lunedì 30 ottobre 2017

Di bestemmi e religioni

Ho notato che a tante persone danno fastidio le bestemmie, anche se non sono credenti. Gli danno ancora più fastidio se a pronunciarle sono le donne (rivelando così, oltre al perbenismo, anche un po' di sessismo inconscio).
Di fronte a questo fastidio palesato, immancabilmente mi torna in mente la famosa frase di Apocalypse Now: "Addestriamo dei ragazzi a sganciare Napalm sulla gente, ma i loro comandanti non vogliono che scrivano “cazzo” sugli aerei perché è una parola oscena.".
Viviamo in una città violentissima, sterminiamo migliaia di animali non umani al secondo (e non è un'iperbole), fomentiamo guerre per mantenere i nostri folli standard di vita occidentali, respingiamo i migranti alle frontiere perché ci ricordano quanto siamo stronzi, e di fronte a tutto questo orrore quotidiano ("l'orrore, l'orrore...", come direbbe il Colonnello Kurtz) ci scandalizziamo quando sentiamo una bestemmia come se fossimo signorine dell'ottocento cresciute a pane e bibbia.
Cos'è che vi scandalizza? Il dissacrante, l'aver introiettato una morale catto-borghese nonostante ideali diversi? Perché una parola diventa una parolaccia da non dire?
Io trovo gravissimo usare il nome comune di animali per denigrare e offendere perché l'uso di questo linguaggio conferma e rafforza lo specismo e lo specismo ha conseguenze reali, concrete, ma scandalizzarsi per nominare un dio o un santo o altre figure della religione in cui si afferma di non credere, che senso ha? Chi si offenderebbe, nello specifico?
Chi crede? Eppure, se ci pensate bene, giudichiamo folli i Testimoni di Geova e non ci facciamo scrupolo nel mandarli affanculo solo perché sono una minoranza, ma riconosciamo sacertà e pretendiamo rispetto quando abbiamo a che fare con la religione ufficiale del nostro paese, anche se propugna gli stessi identici contenuti folli; la religione cattolica continua a preservare, anche per i non credenti, quell'aura di intoccabilità che la cultura in cui viviamo ci ha inculcato sin dalla nascita e non viene riconosciuta come altrettanto folle delle altre religioni minoritarie solo poiché condivisa dalla maggioranza, quindi normalizzata (quando un'ideologia o religione sono molto diffuse diventano invisibili, esattamente come il carnismo).

E comunque la bestemmia ha un'innegabile funzione liberatoria, come il riso, perché scardina ciò che comunemente viene considerato intoccabile, quindi ha a che fare con l'istituzionale, con il potere; si può dire che essa assuma un po' la stessa funzione del carnevale, infatti la bestemmia spesso è goliardica.

Se ti è piaciuto questo post, forse potrebbe interessarti anche questo: http://www.ildolcedomani.com/2015/01/di-grandi-gnomi-satira-e-religioni.html

domenica 22 ottobre 2017

Carne felice, allevamento estensivo e altre menzogne

Immaginate un cucciolo pieno di gioia di vivere alla scoperta del mondo. 
Immaginatelo mentre corre nei prati, annusa i fiori, le foglie, l'aria, conosce la pioggia, il vento, il sole.
E poi immaginatelo mentre, un bel giorno, all'improvviso, viene strappato via da tutto questo e portato al macello.
Nel pieno della sua infanzia/adolescenza. Perché qualcuno ha deciso che la sua vita non gli appartiene, che non può essere soggetto della sua stessa esistenza, ma corpo da trasformare in prodotto.
Questo è l'allevamento estensivo.
Nella "carne felice" l'aberrazione, la violenza, l'orrore si spingono ai loro massimi livelli. 
Ogni allevamento implica la sottrazione della libertà e il dominio totale sul corpo di qualcun altro.

venerdì 20 ottobre 2017

The last pig


Perché The Last Pig è un ottimo documentario.

