domenica 30 ottobre 2011

"Animalisti e Moda: dialogo impossibile?"

La libertà di scelta è un diritto. L’integralismo un pericolo.”
In altre parole: al peggio non c’è mai fine.
Per il post precedente mi sono basata sulla pagina di Amica che girava online, e non avendo la copia cartacea sotto mano (abbiate pazienza, io non compro riviste di moda, gossip e simili) non ero a conoscenza del fatto che oltre all’intervista ad Irina Shayk, l’articolo contenesse anche un ulteriore approfondimento, con tanto di intervento di tale Rosa Matteucci, scrittrice (ammetto di non averla mai sentita nominare, magari sarà anche una bravissima scrittrice, ma state pur certi che in casa mia non entrerà mai nessuna copia di un suo libro), in difesa del “diritto” di indossare una pelliccia.
La Lav ha scritto una lettera di protesta (che trovate qui), andando a leggere la quale sono venuta a conoscenza dell’intero articolo di Amica, che invece trovate qui (ed anche seguendo il link interno alla lettera della Lav).
Sinceramente, mi sento un tantino a disagio nel commentare le esternazioni di Rosa Matteucci; a disagio perché che cosa si può rispondere a simili affermazioni che - oltre a denotare una totale ottusità ed incapacità di argomentare seriamente - rilevano anche una profonda e malcelata ignoranza?: “le donne sono per istinto attratte dal lusso e dal piacere del contatto fisico con le pellicce”.
Dice costei. Le donne. Innanzitutto generalizzando: le donne= tutte le donne.
E le donne sono tutte così, e gli uomini sono tutti colà, niente di più di una conversazione da bar, dunque, altro che dibattitto.
Ragazzi, Rosa Matteucci ha la pretesa di darci una lezione di antropologia: le donne sono per istinto attratte dal lusso e dal piacere del contatto fisico con le pellicce”.
Anche dal sangue e dalla violenza, sono attratte le donne? No, perché, le pelli, prima di essere conciate, sono sporche di sangue. Sarebbe questo il lusso? Vogliamo scommettere che mai nessuna donna si sognerebbe di indossare la pelle di un animale appena scuoiato, così com’è, tutta sporca di sangue, prima di essere trattata? Non sarebbe allora meglio dire che le donne, anziché essere attratte dal lusso ecc., sono in realtà vittime di un discorso culturale diffuso attraverso i media, nello specifico le riviste di moda, volto ad incentivare un determinato commercio? E’ l’industria della moda - ed il sistema consumistico intero in cui siamo immersi - che decreta il desiderio di possedere un oggetto anziché un altro.
Il desiderio per le pellicce è un desiderio indotto, che ha radici culturali - culturali signora Matteucci, e non istintuali - ormai di vecchia data, quindi se proprio si volesse tentare una lezioncina di antropologia, sarebbe stato più corretto parlare di antropologia culturale, lasciando da parte un presunto istinto atavico o una legge della natura.
La pelliccia, così come tanti altri oggetti costosi (auto, gioielli, prodotti di marca), è stata in passato uno status symbol (oggi purtroppo i prezzi sono più abbordabili per via della produzione di massa e quindi non è necessario essere ricchi per poterla comprare), appunto, come dice la parola stessa, un  simbolo indicatore di ricchezza. Ci sarebbe un discorso - ripeto, di ordine culturale - approfondito e lunghissimo da fare, su come un oggetto diviene status symbol, quando e perché (l’epoca storica ed i motivi sono fondamentali) - anche il consumo di carne ad esempio in passato è stato legato ad un concetto di benessere, di ricchezza (Jeremy Rifkin lo spiega benissimo in Ecocidio) - qui basti dire che se domani tutti gli stilisti si mettessero d’accordo nell’abolire la produzione di pellicce (magari!) e se indossarne una venisse, col tempo, considerato “fuori moda”, quel “piacere istintivo” di cui parla Rosa Matteucci verrebbe a cadere, per essere in fretta sostituito da altro. E della pelliccia nessuno si ricorderebbe più. Parliamo di desideri indotti da mere ragioni economiche, quindi.
La moda è sovrastruttura culturale. Non nasce da una necessità istintuale.
Le damine del settecento adoravano indossare pizzi e merletti, gonne ampie, corsetti stretti fino togliere il respiro, parrucche. Perché quella era la moda dell’epoca.  E quello credevano di desiderare.
Oggi si desiderano i leggins, i jeans, e, quest’anno, rilanciata dagli stilisti, è tornata in auge la moda delle pellicce. Non un desiderio quindi, ma un semplice seguire ed ascoltare i diktat del business della moda.
Quanto poi all’altra asserzione: “da sempre siamo onnivori, e per questo anche carnivori” anche qui la signora dimostra una profonda ignoranza. Essere onnivori non vuol dire, automaticamente, essere anche carnivori. I primati (gorilla, scimpanzé ecc.) sono onnivori e NON per questo anche carnivori.
Essere onnivori non significa che siamo obbligati a mangiare di tutto, significa semmai che potremmo farlo. Ma allora potremmo anche mangiarci l’un l’altro. Però non lo facciamo. Per determinate motivazioni etiche. Guarda un po’! Pensa un po’!
Tra il poter fare una cosa e lo scegliere di farla c’è una bella differenza. Semplicissima. Io posso uccidere, perché è nelle mie capacità di poterlo fare. Però scelgo di NON farlo.
Onnivori, cara signora, significa semplicemente, quindi, che possiamo scegliere. Non che siamo per questo obbligati a mangiare anche la carne. E poi anche qui ci sarebbe da riportare tutto un discorso di natura scientifica ed antropologica, per cui è dimostrato ormai da decenni che la nostra dentatura, stomaco ecc. sono molto, ma molto lontani dall’essere accomunati a quelli dei predatori. Abbiamo forse mascelle e denti acuminati come quelli di una tigre? O non siamo forse molti più simili ad uno scimpanzé, che carnivoro non è? E comunque, torno a ripetere la stessa cosa che ho scritto a proposito della motivazione addotta dalla modella Irina Shayk per indossare le pellicce, ossia il freddo: siamo nel ventunesimo secolo. Non viviamo più in uno stato di natura da secoli, ormai. Possiamo coprirci con tessuti sintetici ed abbiamo a disposizione fin troppo cibo di origine non animale. Le motivazioni che hanno indotto l’uomo, durante la sua evoluzione, a diventare cacciatore e carnivoro sono di origine ancora culturale e legate alla necessità di adattamento e sopravvivenza in territori in cui - all’epoca - era impossibile coltivare (e anche di questo c’è tanta letteratura in materia, in particolare, ancora nel suddetto saggio di Jeremy Rifkin dal titolo Ecocidio potrete trovare un’esauriente spiegazione, ad esempio, di come e quando sia stata introdotta in Europa la pratica di cacciare e mangiare animali e di come, in epoca decisamente più moderna, il consumo di carne rossa sia diventato una sorta di status symbol, anch’esso, negli Stati Uniti).

