venerdì 30 marzo 2012

Invisibile

Oggi sono andata a fare una passeggiata in uno dei parchi della mia città: era una bellissima giornata e c’era un sacco di gente, soprattutto turisti. Ho visto tantissime mamme con i loro bambini più o meno piccoli, nei passeggini, tenuti per mano, o lasciati camminare liberi, ma seguiti e controllati a vista d’occhio; mamme che ridevano con i loro figli, che ci giocavano insieme, che li guardavano con occhi colmi di amore e di appagamento. Vedere una mamma che sorride al proprio figlio è sempre uno spettacolo che intenerisce, che mette di buon umore, che suscita una certa commozione. Io non ho figli, non li ho mai voluti perché non ne ho mai avvertito il desiderio e non rimpiango di aver fatto questa scelta, quindi non posso immaginare cosa significhi essere madre, né a quale grado di intensità si possa arrivare nell’amare il proprio figlio; tutti mi dicono però che sia un amore immenso, il più grande di tutti, un amore talmente grande che non ce n’è uno uguale.
Di converso, mi hanno anche detto (e, purtroppo, riferito anche per esperienza diretta) che se nel mondo c'è un dolore incomparabile è quello per la perdita del proprio figlio: un dolore talmente grande che, anche a questo, non ce n’è uno uguale.
Eppure nei prossimi giorni, con l’avvicinarsi della Pasqua, molti di noi si renderanno partecipi di una vera e propria strage di innocenti: migliaia di agnellini, per onorare una tradizione - inutile come lo sono tutte le tradizioni - verranno strappati alle loro madri ed uccisi per finire sulle nostre tavole.
Avete mai sentito un agnellino piangere? Io sì. E vi assicuro che non è musica per lo orecchie: è strazio, è lamento inconsolabile, è dolore, è pena, è sconforto, è disperazione, è terrore.
Avete mai visto, sentito, assistito o partecipato del dolore di una madre che perde il proprio figlio? Non ci sono parole per descriverlo.
Pensate forse che il dolore di una pecora e di un agnellino non siano la stessa cosa? Se lo pensate, vi sbagliate. Il dolore di una madre che perde il proprio figlio è un dolore universale, qualsiasi specie ella appartenga; il dolore ed il terrore di un piccolo che viene strappato alla madre per essere ucciso è, anch’esso, universale, qualsiasi specie egli appartenga.
Chi siamo noi per fare questo? Chi ce la dà questa arroganza? Chi ci dà il permesso di prendere un cucciolo innocente ed indifeso e di assassinarlo?
Come scrissi nel post dello scorso anno (qui) - sempre nell’imminenza della Pasqua - io non sono religiosa quindi per me questa festività non significa niente. Per chi è cristiano comunque si tratta di una ricorrenza in cui si festeggia e ricorda la resurrezione di Gesù Cristo, è quindi una festa di pace, di letizia, di rinascita, di amore; mi sembra, se non ricordo male, che in una delle domeniche precedenti, chiamata appunto la domenica delle palme, i fedeli usino scambiarsi anche un ramoscello d’ulivo benedetto in segno di pace.
Come possono coincidere tutti questi riti di pace, amore, rinascita con la tradizione di mangiare gli agnelli? Questa tradizione oltretutto non è nemmeno cattolica, ma ebraica, come si può leggere nel Vecchio Testamento. Nel Nuovo Testamento invece c’è un agnello immolato una volte per tutte per tutti noi, per la nostra salvezza e redenzione dei peccati. Quindi proprio non ha alcun senso - se mai lo abbia avuto in passato, di certo non per me, per me nessun rito religioso ha senso - continuare a sacrificare gli agnelli per la tradizione del pranzo di Pasqua.
So che molti amano rispettare certe tradizioni pur non essendo religiosi, quindi nei prossimi giorni magari compreranno l’agnello perché così funziona, perché si troverà in vendita nei supermercati, perché sarà in offerta a prezzo a speciale, perché a Pasqua “si usa così”. Ma possibile che l’essere umano si sia così ridotto ad essere tale e quale agli Zombie del noto film di Romero - quelli che assalgono il centro commerciale e tendono le braccia avide verso gli scaffali dove è esposta la merce con il cervello in modalità “off” - incapaci di opporsi alle offerte del mercato, incapaci di esercitare una propria scelta dettata da una vera capacità critica? Ma vi piace essere così, proni a tutto ciò che i diktat del consumismo propongono? Possibile che davvero nessuno si fermi a pensare almeno per un secondo alla bellezza di un agnellino che corre felice su un prato insieme alla madre e a quella stessa bellezza che verrà irrimediabilmente deturpata, sfregiata, annullata e ridotta ad un ammasso di carne sanguinolenta esposta sul bancone di un supermercato?
Molti dei miei lettori sono vegetariani e vegani, ed è ovvio che questo post non è per loro, che non mi sto rivolgendo a loro (però ovviamente mi fa piacere se vorrete lasciare un vostro commento, una vostra riflessione in proposito, magari aggiungendo un pensiero inedito scaturito dal vostro punto di vista); mi rivolgo quindi a quanti di voi avranno in mente, oppure semplicemente nemmeno si sono posti ancora il problema, di comprare e mangiare l’agnello a Pasqua: NON FATELO.
È una cosa orribile, mostruosa, ignobile continuare a rispettare e perpetrare questa tradizione di mangiare l’agnello a Pasqua (e, beninteso, in qualsiasi altra occasione). Pensate all’amore che c’è tra una madre ed il proprio figlio. Bellissimo, immenso. E pensate che quell’amore è lo stesso che c’è anche tra una pecorella ed il suo agnellino. Non fate che i vostri gesti, la vostra indifferenza cagionino così tanta sofferenza e crudeltà. Siate consapevoli. Siate misericordiosi. Siate rispettosi della vita. Spargete e diffondete amore, non morte.

***
Sempre oggi, dopo la passeggiata nel parco, sono andata in centro. A Piazza di Spagna ci sono le note “botticelle”: così chiamate sono quelle carrozze turistiche trainate da un cavallo. Cavalli costretti a muoversi in mezzo al traffico, a trottare sui sanpietrini con il rischio di danneggiarsi gli zoccoli, a tirare il peso - sotto il sole, il freddo, in qualsiasi condizione meteorologica - di ingombranti carrozze, più alcuni turisti seduti sopra, quasi sempre ciccioni - non so perché, ma è quasi sempre così (e si vede che più sono ciccioni e più gli pesa il culo - come si dice a Roma - e quindi per questo preferiscono sfiancare gli eleganti cavalli, quasi sicuramente invidiosi della loro bellezza e maestosità). E dopo una vita di duro lavoro quale fine pensate poi che facciano questi cavalli? Ma è semplice, no? Li portano al macello.
In genere quando li vedo in attesa dei clienti, fermi sulla piazza, volto gli occhi dall’altra parte perché mi intristiscono sempre tanto. Oggi invece, non so cosa mi sia preso, mi sono avvicinata ad uno, l’ho guardato a lungo negli occhi - occhi profondi, intelligenti, dolcissimi... occhi rassegnati e tristi... occhi increduli, interrogativi, che sembravano dire: ma perché ci fate questo? - e poi l’ho accarezzato a lungo sul muso, dolcemente, lentamente, cercando di infondergli tutto il mio amore, la mia comprensione, il mio rispetto. La mia meraviglia nel riconoscerlo come unico. Io spero, che per una volta almeno, si sia sentito compreso ed apprezzato nella sua pienezza di essere vivente, nella sua meravigliosa unicità; io spero che per una volta almeno si sia sentito qualcosa di più di un semplice “mezzo” per scorrazzare nelle vie di Roma o di una semplice “attrazione turistica”.

Gli animali non sono “cose”, non sono “mezzi”, non sono “strumenti”, non sono “cibo”: gli animali sono esseri viventi senzienti. Cercare di capire questo semplice concetto non è difficile. Non ci vuole molto. Le cose vanno in una certa maniera da secoli; per secoli abbiamo sfruttato questi altri esseri viventi senzienti che condividono il pianeta con noi e ancora continuiamo a farlo.
Non sarebbe ora di smetterla? Cosa c’è di logico nell’uccidere gli animali, nel procurare così tanta sofferenza, quando si può vivere benissimo senza doverlo fare? Nulla. Non c’è nulla di logico. C’è solo questo terrificante automatismo che ci fa continuare ad essere servili e proni nei confronti di un mercato che ha tutto l’interesse economico nell’occultare la verità e nel renderci schiavi del proprio meccanismo, procurandoci desideri indotti e inculcandoci false necessità.
Non è necessario uccidere gli animali per vivere bene. Si vive meglio amando e rispettando, che non procurando sofferenza e morte. Una società che esercita crudeltà e dispone degli esseri più deboli ed indifesi non sarà mai una società viva, né evoluta. 
I mattatoi vengono occultati dalla nostra vista, ma anche ciò che non si vede, esiste, continua ad esistere. Pensateci, per favore. Pensate a questo massacro che agli occhi dei più rimane invisibile, ma che c'è, che avviene ogni giorno, ogni secondo, in ogni dove.
Smettete di mangiare e di sfruttare gli animali, per favore.

