistema di sperequazioni sociali fortissime e sicuramente sfruttato dal suo capo, oltre a uccidere gli animali, poi magari va a casa e picchia la moglie e questo, questa sua posizione di maschio in una società maschilista e di colui che esercita violenza su un animale indifeso, non lo assolve dalla responsabilità di quel che fa.

Da antispecisti bisogna prendere una posizione chiara e netta contro qualsiasi pratica di sfruttamento degli animali. E questa posizione ci mostra chiaramente, dalla sua prospettiva, che il macellaio non è vittima. Come non sono vittime i dipendenti dei call center che truffano.
Se niente importa, non la morale, non l'etica, allora sdoganiamo tutto, anche l'omicidio, la mafia, il fascismo, il nazismo, lo stupro.

Non è che perché una persona si trova ad occupare una certa posizione sociale allora può essere giustificato o esonerato da assunzioni di responsabilità.

E così come, da femminista, non esito a definire la prostituzione come "stupro a pagamento", anche se è legale (e i clienti stupratori), allo stesso modo, da antispecista, non esito a definire come violenta la pratica di macellare animali e i macellai come assassini (idem cacciatori, vivisettori ecc.).
Questo doppio standard per cui quando si parla degli animali dobbiamo stare attenti a cosa diciamo e dobbiamo essere comprensivi perché la colpa è del sistema ecc. è frutto della specismo.
Lo specismo interiorizzato è fortissimo, anche in molti di noi. Si tratta di uno specismo subdolo perché emerge nei nostri discorsi, narrazioni e sensi di colpa quando osiamo opporci al sistema e ai suoi mandanti violenti. Ci dispiace dire a un macellaio che è assassino perché empatizziamo magari con la sua povertà (e con la sua specie di appartenenza, dato che è la nostra) e bisogno di lavorare, ma è quello che è, anche se la pratica è ancora legale e considerata normale (come la prostituzione, del resto).
Se non la facciamo noi questa cosa di chiamare le cose per come sono, di creare un'altra narrazione che metta al centro il riconoscimento dell'individualità degli altri animali, chi lo farà? Non certo quelli che lottano contro il cambiamento climatico, non certo chi vuole continuare a trarre profitto dallo sfruttamento animale inventandosi l'assurdo concetto di "benessere animale" e nemmeno la sinistra antagonista che ha sempre difeso cacciatori e allevatori solo perché "povera gente".

martedì 5 novembre 2019

American Son


Tratto da una pièce teatrale rappresentata a Broadway, American Son è un bellissimo film diretto da Kenny Leon - e una straordinaria prova attoriale: gli attori sono gli stessi che recitano a teatro - che mette in scena i pregiudizi razziali attraverso un dialogo serrato tra una coppia mista (lei afroamericana, lui irlandese) e il personale di una stazione di polizia della Florida.
Interamente girato in una stanza, con telecamera quasi fissa, a parte qualche fuori campo di pochi secondi, la prima scena ci catapulta subito nel vivo della vicenda, senza alcuna introduzione: sono le prime ore del mattino, la luce di un'alba livida sotto la pioggia filtra dai vetri dando l'impressione di trovarsi dentro un acquario o in un dipinto di Hopper: prevalgono la rabbia, l'incomunicabilità della propria condizione, diversa a rispetto a quella di qualsiasi uomo bianco e la solitudine interiore data dalla difficoltà di essere ascoltata e creduta in merito alla certezza che qualcosa di grave sia successo al proprio figlio - solitudine interiore che scaturisce quindi da quella sociale. L'arrivo in questura del marito bianco porta la tensione dello scontro razziale a un altro livello, più interpersonale e psicologico, attraverso uno scambio acceso di battute tra i due coniugi, che ormai però sono separati, non vivono più insieme.
Il tema principale è il razzismo, ma anche il sessismo, l'adolescenza, l'identità, il sogno americano. La donna è una psicologa che insegna all'università, eppure il tenente, che pure è nero, le dice che in un mondo fatto di regole stabilite dai bianchi bisogna stare zitti e al proprio posto, e sarcasticamente le dà della ribelle. Se sei donna, e per di più nera, non bisogna alzare la voce o perseguire il sogno americano, bisogna solo eseguire gli ordini.
Di classe sociale superiore, la donna è vista dal tenente come colei che ha osato proprio raggiungere quel sogno e viverlo. Sogno di vivere da donna libera e che ha trasmesso a sua volta a suo figlio, un adolescente che dopo l'abbandono del padre diventa ribelle e cerca una sua identità mettendo in discussione il sistema entro cui è cresciuto; gli hanno insegnato a far rispettare propri diritti, a non parlare nello slang da strada, a camminare e vestirsi come si vestono i bianchi per garantirgli l'accesso al sogno americano che va in frantumi dopo l'abbandono del padre.
Ci sono tanti temi che si incontrano, scontrano e intersecano in questo dramma sociale, politico, ma anche psicologico, denso di sfumature.