Rosa Matteucci ha scomodato persino Dickens e Leopardi, strumentalizzando particolari e passaggi delle loro opere nel tentativo di rispolverare le ormai trite, ritrite e ridicole ragioni di chi vuole smontare le istanze degli antispecisti (peraltro, senza riuscirci, visto che a sostegno e alla base di queste obiezioni ci sono soltanto luoghi comuni, di quelli che al massimo mi aspetterei di sentire al bar), appellandosi alle leggi della Natura e ad usi e costumi vecchi di secoli (o comunque oramai definiti incivili).
Certo che la natura è crudele e che le piante si soffocano l’una con l’altra, e che gli orzi grizzly non si farebbero tanti scrupoli nell’aggredire un essere umano (peccato che però sia difficile incontrare un orso grizzly dietro casa), ma noi non siamo la cosiddetta specie evoluta che ha decretato il trionfo della ragione sull’irrazionale e sulla brutalità del puro istinto?
E smettiamola una volta per tutte di appellarci alla natura solo quando ci fa comodo per legittimare i nostri abusi e difendere i nostri privilegi e di far invece ricorso alla ragione, alla legge, all’etica e alla morale in tutt'altre situazioni.
Questa è disonestà intellettuale.
Insomma, siamo pronti a stigmatizzare la violenza, tranne però quando si tratta di quella contro gli animali, per la quale si finisce sempre per trovare qualche giustificazione, ora facendo appello all’istinto, ora tornando ad invocare un presunto stato di natura (in cui non viviamo più da secoli, ossia da quando abbiamo fondato le cosiddette norme del vivere civile, dicesi anche, semplicemente, civiltà).