martedì 27 marzo 2012

La Casa in Riva al Lago

    Questo è un raccontino che ho scritto qualche anno fa, una storia vera. Poco fa mi è tornato in mente leggendo una riflessione su un blog e così ho deciso di pubblicarlo. Non fate caso allo stile, oggi lo scriverei in maniera decisamente diversa, taglierei e limerei parecchio ed userei una prosa molto più leggera; volendo potrei rimetterci mano, ma sono pigra, ed è già tanto che questo - delle varie cosette che scrivo e che solitamente distruggo nell'arco di qualche settimana o disperdo chissà dove - sia ancora sopravvissuto. Lo pubblico qui anche per questo, infatti. Così c'è, rimane.
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Era una bella giornata di fine estate, un sabato di settembre, uno di quei giorni in cui si avverte più facilmente l’indeterminatezza del tempo, il suo impercettibile eppure sensibile fluire. Mi trovavo in quel particolare stato d'animo in cui l'autunno sempre mi predispone, inebriata dalla sensazione dell'attesa di nuove cose a venire; sebbene non si fosse ancora in pieno autunno ma solo sul finire dell’estate, ma già avvertibile era la stagione imminente da significativi mutamenti della natura e dalla temperatura in leggera diminuzione.
   Quel giorno poi era cominciato come una piccola avventura: ci eravamo smarrite lungo la strada, io e Annamaria, lei che guidava la sua macchina e doveva fare da guida fino alla sua graziosa casetta in riva al lago – il luogo finale della nostra mèta – e a seguire Andrea, con la sua macchina, incerto sul da farsi, confuso dalla nostra incertezza rivelata dai rallentamenti continui e dalle varie frenate e inversioni che Annamaria faceva fare alla sua automobile, anch’essa alquanto incerta nell’espressività di una carrozzeria mal ridotta. Ma alla fine arrivammo. Era l’ora di pranzo e dopo aver fatto un breve giro per il paesino costeggiando le rive del lago finalmente parcheggiamo davanti a casa sua. Una casetta piccola ma proprio graziosa così come lei l’aveva descritta. L’ultima casetta di una via solitaria e fuori dal centro del paese, una via piccola e stretta a fare da divisione tra il lago e le estreme propaggini dell’aperta campagna. Una via di mezzo tra la campagna e il lago, e la sua casa era lì, in quella via,  unico avamposto di cemento e mattoni tra la natura incontaminata. Ma non stonava quella casa di mattoni e cemento in mezzo a quell’ambiente naturale, no, sembrava anzi anch’essa un’espressione della natura, sorta quasi per magia come nelle fiabe appaiono ai viandanti notturni e alle bambine sperdute capanne e casette a far loro da rifugio o da tramite per condurle verso quei luoghi altrimenti inaccessibili del loro destino. Quella casa mi piaceva, mi piacque sin da subito e mi piacque immaginare la sua vita in quelle ore trascorse lì, lontano e al riparo dal traffico e dal caos della città. No, non era il luogo romantico per eccellenza eletto come baluardo dall’aggressione della nevrosi cittadina, non era la medicina come cura dall’alienazione della moderna automazione, niente di tutto questo… era solo una graziosa casa in riva al lago, una casa che si appoggiava sul retro alla campagna e offriva sul fronte uno sguardo diretto, attraverso le finestre della facciata, alle acque calme del lago.
Una casa così può far compagnia, sa far davvero compagnia.
Una casa così ti accoglie con il calore di un’amicizia, e in cambio chiede solo di essere rivestita qualche volta del tocco di piatti in cucina, del ticchettio di passi nelle stanze, del canto dell’acqua che scorre nei rubinetti, del chiacchiericcio sommesso di persone venute in visita. Forse non era Annamaria che quel giorno aveva bisogno di compagnia, forse era per via della sua tacita promessa alla casa che aveva voluto portarci là. E mi è quasi sembrato di vederla il giorno della sua ultima presenza là, la volta prima di noi, quando era andata sola: mi era quasi sembrato di vederla là sulla soglia, nell’atto di dare gli ultimi giri di chiave alla porta per la chiusura, strizzare l’occhio alla casa e annuirle, rassicurarla che la volta dopo avrebbe avuto qualcosa in più per lei, le avrebbe portato un po’ più di divertimento, di rumore, di parole, di passi… di VITA.
La casa aveva fatto tanto per lei, per Annamaria, l’aveva aiutata ad avere una mèta da raggiungere, ad avere un progetto di vita da perseguire,  l’aveva aiutata ad occupare i suoi pensieri insomma, un po’ per via di tutte le cose pratiche da sbrigare quando si ha una casa da mantenere, un po’ per via delle giornate che aveva in mente di trascorrere là, con gli amici o sola. La casa per Annamaria era un po’ come una figlia. Si vedeva dal modo in cui ne parlava, la chiamava per nome quasi, ne parlava con orgoglio e affetto, le rivolgeva pensieri quando era distante, esprimeva preoccupazione per la sua “salute” :
- “dovrei fare dei lavori di restauro per il tetto, mi è sembrato di scorgere della macchie di umidità, non vorrei che arrivasse a piovermi in casa”;
- “che dite, pensate che dovrei riverniciare la facciata?” ci disse quel giorno non appena scendemmo dalla macchina e demmo un primo sguardo curioso alla casa di cui ci aveva tanto parlato.
Ci mese al corrente, quel giorno, dopo pranzo, di tanti progetti che aveva in mente per restaurarla, per renderla più accogliente, per sistemare il piccolo giardino.
Da come ne parlava sembrava che avesse un debito nei confronti di quella casa ma io capii che non era un debito verso qualcosa o verso qualcuno ma di semplice riconoscenza verso un’essenza la cui vitalità dipendeva da un reciproco impegno di cure e di attenzioni. Sì, di impegno reciproco si trattava.  La casa si prendeva cura della solitudine di Annamaria e Annamaria si prendeva cura di quella casa silenziosa in riva al lago, di quelle stanze che a lungo erano state vuote e non avevano percepito altro che l’eco silente del loro stesso vuoto rintronante tra le spesse mura.
Penetrare nell’intimità di quella casa era come penetrare un po’ nell’intimità della sua proprietaria. Osservare il lago attraverso le sue finestre era come guardarlo per la prima volta con altri occhi, era come osservarlo attraverso lo sguardo congiunto degli occhi di Annamaria e delle finestre vigili e attente.
Pranzammo in una camera che fungeva sia da sala da pranzo che da camera da letto; il letto era infatti un divano-letto, al momento chiuso (l’avrebbe aperto la sera, al momento di andare a dormire). Annamaria disse che quando si trovava lì, nella casa al lago, la sera andava sempre a dormire presto. Dopo cena ogni tanto poteva scendere a fare una passeggiata in riva al lago, mettendosi per un attimo a sedere sulla spiaggia – un lembo di spiaggia molto stretto a dire il vero – osservando il lago, respirando aria buona, giusto il tempo che il vento arrivasse a procurare i primi brividi di freddo dell’aria serale, occasione giusta e sufficiente motivo per rientrare a casa, nell’abbraccio caldo di quella casa. In fondo era per quello che si trovava lì, no? Per la casa, per stare con lei, per trarre conforto e piacere da quelle mura così intimamente riconoscibili e sorelle.
Le chiesi, improvvisamente:
- “ma non vai mai in paese? Ho visto che c’è anche un cinema, tu ami andare al cinema, non ci vai qualche volta?
 -“no” mi disse “ non ci vado mai, mi piace starmene qui la sera, a casa,  vengo apposta in fondo, per godermi la tranquillità di questo posto; al cinema ci vado volentieri quando sono in città…  ma quando vengo qui no, proprio no, proprio non mi va.
 -“capisco”, dissi, ma io, pensai tra me, ci andrei la sera al cinema, sarebbe per me una vacanza ideale, una casa in riva al lago, passeggiate in riva al lago, e la sera un piccolo cinema di provincia tutto per me, magari dove danno uno di quei film per i quali non spenderei mai sette euro in città, uno di quei film che non prenderei forse nemmeno a noleggio, che so, quelle commediole sentimentali che uno può guardare solo per passare il tempo quando non ha proprio altre alternative, cinema di puro intrattenimento fine a se stesso, proprio il tipo di cinema che uno si aspetta facciano nei cinema di provincia, in fondo. E che in fondo magari ti commuovono anche un po’, film fatti apposta per questo, in fondo.
Uno a sentire quei discorsi, di lei che la sera se ne sta tutta sola a casa, si farebbe venire in mente un’idea di solitudine triste, e invece a me quella sua scelta di non uscire rafforzava l’immagine di questa unione forte con la casa, di questo muto solidale patto di reciproche cure e attenzioni. Fu per me una sensazione strana percepire quel legame tra lei e la casa, anche perché io, nel corso della mia vita, ho sempre cambiato così tante case, partecipato a così tanti traslochi dei miei genitori che davvero non sapevo come uno potesse considerare una specifica casa come le proprie inestirpabili radici. Non ho attaccamento a nessun luogo specifico, non ho mai considerato mia nessuna casa. Eppure in quel momento, quel giorno, per la prima volta potei percepire la forza di un legame, la forza di un legame che può nascere tra una persona e la propria casa. E credo fosse anche perché quella non era la sua abitazione usuale ma una casa in qualche modo “scelta” come luogo “altro”, come luogo “prescelto” che potei percepire quel legame. Un legame non scontato cioè, non banale tra una persona e il proprio luogo di appartenenza, ma nato e cresciuto e tenuto vivo in virtù di un bisogno reciproco di cure ed attenzioni. Forse un legame di questo tipo avrei potuto avvertirlo anche io, in futuro, con una qualche casa o qualche luogo: una casa o un luogo percepiti come necessari alla mia esistenza e percepibili come grati e dipendenti dalla mia esistenza, dal mio essere lì in un dato momento: un legame di amore, insomma!
Forse fu per questo, per queste mie riflessioni che continuava a piacermi così tanto quella casa, che desiderai quasi che fosse mia, io che proprio non avevo mai potuto concepire il senso di appartenenza ad una specifica casa. Sino a quel momento, forse.