Forse l'aspetto maggiormente complesso è proprio questa ambivalenza tra l'orgoglio della propria identità e il persistente sentimento di una condizione di diversità che, per quanti sforzi si facciano, nell'America odierna ancora è causa di un diverso trattamento morale. Il razzismo esiste ed è più forte che mai, anche per coloro che pensano di avercela fatta a vivere il sogno americano.

Lo trovate su Netflix.

lunedì 4 novembre 2019

Etica al ribasso

Campionario di etica al ribasso:
- non sono vegana, quindi tanto vale che porti i bambini allo zoo;
- quando cammino calpesto un sacco di insetti, quindi tanto vale che mangi anche la porchetta;
- eh, ma oggi qualsiasi cosa tocchi include una qualche forma di sfruttamento, quindi tanto vale comprarmi pure quel giacchetto col collo di pelliccia;
- se usi il pc e il telefono e vai in macchina ecc. ecc.

La logica degli esseri umani: se sbagli, sbaglia di più, almeno sei sicuro di farlo bene.

P.S.: se non ricordo male, ho scritto pure qualche altro post sull'etica al ribasso. 

mercoledì 30 ottobre 2019

Basi

A volte mi piace ripassare le basi: per quale motivo la vita degli altri animali dovrebbe valere meno della nostra? Voglio dire, pregiudizio specista a parte, non ci sono risposte e argomentazioni valide o che non incorrino in evidenti fallacie logiche.
Il pregiudizio specista si evidenzia nel momento in cui le argomentazioni addotte non sono ritenute valide per la nostra specie, ma si ricorre ad esse solo per giustificare il diverso trattamento morale che riserviamo agli altri animali.

Non esiste alcuna caratteristica biologica, né capacità fisica che in sé possa contenere un giudizio di valore assoluto e superiore tale da discriminare chi non la possiede.

lunedì 21 ottobre 2019

I cattivoni dei vegani ci vogliono imporre il loro "credo"

Spesso noi vegani siamo accusati di voler fare proselitismo e di voler imporre la nostra ideologia agli altri.
Quello che si tende a ignorare è che anche mangiare animali e usarli per i più disparati scopi è un'ideologia, altrettanto imposta, culturalmente, sin da quando nasciamo, in modo talmente efficace, subdolo, pervasivo, da non essere più percepita come tale.
Le ideologie più temibili sono infatti quelle invisibili, normalizzate, naturalizzate.
Ora che questa ideologia è sotto attacco da parte dei vegani, si inizia a mettere in campo delle precise strategie di rafforzamento facendo largo uso di una propaganda falsa e fuorviante, ma anche molto efficace perché comunque è sempre più facile consolidare pratiche e abitudini che si sono stratificate nei secoli, dato che per sua natura le società tendono al mantenimento dello status quo. I condizionamenti culturali sono molto difficili da eradicare. Tra le strategie di consolidamento più efficace ci sono: il welfarismo, ossia il concetto che non si debba mettere in discussione lo sfruttamento degli animali, ma solo il metodo; e veganwashing, ossia l'illusione che si stia lavorando per cambiare il sistema, ma in realtà lo si sta solo consolidando nelle vecchie pratiche di sempre.