Per finire: “la libertà di scelta è un diritto: l’integralismo un pericolo”.
Scusate ma mi viene da ridere.
Di quale libertà di scelta stiamo parlando, signora Rosa Matteucci? Di quella di massacrare milioni di esseri viventi per poterne indossare la pelle? Stiamo parlando della libertà di scelta di esercitare VIOLENZA? Ecco, per favore, chiamiamo le cose con il loro nome.
La signora Rosa Matteucci sta invocando la libertà di scelta di allevare milioni di animali in condizioni mostruose, di poterli uccidere con metodi raccappriccianti per poi scuoiarli - spesse volte quando sono ancora vivi - al fine di esercitare il “diritto” di indossare le pellicce. Animali che soffrono, provano dolore, fisico e psicologico (come qualsiasi medico veterinario, etologo, biologo è in grado di spiegarci e provarci scientificamente, visto mai non bastasse l’evidenza).
Mi spiace signora Rosa Matteucci, ma il diritto alla libertà di scelta cui lei si appella ed invoca, è scandalosamente quello di poter continuare a massacrare milioni di esseri viventi. E se parliamo di libertà, per favore, pensiamo piuttosto a liberare gli animali, anziché a tenerli imprigionati invocando un nostro presunto “diritto” (chiamasi altresì specismo, ossia considerare la specie umana superiore a quella di tutte le altre ed in nome di questa superiorità sentirsi liberi di sopraffare, strumentalizzare, schiavizzare, massacrare miliardi di esseri viventi).
Chi non rispetta la vita altrui, inoltre, non può pretendere di parlare di diritti.
O dovrei dire che allora si dovrebbero rispettare i diritti dei pedofili ad abusare dei bambini semplicemente perchè dovremmo tenere in considerazione qualsiasi diritto? Attenzione a parlare di diritti, perché questi dovrebbero divenire tali solo quando non sono lesivi della libertà o vita altrui.
Come mai il discorso cambia quando parliamo di esseri umani? Come mai invece i diritti degli animali a vivere la loro vita non vengono mai tenuti in considerazione?
E di quale integralismo stiamo parlando poi? Noi antispecisti che sosteniamo le ragioni di chi da solo non si può difendere, che rifiutiamo la violenza, la morte, che agiamo in nome del rispetto della vita, di ogni vita, saremmo integralisti? 
Quando in ballo ci sono questioni tanto importanti, quali il decretare attraverso le nostre scelte il diritto a vivere di tanti esseri viventi o, al contrario, la loro morte, come si può non avere le idee più che chiare e non essere più che fermi nelle proprie posizioni?
Come si può pretendere di essere "elastici" su un argomento così importante?
A questioni tanto importanti non si può che rispondere con scelte precise e ben definite. Altro che estreme.
Vi sognereste mai di chiamare “estremisti” coloro che si sono battuti per abolire la schiavità ed il Nazismo?
Gli antispecisti si battono per liberare gli animali dalla schiavitù umana e da tutti i lager che sono gli allevamenti. Siamo estremisti per questo?
Ed a proposito di disonestà intellettuale, questa volta tutta della rivista Amica: curioso come la direttrice Cristina Lucchini abbia risposto asserendo che con quell’articolo (comprensivo della parte scritta da Rosa Matteucci) si voleva aprire un dibattito, e si siano concesse due pagine intere a chi sostiene e legittima la produzione delle pellicce, in aggiunta all’intervista di Irina Skayk, mentre in difesa degli animali e per sostenere le ragioni degli antispecisti sia stata concessa soltanto una misera, minuscola colonnetta in cui viene riportata una frase di Elisabetta Canalis, la quale - contraria alle pellicce - si è spogliata per la campagna della Peta.
Pensa un po’ che contraddittorio! Perché non concedere spazio invece, che so, alla Lav o comunque ad una persona in grado di spendere più di una riga in difesa degli animali?
In una piccola colonnina a destra dell’articolo di due pagine di Rosa Matteucci, possiamo leggere: “Noi invece no”, e quindi è riportata questa brevissima dichiarazione di Elisabetta Canalis.
Manca quindi un vero articolo in cui si spiegano le ragioni degli animalisti. Manca un vero contraddittorio. E che dibattito sarebbe allora? Un dibattito unilaterale?
Ecco perché parlo di disonestà intellettuale.
E, lo ribadisco, come ho già scritto nel post precedente, del resto Amica è una rivista di moda legata al business della moda, quindi in realtà, strumentalizzando la buona fede dei lettori asserendo di voler aprire un dibattito, non fa altro che promuovere ed incentivare la vendita ed il consumo delle pellicce.
Ho voluto insistere sull’articolo di Amica non solo perché l’ho trovato ignobilmente di parte, ma anche per aiutarvi a decodificare i messaggi dei media. Affinché possiate distinguere tra articoli volti soltanto a vendere un prodotto, ad incentivare un determinato business ed a sostenere motivazioni eslcusivamente economiche e tra altri invece seri, in cui c’è un’onesta e sana volontà di approfondire un argomento, di comprendere, di esercitare il senso critico, di mettere in discussione noi stessi e la realtà che ci circonda. Per imparare ed evolverci.


venerdì 28 ottobre 2011

"Amo gli animali. Devo rinunciare alla pelliccia?"