Dopo pranzo accadde qualcosa di ancora più singolare. Sempre che singolari si intendano quei movimenti della mente, quelle impressioni che quasi non hanno ragione d’essere al di fuori della nostra esistenza interiore. Sono quelle impressioni in grado di produrre i più significativi mutamenti della nostra esistenza interiore, in grado di imprimere quelle accelerazioni e svolte tali da farci pensare che “siamo cambiati” ma che raramente prendono vita da  un qualche evento realmente significativo o degno di venire raccontato così che all’esterno tutto appare immutato e noi tutti sembriamo starcene lì come statue immobili su un fondale di pietra, comparse di cartapesta a far da scenario al teatro del mondo, mentre tutto dentro ruota a velocità impazzita, tutto si muove e ci sembra che l’intero mondo e l’intera realtà si muova all’unisono con la nostra percezione e con le nostre sensazioni… e ci sembra che nulla, dopo,  possa essere rimasto come prima, pur essendo rimasto tutto, in fondo, esattamente come prima.

Dopo pranzo, per così dire, non accadde poi nulla di così particolare.
Semplicemente, cominciando a sentirmi quasi un’intrusa nella complicità di Annamaria con la sua casa, e anche perché lei doveva parlare di “cose” legali con Andrea, semplicemente decisi di andarmene a fare una passeggiata in riva a lago. In fondo solo trenta o quaranta metri separavano la casa di Annamaria dal lago. E poi volevo godermi il calore non troppo forte di quel primo pomeriggio di fine estate (altro momento della giornata, il primo pomeriggio, che amo molto!) e magari prendere anche un po’ di sole. Feci così infatti. Arrivai in due minuti sulla riva del lago e lì mi misi seduta, sulla rena tiepida, e per un po’ osservai i riflessi del sole sull’acqua e apprezzai il vento leggero e delicato, e pensai, pensai, sognai, immaginai e ancora pensai e pensai… ah… bella l’idea del futuro. Non c’è nulla di più inebriante del pensiero del futuro, della sua semplice idea, della sua essenza quasi come presenza costante e amichevole. “Io ci sono”, sembra dirti il futuro. “Sono qui, accanto a te, ti seguirò come una presenza costante ma discreta giorno dopo giorno, a ricordarti che ci sono, che tutto è ancora e sempre possibile”. In fondo non è questa la materia dei nostri sogni? Non è di queste frasi-promesse continuamente rammentateci e ripetutaci che è intessuta la trama di ogni nostro pensiero, di ogni nostra immaginazione e sogno e aspirazione? Di cosa sarebbero fatti altrimenti i nostri pensieri senza la trama finissima del futuro? Quale forma avrebbero le nostre riflessioni senza il filo tenuto insieme dalla promessa incessante del futuro? E poi dicono che l’esistenza è fatta di memoria e del peso dell’esperienza del passato. Sciocchezze! L’esistenza è fatta di quel qualcosa sfuggente e misterioso e tuttavia sempre presente che assume le sembianze del futuro. Ed è per questo infatti che le persone anziane sono sempre malinconiche, perché non hanno più la certezza del futuro, del ritorno della primavera o anche di una nuova alba e così via. Ed è per questo che a volte ci appaiono un po’ ciniche, perché hanno smesso di sognare e di immaginare il futuro, perché senza la promessa del futuro non si può sognare nulla, né immaginare nulla. Si può solo ricordare il passato, che però produce il dolore del non-ritorno, quindi foriero di malinconia e tristezza. La saggezza degli anziani, la loro tanto decantata saggezza non è altro che la fine di ogni loro sogno e immaginazione e pensiero. Non hanno smesso di riflettere o di pensare perché ormai sono diventati saggi; al contrario, sono saggi perché hanno smesso di pensare, di sognare, di riflettere. Forse la saggezza non è altro che la fine di ogni illusione.
E così, tra un pensiero e l’altro, lasciai che il sole scaldasse indisturbato la mia pelle e lasciai che quel pomeriggio passasse così, in una calma innaturale, fino a che un brivido di freddo improvviso non mi scosse, quasi qualcuno l’avesse mandato per  riscuotermi da un torpore che tuttavia faticavo a togliermi di dosso, come una sostanza che mi si fosse appiccicata addosso. Feci alcuni passi sulla spiaggia, arrivai fino alla riva e mi abbassai fino a sfiorare l’acqua con le dita. Non era tanto fredda. Volendo si sarebbe potuto fare ancora un bagno, pensai. Sicuramente c’era qualcuno che in quel periodo  faceva ancora il bagno. C’erano dei piccoli pesci nell’acqua, nuotavano in branco e ne dedussi che il lago non doveva essere poi così inquinato se la gente ci faceva il bagno e se si potevano vedere i pesci nuotare vicino alla riva. Sono pensieri logici deduzioni semplici. Pensieri inutili. Eppure non si può proprio fare a meno di pensarli. Tutta la realtà è poco più di un pensiero. Le azioni sono solo giustificazioni del pensiero, una loro legittimazione; in fondo agiamo solo perché ci sentiamo in obbligo verso il pensiero, come se una volta che qualcosa è stato pensato ci esortasse ad agire per il solo fatto che è stato pensato. Ma non è così. La parte più grande e significativa di un’intera esistenza, quella in grado di assumere davvero valore per noi, è fatta di pensieri. Tuttavia un pensiero può nascere da un evento, anzi, nasce quasi sempre da un evento reale. Ed è per questo che ci confondiamo. E’ per questo che nella nostra mente crediamo che al pensiero debba seguire l’azione mentre è verissimo il contrario, ossia gli eventi, le azioni si sprigionano da sé e da lì nasce tutto, nascono i pensieri, le idee, le riflessioni, tutto ciò che un giorno avrà davvero valore nel paradigma della nostra esistenza. Conta quello che siamo e non quello che facciamo. Sebbene a volte le due cose si possano confondere.

A quel punto, dopo tali elucubrazioni, decisi di andarmene, di tornare a casa, dove Andrea ed Annamaria sicuramente avevano finito di parlare di lavoro e forse cominciavano anche a domandarsi che fine avessi fatto. E poi dovevamo pur sempre rientrare in città, fare oltre centro chilometri, non era il caso di trattenermi ancora oltre, lì su quel lago o anche a casa di Annamaria. Anzi, pensai che mi sarei proprio sbrigata ad andare a chiamare Andrea per esortarlo a partire. Annamaria sarebbe invece rimasta lì, avrebbe dormito lì nella sua casetta e l’indomani lei e la sua casa avrebbero avuto una domenica tutta per loro, una lunga e bella domenica di pace, di domestiche attività, di rinnovato patto di solidarietà tra uno sguardo che accarezza lento le pareti e il riflesso del sole che filtra di rimando, in risposta a quello sguardo, dalle finestre-occhi di una casa riconoscente e viva, resa viva da una presenza a sua volta grata e contenta di trovarsi lì e non altrove.

La stradina che mi separava dal lago alla soglia del cancello della casa era breve, saranno stati trenta o quaranta metri; era una piccola stradina sterrata, divisa in due da una strisciolina di erba. La parte calpestata, il percorso sterrato vero e proprio era di sola terra battuta mista a qualche sassolino mentre in mezzo si poteva vedere appunto una striscia disordinata di erbetta, qualche fiorellino spiegazzato qua e là, qualche radice, qualche rametto spezzato. Tutto quel che forma un sentiero di campagna battuto insomma.
Fu in quel momento, in quel preciso istante che capii. Non so se fu la forza inebriante dell’odore della terra, della campagna, del lago nelle immediate vicinanze o la semplice vista di quel sentiero, di quella terra, di quell’erba, percepibili entrambi in tutta la loro concretezza, l’odore e la vista, e forse anche il suono, in sottofondo, del vento e delle foglie e degli alberi. Non so cosa sia stato ma improvvisamente mi è apparsa in tutta la sua disarmante semplicità. Mi è apparsa quasi con la leggerezza dell’ovvietà. Una piccola ovvia banale rivelazione,  una piccola “epifania” appena nata e già inquinata dal dubbio, già corrotta nella sua fresca innocenza da quell’orribile vizio tutto umano che definiamo inquietudine. Un’epifania non pura, già viziata all’origine, eppure capace di stordirmi con la forza incontaminata che le era rimasta: “E se davvero fosse tutto qui? Nient’altro che questo, solo questo, solo questa terra odorosa di buono e  di umido, solo questi fili d’erba che si muovono al vento, solo questo vento e questo cielo, e questo suolo su cui sto movendo adesso i miei piedi, e solo questa mia forte consapevolezza di essere qui, ora, adesso, in un adesso che è un per sempre, che è l’effimero e l’eterno?
Niente più passato, niente più futuro, niente più autunni, niente più crepuscoli, niente più rinascite e morti, solo questo eterno attimo di terra concreta percepita odorata ascoltata come la cosa più solida che abbia mai avuto sotto i piedi, come la cosa più calda e più piena di amore e più rassicurante che abbia mia conosciuto. La terra. La consistenza e la solidità, tutto ciò di cui ho bisogno per non sparire nelle irrequiete pieghe dell’inarrestabile movimento dell’esistenza.
E se fosse davvero tutto e solo questo, solo la sicurezza della terra che calpestiamo, del suo odore forte e penetrante? Sarebbe poco?
L’idea dell’aldilà e tutte le infinite congetture riguardo alla morte nascono nel momento in cui ci poniamo questa sciocca domanda: “ Sarebbe poco? E’ troppo poco”?
Se potessi vivere ogni giorno con la pienezza di quel momento, con la pienezza di quella terra nei suoi colori, odori, consistenza, sono sicura che potrei sconfiggere la morte.
E allora capii, capii che quella casa per Annamaria doveva avere la stessa consistenza di quella terra per me, capii che lei continuava a tornare là non per sconfiggere la solitudine, né per prendersi cura di una casa altrimenti abbandonata a se stessa, ma semplicemente per mettere finalmente a tacere le voci del dubbio, dell’incertezza, della paura. Per mettere a tacere quel vizio che ci corrode tutti nell’anima, che ci consuma istante dopo istante e ci impedisce di vedere e di sentire davvero. Quella casa dava una risposta, la risposta che lei, come tutti noi, aspettiamo. “E’ tutto qui, tutto questo”, sembrava dire, e non è poco. Sembrava prometterle l’eternità, quella casa, come a me quel giorno mi fu promessa da un granello di terra e da un filo d’erba. Nei pressi della casa in riva al lago.