Sfruttare gli animali è a sua volta il frutto di una precisa ideologia di dominio della nostra specie sulle altre e dello specismo, il quale si regge su una serie di argomentazioni date per ovvie e scontate, quando in realtà presentano tutta una serie di fallacie logiche. Queste argomentazioni spesso si presentano come non necessarie di essere dimostrate poiché ovvie. Del tipo: gli animali si sono sempre mangiati. Noi esseri umani siamo superiori agli animali. La gallina è stupida. Mangiare carne è necessario. Affermazioni apodittiche che per la loro essenza populista non necessitano di essere discusse. I famosi luoghi comuni.

Ovviamente il cervello cerca sempre scorciatoie mentali: è più facile, meno dispendioso e soprattutto rassicurante continuare a credere alle favole che ci hanno sempre raccontato e continuano a raccontarci senza porci mai un perché.

domenica 13 ottobre 2019

Vuoi giocare con me?


Titti gioca a nascondino con me.
Non gliel'ho insegnato io, è lei che mi ha invitata al gioco la prima volta.
Quando mi sente arrivare si nasconde dietro una porta e sporge solo la testolina per farsi notare. Poi io vado lì e lei fugge via, cercando di non farsi prendere, fa alcuni giri nella stanza, dopodiché si infila sotto al divano e aspetta che io guardi sotto e la trovi; quando i nostri occhi si incrociano, fugge di nuovo, si assicura che la stia inseguendo e poi si va a nascondere da qualche altra parte e rifacciamo come sopra. Questo fino a che una di noi due non decide di smettere.

Titti non è speciale (cioè, lo è per me, ma questo perché siamo amici e viviamo insieme), tutti gli animali giocano. E quando intendo gioco non mi riferisco all'insegnamento coatto del riportare la pallina dietro compenso, ma a dimensioni relazionali nate spontaneamente tra umani e non umani. Il gioco non è una cosa da poco, ma presuppone la capacità di comprensione di regole stabilite. È il primo esercizio di socializzazione e di esperienza del mondo tra i cuccioli. E non si smette mai di farlo, anche se da adulti facciamo giochi diversi. Rafforza legami. Tra genitori e figli, tra amici e tra individui umani e non.
Tutti gli animali giocano, non solo noi.

Pensateci quando nella vostra mente, nel linguaggio che usate, nelle azioni e comportamenti stabilite gerarchie di valore tra voi e gli altri animali.

Non si possono schiavizzare, mangiare, uccidere, tenere in gabbia individui che giocano.

venerdì 11 ottobre 2019

Vegan fot the Planet?


Raramente un concetto è stato tanto distorto e divulgato in maniera errata quanto quello del veganismo. Sicuramente i media, nel loro perenne tentativo di spettacolizzare e creare arene televisive anziché fare informazione, hanno contribuito in gran parte a questa confusione, ma anche gli attivisti vegani, animalisti e antispecisti hanno la loro responsabilità. Troppo spesso, infatti, nel parlare di veganismo si tende a scivolare su quelli che comunemente vengono chiamati argomenti indiretti, cioè inerenti alla nostra salute o ai benefici che il veganismo arrecherebbe al Pianeta, dato l’elevato impatto inquinante e di consumo in termini di risorse idriche e devastazione territoriale causato dagli allevamenti, in questo modo però riducendolo a una semplice dieta vegetale da cui è stato del tutto espunto il concetto di antispecismo e di liberazione animale.
Ultimamente molti attivisti che si occupano della questione animale, e/o associazioni che si definiscono animaliste, sono scesi in piazza ad affiancare e supportare le contestazioni contro il cambiamento climatico e gli effetti devastanti sulla Terra derivanti dalle nostre abitudini di vita e dalle politiche dissennate dei governi. L’analisi di questo movimento non è tuttavia oggetto di questa breve riflessione, interessa invece porre l’attenzione sull’alta incidenza di cartelli e striscioni recanti le scritte “Vegan for the Planet”, “Vegan per il Pianeta”, “Vegan per la nostra Terra”, “Gli allevamenti inquinano” che vengono portati in questi eventi di piazza; immagini e scritte che vengono poi moltiplicate grazie alla loro diffusione in rete e sui social e che quindi contribuiscono a distorcere il significato del concetto di veganismo. Un veganismo che, come si diceva sopra, non menziona nemmeno più gli altri Animali quali soggetti schiavizzati per i nostri interessi (oggetti da allevare, trasformare in prodotti, mercificare e comunque non degni di considerazione morale secondo la gerarchia di valori specista), ma semplicemente mette al centro ancora una volta delle motivazioni antropocentriche, ossia salvare il Pianeta perché è la “nostra” casa e ne va del nostro futuro come specie. Che poi la Terra ospiti anche tutti gli altri Animali e quindi la devastazione ambientale uccida e danneggi anche le altre specie è indubbio, ma se l’interesse precipuo fossero anche gli altri Animali, allora non si dovrebbe fare appello a slogan in cui la loro condizione di soggetti oppressi non è nemmeno menzionata.