Lo è nella scelta del soggetto, intanto: raccontare la storia di un uomo, un allevatore di maiali, che un giorno realizza di non voler più avere il potere di decidere della vita e della morte di qualcun altro. Bob non ha il classico allevamento intensivo di migliaia di animali, ne gestisce uno piccolo, di poco più di duecento individui, trattati nel miglior modo possibile. Ma destinati comunque a diventare quella che il mercato chiama "carne felice". Bob si rende conto che questa carne di maiali felici non è poi così felice. Apre un blog e racconta i suoi dubbi. Qualcuno lo legge. La sua storia arriva alle orecchie di Allison Argo (documentarista attiva da oltre 25 anni e nota per le sue storie forti e i ritratti di animali oggetto di sfruttamento e in pericolo. Vincitrice di sei Emmy Award e di oltre cinquanta premi internazionali, ha prodotto, scritto e diretto film trasmessi da PBS e National Geographic) che da tempo aveva in mente di raccontare una storia sugli animali non umani "d'allevamento" e così lo contatta. Tra loro nasce un'intesa. Bob vuole che la sua storia sia raccontata, ma il tempo è poco, lui ha deciso che dopo l'ultimo gruppetto di maiali che sono ancora nella sua proprietà non ne prenderà altri e convertirà la sua attività in produzione di ortaggi. Si comincia a girare subito, senza soldi, poi verrà aperto un crowfunding cui ha contribuito l'associazione Essere Animali, la stessa che ne ha curato i sottotitoli in italiano e organizzato il primo tour nel nostro paese, di cui ieri la tappa romana. 
Lo è perché le scelte registe e stilistiche di Allison hanno una serie di punti di forza: il primo, è quello di non scivolare mai nella retorica aggiungendo materiale di finzione o preparato. Hollywood ne avrebbe fatto un prodotto strappalacrime; Allison ha raccontato, con la massima sincerità possibile e con molto rispetto, una storia vera. Un documentario vecchia maniera, se vogliamo, in cui il protagonista viene filmato mente svolge la sua attività quotidiana e dove la voce fuori campo è molto discreta, giusto a sottolineare qualche particolare passaggio interiore (e specifico sottolineare, perché comunque è tutto già molto visibile a livello visivo). 
Il secondo è che la macchina da presa è ad altezza occhi dei maiali. Uno sguardo soggettivo del loro mondo, delle loro esperienze, emozioni; quelle positive, quando esplorano la realtà circostante, osservano Bob curiosi e interessati, apprendono, giocano e comunicano tra loro, e quelle negative, di paura e terrore quando vengono fatti salire sul furgoncino che li conduce al mattatoio.
Ho apprezzato in particolare la scena del mattatoio, un terzo punto, veramente molto potente, che già da solo reggerebbe tutto il film: si lavora per ellissi, si racconta un prima e dopo. Allison sceglie di non mostrare la violenza; viene invece evidenziata l'assenza, questa graduale sparizione dallo spazio filmico degli individui che stanno andando a morire. Prima sono in cinque/sei, un piccolo gruppetto, poi in quattro, tre, due, fino a che non ne rimane uno solo. L'ultimo maiale è anche lui. In questo, terribile, senso. Allison si sofferma sul suo sguardo: lui ha capito, è visibilmente stressato, ha la lingua di fuori e ansima dal panico. Ha già visto tutto i suoi compagni, fratelli, amici, sparire in quello spazio che odora di sangue e di morte. Sa che tocca a lui e non c'è rimasto nessun altro a consolarlo. Nemmeno Bob, di cui si fidava. Questa scena è un colpo al cuore. 
Ciò che ci comunica non è la violenza - sarebbe stata una scelta fin troppo banale e scontata - ma il senso di ingiustizia. Il senso di profonda ingiustizia di vedere questi individui pieni di gioia, visibilmente felici fino a un attimo prima e poi, nel momento subito successivo, quei loro corpi palpitanti di vita trasformati in prodotti, in pezzi di carne livida.
In una fase storica come questa in cui il sistema si appella al concetto di "carne felice" per mettere a tacere i dubbi di sempre più persone in merito alla liceità o meno di schiavizzare e sfruttare animali, The Last Pig ci dà la sua risposta, ed è una risposta potente, che non lascia adito a dubbi.
Allevare esseri senzienti, seppur concedendo loro la miglior vita possibile nel breve lasso di tempo prima che raggiungano il peso ottimale (richiesto dal mercato) per andare al macello, è sempre qualcosa di terribilmente sbagliato, ingiusto, aberrante.

lunedì 16 ottobre 2017

Oste, com'è il vino? È 'bono!