Annamaria morì pochi mesi dopo. Afflitta da una terribile depressione si è lasciata morire di inedia e di fame. Andai a trovarla un’ultima volta, in una domenica pomeriggio. La notte a seguire sarebbe morta. Quando la vidi, distesa sul letto, con la mascherina dell’ossigeno sul volto, lei non era già più “qui”. Era tornata a casa, nella sua adorata casa in riva al lago. Ma noi non saremmo più andati a trovarla.
E comunque, a pensarci bene, abbiamo tutti una casa o un luogo che ci aspetta, da qualche parte.

domenica 25 marzo 2012

venerdì 23 marzo 2012

Langoneide


Oggi ho il piacere di segnalarvi questa illuminante preghiera del buon Langone Camillo, edonista (vedasi foto): si trova qui, e vi prego di leggerla.
Per chi non lo sapesse ricordo brevemente che il suddetto è un vecchio habitué - tramite le sue preghiere, scritti ed elzeviri vari - di critiche feroci agli animalisti; profondamente convinto che mangiando e sfruttando gli animali si onori dio e che non si debba mai perdere di vista il concetto della superiorità dell’uomo sull’animale in forza di un disegno, ovviamente, divino (qui); tutto impegnato a ricordare quanto sia necessario mangiare l'agnello a pasqua per scongiurare il rischio che si possano mangiare i bambini (qui). Del resto ritiene vegetariani e vegani seguaci dell'anticristo (qui).
Tanto afferma Langone ed immagino che il suo "verbo" abbia grande valore. Per lui.
Io invece, in tutta semplicità, mi domando  con quali parole si potrebbe definire uno che è, e talora si dichiara anche esplicitamente, xenofobo (qui e qui), omofobo (qui e qui) e maschilista (ancora qui) e che, come avrete letto nella preghiera odierna mostra altresì una "certa" avversione nei confronti dei piccionofili (sic!), che tuttavia non elabora, dichiarando le sue idee in merito non adatte al giornale elegante per il quale scrive. Cioè Il Foglio di Giuliano Ferrara.
Anzi, forse una mezza idea sul Langone ce l'avrei: purtroppo non è adatta ad un blog elegante.

lunedì 19 marzo 2012

Del Velo di Maya, dell'Ego, della Vita come Sogno e della Realtà ultima dello Sfruttamento Animale

L’espressione Velo di Maya è stata introdotta nella filosofia occidentale da Arthur Schopenhauer ne Il Mondo come Volontà e Rappresentazione e riprende concetti metafisici propri di alcune filosofie orientali, in particolare dell’Induismo; analogicamente a quanto aveva descritto anche Platone ne Il Mito della Caverna (il filosofo ateniese dalle spalle larghe - com’è noto, aveva compiuto anche alcuni viaggi in Oriente e molte delle sue idee risentono innegabilmente dell'agire del sincretismo culturale), l’uomo nasce con un velo sugli occhi che gli impedisce di scorgere la realtà ultima delle cose; solo liberandosi da questo velo egli potrà finalmente accedere alla conoscenza e percezione della vera essenza della realtà, ottenendo così quella liberazione spirituale che gli permetterà di interrompere il ciclo doloroso delle morti e delle rinascite (samsara).
Schopenhauer, nelle sue opere filosofiche, fa spesso riferimento al sogno per indicare la condizione comune dell’uomo, la cui vita risente appunto di schemi conoscitivi indotti sin dalla nascita che impediscono di cogliere l’essenza ultima della realtà o la rendono accessibile solo a sprazzi; condizione - questa della vita intesa come sogno - di cui in letteratura si trovano antecedenti notevoli allo stesso Schopenhauer, ad esempio nell’opera del famoso drammaturgo spagnolo Calderòn de la Barca, intitolata, giustappunto, La vita è sogno, alcuni spunti della quale, seppure rielaborati in maniera del tutto nuova ed originale, si ritroveranno nel dramma intitolato Il Principe di Homburg  del grande autore del romanticismo tedesco, Heinrich von Kleist, il cui protagonista,  il principe Federico di Homburg, soffre di sonnambulismo ed è incapace di distinguere i due piani del sogno e del reale.
Quel che certamente è interessante notare è che la condizione dell’uomo incapace di scorgere la realtà ultima, pur avendo una matrice filosofica orientale, giunge sino all’occidente attraversando secoli, autori ed opere diverse, e rimane fondo comune finanche di opere fantascientifiche più moderne - una su tutte quel capolavoro cinematografico che è Matrix dei Fratelli Wachowski, vera e propria rielaborazione in chiave post-moderna del Buddha Maitreya - assurgendo così a vero e proprio Mito universale dell’incapacità dell’essere umano di comprendere l'essenza ultima della realtà che lo circonda, costringendolo a permanere in uno stato di indotta schiavitù mentale.
Talvolta però nella vita di noi tutti accade qualcosa di improvviso e sconvolgente da darci l’impressione di aver avuto accesso, per un momento o più, ad un livello altro di realtà e di conoscenza: esperienze chiamate in vari modi cui, ad esempio, Joyce dava il nome di epifanie, attribuendogli il significato di intuizioni improvvise, ma intese in un’accezione epurata del suo significato teofanico originario.

Esistono anche, a più livelli, percorsi di vita ed esperienze dell’individuo che in un certo senso è come se, letteralmente, permettessero metaforicamente al cosiddetto Velo di Maya di cadere dagli occhi, inducendo una visione, comprensione ed elaborazione della realtà del tutto inedita, non sempre, ahimé, positiva, anzi talvolta decisamente dolorosa, ma in grado di liberare l'individuo dalle catene della consuetudine e di renderlo veramente in grado di agire nella piena accezione delle sue facoltà; sono momenti questi in cui le cose ci appaiono in maniera diversa da come le si sono sempre percepite e si ha come la netta sensazione di essere stati, fino a quel momento, vittime di un inganno gigantesco perpetrato ai nostri danni per renderci più sopportabile una realtà altrimenti troppo brutale da sostenere (un esempio di questa dolorosa epifania è rappresentato da quel bellissimo racconto breve di Buzzati che è Dolce Notte e di cui ho parlato qui); come avviene in quel gioiello cinematografico che è Matrix - il cui significato rimane fruibile su più livelli - accedere alla conoscenza può essere sì un'esperienza dolorosa, ma la sola in grado di rendere possibile l'affrancarsi dell'essere umano dal suo stato di schiavitù e letargo della mente. Finché la mente - coperta simbolicamente dal Velo di Maya - è incapace di scorgere la realtà ultima delle cose, è anche incapace di sciogliere le catene che la tengono schiava ed ancorata alla vera radice della sofferenza e del dolore; al contrario, la visione ultima, per quanto sconvolgente e drammatica, permette poi di liberarsi una volta per tutte dalla dolorifica menzogna dell'esistenza.
Altre volte, in questo blog, ho fatto riferimento sempre al cosiddetto Velo di Maya per spiegare l’improvvisa realtà dello sfruttamento degli animali di cui la maggior parte delle persone sembra non essere consapevole.
Siamo quotidianamente testimoni di un olocausto di proporzioni immani perpetrato ai danni degli animali eppure gli occhi della maggioranza delle persone paiono assistervi con un’indifferenza agghiacciante, incapaci di mettere a fuoco con lo sguardo una realtà eppure evidente, come se fossero in preda ad uno stato di trance o ipnosi collettiva, completamente imbambolati e vampirizzati da schematismi mentali - indotti perlopiù dalla cultura dominante e da una martellante propaganda mediatica - di cui sono vittime inconsapevoli sin dalla più tenera età.
Durante la crescita la sensibilità dei bambini - naturalmente inclini a guardare e recepire con meraviglia e stupore, senza filtro alcuno, senza velo, potremmo ragionevolmente dire, la natura che li circonda e tutti gli esseri viventi che ne fanno parte, compresi gli animali - viene a poco a poco coartata ed indotta ad uno slittamento di prospettiva, così che giorno dopo giorno una coltre - sempre più scura e pesante - li rende incapaci di mettere a fuoco la realtà dispiegata davanti ai loro occhi. Mangiare e sfruttare gli animali diviene così un qualcosa di “naturale”, un percorso obbligato quasi, una necessità di cui non si riesce più a mettere in discussione i presupposti oppure ci si sforza di trovarne le più assurde motivazioni costruendo cervellotiche teorie a posteriori che però, a volerle analizzare bene, si mostrano inconsistenti e cadono come castelli di carte al primo soffio di ragionevolezza che vi viene alitato sopra.
Persino i cartoni animati più innocui - come ho avuto modo di constatare di recente, guardando Dumbo della Disney - mostrano sempre gli animali in uno stato di totale assoggettamento all’uomo, “naturalmente” contenti di “lavorare” in un circo e di eseguire gli ordini più disparati, sfruttati ed usati come “macchine viventi” messi a disposizione sulla terra.
Tutti noi siamo cresciuti imparando pian piano a rimuovere quella naturale (questa volta sì, che è d’uopo usare il termine naturale) empatia che da piccini ci portava ad accogliere con meraviglia la realtà in ogni sua manifestazione, senza discriminazioni di sorta, sobillati ad introiettare pian piano il concetto che sfruttare gli animali - schiavizzarli, sfruttarli, catturarli, rinchiuderli in gabbie, ucciderli, addestrarli, ridicolizzarli ecc. - sia una cosa “normale”.
Arriviamo ad un punto in cui questo stato di cose non viene nemmeno più messo in discussione, entrando a far parte di quelle ovvietà irremovibili che smettono di essere percepite come prodotto della cultura e vengono definite come “naturali” trasformandosi così in un dato di fatto irreversibile, socialmente accettato e condiviso dalla maggioranza.
Può accadere però (svariate possono essere le cause) che questo apparentemente stato “naturale” di cose venga smosso alla radice lasciando così intravedere uno squarcio di realtà improvvisamente diversa da quella fino a quel momento percepita: è il momento dell’inizio di tutto, il momento in cui il velo comincia finalmente ad allentarsi ed ecco che improvvisamente la realtà dello sfruttamento animale ci appare in tutta la sua innegabile evidenza. Da quel momento in poi - una dolorosa epifania - nulla potrà essere più come prima e, come se qualcuno o qualcosa ci avesse svegliato da un lunghissimo letargo della mente interrompendo così quel sogno che avevamo creduto essere la nostra vita, iniziamo a spalancare gli occhi sul mondo come se fosse la prima volta, volgendo lo sguardo sul nuovo stato di cose da una prospettiva del tutto inedita, scorgendo ed interpretandone così i particolari in maniera che prima sarebbe stato impossibile concepire ed iniziando a domandarci come sia stato possibile vivere in un tale stato di ottenebramento mentale.
Perché di questo si tratta, nulla più di questo: coloro che continuano a vivere nella più completa indifferenza riguardo allo sfruttamento degli animali non sono altro che persone rese cieche, sin dalla nascita, a causa di quel velo la cui trama pesante - oltre ogni simbolismo filosofico e letterario - intessuta dall’abitudine e dagli schematismi sociali e culturali non consente di mantenere uno stato vigile e lucido sul mondo, rendendo di fatto le persone simili a tanti automi-marionette preda di un sogno-obnubilamento collettivo senza fine, in cui l'apparente e momentaneo piacere è solo una pura illusione dei sensi e ci rende schiavi di desideri voluttuari senza fine la cui ricerca ossessiva di un subitaneo appagamento è solo fonte di altro dolore e sofferenza, in un ciclo reiterato e continuo.
Aprire gli occhi sulla terribile realtà dello sfruttamento animale significa quindi potersi risvegliare da questo stato di bamboleggiamento e sonnambulismo fuorvianti, rendendoci veri uomini in grado di compiere vere scelte e di riappropriarci di quella consapevolezza e lucidità che sole rendono possibile il cammino e l’evolversi su un  piano più autentico e costeggiato da valori etici anziché oltraggiato dalle vane frenesie di un apparire vacuo ed inconsistente e dalle sollecitazioni continue di desideri inconsistenti ed indotti dagli schematismi del sistema in cui nasciamo.
Scorgere l’orrore dello sfruttamento degli animali, per quanto doloroso possa essere, permette il ritrovarsi di quel sentimento che è l’amore universale verso ogni essere, permette il ricongiungimento con quel Tutto che è la realtà ultima delle cose e rende possibile la comprensione di un fatto talmente semplice, nella sua disarmante appunto semplicità, che io mi domando a cosa serva stare a perdere ancora tempo nell’elaborazione delle più astruse teorie sull’antispecismo (cui, beninteso, partecipo, sostengo e mi associo alla diffusione delle quali anche io), essendo la vita stessa - l’essenza della vita stessa - ciò su cui soltanto e semplicemente dovrebbe basarsi il diritto alla vita degli animali; che è ciò che permette di scorgere la caduta del Velo di Maya dagli occhi: la vita, il fatto di essere vivi, dà agli animali lo stesso diritto che abbiamo noi di continuare a vivere la nostra, per il semplice fatto che noi tutti facciamo parte di un Tutto Unico che è il pianeta, finanche l'universo stesso, cui apparteniamo, indistintamente, come tante semplici molecole.
So che è difficile per l'essere umano - avvolto dal suo Ego, vero e proprio Velo di Maya - rinunciare al senso smisurato della propria individualità, abituato com'è, per cultura e sin dalla nascita, a sentirsi padrone indiscusso dell'universo, ma se l'antispecismo può avere davvero un senso allora è proprio quello di superare l'illusorio concetto di singolo per approdare ad una comprensione di ogni vivente come emanazione di quella luce primordiale che è l'essenza ultima della Realtà e di cui tutti partecipiamo indistintamente, uomini, animali, vegetali, diversi nella forma, ma uguali nella sostanza; luce che purtroppo ci è negato scorgere a causa di questo Velo, che, metaforicamente e per rielaborarlo secondo concetti di cultura occidentale a noi più familiari, potremmo anche analogicamente accostarlo a quello dell'Ego.