Continua su Veganzetta.

lunedì 7 ottobre 2019

Joker



Attenzione, contiene SPOILER.

- Cosa c'è di divertente?
- Stavo pensando a una battuta.
- Vuoi raccontarmela?
- Lasciamo stare. Non capirebbe...

Un film perfetto. Talmente perfetto che rimane ben poco da dire.
La scelta di Joaquin Phoenix come attore protagonista non poteva essere più azzeccata perché ha la giusta dose di intensità, fascino e seduzione, oltre che bravura.
Un film spettacolare, ma profondo. La parabola di Arthur Fleck è una parabola esistenziale, sociale, politica, ma soprattutto una tragedia umana, o una commedia, sebbene amara, come afferma lui stesso. La commedia in fondo è solo una storia tragica vista sotto la lente distorta dell'umorismo.
L'intera sceneggiatura si regge su questo delicatissimo filo portante del comico che si nutre del tragico. Un equilibrio che non si spezza mai dall'esito perfetto; mai grottesco, mai sopra le righe.
Ci sono diverse reminiscenze di altri capolavori, per esempio l'uso delle maschere che diventano un simbolo di ribellione le avevamo già viste in V for Vendetta, ovviamente Re per una notte, Freaks (solidarietà tra i "diversi"), Taxi Driver, mentre Gotham City a tratti ricorda la New York de I guerrieri della notte: sporca, decadente, violenta, ma soprattutto in discesa libera verso la perdita di ogni senso. Ed è in questa perdita di senso dell'esistere che il film si eleva a una dimensione che va oltre la mera analisi socio-politica.
Certo, c'è l'esplicita condanna a una società che anziché aiutare le persone in difficoltà o comunque disagiate le abbandona ai margini, infierisce, le calpesta e finisce o per trasformarle in mostri o per schiacciarle irrimediabilmente. Gli "invisibili" da cui i bulli e i potenti traggono linfa e nutrimento. Emblematica, in questo senso, la cattiveria di Murray, che dapprima bulleggia Fleck e poi lo usa per far salire gli ascolti del programma.
Ma ridurre il film alla sola lettura socio-politica sarebbe limitante: emerge la ferocia di un'umanità senza più freni inibitori, dionisiaca quasi, che si ribella o che, forse, ha finalmente il coraggio di essere se stessa, una volta consapevole di non avere più nulla da perdere.
Il macabro trionfo finale è addirittura commovente. Sublime.

Bellissimo il parallelismo tra la scena in cui fugge dalla metro e quella in cui fugge dalla clinica psichiatrica dopo aver rubato il fascicolo della madre: entrambe strutture opprimenti, di lucido acciaio e degrado, la prima per trasportare un'umanità che ancora si muove entro le norme del vivere sociale, la seconda per contenere un'umanità derelitta che ormai ha abdicato a sé stessa. Joker le attraversa entrambe, lucidamente, danzando e in corsa, leggero, finalmente visibile, il re della follia, ma anche della ragione di un mondo spietato.
Folle è il mondo, saggio colui che lo capisce e lo rifiuta. E quando non si può più vivere non rimane che danzare, o ridere, o bruciare tutto... perché tanto... nessuno capirebbe.