Questo il titolo di un articolo comparso di recente sulla copertina della rivista Amica, accompagnato dalla foto della modella Irina Shayk che indossa un gilet di pelliccia e tiene in braccio un cucciolo di tigre (la foto della copertina la potete vedere qui, è quella al centro, e il titolo è riportato nella colonna sulla destra delle immagini).
La pubblicazione dell’intervista alla modella Irina, cui fa riferimento il titolo in copertina, che potete leggere qui, ha suscitato molte polemiche e alla redazione della rivista sono arrivate moltissime lettere di protesta da parte degli animalisti, e non solo.
Quello che ho trovato inaccettabile non sono tanto le contraddittorie esternazioni della modella Irina: “ho sempre avuto un sacco di animali. Li adoro e con loro ci so fare” - per cui viene legittimo chiedersi se il verbo “adorare” per costei significhi scuoiare un essere vivente e poi indossarne la pelle, e nemmeno l’improponibilità della scusante con cui tenta di giustificare l’uso delle pellicce: “vengo dalla Russia e lì gli inverni sono talmente rigidi che muori se non le indossi”, primo perché vive a Los Angeles ormai da diverso tempo, secondo perché, com’è noto, viviamo tutti ormai nel ventunesimo secolo (anche la Russia) e per ripararsi persino  dal freddo più glaciale esistono e sono in commercio ormai da svariati anni moltissimi materiali avanguardistici (non mi risulta infatti che gli scalatori dell’Everest o comunque i professionisti degli sport estremi in alta quota - e certo che lassù di freddo ne deve fare un bel po’ - si coprano con le pellicce, bensì con indumenti realizzati con materiali sintetici impermeabili non solo al freddo, ma anche all’acqua), facilmente reperibili nei più svariati negozi, non solo di sport, ma anche di abbigliamento di moda; quanto, di inaccettabile, a mio dire, è stata la risposta data dalla direttrice della suddetta rivista - tale Cristina Lucchini - alle tante lettere di protesta ricevute,  risposta che ha pubblicato nel blog LeiWeb e che potete leggere invece qui .
Questa signora si è sentita addirittura minacciata dalle parole, a suo dire “minacciose” e “violente” dei tanti animalisti, vegani e simpatizzanti degli animali, e si è meravigliata di quante clamore e polemiche ha suscitato l’aver semplicemente pubblicato un’intervista (e l’averla scelta come articolo di lancio per la copertina) sul cui contenuto non ci si può certo permettere di prendere posizione nel nome dell’indirizzo democratico della rivista e perché ognuno ha diritto di esprimere la propria voce, un articolo insomma la cui intenzione era semmai quella di voler aprire un dibattito e non certamente quella di scatenare le ire degli animalisti.
Ora, tralasciando del tutto il fatto che la rivista Amica - pubblicando la foto di Irina che indossa un gilet di pelliccia - in realtà sta offrendo le sue pagine anche per promuovere il capo indossato dalla modella - mi domando se la signora, che tanto è rimasta indignata dalla presunta violenza verbale degli animalisti, sappia cosa si nasconda realmente dietro il commercio delle pellicce.
Come si può avere la pretesa di rifiutare il coro di proteste - seppure pronunciato a voce alta - di chi si batte per eliminare il massacro di tanti esseri viventi perpetrato in nome della moda, definendolo “violenza verbale”, per accogliere invece -  nel nome di una pretesa neutralità e dandovi spazio con articoli, foto, interviste, pubblicità - le ragioni di chi con quel commercio orrorifico si arricchisce o di chi, stupidamente - come la modella in questione e con lei tante altre - ne è stupidamente sedotto?
Come può, la signora in questione, sentirsi offesa dalle parole violente degli animalisti, proprio lei che sulle pagine della rivista che dirige dedicate alla moda, concede spazio e visibilità a questi professionisti della violenza che sono i produttori di pellicce, con tutto il loro entourage di business fatto di stilisti, sfilate, negozi, moda, tendenze  (lavaggio del cervello di chi lo segue incluso)?