Il seguente post mi è stato ispirato dalla lettura dell’odierno post della cara amica Volpina curatrice del blog La Volpe mangia l'Uva in cui si parla degli occhi dei vegani e vegetariani a volervi suggerire lo scorgervi di un qualcosa di particolare, una lucidità, una consapevolezza forse, la quale, a mio avviso, altro non è che il segno di quel risveglio dal lungo sonno della mente seguito dopo il crollo del fatidico Velo di Maya, avvenuto il quale lo sguardo diventa più aperto, più vivo, nuovamente colmo di quell’amore e di quell’empatia che un tempo ci furono sottratti.

giovedì 15 marzo 2012

Della libertà e dell'impegno civile

Questo è un altro di quei post in cui farò delle considerazioni sparse, prendendo spunto da cose viste, lette, sentite in questi giorni. Come sempre però i pensieri arrivano concatenati l’uno all’altro, ma forse un filo comune e logico ci si può sforzare di trovarlo anche tra gli argomenti apparentemente più disparati.
Un’altra cosa cui infatti faccio caso spesso è che se in alcuni giorni capita di riflettere e pensare a qualcosa in particolare, poi quel qualcosa di particolare finisce per essere visto e trovato in tutto, il che farebbe pensare ad una strana forma di sincronicità cui si potrebbe essere tentati di attribuire un qualche significato recondito, in realtà succede semplicemente che la nostra mente finisce per focalizzare, notare e concentrarsi solo su ciò che in quel momento si ritiene importante, tralasciando il resto ed è sempre la nostra mente magari a suggerire o riscontrare delle associazioni e dei legami. Nulla di sovrannaturale o preordinato insomma, nessun “messaggio” mandatoci dalla realtà, solo la predisposizione a voler necessariamente trovare rapporti di causa-effetto ovunque, pure quando non ve ne sarebbero.
Quindi sforziamoci di trovare un filo logico e conduttore in quanto sto per scrivere, in maniera poco ordinata mentalmente, ma seguendo un po’ il libero corso delle associazioni,
Quanto mi piace poi questa cosa di poter scrivere così liberamente, senza dover rendere conto a niente e nessuno, in fondo l’unico vero motivo per cui ho aperto il blog; poi spesso faccio dei post precisini, un po’ da maestrina, con un inizio, un centro, una fine, ma la verità è che nulla mi dà più soddisfazione ed appagamento del buttare giù i miei pensieri così... come vengono vengono.
Dunque, l’altra sera ho visto un grandissimo film, un capolavoro a tutti gli effetti - un film che per tematiche e conclusioni avrebbe potuto benissimo girarlo Kubrick, e anzi, un po’ mi ha ricordato, per alcuni particolari, Arancia Meccanica; il film in questione, del 1975, è Rollerball, di Norman Jewison, lo stesso regista di quell’altro capolavoro che è Jesus Christ Superstar (1973), per capirci, e racconta una sorta di distopia (o anche utopia, dipende dai punti di vista) ambientata in un futuro non tanto lontano (2018) in cui non esistono più guerre, né crimini, né povertà, né singoli Stati o Nazioni e nemmeno più violenza, essendo quest’ultima stata incanalata nella partecipazione collettiva ad un gioco chiamato appunto Rollerball. Ovviamente la maggior parte della gente vi partecipa solo come spettatrice, i giocatori sono una minoranza e trovano nel gioco anche una maniera per raggiungere le loro ambizioni (“il sogno di ogni giocatore è diventare uno di quei dirigenti ingessati che prendono decisioni per il mondo da dietro una scrivania, ma il sogno di ogni dirigente è quello di essere un giocatore di Rollerball”). L’intero pianeta è infatti diviso in Corporazioni ed ognuna di queste - gestita da pochi dirigenti di altissimo livello che cooperano affinché il benessere raggiunto da tutti possa essere mantenuto - si occupa di una questione particolare: economia, salute, sesso ecc..
Una cosa divertente che noto sempre nei film di fantascienza realizzati negli anni settanta è che il futuro è iconograficamente rappresentato sempre allo stesso modo, significativo di quanto l’immaginario collettivo di un’epoca precisa incida sulla visione e concezione di un’idea e di un mondo a venire. Oggi un film come Rollerball, ambientato appunto nel 2018, fa sorridere perché le cose, soprattutto la tecnologia, si sono evolute in maniera diversa da come si poteva immaginare negli anni settanta e soprattutto a tutto siamo giunti fuorché ad un mondo (per quanto asfittico ed illusorio e comunque segretamente controllato in cui l’individuo ha perso ogni facoltà decisionale perché tutto viene deciso dalle Corporazioni, come avviene appunto in Rollerball) di benessere collettivo.
Ora non racconterò il film nei particolari per non rovinarvi un’eventuale visione (che vi stra-consiglio!), ma quel che ho trovato interessante è proprio l’elaborazione del concetto di violenza.
Pure in un mondo immaginario evoluto di benessere e pace, quale quello immaginato in Rollerball, la violenza sembra essere concepita come pulsione ineliminabile ed insopprimibile dell’animo umano, tanto che il gioco che dà nome al film serve proprio da valvola di sfogo ed è ritenuto necessario per mantenere il controllo del benessere collettivo. Una sorta di contenitore controllato di violenza insomma.

