domenica 24 luglio 2011

Aurora di Piercarlo Paderno



C’è poi un momento magico, che è quello in cui il cane si sblocca ed inizia a vivere

E c’è la possibilità che quel momento magico arrivi per ognuno di noi: quello in cui arriveremo finalmente a comprendere il valore assoluto della vita; di ogni vita.
La protagonista di questo coraggioso, toccante e ben diretto film è Aurora, una ragazza che studia Biologia presso l’Università di Trento e che, quasi per caso, entra a far parte di un gruppo di animalisti attivisti che si prodigano per liberare gli animali dai laboratori di vivisezione.
Lo sviluppo narrativo procede appoggiandosi su due distinti ed apparentemente separati piani formali: quello lineare, in cui a poco a poco ci vengono presentati i membri del gruppo (due ragazze e due ragazzi, cui si unirà Aurora) e vengono mostrati stralci delle loro giornate in cui discutono, fanno piani, si organizzano, si allenano (interessante e  densa di significato la scena in cui si esercitano in palestra a simulare l’arrampicata in montagna, con valenza senz’altro metaforica di una fatica da compiere che porti al coronamento di un ideale che, seppur lontano, rimane tuttavia come mèta possibile ed auspicabile da raggiungere); e quello onirico, spesso solo un breve intermezzo, in cui i sogni di Aurora - come inquiete presenze - aggiungono un elemento di disturbo, ma anche, arricchendola, di vivacità e colore alla vicenda, il cui unico rischio, a mio avviso, intelligentemente evitato dall'abile mano del regista, poteva essere quello di scivolare nella dimensione monocorde del taglio quasi documentaristico cui solitamente vengono affidate tematiche simili.
E saranno proprio questi brevi momenti onirici a conferire al film non solo compattezza formale, ma anche a restituire, sul finale, tutto il senso e la portata del messaggio che interessava diffondere.
Tra le pieghe di un discorso che sicuramente non ha bisogno di troppe spiegazioni (quello della liberazione di tutti gli animali e della fine del loro asservimento all’uomo) e che è palese ed evidente sin dagli inizi del film, Piercarlo Paderno ad un certo punto introduce un escamotage narrativo per affrontare e mettere in luce uno dei dilemmi da sempre più discussi nel mondo animalista: è più giusto fare un discorso a lungo raggio d’azione, in vista di un miglioramento futuro delle condizioni degli animali e quindi evitare di mettersi ai margini della legalità, di esporsi e di affrontare certi rischi (quali quello di essere considerati terroristi e ladri solo per aver portato via degli esseri viventi dall’inferno dei laboratori della vivisezione), aspettando che la società tutta divenga più sensibile e si evolva, oppure, semplicemente, senza stare a fare tanti discorsi filosofici e a teorizzare in astratto l’utopia di un mondo migliore, intanto attivarsi ed agire nel presente per  salvare più vite possibili?
I ragazzi del film ad un certo punto si trovano a compiere un’ardua scelta: sono stati costretti ad abbandonare la loro auto con dentro i conigli che avevano liberato in seguito ad un’azione poiché inseguiti dalla polizia che era sulle loro tracce da tempo (interessante la figura dell’agente Diego Vega - nomen omen? - il quale, pur obbedendo agli ordini del procuratore che ha ricevuto l’incarico di indagare sul “furto” dei topi e di altri animali dai laboratori di vivisezione, sembra avere qualche perplessità sul caso che sta volgendo: “e se avessero ragione loro?”, dice ad un certo punto alla moglie, dopo aver dato da mangiare al proprio cane e, soprattutto, sul proprio ruolo pubblico di agente di polizia; ruolo che viene marginalmente discusso anche da una delle ragazze, la quale spiega ad Aurora che un poliziotto, anche se con una bella luce negli occhi, deve comunque recitare un ruolo, e quindi imparare a comportarsi in maniera spietata); cosa fare quindi? Tornare indietro, come è determinata a fare Aurora, per recuperare i conigli (“sono già fuori. Non possiamo lasciare che ritornino dentro, per essere nuovamente torturati”), avendo però la quasi certezza di trovare la polizia ad aspettarli e quindi di venire tutti arrestati (anche se andasse solo uno di loro, come suggerisce Aurora che si presta volentieri a correre il rischio, in quanto poi verrebbero sicuramente rintracciati tutti gli altri), oppure lasciare quei conigli lì, in attesa di sofferenze indicibili e morte certa (“tanto abbiamo salvato almeno i cani"), accettando il fallimento dell’azione e dedicarsi a progettare altre azioni future?
E la vita, quella di tutti, di un essere umano come del più minuscolo insetto, è un valore che si può quantificare, che è giusto quantificare? O non è, piuttosto, un valore assoluto, inestimabile, unico e prezioso e quindi, come tale, degno di essere salvaguardato ovunque e sempre? Cos’è più giusto fare, lasciare quei conigli al loro destino accettando il fallimento dell’azione, oppure tentare e lottare comunque, ad oltranza, fino alla fine, anteponendo la nobiltà dell’ideale ad ogni considerazione personale? E il vero ideale, qual è? L’utopia di un mondo migliore, sicuramente una mèta vista ancora come lontana rispetto al presente, o piuttosto la concretezza di un’azione immediata, non più procrastinabile, nata dalla spinta profonda del cuore nel superamento di ogni astrazione e di ogni dubbio che può diventare facilmente alibi per non agire ora?
Aurora è un film che ha un significato profondo, che è innanzitutto simbolicamente racchiuso nel nome della protagonista, appunto Aurora, ossia la visione potente dell’alba di un giorno nuovo, di un giorno che vedrà il coronamento del sogno della liberazione di tutti gli animali da tutte le gabbie in cui sono imprigionati; ma è anche il risveglio della coscienza di tutti noi, che siamo imprigionati in ben altre gabbie, quelle dell’egoismo e dell’ottusità mentale, quelle che ci impediscono di scorgere negli occhi di un cane torturato i nostri stessi occhi, quelle ci impediscono di scorgere nella sofferenza di altri esseri viventi la nostra stessa sofferenza, quelle che ci impediscono di comprendere che - seppure appartenenti a specie diverse - abbiamo tutti il medesimo inestimabile valore della vita. Il giorno, quel giorno in cui finalmente sorgerà l’aurora di una nuova ed accresciuta consapevolezza, si apriranno allora le porte dell’empatia e, insieme con esse, anche quelle che tengono imprigionati tutti gli esseri viventi che quotidianamente vengono privati di una vita degna di chiamarsi tale.
C’è poi un momento magico, che è quello in cui il cane si sblocca ed inizia a vivere”, dice quindi la ragazza che ospita e si occupa di riabilitare tutti gli animali salvati dai laboratori, spiegando alla neofita Aurora, come sia necessario introdurli gradualmente, a piccoli passi, ad una vita finalmente libera, in quanto avendo sempre conosciuto la non-vita asettica del laboratorio, non avendo mai visto la luce del sole, camminato sull’erba, sentito l’odore dell’aria aperta, è come se non fossero mai davvero nati, come se non avessero mai davvero vissuto.