Lo so, è deprimente, ma là fuori stiamo ancora a "ma il ferro e le proteine dove li prendete voi vegani?", "i bambini vegani muoiono" o "i vegani sono brutti e perdono i capelli".
Colpa della disinformazione mediatica e della tivvù che campa con i soldi di Amadori, Rovagnati, Parmalat e affini.
Ora, chi mi conosce sa che non parlo mai di veganismo dal punto di vista della dieta, però giusto oggi un amico mi ha posto delle domande legittime e poco fa ho letto altri commenti sotto a un post di un altro amico che mi hanno fatto venire voglia di dirle, due cosine, giusto due. 
Facciamo così, copio-incollo parte del commento che ho scritto in risposta alla domanda del primo amico (mi chiedeva inizialmente delle uova), ci aggiungo qualcosina, e lo lascio qui, a beneficio di chi ha ancora dei dubbi.
Quando ho deciso di diventare vegana mi sono preparata, ho ascoltato conferenze di medici e nutrizionisti già preparati sul tema, letto decine di articoli, e mi sono consultata anche con medici di base un minimo aperti sul tema, quindi con voglia di informarsi e, soprattutto, onesti intellettualmente. 
Non ho fatto le cose a caso perché alla mia salute ci tengo e nonostante avessi amici già vegani da decine di anni, volevo esser sicura di non andare incontro a carenze. Perché, lo ammetto, il lavaggio del cervello che ti fanno sin da quando nasci è potente e un po' di timori giustamente ce li avevo. 
Premesso questo, posso ora affermare con cognizione di causa le seguenti cose.
La dieta vegana è perfettamente sostenibile, a patto che sia varia, ma questo si può dire di qualsiasi tipo di dieta perché anche mangiare solo carne senza verdure e cereali farebbe male. Le uniche vitamine che bisogna integrare sono la B12 e la D. Ma queste sono vitamine cui tutti devono prestare attenzione ed eventualmente integrare (tant'è che tutti gli integratori che si vendono in farmacia da anni sono consumati dall'intera popolazione, mica solo dai vegani): la D perché con lo stile di vita che quasi tutti conduciamo, che consente una scarsa esposizione al sole, è carente in quasi tutti noi; la B12 perché è una vitamina prodotta da un batterio presente nel terreno e, a meno che non ci mettiamo in bocca manciate di terra, dubito che la si possa assimilare; un tempo si consumavano verdure cresciute in terreni ricchi di questo batterio, oggi sono piene di pesticidi e tocca lavarle e poi ci sono coltivazioni di serra e tanta altra roba artificiale rispetto a un tempo e infatti nemmeno gli animali d'allevamento - che mangiano foraggio e non escono all'aperto - sono in grado di assumerla direttamente, tant'è che gli viene somministrata tramite integratori. Queste sono le uniche due vitamine cui bisogna prestare attenzione e che si possono assumere tranquillamente tramite integratori. Vitamine di cui sono carenti anche molti onnivori. Per il resto legumi, cereali (di vario tipo, farro, orzo, miglio, grano, riso, ecc.), verdure, ortaggi, frutta fresca e secca e semi oleosi ci danno tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. Conosco tante famiglie vegane che hanno bambini svezzati vegani in ottima salute. Conosco vegani che mangiano pure piuttosto maluccio perché magari vanno di corsa e non sempre hanno tempo di cucinarsi, ma stanno bene lo stesso, l'importante comunque è farsi le analisi del sangue almeno una volta all'anno, controllare se tutti i valori sono a posto e in caso correggere l'alimentazione o integrare. Io per sicurezza la B12 e la D le prendo, pure se in dosi minime perché comunque, nonostante sia vegana da quasi sei anni e vegetariana da otto, ho tutti i valori a posto. Avevo solo il ferro un po' basso, ma sono sempre stata anemica, pure da bambina, quindi cerco sempre di assumere della vitamina C (mezzo limone spremuto o un kiwi, un'arancia) quando mangio vegetali e legumi che sono ricchi di ferro, così da riuscire ad assimilarlo meglio. Lo so, sembrerà di dover fare attenzione a troppe cose, ma in realtà poi diventa una cosa semplice, ordinaria e del resto ogni bambino, adolescente, adulto che sia deve prestare attenzione alla dieta nelle varie fasi della crescita. Gli onnivori a una certa età devono far attenzione al colesterolo, al diabete, all'obesità ecc., che sono tutte patologie potenzialmente mortali. Con la dieta vegana basta solo far attenzione alla B12 e D. Non ascoltate il terrorismo psicologico che fanno i vari Calabrese in tv, è pura disinformazione mediatica. Nessun bambino è mai stato ricoverato in ospedale per carenze, si è sempre trattato di notizie infondate e poi smentite. O in un caso il bambino non era vegano, oppure era sì vegano, ma era stato ricoverato per patologie che riguardavano tutt'altro che la nutrizione. Purtroppo le lobby degli allevatori, i medici che sostengono la vivisezione (e quindi devono screditare il movimento animalista in toto) fanno disinformazione e si inventano casi inesistenti. 
Ma poi, scusate, se ci dicono menzogne riguardo la carne felice (col maialino che ride felice di andare al macello), il benessere animale ecc., perché mai non dovrebbero dirle anche riguardo la dieta vegana? Chi dice che gli animali dentro gli allevamenti stanno bene è una persona in malafede e direbbe qualsiasi cosa pur di difendere strenuamente la categoria cui è legata da interessi economici. Questo non è complottismo, è semplice osservazione e analisi della realtà.
Se pensate che uccidere e sfruttare gli animali sia ingiusto, ma avete paura che diventare vegani sia pericoloso, scrivete pure ai tanti medici e nutrizionisti preparati sul tema, leggete libri, chiedete a un amico che è già vegano da tanti anni, qualsiasi cosa, ma non date retta ai medici faziosi in tivvù o all'opinione del vostro macellaio di fiducia o di chi campa sullo sfruttamento animale.
Ovvio che l'allevatore vi dirà sempre che la carne è necessaria.