Ecco, io invece sono giunta ad una conclusione diversa. Secondo me a forza di dire che l’essere umano è per natura violento, che non si può affrancare da determinate pulsioni, abbiamo finito non solo per crederlo fino in fondo, ma anche ad usare questo “mantra” come una sorta di alibi e di giustificazione per non assumerci determinate responsabilità.
Io lo vedo ogni volta che mi trovo a discutere con un carnivoro: le scuse adottate sono sempre le stesse, più o meno, ossia che la natura è violenta, che noi facciamo parte della natura, che tanto l’essere umano sarà sempre un predatore, che ci piace e ci serve uccidere per poterci sentire più forti e più vivi (morte tua, vita mia? A mio avviso solo un residuo dei sacrifici che facevano le popolazioni antiche per tener buoni gli Dei).
A me sembra che concependo la violenza quale pulsione insita ed insopprimibile nell’animo umano non si voglia far altro che giustificarla e confermarla, perché in fondo uno degli scudi dietro i quali si è sempre trincerato il Potere è proprio quello di lasciare che lotte intestine proseguano - a distogliere l’attenzione da altro -  affinché qualcuno - dietro - possa controllare indisturbato ad esercitare la propria indiscussa Autorità. Tanto che uno degli strategemmi adottato dai regimi Nazista e Fascista è stato quello di creare un apparato di alti funzionari e dirigenti e di seminare discordia e zizzania tra loro, così che, troppo occupati a contendersi il Potere, avessero lasciato indisturbato il Leader indiscusso dell’intera organizzazione.
Se si creano le condizioni affinché un popolo continui a lottare per un osso (inteso metaforicamente, la cosiddetta guerra tra poveri, di cui, ad esempio, Ladri di Biciclette di V. De Sica è un superbo esempio), stai pur sicuro che qualcun altro dietro, il cosiddetto “terzo”,  si godrà il beneficio assoluto.
La verità è che la violenza fa comodo e chi detiene il Potere (le varie classi sociali che si sono succedute nei secoli, oggi ormai l’astrattezza delle Banche, dell’alta Finanza, di chi muove i fili dell’economia globale) da sempre ha cercato di strumentalizzarla perché, senza di essa, senza persone intente a prevaricarsi le une sulle altre (i più forti sui più deboli, sempre), non potrebbe continuare a fare indisturbato i propri giochi. Le guerre sono sempre state strumentalizzate da qualcuno. Tanto chi va a morire... è il popolo, no?
Non è vero quindi che l’essere umano non può affrancarsi dalla violenza, basta volerlo.
Quindi, ricorrere a questa scusa che la violenza sia ineliminabile è solo per una questione di comodo (cui molti, ossia chi ha determinati interessi in determinati business, ricorrono al fine di mantenere lo status quo del loro potere).

Io penso che possiamo scegliere, ma penso altresì che la tanto abusata parola “libertà” vengo di sovente usata a sproposito ed assimilata in maniera confusa ed errata al concetto di scelta.
Non ne posso più di queste persone che millantano il diritto di usufruire di questa tanto decantata libertà confondendola in realtà con l’incapacità di compiere una vera scelta e con il qualunquismo più assoluto.

Leggo il titolo di un saggio pubblicato di recente, di cui si sta molto discutendo (con recensioni positive, spesso però da parte di chi ha precisi interessi economici dietro, quindi a mio avviso confutabilissime poiché denoterebbero un preciso conflitto di interessi, come si suol dire): Fumo, Bevo e Mangio molta Carne e mi viene da fare un paio di considerazioni; premetto che il libro non l’ho letto quindi non entrerò nel merito del suo contenuto, mi fermerò quindi a riflettere sul solo titolo.
Innanzutto “fumo, bevo e mangio molta carne” è prima persona singolare, tempo presente, modo indicativo, quindi enuncia un’affermazione, una volontà, statuisce alcune azioni soggettive, sta ad indicare qualcosa di ben preciso, indica una condizione certa. Fumo, bevo e mangio molta carne, come dire... in altre parole, io faccio questo, posso farlo, (eccola, la parola libertà, che qui entra gioco implicitamente ed a cui si ricorre  sovente per giustificare le proprie azioni, anche le più discutibili o quelle che, guarda caso, limitano invece la libertà altrui).
Fumo, bevo, mangio molta carne... Benissimo. Peccato però che a due azioni che, tutto sommato, rientrano nella piena facoltà di autodeterminazione di un individuo, viene accostata, come se si trattasse del medesimo genere di azione che rientra appunto nella facoltà di autodeterminazione di un individuo, quella di mangiare carne.
Ora, i tre verbi NON sono uguali; non sono uguali e non possono essere assimilabili al concetto di libertà di un individuo. Non sono uguali perché provocano conseguenze diverse: quelle delle prime due rivolte all’individuo stesso, ma quelle della terza, no!  Se uno vuole fumare cinque pacchetti di sigarette al giorno, ammesso che lo faccia ove non è vietato, ossia non nei luoghi pubblici dove costringerebbe altri a subire i danni del fumo passivo, è liberissimo di farlo. Cazzi suoi. Se uno anche si vuole sfondare di alcool, a patto che poi non se ne vada in giro in macchina rischiando di provocare incidenti o che non diventi molesto, sono altrettanti cazzi suoi; ma se uno invece si sfonda di bistecche... eh no, mica tanto, non sono per niente cazzi suoi, ma dei poveri animali che vengono uccisi per fornirgli le bistecche.
E allora, ‘fanculo il perbenismo, il politically correct, i benpensanti, io qui divento autoritaria e ti dico che tu la libertà di provocare la morte di animali innocenti non dovresti averla manco per niente! E che di questo termine, libertà, con cui tu ti sciacqui la bocca, io invece mi ci pulisco il culo. E sono stanca di tutta questa gente che nasconde il proprio qualunquismo sciacquandosi, sì, sciacquandosi, la bocca con parole come libertà, liberale ecc..
La tua libertà non può essere solo tua e basta, deve includere anche quella dell’altro, altrimenti è prevaricazione, non libertà!
Non ne posso più di tutta questa gente che continua a dire: “ah, ma tu non puoi imporre agli altri di prendersi questo impegno e quell’altro, tu devi lasciare libero ognuno di compiere le proprie scelte, ognuno deve essere libero di fare ciò in cui crede”. Benissimo. Allora lasciamo liberi i pedofili di importunare i bambini. Lasciamo liberi gli assassini ed i ladri di agire impunemente. Lasciamo libera la gente di sporcare e vandalizzare le città, le strade, i beni pubblici. Lasciamo libero chiunque di non assumersi  nessuna responsabilità delle proprie azioni in nome di questa illusione di libertà. Liberi di fare tutto ciò che si vuole.

Io ho capito una cosa diversa invece. Esiste solo un’unica libertà ed è quella di compiere scelte responsabili nei confronti della comunità tutta, quella di compiere scelte che siano in vista di un bene e di un benessere comune, collettivo, globale. Nessuna scelta rivolta verso l’interesse del singolo potrà dirsi libertà, ma solo qualunquismo e prevaricazione del più forte sul più debole.
E chi non sceglie è un ignavo, colui che, trincerandosi dietro la libertà di non volersi assumersi mai nessun tipo di impegno, in realtà contribuisce a tenere in piedi e a mantenere lo status quo di chi detiene il Potere.

Sono stanca di quelli che dicono - restando in tema veganismo, antispecismo, animalismo - “io ho fatto questa scelta, ma è la mia, non la posso imporre agli altri, ognuno è libero di fare quello che vuole”, perché qui non si tratta di mia e tua scelta, ma si tratta della vita, della sofferenza e della morte di miliardi di esseri viventi al giorno. Certo, imporre a qualcosa a qualcuno no, ma parlarne, discuterne, sensibilizzare, voler porre all’attenzione pubblica l’urgenza di una questione credo che sia dovere di tutti farlo (ovviamente riguardo qualsiasi questione, non solo quella dello sfruttamento degli animali). Chi sta zitto, che resta silente, chi si fa da parte, in realtà non fa che subire ed assecondare il gioco del più forte e degli aguzzini.
Se tu che mi leggi passi in una strada ed assisti ad uno stupro e passi via, senza intervenire in qualche modo, senza chiamare la Polizia, senza cercare di fermare il delinquente, è come se fossi responsabile anche tu di quello stupro. Perché vi hai partecipato assistendovi, senza dire nulla.
Scegliere, compiere una scelta, significa fare buon uso del termine libertà. L’unico uso possibile.
Altrimenti non è libertà, ma è solo un piegarsi al volere del più forte.

Noto che siamo nell’epoca del totale disimpegno sociale, nessuno si interessa più di nessuno, degli altri, del prossimo, se non il tempo della notizia che passa su Facebook.
Badate bene, tutti voi che mi leggete, io non sono una moralista, io anche credo che ognuno, purché nel rispetto del prossimo, debba e possa fare quello che gli pare. Quando mi appresto a voler giudicare un’azione, l’unica domanda che mi faccio è: “si fa del male a qualcuno (animale o uomo che sia)?” Se la risposta che mi do, è “no”, allora va bene.
Quel che però vorrei fosse chiaro che fare del male non significa soltanto fare un danno a qualcuno, ma anche lasciare che impunemente qualcun altro continui a farlo.
Se io noto che si sta facendo un danno e non dico nulla, lascio che avvenga, sono responsabile tanto quanto chi agisce direttamente (forse un po’ meno, ma comunque responsabile, in effetti anche la legge in alcuni casi punisce chi non è intervenuto ad evitare un crimine).
Questo è il senso della vera libertà: agire affinché possa esistere per tutti allo stesso modo, nell’interesse comune e non del singolo soltanto. Questo è vivere in modo partecipe, la maniera di far parte di una collettività. Dobbiamo capire che facciamo tutti parte di un unico ingranaggio e che se sta male una parte, prima o poi staremo male tutti.
E attenzione pure ad un’altra cosa: non c’entra nulla l’essere individualisti o meno; anche io sono un’individualista, perseguo una mia singolare maniera di pensare, non ho mai seguito, né avvertito come intimamente mia nessuna ideologia, né politica, né di altro tipo. Ho sempre tenuto a distinguermi dal comune pensare, ossia, mi spiego meglio, a cercare di svincolarmi da un pensare massificato e propagandato dai media o dalla cultura in cui sono nata, usando il più possibile una capacità critica, allenandola sempre; ho sempre tenuto a coltivare un mio gusto, un mio stile, una mia indipendenza di pensiero insomma. Sono un’individualista. Però capisco che, come singolo individuo, faccio parte di un tutto che è più grande di me - la società, ma il pianeta intero direi -  e che di questo tutto non posso non tener conto, soprattutto perché ne usufruisco a livello di benefici.
Fate conto di stare con tante persone in un appartamento: vivere liberamente significa perseguire e coltivare le proprie passioni, hobbies, interessi, ma anche sapere che nessuno dovrà invadere gli spazi vitali dell’altro ed attivarsi affinché questo non accada, quindi intervenire nel momento in cui ci si rende conto che qualcuno si sta approfittando dello spazio di qualcun altro. Questo non è un pensare ed un agire massificato, è un pensare e vivere in maniera individuale, ma rispettosa dell’altro, chiunque egli sia. In società, nel pianeta, dovrebbe poter avvenire la stessa cosa.
Questo sì che sarebbe un vivere nell’adempimento più pieno e totale della parola libertà.