Il finale non lo svelerò. Sperando così di accrescere la vostra curiosità per questo film davvero interessante. Interessante per due motivi: primo, perché rispetto alla media dei film italiani (io non ho una grande stima del cinema italiano attuale), e soprattutto tenendo conto del ridottissimo budget (praticamente “nullo”, come ha specificato il regista, presente alla proiezione), è girato davvero con grande cura e perizia formale. Recitazione molto professionale e ottima colonna sonora; poi, ovviamente, interessante perché in pratica è il primo film che tratta in maniera così diretta ed essenziale il tema della liberazione animale.

Aggiungo inoltre volentieri questa nota "metacinematografica": il film è stato proiettato al Rewild Cruelty-Free Pub di Roma, dove, con un contributo davvero ridotto (che verrà devoluto al progetto DL4 dell'Associazione Vitadacani Onlus ), oltre alla proiezione, tutti i presenti hanno potuto gustare un ottimo buffet, ovviamente vegano, ed hanno avuto la possibilità di trovarsi - e conoscersi - in un ambiente caldo e confortevole (peraltro allietato dalla presenza di qualche simpatico amico a quattro zampe, tra cui la mascotte del locale, la dolcissima Nerina), e dove alla fine abbiamo rotto le scatole... ehmm, volevo dire: rivolto qualche domanda, io ed il mio compagno (il quale, anche se lo dimentica spesso, è un giornalista), a Piercarlo Paderno, il giovane regista di Brescia, il quale, disponibile, gentile e molto alla mano, ha aggiunto delle riflessioni davvero interessanti sulla sua visione e concezione della liberazione animale che mi sento senz’altro di condividere pienamente.
A mio avviso, la liberazione animale non è un’utopia. Scegliendo di non mangiare gli animali, li stiamo già liberando. Scegliendo di non comprare più pellicce, accessori in pelle, lana, seta ed altri derivati animali, li stiamo già liberando. Scegliendo di non comprare cosmetici ed altri prodotti testati su animali, li stiamo già liberando. Informandoci e lottando per una ricerca alternativa, rifiutando la sperimentazione animale, li stiamo già liberando. Rifiutandoci di andare negli zoo, al circo o a vedere “spettacoli” (corride, palii, corse di cavalli ecc.) in cui gli animali vengono maltrattati ed usati, li stiamo già liberando.
Ogni volta che ci adoperiamo per soccorrere un animale in difficoltà, ferito o maltrattato, li stiamo già liberando.
La liberazione animale parte ora, qui, da ogni nostro piccolo gesto. Salvare anche un solo animale è già importantissimo perché ogni singola vita è assoluta e vale quanto migliaia di altre vite. Quanto la mia e la vostra.
Queste e tante altre sono le riflessioni di cui sono debitrice alla visione di Aurora e alla piacevole chiacchierata con Piercarlo Paderno.