P.S.: so che state pensando che anche io potrei essere di parte e vi tranquillizzo subito, certamente lo sono, dalla parte degli animali. Degli animali oppressi, umiliati, privati della dignità e del semplice diritto a vivere un'esistenza libera dal dominio dell'homo sapiens. Ma non ci guadagno nulla, se non la gioia di poterli finalmente guardare negli occhi sapendo che se anche dovranno morire, non sarà certo in mio nome. 

Foto presa dal web di Jerick Aldrin P. Ilagan

giovedì 12 ottobre 2017

Il danno del procrastinare


Per tanti anni ho rimandato a domani quello che avrei potuto fare subito.
Sapevo che il prosciutto, i salumi, la carne che mangiavo in generale venivano prodotti in modi terribili e che tantissimi animali dovevano soffrire e morire per questo. Però mi focalizzavo sul discorso degli allevamenti intensivi, ossia non mettevo in discussione il concetto stesso di mangiare carne, ma dicevo soltanto che sarebbero dovute cambiare le condizioni di allevamento.
Intanto però, nell'attesa di un miglioramento di queste condizioni - che non avverrà mai poiché inconciliabile con il fine del profitto - continuavo a mangiare prosciutto, salame e carne provenienti da lager infernali. Così sostenendo e restando complice di sofferenza inimmaginabile. E, quel che è peggio, continuavo a dichiarare di amare gli animali. 

E tu, cosa pensi di fare? Continuare a rimandare ancora o dissociarti oggi stesso da un sistema che produce orrori indicibili? 

Nella foto: un'immagine ottenuta dal team investigativo Free John Doe all'interno di uno dei tanti allevamenti italiani fornitori di prosciutto. L'immagine, pubblicata sulla pagina Facebook del gruppo di supporto, riporta la seguente didascalia: "La morte dimenticata di un maiale in un allevamento. Ha circa quattro mesi di vita, un'emorragia al naso e vari lividi sul corpo. Probabilmente è stato calpestato dai suoi simili all’interno di un recinto di pochi metri quadrati dove sono stati rinchiusi troppi animali. Quanto ci vorrà perché il suo decesso venga notato dagli allevatori? Quante ore ancora la sua carcassa rimarrà per terra, immersa nei suoi stessi escrementi? Quanto passerà prima che gli altri maiali si accaniscano sul suo cadavere e lo divorino?
Per il team investigativo di Free John Doe il momento più difficile è trovarsi di fronte a scene come queste. Testimoniare la morte e la sofferenza affinché la gente sappia, affinché le cose possano cambiare."