E, di grazia, che specie di dibattito sperava di aprire la rivista Amica con quel titolo oscenamente ridicolo dato all’intervista e scritto a caratteri cubitali in copertina: “Amo gli animali. Devo rinunciare alla pelliccia?”.
Innanzitutto, c’è quella parola, “rinuncia”, che è quanto mai sintomatica di una ben precisa presa di posizione della rivista (altro che dibattito!), perché già se parli di “rinuncia” vuol dire che stai connotando negativamente quella che invece sarebbe la conseguenza più logica, semplice e felice dell’amore per gli animali, ossia il rifiuto di considerarli come oggetti e capi di vestiario. Non una rinuncia, per come la vedo io, quindi, ma una scelta di coerenza, di onestà con quanto si va affermando a parole.
Io non rinuncio ad indossare una pelliccia, io mi RIFIUTO, semmai, di indossare la pelle di un animale scuoiato, spesse volte quando era ancora vivo.
E poi, quel titolo, in realtà non fa che rinforzare - in maniera automatica e quanto mai subdola - la terribile contraddizione specista di cui è vittima la società, ossia che è possibile amare gli animali anche se li uccidiamo per mangiarli, per usarne le pelli, per vivisezionarli.
Sì, insomma, sì può fare, sottointende ironicamente quel titolo, l’importante è essere alla moda, fighi, non prendersi troppo sul serio, e, mi raccomando, dare spazio a tutti, essere democratici, ché una rivista non può permettersi di prendere posizione e deve ascoltare le voci di tutti (peccato che però vengano taciute le urla degli animali scuoiati, e peccato che troppo spesso queste voci cui si dà spazio risultino essere invece quelle delle grandi case produttrici di moda - per la cui pubblicità sulla rivista pagano fior di quattrini - e che per l’attuale stagione hanno deciso di far tornare in grande auge la pelliccia, in tutte le forme possibili ed auspicabili, dopo anni in cui, in effetti, questi animalisti cattivi e violenti, a forza di condurre campagne volte a sensibilizzare l’opinione pubblica, erano riusciti a far calare un po’ le vendite). Pensa un po’! Pensa un po’ cosa quanto innocente ha voluto essere quell’articolo! E quanto cattivi siamo noi animalisti che non ne abbiamo compreso il senso! Sigh Sigh!
Che vergogna! Che vergogna che la direttrice di Amica abbia cercato di difendere l’indifendibile. Che abbia scelto di portare la bandiera dell’orrore, del massacro di tante creature innocenti, della stupidità delle gente che si sente bella ad indossare la pelle di animali allevati in condizioni terrificanti, uccisi in maniere ancora più raccappriccianti e spesso, ribadisco, scuoiati quando sono ancora vivi (basta guardare uno dei tanti video diffusi in rete per scoprire che in realtà le mie parole sono solo un piccolo assaggio dell’enormità di questo indicibile orrore).
Su una cosa sono d’accordo invece: ha ragione la modella Irina ad affermare che è da ipocriti condannare l’uso della pelliccia mentre si accetta però di mangiare la carne e di indossare scarpe in pelle.
Questo non significa però che, poiché esistono tanti orrori e poiché i settori che prevedono lo sfruttamento degli animali sono molteplici, è giusto considerare legittimo anche l’ennesimo abuso perpetrato su di loro.
Anzi, magari è proprio a partire dal rifiuto di indossare un indumento inutile come la pelliccia che si può cominciare a riflettere anche sull’inutilità di tutto il loro sfruttamento, inutilità che purtroppo la cultura in cui siamo immersi - e le grandi multinazionali, le logiche del profitto, del commercio e del Potere - vorrebbero farci passare per “necessarietà”.
Sveglia gente, oggi per vivere bene - e senza dover rinunciare a niente, ma anzi, compiendo vere, autentiche scelte di coerenza e di alto valore etico - non è più necessario uccidere gli animali.
E non è nemmeno necessario amarli. Basta solo imparare a rispettarli.
E basta di riempirsi la bocca con queste cazzo di parole astratte come “democrazia”, “rispetto”, “amore”, “liberalismo”, “libertà” ecc. ecc., quando poi si continua ad essere partecipi e complici dello sterminio di 50 miliardi (50.000.000.000) di animali all’anno solo per soddisfare il nostro egoismo e la nostra vanità.