giovedì 14 luglio 2011

Closer di Mike Nichols

Qualche sera fa ho finalmente avuto l'occasione (grazie Paolo!) di vedere questa commedia del 2004 di cui ho sentito tanto parlare.
Il regista è Mike Nichols, l'autore del famosissimo Il laureato; gli attori,  un quartetto formidabile: Natalie Portman, Julia Roberts, Jude Law e Clive Owen.
In Closer ci sono due coppie - praticamente interscambiabili - i cui i singoli componenti si troveranno a ricoprire ora un ruolo, ora l'altro, rendendo possibile un affresco quasi completo di tutte le situazioni e gli stereotipi sentimentali della vita di coppia: chi subisce l'abbandono sarà a sua volta colui che tradirà ed abbandonerà, chi mente sarà ingannato, chi dice la verità però non la vuol sentire, chi la pretende non la ottiene, chi è sincero non è creduto, chi non lo è finisce per autoingannarsi, in una sorta di gioco continuo in cui chi la fa l'aspetti.
Ora, così come stanno le cose, sembrebbe la classica commedia del gioco degli equivoci in cui magari non manca il lieto fine. Invece Nichols riesce a farne un vero e proprio trattato sull'amore e sull'idea che di esso si formano le persone finendo per aderire e rincorrere più un preteso ideale, che poi si tenta di concretizzare nella vita di coppia, mentre il tentativo di comprenderne e gestirne le dinamiche effettive in cui si è coinvolti e gli sviluppi relazionali sembra essere secondario o, tutt'al più, vissuto come fosse un gioco, nonostante ci si ferisca, si soffra, si versino lacrime e si sprechino paroloni di grande effetto.
In Closer si ha come l'impressione che tutto debba essere una finzione. Resta da capire se e fino a che punto, e fino a quando, e per chi, sia finzione consapevole o meno. E questo credo sia, in definitiva, il vero tema di Closer. Smascherare chi mente. Capire chi dice la verità.
Due cose mi sono saltate immediatamente agli occhi sin dall'inizio: innanzitutto il montaggio, di cui si evidenziano gli innumerevoli tagli per mettere in rilievo solo i fatti, i dialoghi, le scene davvero salienti della storia dei quattro personaggi: praticamente ad ogni scena si comprende che, rispetto alla precedente, c'è stato un lasso temporale in cui effettivamente la vita è andata avanti, sono accadute delle cose ecc., ma quello che viene raccontato è solo ciò che è effettivamente determinante all'interno delle dinamiche di coppia. Le singole scene sono poi girate quasi tutto in piano-sequenza, in maniera molto teatrale (ed infatti il film è tratto da un'opera teatrale e si vede!) di modo che lo spettatore ha come l'impressione che - nonostante sia stato tenuto all'oscuro della pienezza della storia, con tutti i dettagli del quotidiano, del superfluo ecc. - nel momento in cui i personaggi iniziano ad interagire e a parlare è come se realmente la vita, e solo quella che conta di conoscere, riprendesse a scorrere, ed è come se la storia avesse ogni volta un nuovo, determinante, inizio.
Ecco, la prima metafora che mi viene in mente per Closer è quella del mazzo di carte: è come se i personaggi fossero le singole figure che, dopo ogni "mischiata" di carte, si trovassero accoppiate ora in un modo ora nell'altro. Le intenzioni sembrano quasi irrilevanti. Quello che avviene sembra essere più dettato dal capriccio di un momento piuttosto che da una seria motivazione. E questo probabilmente è anche un effetto voluto proprio dal peculiare montaggio in cui le scene si susseguono in maniera quasi didascalica.
Sotto il profilo del significato - essendo appunto una sorta di trattato sulle dinamiche di coppia - ci sarebbe da dire di tutto e di più, ed ovviamente, a mio avviso, tutto dipende anche dalla sensibilità del singolo, dal suo vissuto, il quale può immedesimarsi ora nell'uno, ora nell'altro personaggio e quindi limitarsi ad una chiave di lettura offerta da una determinata prospettiva.
Personalmente ho trovato molto interessante il discorso critico sul tema della verità. Quando si parla di amore, di vita di coppia, di relazioni ci si trova sempre, immancabilmente, di fronte alla richiesta reciproca di essere sinceri in tutto e per tutto, di dirsi sempre e ad ogni costo la verità.
Ora, la mia esperienza mi ha insegnato che esistono due tipi di persone: quelle che, appunto, la verità ad ogni costo, non importa quanto possa far male; e quelle che: se devi ferirmi inutilmente confessandomi un tradimento che è stato solo la classica "una botta e via" (ero ubriaco/a, mi sentivo solo/a, dovevo togliermi questo sfizio e così via), allora risparmiami questo dolore e non dirmi niente. Le cose però non sono mai così facili perché poi c'è da fare i conti con il senso di colpa, e sempre con questo valore assoluto - quasi dogmatico - che si dà nella vita di coppia, che è la verità.
E ovviamente parlare di verità non è mai così facile perché c'è la mia, c'è quella dell'altro, c'è la tua, c'è quella di quel preciso momento che però nel momento dopo non è più valida e via dicendo.
Allora, cosa ci dice Mike Nichols in Closer? Che, questa tanto decantata verità poi, a conti fatti, nessuno la vuole sentire?
In definitiva l'amore, quello di coppia, cos'è? Un'illusione? Un gioco di prestigio? Un gioco di carte? Un gioco e basta? E quanto e come contano i condizionamenti sociali che sin da bambini lavorano senza posa per farci introiettare una precisa idea del rapporto di coppia nel quale si vorrebbe - si pretende di - incanalare un'infinità di sfumature emozionali e di relazioni che, per loro natura, non possono che essere sfuggenti, mai granitiche, sempre rinnovantesi all'infinito?