domenica 1 ottobre 2017

La mia Berlino


Berlino non è una città bella. Non ha niente dell’eleganza di Londra o Parigi, per esempio,  né della monumentalità di Roma o Madrid, ma ti conquista per il carattere composto da più e diverse anime da approfondire senza fretta; ti affascina per l’atmosfera vivace e rilassata al tempo stesso dei localini, pub e cafè, decorati con le lucine colorate anche se non è Natale, che si affacciano sulle strade, sonnacchiosi nel primo pomeriggio e pieni di vita la sera; ti colpisce per i tanti negozietti indipendenti e stracolmi di oggettini e abiti vintage, quasi tutti in ottimo stato a prezzi eccezionali, mercatini delle pulci dove puoi trovare delle vere e proprie chicche, librerie con angolo caffè, gallerie d’arte, ponti che si affacciano sullo Spree e angoli da cui sbucano palazzi colorati e ferrovie sopraelevate; ti sorprende per i colori della street art, i cortili dei palazzi che si intravedono attraverso portoni finemente decorati, i parchi e giardini pieni di cornacchie, passerotti e gazze; ti rattrista per i tanti luoghi della memoria e ti fa chiedere come sia stato possibile che una città così accogliente abbia potuto esser teatro di un passato così oscuro; ti fa capire meglio l’anima del romanticismo, non a caso nato proprio in Germania, mentre passeggi per il grande parco pieno di salici e arbusti selvatici che taglia in due la città, percorso da biciclette veloci, runners e vecchietti che si tengono per mano; ti alleggerisce il cuore quando entri nei quartieri più giovani dove si respira politica e aria di controcultura, con i punkabestia che ti battono il cinque e ti sorridono senza motivo, pieni di locali vegan, alcuni proprio animalisti, lo capisci dagli adesivi che tappezzano le pareti dei bagni; Berlino è quella delle notti un po’ strambe, vagamente surreali, in cui ti sembra di essere capitato dentro a un film: una ragazza in bici dal cui cestino spunta un unicorno gigante, un’altra che corre da una parte all’altra della strada trasportando un lampadario più grande di lei, un ragazzo in fuga dopo esser fuggito da un locale senza pagare, inseguito da un cameriere e poi da un altro ancora e poi da un passante che si è aggiunto senza sapere né cosa e né perché, una scultura dinamica di bottiglie di birra vuote che cresce e si modifica man mano che ne vengono scolate altre sul momento, che è un inno artistico all'alcolismo o forse alla disperazione, ma che comunque ti fa soffermare e pensare e sperare che la solitudine del tizio si attenui un po' e infine uno strano tizio che cammina con una pianta in testa, occhi bassi e passi veloci;  e poi quella della protesta politica il giorno delle elezioni, con ragazze e ragazzi che si sono buttati completamente nudi nel fiume mentre sopra il ponte i loro compagni hanno srotolato uno striscione; le biciclette che tagliano l’aria silenziose e che se non stai attento ti mettono sotto senza troppi problemi, le piste ciclabili ovunque, talmente ovunque che a volte ti ci ritrovi in mezzo rischiando, appunto, di essere investito; il trenino giallo sulla ferrovia sopraelevata che oltre a portati per lungo e per largo ti offre anche la più bella vista della città, una vista che mai nessun bus turistico potrebbe eguagliare; il battello sullo Spree, che sì, è un po’ turistico e per vecchietti, ma vuoi mettere la possibilità di vedersi scivolare la città accanto sorseggiando birra immersi in una luce del crepuscolo talmente bella, ma così bella come non ho mai visto nemmeno a Roma (che in quanto a luce pensavo non avesse rivali); e le sdraio colorate lungo il fiume dove i giovani sorseggiano birra già al tramonto, ascoltano musica, fumano, amoreggiano e si divertono; l’atmosfera retrò e un po’ fiabesca di alcuni quartieri, con i palazzi color verde acqua che ricordano le case delle bambole e altri ricoperti di edera e delle sfumature rossastre della vite americana; la cupezza improvvisa di quella torre che un tempo ha ospitato un lager provvisorio, oggi suddivisa in appartamenti abitati, il senso di colpa misto al desiderio di andare avanti, di