 P.S.: sì, lo so, Irina Shayk è proprio gnocca, peccato che a tanta bellezza non corrisponda anche tanto rispetto per gli animali che asserisce di amare.



martedì 25 ottobre 2011

The Hurt Locker di Kathryn Bigelow

Finalmente mi sono decisa a vedere l'ultimo film di Kathryn Bigelow, vincitore nel 2010 di ben 6 premi oscar. Lei è una regista che ho sempre apprezzato, particolarmente per due suoi lavori, Point Break e Strange Days, che non mi stancherei mai di guardare.
Non avevo però il minimo entusiasmo di vedere The Hurt Locker, temendo fosse l'ennesimo film di propaganda filo-americana, trattando di una missione in Iraq di soldati statunitensi, specializzati nel disinnescare ogni tipo di ordigno, ed essendo io stata sempre contraria all'invasione di questo paese da parte degli Usa.
Sinceramente di guardare film in cui i soldati americani passano per essere i soliti eroi salvatori del mondo sono stanca.
Se c'è una cosa che però detesto fortemente, ancor più dei film di propaganda americana, sono i pregiudizi e le supposizioni.
Tutti probabilmente ci accostiamo al nuovo, a ciò che non si conosce, appesantiti da un fardello di pregiudizi che ci trasciniamo dietro senza nemmeno rendercene conto, in fondo è sempre dall'occhio prospettico della nostra cultura e della nostra personale scala di valori che ci accingiamo a guardare e ad osservare, falsando talvolta l’onestà di un’analisi.
E quindi, mettendo da parte i pregiudizi e con ferma determinazione di abbandonare ogni riserva mentale, alla fine ho deciso di guardare The Hurt Locker.
Ebbene, l'ho trovato un gran bel film, con tanti "se", con tanti "ma". E sono proprio questi "se" e questi "ma", probabilmente, a donargli quel valore aggiunto rispetto a tanti altri film di guerra che sono stati realizzati.
La più grande riserva mentale che personalmente ho dovuto mettere da parte è quella del presupposto su cui si basa il film perché se è vero che i protagonisti sono personaggi ben caratterizzati psicologicamente, dotati di uno spessore e di una credibilità narrativi che li rendono emotivamente vicini allo spettatore - sin dalle prime scene reso partecipe del pericolo delle loro azioni - è anche vero che viene legittimo domandarsi: "ma chi gliel'ha fatto fare a questi ragazzi di andare in Iraq?".
The Hurt Locker però è interessante proprio perché il punto di vista extra-diegetico resta totalmente assente, mettendo in scena, con un procedimento che oserei definire impressionista, l'esclusiva soggettività dei tre protagonisti.
E' come se ci trovassimo di fronte ad un documentario - con telecamere disposte a 360° intorno agli attori e con la quasi totalità delle scene girate in esterno, molte delle quali senza l'ausilio di luci artificiali, ad amplificare formalmente il realismo delle scene (e grazie alla bravura della Bigelow la sospensione dell'incredulità è tale che sembra a volte di assisterere a scene di repertorio da vere zone di guerra) - in cui l'oggetto non è tanto ciò che avviene, ma la reazione a ciò che avviene.
Una volta accettato il dato di fatto che quei soldati sono lì, lo spettatore è immediatamente catalputato nel vivo delle loro giornate, come accompagnatore silenzioso di ogni loro pericolosa azione finalizzata alla ricerca di ordigni da disinnescare. In quei lunghi istanti non c’è spazio per porsi domande sulla legittimità delle loro azioni, c'è solo la sospensione del tempo, il contrarsi dello spazio, la sovrapposizione della vita e della morte in quell'unico - determinante e definitivo - gesto in cui si decreta il successo o il fallimento dell'azione. Lo stesso avviene negli scontri a fuoco in cui, nuovamente, siamo costretti a mettere da parte ogni domanda per concentrarci nell'assoluta rilevanza di quell'attimo in cui il confine tra la vita e la morte si fa sempre più sottile. Non c'è una specifica disposizione d'animo nei tre soldati nei cofronti dei "ribelli", c'è solo l'assoluta consapevolezza di "o loro o noi".
Più che il sentimento di avere un "nemico" da combattere (sentimento che renderebbe legittimo il domandarsi appunto: "ma di quale nemico stai parlando? E perché un popolo che è stato invaso dovrebbe essere considerato un nemico, poi?"), nei protagonisti si fa strada la consapevolezza di trovarsi esposti ad un pericolo costante in un confronto serrato con la morte, di essere come pedine di un gioco in cui, ad ogni tiro di dadi, e solo per pura casualità, viene decretata la loro fine o sopravvivenza. Ed infatti i "nemici" vengono rappresentati - pur se presenti ovunque, dietro ogni angolo o dall'alto di tutti gli edifici - come stranamente immobili, nascosti dietro l'imperscrutabilità di un'espressione, i movimenti lenti od assenti, presenze astratte più che individui in carne ed ossa.
Ed è questo, in sostanza, l'aspetto interessante del film, il quale riesce a sviare l'attenzione dalla contingenza della specifica narrazione di guerra, per elevarsi ad una riflessione di portata esistenziale perché, se è vero che in zona di guerra, da soldati, a compiere un lavoro estremamente pericoloso come quello di andare a disinnescare delle bombe (legittimità o meno di una scelta di questo tipo), le probabilità di morire si alzano in maniera esponenziale, è pur vero che nessuno di noi è nelle condizioni di sapere con certezza quanto sottile possa essere il confine che separa la sua vita dalla morte. Ogni giorno.
Tutti noi, ogni giorno, usciamo là fuori nel mondo senza avere l'assoluta certezza di poter rientrare a casa. E questo lo dico senza alcuna retorica, senza alcuna visione pessimista, semplicemente come realistica considerazione.
Il personaggio più significativo in The Hurt Locker è quello interpretato dal bravo Jeremy Renner, nel film appunto il caposquadra di un'unità di artificieri - dopo che il precedente ha perso la vita in un'esplosione (quest'ultimo interpretato da Guy Pearce in un prezioso cameo; divertente che in questo film alcuni attori tra i più noti al mondo abbiano partecipato solo per un cameo, tra cui Ralph Fiennes) - la cui sventatezza del pericolo e straordinaria bravura nell'eseguire il proprio lavoro ne caratterizzano un'ambiguità di fondo. Questo personaggio contiene un'infinità di sfumature: a tratti può apparire come un pazzo esaltato, incurante della sua incolumità e di quella del resto della squadra, uno che si alimenta del pericolo, la cui ricerca di situazioni ad alto tasso adrenalinico diventa quasi una sorta di dipendenza (che è ciò che suggerisce, apparentemente almeno, anche il finale), a tratti però, da questo carattere coraggioso e di una risolutezza senza pari, affiora un profondo senso di umanità e di pietà, una disperazione e dolore dai quali, come tratto distintivo che lo accomuna ai suoi compagni di squadra, la vulnerabilità rimane come elemento predominante.
Ed è in questi tratti che si rivela anche la sua umanità, a dispetto dei  comportamenti superomistici.
Ed è probabilmente proprio nella complessità e contraddittorietà di questo personaggio che ci si può azzardare ad una lettura del film, quale espressione della complessità simbolica che ogni narrazione ed esperienza di guerra porta con sé nel mettere a nudo non solo la precarietà della vita e l'illusoria certezza di poterla controllare, ma anche l'acquisizione di un senso ultimo da attribuirgli proprio in relazione al confronto serrato con la morte.
Più che un film che fa riflettere sulla guerra, a me è sembrato un film che fa riflettere sull'esistenza in generale. Ed è questo, in definitiva, a rendere The Hurt Locker un film interessante. Certo, siamo ben lontani dalla discesa agli inferi di Apocalypse Now, o dal simbolismo di Full Metal Jacket, e del resto non si denota né la minima intenzione, né la presunzione di accostarsi ai precedenti capolavori. La Bigelow, qui, più che altro, sembra interessata a riportare, nella maniera più impressionista possibile, il valore di un’esperienza.
Il mio consiglio quindi rimane quello di accostarsi a questa visione senza giudizio alcuno se non quello di natura estetica.