E può essere allora che le menzogne che si dicono i personaggi di Closer, più che essere vere intenzionali menzogne provocate con l'intento di ferire l'altro, siano soltanto le menzogne che tutti ci vogliamo raccontare per dar vita ad un'opera - l'ennesima teatrale - che è la vita di coppia, come estensione e concrezione dell’amore, e l'idea che ci siamo fatti di essa?
Può essere che proprio per la sua natura sfuggente, e al di là della sua natura sfuggente, l’unica maniera per parlare di amore sia quello di rivestirlo di menzogne?
I protagonisti di Closer, infantili, caparbi, immaturi, del tutto inconsapevoli di loro stessi e finanche dei loro desideri, sembrano tutti improvvisare una parte di cui non conoscono le battute.
Mi è stato detto che il personaggio assolutamente negativo è Alice (Natalie Portman bellissima e bravissima come sempre, e pure vegana, un altro punto a suo favore, tanto che persino in Closer il suo personaggio ha una battuta in cui afferma di non mangiare gli animali) in quanto menzognera sin dall'inizio e consapevolmente. Io invece trovo che sia l'unico personaggio che abbia una sua verità e che abbia avuto una consapevolezza profonda del suo essere. E' l'unica che mente sin dall'inizio. Vero. Ma mente consapevolmente. Ben sapendo che, comunque vada, l’unica verità possibile è quella della natura imperscrutabile del nostro essere, per sua natura incondivisibile fino in fondo. E allora tanto vale darsi un nome, inventarsi una vita, un ruolo, e farlo sapendo di farlo.
E' l'unica che forse recita veramente una parte, che si inventa un nuovo amore a cui dà corpo prendendo frasi fatte e discorsi da manuale, ma lo fa intenzionalmente, e lo fa perché, in qualche maniera, pur nell'assoluta consapevolezza del gioco, ella ci crede fino in fondo; credendo nella vita come gioco, che è gioco, e specchio caleidoscopico di sempre nuovi stimoli.
Alice non è infatti il suo vero nome. Arriva a Londra in fuga da New York a causa di un fallimento amoroso. Conosce Dan (Jude Law, il classico tipo che a guardarlo sai subito che non dovresti mai fidarti mai di lui, eppure, per chissà quale sotterranee pulsioni masochistiche finisci per restarci impelagata) ed è amore a prima vista. Quest'ultimo poi conosce Anne (Julia Roberts, sempre brava, ma, a mio avviso, sexy quanto una scopa vestita, e non me ne abbiano i maschietti che l'adorano), la quale, proprio grazie ad uno scherzo in rete di Dan (il quale verrà simpaticamente soprannominato Cupido) conosce Larry (Clive Owen, lui sì che è superlativo e anche dannatamente bravo: mitica la scena in cui Anne gli confessa di essere innamorata di Dan e lui pretende di conoscere ogni più piccolo particolare dei loro rapporti sessuali) e lo sposa.
I quattro si lasciano, si tradiscono, se ne vanno, piangono, fanno scene madri, si innamorano, si disinnamorano, si rinnamorano, si riprendono, e tutto sempre come da perfetto manuale ad evidenziarne la finzione giocosa, fino alla scena finale in cui Alice, dopo essere stata costretta a confessare a Dan il suo tradimento con Larry, decide di lasciarlo e tornare a New York. Mentre mostra il suo passaporto alla hostess la telecamera stringe sul suo nome, che non è Alice, ma Jane, come aveva infatti confessato durante uno giocoso strip-tease (per guadagnarsi da vivere faceva la spogliarellista) a Larry, il quale però non l'aveva creduta.
Perché ella non dice il suo vero nome all’inizio del film, quando incontra Dan? Probabilmente perché, delusa da un rapporto amoroso dal quale è fuggita, tenta di reinventarsi una vita a Londra, e, per meglio, ricominciare da capo, per meglio dimenticare la vecchia se stessa, si dà anche una nuova identità. Come se la vita stessa fosse una recita teatrale. Uno scambio di ruoli.
Ma Alice non è falsa, né meschina. E' solo una persona che ha voglia di ricominciare una vita, che ha voglia di mettersi ancora in discussione. Mente nell’apparenza: un nome su una carta d’identità, in fondo, cos’è? Se la rosa non si chiamasse rosa... diceva un grandissimo; così Alice o Jane, cosa importa? L’unica verità possibile qui sembra essere alla fine quella dei sentimenti e delle emozioni vissute dai personaggi.
Cosa ci sta dicendo allora Mike Michols? Che forse nessuno vuole sentire davvero la verità. Che è certamente più facile credere alle menzogne - soprattutto alle proprie e poi dell'altro - in quanto già il solo fatto di pretendere di definire e spiegare e fermare l'amore è già e sempre e solo una menzogna?
Che ogni relazione, per quanto onesta negli intenti, sia votata ad un esito fallimentare proprio nella sua impossibilità ad essere schematizzata e vissuta in un tempo che superi l'immediata sensazione del presente?
Che l'amore a prima vista, è, per sua natura, solo a prima vista e quindi non proiettabile o progettuabile ad oltranza?
E chi invece preferisce illudersi, non sta anche, e soprattutto, egli stesso giocando ad un gioco che è, appunto, quello di "facciamo finta che"?
In sostanza l'unica verità possibile per i personaggi di Closer sembra essere quella del gioco, mentre l'assoluta veridicità profonda dell'essere sembra rimanere preclusa e circoscritta all’interno di pure suggestioni e spinte emotive.
Da guardare per riflettere. E soprattutto da ri-guardare, perché il twisted-ending in cui si scopre il vero nome di Alice, potrebbe (e dico potrebbe, perché ancora non lo so), ribaltare la prospettiva ed offrire una diversa chiave di lettura.
E lo spettatore, come ne esce? Comprende che l'unico momento in cui si è data una verità VERA, è quello in cui Alice ha detto a Larry che il suo vero nome era Jane. Ma un nome può essere appunto reinventato e falsato. Senza che l'essenza della personalità cambi, beninteso. Solo che, proprio come l'amore, quella di tutti, ci resta sfuggente, più che mai.