superare, ricordare e dimenticare, morire un po’ dentro e poi sentirsi scendere le lacrime di fronte all’East Side Gallery; Berlino è tante cose insieme, cose che sono difficili da spiegare, da raccontare, da intrappolare in uno scatto. Ci si sta bene a Berlino, tanto bene, ti senti a casa, rilassato, i tempi sono lenti, c’è poco traffico, poche persone ovunque perché è molto estesa, le strade sono immense, i marciapiedi anche, i locali, anche se piccoli, hanno spazi all’aperto e arredamenti accoglienti, spesso modesti, ma caldi. Berlino est è quella che mi è piaciuta di più per la sua atmosfera viva e includente. Come ho detto all’inizio, non è bella nel senso classico, ma ha dalla sua il saperti accogliere, rispetto a Londra, per esempio, che rimane altera, respingente e persino un po’ snob (per quanto sia un’altra città che adori). Berlino ti fa venire voglia di pensare: ecco, qui mi fermerei, sento che qui potrei viverci bene, rilassata, senza fretta, senza ansia, senza stress. 
Berlino è anche quella dell’arte, dell’isola dei musei, architettura splendida e ricca di opere all’interno, della fondazione di Helmut Newton al museo della fotografia, foto tante belle quanto speciste e sessiste, ma una visita la merita lo stesso, se non altro per capire come, sfortunatamente, la donna sia stata vista nei vari periodi storici e perché, se oggi siamo ancora immersi nel maschilismo, la colpa la dobbiamo un po’ anche alle riviste di moda e ad artisti come il suddetto; si può esser bravi, dannatamente talentuosi, ma al servizio di un pensiero sbagliato.
Berlino è anche quella di alcuni particolari che ti restano in testa e a cui ti affezioni, come il cloc cloc dei semafori con l’omino che divenne famoso nella DDR, una delle icone nostalgiche sopravvissute, l’aria frizzante, la pioggerellina leggera che non serve l’ombrello, il sole che appare e scompare come se si divertisse a fare i dispetti. La birra a meno di due euro, gli ottimi felafel e le Bäckerei invitanti (qualcosa di vegan si trova sempre).
Berlino è quella del Katzencafé, dove un po’ avevo paura di entrare per timore di vedere i gatti stressati dai visitatori, e invece ho trovato un ambiente super tranquillo e rilassato, molto rispettoso dei gatti, con doppia porta per non farli scappare e raccomandazioni su come usarle scritte a caratteri cubitali; divanetti comodi, cioccolate calde (anche con latte di soia), cuccette dei mici un po’ ovunque e camminatoi sopraelevati, alberi finti per farli arrampicare e sinceri amanti dei gatti che si impegnavano a non disturbarli, anche se poi erano i mici stessi a venire, in cerca di coccole e per giocare un po’.
La mia Berlino, la nostra Berlino, è stata quella dei percorsi un po’ a caso e un po’ seguendo l’ottima guida “Percorsi d’autore”, consigliataci dagli amici Francesca e Daniele, che ti porta a scoprire angoli inediti e quartieri meno turistici per assaggiare un po’ della vita - e delle notti - dei Berlinesi, dagli hipster, agli intellettuali nostalgici della DDR, fino ai giovani dei centri sociali.

La mia Berlino è anche quella dell’incontro con l’amica Francesca conosciuta su Facebook che avevo sempre desiderato incontrare dal vivo e che, guarda caso, soggiorna qui proprio negli stessi giorni perché Berlino è anche la città dove hai la sensazione che tutto possa accadere, compreso incontrare pure un altro amico all’aeroporto il giorno del rientro. La città degli incontri.

Ed è anche quella che mi ha fatto venire voglia di comprare al mio rientro a Roma “Ognuno muore  solo”, il libro di Hans Fallada, un romanzo sulla storia della Resistenza tedesca e che oltre a raccontare un episodio toccante di lotta contro un potere spietato, è anche una testimonianza della vita quotidiana degli abitanti del quartiere Prenzlauer Berg sotto il terribile terzo reich. 

Certo, cinque giorni sono pochi per carpirne davvero tutte le anime, per vedere tutto quello che interessa vedere, cinque giorni sono giusto un assaggio, un assaggio gustosissimo che ci ha fatto venire voglia di tornare ancora. 

Altre foto è possibile vederle qui.