lunedì 12 marzo 2012

Cani e Letteratura


Ci sono tanti scrittori cani, è vero... ma non è di loro che vorrei parlarvi oggi, bensì di alcuni cani resi celebri dalla letteratura, unendo in un unico post due mie grandi passioni, quella per la lettura di romanzi, che mi accompagna da quando ho iniziato a leggere e la curiosità e l’attenzione verso il mondo animale, che mi accompagna da quando ho iniziato ad aprire gli occhi sul mondo stesso (così dice mia madre).
Sono tantissimi i romanzi che raccontano dell’amicizia tra l’uomo ed il cane, ma ce ne sono alcuni più belli di altri e sono quelli in cui il confine (e la tanto discussa diversità) tra uomo ed animale viene messa da parte e si narra semplicemente dell’amore, di quell'amore e di quella comprensione capace di abbattere tutte le barriere linguistiche e di specie.
Inizio questa breve carrellata presentandovi Mr. Bones, l’adorabile compagno a quattro zampe di Willy, un poeta vagabondo, le cui avventure sono narrate in Timbuctù, romanzo di Paul Auster. Timbuctù è il nome di un posto speciale, un posto in cui finalmente cani ed umani potranno ritrovarsi, parlare la stessa lingua e vivere in armonia per sempre, fino alla fine del tempi. Il romanzo racconta la storia di una splendida amicizia e dei tentativi di Willy, cosciente di essere prossimo alla morte, di insegnare a Mr. Bones come cavarsela nel mondo e come fare a capire di quale umano potrà fidarsi e di quale no, dopo che sarà rimasto solo.
Le peripezie di Mr. Bones sono quelle di un classico romanzo di formazione; avventure e disavventure, in alternanza, faranno infine maturare in lui la convinzione di mettersi alla ricerca di Timbuctù, nella speranza di ricongiungersi al suo adorato amico Willy. Un romanzo tenero e struggente, a tratti esilarante, che ci farà parteggiare per il piccolo protagonista a quattro zampe e ci mostrerà il mondo visto e percepito attraverso gli odori e la sensibilità canina, diversa da quella umana, ma non per questo meno intensa o meno valida.
Altri due personaggi pelosoni che conservo nel cuore sono Blitz e Bella, molto più che semplici compagni di gioco del piccolo Useppe, protagonisti a tutto tondo di quel capolavoro letterario (ed uno tra i miei romanzi preferiti in assoluto) che è La Storia di Elsa Morante.
La bravissima scrittrice li considera e tratta al pari di veri e propri personaggi con tanto di pensieri e ricordi, spingendosi persino ad immaginare che Bella - uno splendido pastore maremmano bianco - componga dei veri e propri versi canini.
Useppe, il piccolo protagonista, è un bambino speciale, nasce, per così dire, già saggio, ignorante del mondo eppure capace di comprenderne a fondo l’intima armonia, così come ne sperimenterà quell’ineludibile condizione del dolore di cui porta il segno evidente attraverso la malattia che lo mina sin dalla più tenera età.
Un misto di bellezza e dolore, di poesia e crudeltà è la condizione dell’essere vivi, del venire e lo stare al mondo, una condizione di eterna tensione e lotta tra due opposti cui ogni essere vivente, tutta la Natura stessa - e tra le pagine più belle vi sono quelle in cui Useppe e Bella passeggiano in campagna e compongono versi interiori capaci di estendersi ad una comunicazione totale con tutto il creato - partecipano, pur se tenuti all’oscuro dei grandi eventi e meccanismi che regolano e fanno la Storia del mondo; e anzi, la bellezza di questo romanzo sta proprio nel riscatto che la Morante offre a tutti gli invisibili del mondo - la maestrina Ida, il piccolo Useppe, il fratello, compresi i due cani Blitz e Bella - personaggi invisibili, ma che pure fanno parte essi stessi della Storia, anzi, sono La Storia.
Altro personaggio indimenticabile della letteratura è Karenin, il cane reso famoso da Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere.
Karenin è molto di più di un personaggio, si può dire che strutturalmente, con il suo semplice apparire e scomparire tra le pagine, venga proprio a configurare quelle pause che permettono il procedere dei protagonisti Tomàs e Tereza; vera e propria sintesi tra la levità e la pesantezza del vivere, vissuta dall’animale senza mediazione alcuna e sperimentata nella piena e consapevole accettazione dell’amore e fedeltà vissuti come scelta.
Karenin è un’oasi di pace, il vero momento di leggerezza cui gli umani ambiscono senza mai davvero raggiungerla.
Tra le pagine più belle e struggenti della letteratura mondiale (almeno per chi ama i cani e gli animali in genere, senza distinzioni di sorta) rientra a pieno titolo proprio l’ultimo capitolo di questo capolavoro di Kundera, capitolo intitolato, non a caso, Il sorriso di Karenin; il sorriso di chi sa.
Un altro cane, reso però tristemente famoso, è Febo, di cui ho riportato alla fine di questo post proprio l’estratto che lo riguarda contenuto nel celebre romanzo di Curzio Malaparte, La Pelle.
Un vero e proprio racconto di denuncia dell’ignobile e inutile pratica della vivisezione: “E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. "Febo" dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito.”.
Febo viene trasfigurato qui a simboleggiare la statura superiore di colui che comprende e perdona l’incapacità dell’essere umano di percepire il meraviglioso e di accedere a quella dimensione elevata di amore ed empatia che sola riscatterebbe tutto il dolore e la sofferenza di cui la condizione dell’esistere appare impregnata in ogni sua fibra.
Febo, così come i suoi compagni di sventura, ridotti a corpicini messi in croce dall’umana stoltezza e miopia di sentimenti. Quel che ne emerge è la bellezza della vita animale, deturpata e sfregiata dall'umano.
Tempo fa mi fu consigliato invece di leggere un racconto di Thomas Mann, Cane e Padrone, in cui si narra della bella relazione che si viene ad instaurare tra un uomo e Bauschan, per l’appunto, il suo devoto e fedele cane.
Devo confessare che non sono riuscita a superare il primo quarto di libro e non per pigrizia o perché fosse poco coinvolgente, ma perché - seppure con tutto lo sforzo di un’indugenza resa possibile dalla conoscenza della stesura del romanzo, prima edizione risalente appunto al 1918 e quindi ad un periodo in cui certamente c’era meno sensibilità e più ignoranza riguardo la giusta maniera di rapportarsi e relazionarsi agli animali - mi ha infastidito parecchio la maniera in cui il protagonista uomo, l’io narrante - definito emblematicamente sin dal titolo, Padrone - tratta il “suo” cane, arrivando così a dispiegare tra le pagine una relazione tra uomo ed animale che conferma e ribadisce la sudditanza del secondo al primo e che, anziché abbatterle, pur nelle intenzioni di raccontare una grande amicizia, mantiene inalterate le barriere della diversità tra specie.
Premetto che potrei anche sbagliarmi, non essendo arrivata alla fine, magari procedendo nella lettura questa mia prima e frettolosa (lo ammetto: frettolosa!) lettura potrebbe venire del tutto ribaltata, ma già il titolo... insomma... predispone a leggere la relazione tra il cane e l’uomo in una maniera che reputo inaccettabile; nessuno deve dirsi padrone di nessuno.
E come non menzionare, arrivati a questo punto, il cane per eccellenza della storia della letteratura, il cane del famoso poema cui tutta la letteratura è debitrice e senza il quale probabilmente non avrebbe mai avuto inizio? Il cane è Argo e la storia è ovviamente l’Odissea di Omero. Argo è il primo ed unico che riconosce il suo amico Ulisse nel momento in cui, travestito da mendicante, mette di nuovo piede, dopo vent’anni di assenza, nella sua patria natale Itaca; e, ormai vecchio e stanco, come se per andarsene non avesse atteso ormai che quel momento, agita la coda, abbassa le orecchie, e poi spira, contento di aver rivisto almeno una volta il suo Ulisse; emblema della fedeltà per eccellenza, simbolo di un’intera esistenza vissuta nell’adorazione ed attesa del suo compagno umano. Un amore, un dono di sé totale, da cui avremmo molto di che imparare.
La lista dei cani famosi della letteratura, protagonisti indiscussi o solo co-protagonisti di personaggi umani, potrebbe senz’altro proseguire; si potrebbe citare ancora ad esempio la magnificenza animale di Zanna Bianca, lupo con un quarto di sangue di cane, nell’omonimo romanzo di Jack London, o anche Melampo in Pinocchio, il cane del contadino che furbescamente aveva stretto un accordo con le faine: quello di non abbaiare per avvertire il furto, a patto di ricevere una gallina come ricompensa; ma arrivati a questo punto io mi fermerei lasciando a voi la parola ed il piacere di raccontarmi, se vi va, qualche altra storia di qualche altro cane che la letteratura ha reso immortale.