giovedì 7 luglio 2011

Serate d'estate: di scelte, di vino rosso e di chiacchiere all'aperto

Questo post è dedicato alla memoria della gatta Pallina, decana di casa, che è morta il 29 giugno alla veneranda età di vent'anni, e forse più: era già adulta quando si presentò alla porta di casa del mio compagno all'inizio degli anni '90.

In passato mi è capitato spesso di discutere con amici e conoscenti della mia scelta di essere vegetariana; ormai, fortunatamente, capita molto di rado (con gli amici intendo), in quanto con loro la questione è stata affrontata sotto molteplici punti di vista e resta ben poco da aggiungere. Quando andiamo al ristorante insieme io scelgo dal menu i piatti che non contengono carne e pesce e loro continuano tranquillamente ad ordinarsi le loro bistecche sanguinolente, i loro frutti di mare appena pescati e così via. Io faccio finta di niente. Loro pure. In fondo non è che ogni cena fuori può diventare un’occasione per mettersi a discutere delle ragioni dell’antispecismo, a volte, persino ad una persona generalmente molto presente a se stessa quale sarei io, può venir voglia semplicemente di mollare gli ormeggi e lasciarsi andare alla deriva spinta dall’eb-brezza di un buon calice di vino - rigorosamente rosso (ché il bianco non mi piace).
Capitano però quei giorni in cui invece si ha voglia di menare - figurativamente, si intende - le mani, e allora è tutto un continuo puntualizzare e polemizzare. Mai per prima, eh. Però non mi si deve rompere i cosiddetti ***, altrimenti inizio con uno di quei pipponi che non si sa quando finiscono ( e SE finiscono, soprattutto).
Insomma, una delle ultime - ma anche una delle più note ed ormai obsolete - frasi che mi sono state rivolte ultimamente è stata questa: “sì, ok, tu hai fatto la tua scelta, ed io la rispetto, ma tu devi rispettare la mia, eh, a tavola mi piace la democrazia”.

Il dialogo si è svolto più o meno così: (IO sono io, e X sta per la persona X che era seduta a tavola di fronte a me; per inciso, non un’amica, soltanto una conoscente).

IO - ma di quale democrazia stai parlando, scusa? Guarda che se agli animali venisse chiesto di votare se essere mangiati oppure no, voterebbero sicuramente NO. Qui siamo in assenza totale di democrazia, perché poi, alla fine, i veri soggetti della questione non siamo TU ed IO, ma TU e gli ANIMALI, che qualcun altro ha ucciso e macellato al posto tuo affinché il tuo palato possa essere gratificato.

X - seee... vabbè.... mo’ ce manca che pure gli animali vanno a votà, e poi stamo freschi, stamo (sic!)

IO -  (in silenzio, resto in attesa di sentire il resto del discorso che, invero, penso già di conoscere a memoria).

X - lo sai che c’è Rì (per chi non lo sapesse, e mi spiace deludervi, non mi chiamo Biancaneve, ma Rita), che già ce stanno tanti problemi al mondo, e gli animali sì, lo so che soffrono pure loro, ma uno a un certo punto deve pure scegliere, io, ecco, se proprio avessi tempo da perde’ allora sceglierei di aiutare qualche bambino dei paesi poveri.

IO - bè, non è che SCEGLIERE di non mangiare più gli animali porti via chissà quanto tempo, eh. Non è che se stasera invece di ordinare la bistecca al sangue, avessi preso un piatto di spaghetti al pomodoro, per dirne uno, poi questo ti avrebbe impedito domani o nei prossimi giorni di dedicarti ad una sana atttività filantropica, anzi... visto che tiri in ballo i bambini dei paesi poveri che, secondo il tuo discorso, se tu diventassi vegetariana,  poverini finirebbero nel dimenticaio, forse non sai che invece è esattamente il contrario, ossia è proprio a causa dell’enorme consumo di carne in occidente e di tutto quello che si rende necessario per allevare i bovini, tanto per citare una specie di quelle più sfruttate, che si verificano altrove situazioni di carestie, impoverimento dei terreni, desertificazione, deforestazione... comunque dai, non voglio farla lunga, però, se ti interessa, ti consiglio un ottimo saggio sulla connessione strettissima che c’è tra consumo di carne e fame nei paesi poveri. E questa, resta comunque, a mio avviso, una questione secondaria;

X - in che senso?