sabato 22 ottobre 2011

Melancholia di Lars von Trier


Ieri è uscito il nuovo, straordinario film del regista danese da me amatissimo e seguitissimo.
Ne avevo già scritto la recensione lo scorso giugno, avendo avuto la possibilità di vederlo in anteprima in lingua originale, quindi oggi vi ripropongo la medesima.
Inoltre, più di recente, ho scritto una nuova recensione per la rivista multitematica online MENTinFUGA, che potrete trovare qui.
Buona lettura, ma soprattutto buona visione!

martedì 18 ottobre 2011

L'Ultimo Vero Bacio di James Crumley

Di questo romanzo, uscito nel 1978, è stato detto e scritto di tutto e di più: “il più grande noir degli ultimi quarant’anni”, “il grande romanzo americano”, “il libro che ha cambiato per sempre le carte in tavola del noir” e poi tante altre lodi e, immancabile, l’accostamento a Raymond Chandler, uno dei più grandi scrittori di noir di tutti i tempi - ma non solo, essendo le etichette di genere sempre riduttive quando si ha a che fare con la vera letteratura (e romanzi come “Il Lungo Addio”, e “Il grande sonno” rientrano a pieno titolo nella letteratura tout court, fuor da ogni riduzione di genere). 
È con grandi aspettative che mi sono quindi accostata a “L’Ultimo Vero Bacio”, aspettative che sono state in parte confermate, in parte disattese.
Confermate, perché? Perché è uno di quei romanzi capaci di insinuarsi progressivamente nell’esistenza del lettore, in grado di tenere compagnia, i cui personaggi da subito acquisiscono quella sorta di familiarità tale da farceli sembrare amici di vecchia data, anche quelli che appaiono solo per poche pagine. Crumley inoltre, sempre a proposito dei personaggi, compie qui il primo vero prodigio, che è quello di introdurre a poco a poco un personaggio - Betty Sue Flowers, una ragazza scomparsa da dieci anni e sulle cui tracce si mette il detective Sughrue dopo aver, apparentemente, risolto un primo caso - soltanto attraverso le descrizione indirette dei suoi amici, parenti e conoscenti, riuscendo a trasmetterne tutto la forza di un fascino - ambiguo e misterioso - che finisce per sedurre persino il detective stesso, nonché noi lettori, oltremodo sempre più incuriositi dai motivi della sua scomparsa e dallo sviluppo della sua vicenda.
La storia, una bella storia, è sempre molto avvincente, una di quelle che non danno mai tregua al lettore, piena di inventiva e di sbalorditivi colpi di scena in cui, fino alla fine, si è portati a dubitare delle intenzioni di ogni personaggio senza, tuttavia, che il loro fascino debba risentirne troppo .
Il secondo prodigio che compie Crumley, tutto stilistico stavolta, è quello di strabordare dalla serietà e dai toni cupi del genere (noir, appunto) costellando le pagine talvolta di una comicità esilarante, a tratti quasi farsesca, per poi improvvisamente tagliuzzarle con una satira spietata contro la società americana e contro l’umanità in generale, finanche a velarle di un romanticismo che, al momento giusto, giunge ad ammorbidirne i toni; i dialoghi sono serrati e spesso suggeriscono azione, ma poi, all’improvviso, sembrano come restare sospesi ad aprire un varco a riflessioni di ben più profondo spessore, vere perle di pura filosofia, sulla vita, sulla morte, sull’esistenza stessa che giungono tanto più inaspettate quanto più buttate lì, con leggerezza, oppure con inaudito cinismo e brutalità, talvolta puramente gratuiti, a sminuire il peso di un’inanità esistenziale - non a caso spesso affogata in litri e litri di birra e whisky, in una propensione all’alcolismo cui nemmeno un simpatico bulldog sembra sottrarsi - oppure, a ricordarne tutta la pesantezza.
In questo si può dire che “L’Ultimo Vero Bacio” sia un romanzo che scavalca i generi, che pur rispettando tutti i cliché del noir - senza nascondere peraltro di volerci giocare - spesso sembra volerli sovvertire o riprodurli quasi parodisticamente: a tratti infatti i personaggi, Sughrue, così come Traherne, lo scrittore inseguito dalle donne della sua estesa famiglia, o anche la stessa Betty Sue Flowers, sembrano essere  descritti volutamente come delle macchiette, degli stereotipi fin troppo marchiati ed esagerati, ma - ed è questo il terzo prodigio - senza che l’umanità degli stessi e la verosimiglianza letteraria ne abbia mai a soffrire. Un’indisponenza caricaturale che si fa appena in tempo a percepire per poi essere smorzata dall’assoluta serietà di una riflessione, di una frase, di un particolare, di un gesto o anche solo di un mezzo sorriso malinconico.
Quello che invece non mi ha convinto - ed è qui che le mie aspettative sono state deluse - è l’intento di delineare, al pari de “Il Lungo Addio” di Chandler, una parabola, amarissima, su un’umanità - ma potremmo dire sull’umanità tout court - che, nella decadenza di un’epoca, tradendo il prossimo, l’amicizia, l’amore, finisce per tradire sé stessa. Ecco, quest’amarezza, tipicamente chandleriana, io l’ho percepita in maniera molto soffusa, come fosse una copia sbiadita di un originale impossibile da imitare.
Le storie di Chandler sono sempre di un’amarezza incredibile, si trascinano dietro, pagina dopo pagina, il peso di valori - amicizia, amore, onore, senso civico - ormai fatti a brandelli e quello di una concezione dell’esistenza ormai svanita per sempre,  ma di cui si continua a percepire tutto il dolore nostalgico della perdita. In un certo senso il detective chandleriano Philip Marlowe è un cavaliere d’altri tempi, uomo di integerrima caratura morale seppure nello sprezzo delle convenzioni perbeniste,  costretto a confrontarsi con personaggi astuti ma che - nella loro assenza di etica, anche se apparentemente vincenti - irrimediabilmente rivelano il loro fallimento di esseri umani.
La storia di Crumley invece, pur sfiorando, nelle ultime pagine, la tragedia di un fallimento esistenziale, risulta una parabola attutita e forse proprio perché il mondo che egli ci presenta sin dall’inizio è già un mondo irrimediabilmente corrotto e privo di speranza, è già un mondo da cui non ci si deve aspettare più niente.
Il difetto allora, a mio avviso, sta proprio in questo eccesso di cinismo e pessimismo, dati, sembra, più per automatismo, per convenzione letteraria, che non come analisi di una condizione che pian piano affiora tra le pieghe della storia stessa.  
Un romanzo chandleriano che non riesce del tutto a sdebitarsi dell’originale, di cui ne ripropone il mondo ma senza quel quid necessario a donargli l’autenticità di un’anima individuale.
Giudizio complessivo: un ottimo romanzo che vale sicuramente la pena di essere letto e che gli appassionati di letteratura sapranno apprezzare anche per il gioco stilistico perfettamente riuscito, e che però, alla fine, lascia la sensazione di un lavoro imperfetto, non pienamente riuscito. Ma forse, questo è anche il suo fascino.

Voglio ringraziare Eustaki per avermi incuriosita e convinta, con la sua recensione, a tentare la scoperta di questo nuovo autore, James Crumley, a partire da quello che è considerato il suo capolavoro, appunto: “L’Ultimo Vero Bacio”.