Questo post è dedicato a King, Bubes, Charlie, Marty: tutti i cani della mia vita; e a quelli il cui sguardo ho solo incrociato, ma che, ugualmente, conservo nella memoria.

(nella foto, di Giorgio Cara, il mio amico Marty)

sabato 10 marzo 2012

Interpretazione di un testo letterario: intervista ad Emanuele Trevi

Sulla rivista MENTinFUGA è stata pubblicata una mia intervista ad Emanuele Trevi, noto ed assai apprezzato critico letterario e scrittore di romanzi; il primo marzo è uscito il suo ultimo lavoro, Qualcosa di scritto, edito da Ponte alle Grazie, del quale spero di scrivere prossimamente una recensione; l'intervista tratta invece un tema a me molto caro, ossia, come facilmente si evince dal titolo, l'interpretazione di un testo letterario, e la potete leggere qui.

giovedì 8 marzo 2012

Antispecismo e scelta vegan

Alcuni giorni fa un mio gentile e simpatico lettore, commentando un post, si chiedeva se si potesse essere antispecisti pur senza essere vegetariani o vegani o se, al contrario, si potesse essere veg* senza essere antispecisti.
La domanda è meno oziosa di quello che sembra, anzi, mi ha dato molti spunti di riflessione, da qui l’idea di scriverci un nuovo post, anche perché talvolta è proprio grazie all’atto dello scrivere che mi si chiariscono le idee. Anzi, a volte è persino successo che mi sono accorta di essere divenuta consapevole di un mio pensiero solo dopo averlo scritto.
Dunque, parto dalla seconda ipotesi, ossia se è possibile essere vegan (vegetariani o vegani, userò il termine vegan per intendere tanto gli uni, quanto gli altri) pur non essendo antispecisti: la mia risposta è , è possibile; ci sono infatti tanti vegan divenuti tali solo per motivi salutistici o di altro genere, o perché proprio repelle loro l’idea di mettere in bocca un pezzo di un animale morto, ma senza che siano particolarmente interessati alla liberazione animale ed ai loro diritti, oppure esistono persone che amano profondamente gli animali, ma non necessariamente la specie umana (magari hanno iniziato a nutrire inclinazioni misantrope proprio dopo l’aver constatato di quale grado di efferatezza e crudeltà è capace l'uomo nei confronti delle altre specie); potrebbero esistere anche vegan razzisti, o maschilisti, o omofobi, perché no? Persone di questo tipo non possono dirsi antispeciste in quanto discriminano ed emettono dei giudizi di valore sulla base delle diversità di etnia, genere, gusti sessuali.
Esistono anche vegan che continuano a ritenere la specie umana superiore, ma che per compassione, amore, generosità (ed altri sentimenti nobili) hanno rinunciato ad uccidere e a nutrirsi di altre specie, pur giudicandole inferiori. Questi non sono antispecisti. A queste persone va tutta la mia stima e considerazione, ma non sono antispecisti.
Per l’antispecista aggettivi come “inferiore” e “superiore” non hanno alcun senso (semmai lo hanno avuto, essendo gli attributi di basso, alto, caldo, freddo solo categorie e sempre relative) perché per fare un paragone tra due termini bisogna che sostanzialmente si parli del medesimo soggetto, altrimenti non è possibile applicare un medesimo parametro di valutazione; non è possibile dire “una mucca è superiore ad un pesce” perché si tratta di specie diverse la cui intelligenza non può essere valutata tenendo conto dei medesimi parametri di valutazione; così come, allo stesso modo, sarebbe fuorviante affermare che “un’automobile è più bella di un vaso di fiori”, essendo i due oggetti non comparabili tra loro per via delle diversità  di attributi (materiali, uso cui sono destinati ecc.) che li caratterizzano.
Così l’antispecismo semplicemente prende atto delle diversità esistenti tra specie (tra cui quella umana) e anziché stare ad emettere un giudizio di tipo quantitativo sulla presunta superiorità di una (o di più) rispetto alle altre, riconosce un valore di tipo qualitativo ad ognuna di loro. Non esistono specie superiori o inferiori: esistono specie diverse, ognuna dotata di un valore - quello inerente della vita, in primo luogo - ma anche quello di avere intelligenze e capacità adeguate all’habitat in cui si sono formate, sviluppate, evolute.
Spesso tante gente cade nell’errore di applicare i parametri che hanno definito la nostra intelligenza anche a specie diverse e sulla base di questi emettere un giudizio; secondo costoro una mucca sarebbe meno intelligente di un uomo perché non sa scrivere e non sa suonare uno strumento. Bene, per farvi rendere conto dell’assurdità e dell’infondatezza di qualsiasi paragone tra specie diverse io affermo la seguente proposizione: un’aquila è più intelligente di un bambino perché riesce a volare; oppure anche: un salmone è più intelligente di un uomo perché riesce a nuotare controcorrente.
Questi due esempi dovrebbero farci capire che non esistono specie superiori o inferiori le une rispetto alle altre, ma esistono specie diverse, ognuna diversamente intelligente secondo ciò che le è stato necessario apprendere per evolversi nel proprio ambiente; e che è persino sbagliato usare il termine intelligenza, in quanto è di diverse abilità e capacità, alla fin fine, che stiamo parlando, riferendoci alle specie animali.
Questo significa ragionare da antispecisti, oltre, ovviamente, e va da sé, rispettare ognuna di queste specie, in quanto tutte hanno valore e meritano di vivere liberamente senza dover essere assoggettate all’uomo.
E sempre per i presupposti di cui sopra non è possibile e non è ammissibile che un antispecista che si voglia definir tale continui bellamente a nutrirsi di animali o a giustificare l’uso della prevaricazione e della forza per ridurre miliardi di animali in schiavitù. 
Quindi, tornando al dilemma iniziale, se è vero che si può essere vegan pur senza essere antispecisti, non è possibile ed ammissibile il contrario. Se si è antispecisti, si è per forza di cose anche vegan (o, quantomeno, si è disposti a prendere seriamente in considerazione l'idea di un percorso di cambiamento delle proprie abitudini in tal senso).
Certo, come mi faceva notare un amico, l’essere umano è profondamente incoerente e spesso irrazionale e nulla vieta che un momento possa definirsi in un modo e quello dopo agire in maniera del tutto contraria, ma, a mio avviso, questo tipo di cieca e folle “libertà” non rientra nella definizione di antispecismo.
È troppo facile volersi definire in una determinata maniera e poi però agire in quella opposta. Conosco tanti che dicono: “no, io non sono razzista, però...“. Ecco, quel “però” non dovrebbe entrarci in una statuizione del genere. Troppe volte ho sentito dire: “non sono razzista, però se mia figlia si sposasse con un senegalese non sarei contenta” e troppe volte ho capito che ciò che segue a quel “però” è invece la massima espressione di un razzismo latente che non vuole essere riconosciuto o accettato come tale. Ma c’è. Il non volerlo riconoscere o accettare non lo rende meno evidente e meno biasimevole.
Allo stesso modo chi afferma di essere antispecista, però ammette che si possano mangiare gli animali, in realtà sta implicitamente ammettendo di essere vittima dello specismo, seppure inconscio. Se l’antispecista è colui che riconosce pari valore e dignità ad ogni specie, non può trovare legittimo il volerla strumentalizzare per fini alimentari (o di altro) e questo perché semplicemente qualsiasi atto di strumentalizzazione non riconosce il soggetto per quel che è, ma per quel che potrebbe essere utile.
Ogni relazione fondata su un interesse egoistico di solo uno dei due componenti, su un rapporto quindi utilitario, è una relazione impari. Chi si dichiara antispecista invece rifiuta questo tipo di concezione utilitaristica tra esseri viventi, qualsiasi specie appartengano; quindi un vero antispecista non potrà mai dire: “io amo e rispetto il maiale per le sue carni gustose”, ma, al contrario, dirà: “io amo e rispetto il maiale per quel che è, a prescindere da qualsiasi utilità potrebbe avere per me”.
È troppo facile altrimenti voler essere tutto ed il contrario di tutto.
Troppo facile dirsi in un modo e poi comportarsi in maniera poco coerente rispetto a quando si va proclamando a parole. Predicare bene e razzolare male è un vizio vecchio come il mondo.
Alla luce di tutte le riflessioni fatte fin qui, se si è antispecisti, si è anche per forza di cose anche vegan, o lo si diventa magari dopo aver compreso che non è possibile scegliere altrimenti.
Io credo, ma questa è una riflessione trasversale, en passant, diciamo, che il grande problema di oggi sia quello che nessuno ha più voglia di assumersi la responsabilità di ciò che dice e pensa. Ci hanno abituato a dire e ritrattare tutto nel giro di pochi secondi, ci hanno abituato che l’onore di mantenere una parola data - ossia di renderla concreta, di renderla cosa viva - non conta più, non ha più importanza. E invece noi siamo in primo luogo quel che facciamo e come agiamo nel mondo, oltre l’aleatorietà di qualsiasi parola detta.
Definirsi antispecisti e poi però lasciar morire questa definizione, senza che ne segua la piena assunzione di una propria responsabilità nei confronti di tutte le altre specie -  responsabilità che va nella direzione di una cura, di un rispetto, di una protezione - in sé, non significa nulla. Per far significare una definizione, un concetto, una maniera di dirsi e di essere, bisogna che si agisca e ci si comporti di conseguenza.
Io sono antispecista: io riconosco valore ad ogni specie animale, io rispetto ogni specie animale, io non mangio, non uccido, non riduco in schiavitù chi ha il mio medesimo valore. Io perciò ho scelto di diventare anche vegan.