IO - nel senso che la questione per cui non si dovrebbero mangiare gli animali è e dovrebbe essere principalmente ed essenzialmente di tipo etico: gli animali soffrono come noi. E soffrono non solo nel momento in cui vedono in faccia la morte, ma in ogni istante della loro esistenza condotta come fossero degli oggetti anziché esseri viventi. A tale questione poi se ne vanno ad aggiungere tante altre che sono più, diciamo, utilitaristiche.
Comunque quel libro di cui dicevo è un saggio molto significativo e molto molto istruttivo, peraltro scritto in maniera semplicissima, diviso in vari argomenti per capitoli, e racconta in maniera molto dettagliata come in Europa ed  in America (i cosiddetti paesi ricchi d’occidente) sia stata fondata la cosiddetta “cultura della carne”; sfatando, peraltro, il mito per cui la carne si sarebbe sempre mangiata perché l’uomo sarebbe nato carnivoro e, per replicare la tua affermazione di prima, spiegando quanto in realtà quella che tu definisci la tua SCELTA, sia in realtà solo il risultato di un condizionamento culturale che va avanti da secoli.
E in realtà, perdonami, la tua non è affatto una scelta, ma assenza di una scelta, o, se vogliamo, al limite, rifiuto di una scelta, in quanto preferisci lasciare le cose come stanno e non mettere in discussione il già noto.

X - sì, sì, questo è vero, ma comunque dai, non discutiamo, ognuno è libero di fare quello che crede, tu hai fatto la tua scelta, io la mia.

(comincio a chiedermi se, sotto l’effetto dell’alcool che inizia a scorrere sempre più copiosamente, ed è notevole che la mia lucidità nel condurre un argomento tutto sommato abbastanza complesso non ne sia per nulla scalfita, ma anzi... avete presente quella giusta dose di vino per cui veramente ci si guadagna un arricchimento nella percezione e le associazioni, le immagini, le idee, i pensieri, le parole si susseguono chiare e nitide? Ecco, quello, quel momento. Appena un attimo prima di quell’altro, di momento, di quello in cui la  lingua si impasta dentro la bocca ed  il cervello si mette in posizione di stand-by...
Oh, ma prima di quel momento, quello della stand-by intendo, c’è ancora il precedente della lucidità accresciuta al massimo e credetemi se vi dico che  ci vorranno almeno altri due bicchieri - ché l’alcool lo reggo benino - per poter arrivare al secondo, e quindi la conversazione prosegue, logica ed ordinata, da parte mia, logica ed ordinata come non mai, mentre, come dicevo, dopo aver sentito la tizia che ripeteva per l’ennesima volta: “sì, ma tu hai fatto la tua scelta, ed io la mia”, comincio a pensare che forse abbia qualche difetto utiditivo, o un deficit di attenzione (la colpa no, non può essere del vino perché lei non beve)... il deficit d’attenzione sì, ci può stare, e del resto, sfido chiunque a sostenere una conversazione con me e a non cadere nel deficit d’attenzione dopo venti minuti)

IO - Vedi, tu credi di aver fatto una SCELTA. In realtà, qui, l’unica che ha fatto una vera scelta sono stata io. E sai perché? Perché a te, quando hai iniziato a mangiare la carne (e il pesce, e tutti i derivati animali) sin da bambina, nessuno a chiesto se volessi fare diversamente. Te lo hanno semplicemente imposto, come a me, come a tutti. E non per cattiveria, ma perché la gente tende a fare ciò che fa altra gente, ciò che reputa “normale” fare, solo perché è la maggioranza che stabilisce la “norma” e quindi cosa è “normale” fare, e se una cosa la fanno tutti, quantomeno la maggioranza delle persone, allora la gente penserà che sia anche giusta. Sbagliando. Perché non sempre “normale” e “legale” significano anche “giusto”. La legalità non sempre equivale alla giustizia, infatti.
Mangiare carne è legale, certo, ed è quello che fa la maggior parte della gente. Questo non significa che sia giusto. E non è giusto perché gli animali dovrebbero nascere, vivere, morire in libertà e non asserviti all’uomo.

X -  (mangia in silenzio, incapace di reagire alle mie - in verità già colladautissime, ormai recito a memoria - asserzioni)

IO - un goccio di vino (so benissimo che è astemia, l’aveva già detto prima, ma chissà, magari ha cambiato idea)?

X - no, no, sono astemia. Eh, infatti, capisci, già mi privo di un sacco di cose, non bevo, non fumo, mi ci manca che mi levo pure la carne...

IO - Ma questo lo dici perché tu sei abituata a considerare il mangiare gli animali come fosse  chissà quale privilegio, come fosse un’abitudine sana, naturale, un cosa “normale”. In realtà mangiare gli animali, mangiare QUALCUNO, se ci pensi bene, è una cosa mostruosa.
E smettere di mangiarli NON è affatto una privazione, come comunemente si intende, è invece semplicemente una scelta meravigliosa, una scelta di cui ti rendi consapevolmente parte attiva nel risparmiare sofferenza e dolore ad altri esseri viventi. NON è una privazione. E’ un valore aggiunto per te, per la tua vita, e, ovviamente, per quella degli animali.
Ripeto, mangiare animali è solo un condizionamento culturale. Ti piace essere condizionata?
Torno a ripeterti, perché non provi a leggerti qualcosa sull’argomento, poi allora sì, dopo che avrai imparato a vedere le cose in maniera diversa, potrai SCEGLIERE davvero. Ma prima devi vedere cosa c’è dall’altra parte. Vedere da una prospettiva altra.

X - ma io sai, leggo poco, c’ho poco tempo

(di nuovo, ancora il tempo come pretesto. Un giorno, quando sarà in punto di morte, scoprirà di non aver fatto un sacco di cose per mancanza di tempo, quando invece, almeno fino a pochi istanti prima, avrebbe potuto avere tutto il tempo che voleva).

IO - capisco (con  espressione eloquente, ma eloquente solo per pochi), non volevo annoiarti, solo evidenziare tutta l’illusorietà della tua “scelta”, di quella che tu chiami SCELTA, mentre in realtà non lo è. E’... piuttosto... un rifiuto di una scelta, un rifiuto di conoscere, di sapere; forse perché mettere in discussione taluni punti fermi (che si credevano fermi) fa un po’ paura; è destabilizzante; vero è, che perdendo determinate abitudini, anche quelle che riteniamo sbagliate, o nocive, abbiamo paura di perdere un po’ anche una parte di noi stessi.
Sai, cambiando argomento, che tanta gente resta probabilmente attaccata alle proprie dipendenze, anche a quelle oggettivamente deleterie, per paura di perdere la propria peculiarità, ciò che crede essere quel quid necessario a conferire quella peculiare distinzione che ci rende tutti, sostanzialmente, unici? Credo sia questo il motivo per cui la gente ha così paura dei cambiamenti e non ama mettersi in discussione, né se stessa, né quelle certezze che vorrebbe acquisite una volta per tutte.

X - sì, sì, questo è vero, ma comunque dai, non discutiamo, ognuno è libero di fare le proprie scelte, tu hai fatto la tua, io la mia.

(sono instancabile. Lo so. Ma sempre, e probabilmente questo vi sfugge, molto molto divertita da queste situazioni. C’era. C’è stato un tempo in cui mi arrabbiavo. Ora, a poco a poco, sto apprendendo il disincanto).

IO - ultima cosa, poi la chiudiamo qui, ché non vorrei far raffreddare il mio delizioso risotto ai funghi porcini (il cui profumo già da qualche minuto mi stava solleticando le narici) : ha senso quindi, parlare di SCELTA? Alla luce del discorso che ti ho appena fatto, tu non pensi piuttosto di aver semplicemente continuato a fare quello che ti è stato insegnato a fare sin dalla nascita (direttamente, o attraverso l’emulazione) senza in realtà riflettere mai sulla possibilità di compiere una vera SCELTA?
Non pensi che la tua consuetudine di mangiare la carne, e solo certi tipi di animali, e non altri, ad esempio, sia solo una consuetudine appresa, come tante altre cose da quando si viene al mondo, ma che poi, crescendo, riflettendoci, potrebbe anche non voler esattamente rispecchiare nel profondo i tuoi valori, quello in cui credi?  Scommetto che tu ti definisci una persona non-violenta. Una persona che, se può, evita di fare del male. E allora, come puoi intimamente tollerare questa discordanza tra i tuoi valori e quelle mani, quella bocca sporca del sangue di un’altra creatura?
E perché solo alcune specie e non altre? E perché invece in altre culture vengono ritenute commestibili specie che invece qui da noi consideriamo d’affezione? Questo fatto non ti fa riflettere?
Non credi che allora mangiare gli animali sia soltanto un condizionamento culturale?
Non credi che la tua frase con cui abbiamo dato inizio a questa interessante discussione: “io rispetto la tua scelta, ma tu rispetta la mia”, non abbia proprio alcun senso?
Io posso rispettare TE, in quanto persona, in quanto essere vivente che ha ogni mio diritto di vivere, ma non chiedermi di rispettare la tua scelta, così come non potrei rispettare quella di un pedofilo, o quella di un assassino, o quella di un ladro. Posso rispettare tutte queste persone in quanto persone. Ma non la loro NON-scelta.

Un altro bicchiere di vino rosso e inizio a mangiare. Finalmente.
Lei non cambierà la sua idea. Non stasera almeno. Non per le mie parole. E anche perché sono tanti - e spesso davvero complessi - i motivi per cui la gente continua a mangiare gli animali. E non è vero che tutte queste persone sono dei "mostri" o persone insensibili, o persone cattive; sono solo persone magari inconsapevoli, poco informate, o troppo insicure e fragili per poter anche solo lontanamente pensare che tutte le certezze e le credenze sulle quali si regge la loro esistenza in realtà sono solo fantasmi di certezze, illusioni, errori, e chissà cos'altro. E adesso anche per me è arrivato il momento, quel momento, quello dello stand-by.
E lei, X, forse, più tardi, prima di addormentarsi, rifletterà su cosa significhi davvero compiere una scelta.
 
P.S.: il libro che ho citato nel corso della conversazione è Ecocidio di Jeremy Rifkin.

venerdì 1 luglio 2011

Ritorno a noi stessi (con una breve riflessione su Lo straniero di A. Camus)

E ho finito per non annoiarmi più affatto dall’istante in cui ho imparato a ricordare. A volte mi mettevo a pensare alla mia camera e, con l’immaginazione, partivo da un angolo per ritornarvi enumerando mentalmente tutto ciò che trovavo sulla mia strada. In principio era una cosa presto fatta. Ma ogni volta che ricominciavo, era un po’ più lungo. [...] E così più riflettevo e più tiravo fuori dalla mia memoria cose sconosciute e dimenticate. E allora ho compreso che un uomo che fosse vissuto un giorno solo potrebbe senza difficoltà vivere cento anni in una prigione. Avrebbe abbastanza ricordi per non annoiarsi.
(A. Camus, Lo straniero, Milano, Bompiani, 2001).

Il protagonista de Lo straniero - da cui ho trascritto il brano sopraindicato - Mersault, si trova in una piccola cella di una prigione perché ha commesso un omicidio.
Ora non mi interessa analizzare tanto il  romanzo, quanto soffermarmi su questo punto della storia, quello appunto in cui, trovandosi racchiuso dentro quattro mura, privato della libertà, riesce a trovare il modo per far passare il tempo - e quanto deve scorrere lentamente dentro una cella! - semplicemente mettendosi a rievocare i particolari della sua camera.
L’atto del ricordare per Mersault non è più soltanto un fenomeno accidentale occorso grazie al potere evocativo di un profumo, di un sapore (com’è nella famosa madeleine proustiana) o ancora di un gesto o di una parola, bensì un preciso ordine della volontà che impara ad eseguire in maniera sempre più artificiosa e complessa, fino a riportare in vita episodi - e le emozioni ad essi connesse - che credeva aver perduto per sempre.
Scopre così di avere un potenziale enorme dentro di sé, e di poterne attingere ogni qualvolta ne ha desiderio. Il passato, i giorni trascorsi, i dialoghi intercorsi tra lui e gli altri, i particolari di ogni singola giornata riescono a rivivere e ad arricchire con pienezza il momento presente grazie al semplice atto del ricordare.
E scopre così di poter compiere un vero e proprio viaggio interiore, non meno denso e carico di emozioni quale sarebbe un viaggio fisico vero e proprio in cui ci si sposta materialmente nello spazio e nel tempo. E scopre anche che questo peculiare viaggio ha il potere di ricongiungerlo con se stesso, di portarlo all’incontro ed al confronto con il proprio mondo affettivo dal quale era stato per lungo tempo esiliato.
Mersault è infatti non solo straniero rispetto alla società e alla realtà che lo circonda, ma anche straniero rispetto a se stesso, rispetto alla capacità gestionale delle proprie emozioni.

Mi domando quanti di voi abbiamo mai percepito come propria la condizione esistenziale del protagonista de Lo straniero. E non mi riferisco appunto alla sensazione di inadeguatezza talvolta provata rispetto a ciò che la società esige da noi, ma proprio a quel senso di perdita di contatto con quel nucleo più profondo di noi stessi, tanto da non farci più sapere esattamente chi siamo e cosa vogliamo per noi.
Il ricorso all’atto volitivo del ricordare - così come l’ho spiegato sopra - può essere allora utile per recuperare quei frammenti di noi che con lo scorrere del tempo sono andati apparentemente perduti; solo apparentemente però, poiché nulla di ciò che abbiamo vissuto, sentito, provato, nulla di ciò per cui ci siamo emozionati, arrabbiati, stupiti, meravigliati è andato veramente perduto.
Io, come Mersault, potrei trascorrere interi pomeriggi seduta sul divano semplicemente intenta a recuperare giornate del passato, e ogni volta mi stupisco di quanti particolari, che credevo dimenticati, riesco invece a riportare al presente, vividi come non mai, come se il tempo non fosse realmente mai trascorso.
Lo trovo un esercizio molto utile perché, in qualche maniera, riesce a ridarmi indietro pezzettini di me stessa e a collocarli su una sorta di disegno immaginato, in un ordine atto a ristabilire quel senso che fino a quel momento non ero riuscita a dargli.
L’esercizio della memoria, il ricordo del passato diventa così complemento insostituibile del presente, ma non in un’accezione di recupero di un qualcosa che si è ormai cristallizzato e che è divenuto solo peso morto (in questo senso il ricordo sarebbe solo una pura operazione nostalgica), ma in quella costruttiva di uno studio attento su noi stessi, su quello che eravamo e che, presumibilmente, sebbene sotto innumerevoli stratificazioni, siamo ancora.
Sono infatti convinta che, per quanto con il tempo si possa cambiare, crescere, maturare, evolvere, esiste una piccola parte di noi che resta sostanzialmente immodificabile e a cui, sebbene nel corso degli anni ce ne distacchiamo e ce ne allontaniamo e talvolta rinneghiamo, bramiamo far ritorno.
Riprendendo allora la metafora del viaggio interiore, aggiungerei che l’intero corso della nostra esistenza altro non è che il tentativo di ritornare a quel luogo da cui tutto ha avuto inizio: noi stessi.
Nulla risulta più insondabile e ci incuriosisce di più, infatti, del mistero della nostra mente.