venerdì 14 ottobre 2011

Comunicazione importante

Ricevo e diffondo questa importante notizia che Eloisa del blog animalista Natividad  mi ha gentilmente comunicato in data odierna.
Come potrete leggere riguarda un'importantissima iniziativa di lotta contro l'orrore di "Green Hill" (di Montichiari - BS), struttura che alleva cani di razza Beagle destinati ai laboratori di vivisezione (eufemisticamenti chiamati laboratori per la sperimentazione animale).
Doveroso specificare che la struttura tiene imprigionati dentro minuscole gabbie - illuminate dalla sola luce artificiale - fino a 2.500 cani, adulti e cuccioli: cani che nascono, vivono e moriranno senza mai avere il conforto di una carezza, la gioia di una corsa sul prato ed una vita degna di essere vissuta.
In questo stesso istante in cui io sono qui a scrivere, queste povere creature innocenti continuano a vivere in un inferno.
La lotta, volta a far chiudere il suddetto lager, si protrae già da diverso tempo:  il 25 settembre del 2010, qui a Roma, fu organizzata persino una manifestazione nazionale, cui partecipammo in molti (almeno 10/15.000 persone), ma di cui i media diedero scarse e frammentarie notizie.
Questa mattina alcuni attivisti sono saliti sul tetto della struttura di Montichiari, dando avvio ad un presidio di protesta che si protrarrà anche domani 15 ottobre - iniziativa fondamentale per continuare a sensibilizzare l'opinione pubblica su quanto avviene all'interno di "Green Hill" e sull'orribile destino che attende i cani ivi allevati e per giungere a far chiudere, una volta per tutte, questo lager.
La lodevole e coraggiosa iniziativa sta però purtroppo subendo un'ignobile manovra di oscuramento; alcuni giornalisti, accorsi sul luogo, sono stati allontanati, sembra addirittura dalla Digos, ed il sito ufficiale "Fermare Green Hill" non risulta più accessibile da alcune ore.
Per questo ritengo fondamentale diffondere il comunicato di questa importante iniziativa, e prego ogni mio lettore di fare altrettanto attraverso tutti i canali disponibili (FB, blog, email, sms ecc.).

martedì 11 ottobre 2011

Carnage di Roman Polanski


Una delle caratteristiche dei film di Polanski è l’ambientazione in interni di appartamenti, talvolta concepiti come concrezioni della mente i cui confini si restringono sempre più (Repulsion, L’Inquilino del Terzo Piano) oppure si dilatano fino a divenire campo di battaglia su cui rievocare tragedie storiche di un passato tragico mai rimosso, storico e individuale insieme (La Morte e La Fanciulla); o ancora sono luoghi-emanazioni di inquietanti presagi in cui - dietro l’apparente tranquillità domestica - si nascondono e agiscono forze sovrannaturali (Rosemary’s Baby), ma anche costrizioni claustrofobiche scatenanti pulsioni autodistruttive (Il Coltello nell’Acqua, Cul de Sac, Luna di Fiele); oppure, come nell’ultimo lavoro del regista di origini polacche, ecco che lo spazio chiuso dell’appartamento - luogo per antonomasia del privato a partire dall’era moderna,  assurto a simbolo di una classe sociale, quella borghese - diviene catalizzatore di nevrosi e frustrazioni e di tutto ciò che è bene reprimere all’esterno in ottemperanza e ossequio alle leggi di un presunto e ostentato raggiunto certo grado di civiltà, ben presto poi smascherato quale solo ipocrita appretto di perbenismo spruzzato in superficie, a rivestire di una patina talvolta meramente ideologica la natura egoistica dell’essere umano.
In Carnage - interamente girato in appartamento e la cui vicenda si snoda in tempo reale per tutta la durata del film, esattamente 80 minuti - Polanski costruisce una dialettica a quattro voci (Kate Winslet, Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz: il film merita di essere visto anche solo per la straordinaria prova attoriale del quartetto, una vera e propria gara di sfaccettata e poliedrica bravura) per smantellare e far crollare rovinosamente a terra tutto il castello delle convenzioni borghesi su cui poggia il mito della tanto decantata civiltà occidentale. Questo, almeno, è quanto apparentemente sembra avvenire. Ma se fosse solo questo, davvero il film sarebbe solo un’eccellente sfida virtuosistica di regia (stupefacenti certe inquadrature dei personaggi, ora ripresi frontalmente, ora che voltano la schiena alla telecamera, disposti in maniera da essere sempre rispettivamente - singolarmente, o a coppie - figurativamente e dialetticamente contrapposti): l’ennesima messa a nudo della vera natura dell’essere umano celata dietro l’ammasso sovrastrutturale della cultura, della buona educazione, dell’arte, delle etichette e norme sociali.
In realtà il confronto delle due coppie, determinato da un litigio tra i rispettivi figli, di cui uno accusato di un comportamento violento contro l’altro, diviene dapprima un confronto tra due nuclei matrimoniali espressioni di microcosmi a contrasto, per poi trasformarsi nell’inattesa rivelazione di singole e individuali solitudini e frustrazioni, frutto di incondivisibili percezioni e concezioni del mondo e della realtà, in cui solo per brevi sfuggenti attimi si può avere l’illusoria e fuggevole convinzione di essere sfiorati dal calore di una reciproca comprensione.
Ogni personaggio è drammatico e patetico a modo suo, ipocrita nell’indossare l’abito delle convenzioni e costrizioni sociali, cui lo status sociale cui appartiene ambisce a conformarsi, ma anche ingenuamente sincero nello sforzo di cercare pian piano di scoprire e di far emergere quel nucleo autentico del sé; ed è però nell'inatteso affiorare di questo nucleo individuale che si annida la percezione della propria solitudine esistenziale.
Forse il personaggio più interessante di tutti è quello di Jodie Foster, specialmente nel momento in cui dice: “mi sono sforzata per tutta la mia esistenza di sollevarmi dalla mediocrità, per poi finire maltrattata ed incompresa da tutti”; autentica è infatti la sua spinta altruistica, il suo impegno umanitario verso i paesi del cosiddetto terzo mondo, il suo grado di empatia esteso oltre i confini del proprio elegante appartamento, ricco di libri e oggetti d’arte (esilarante la scena in cui cerca di recuperare le pagine del “suo Kokoschka” e si dispera - forse, potremmo dire, con lacrime pari a quelle versate quando cerca di parlare, con viva partecipazione, del conflitto del Darfur? -  dopo che la Winslet ci ha malauguratamente vomitato sopra, anche se minore empatia sembra però provare per la sorte del criceto di casa, dal di lei marito abbandonato in strada, anche se, a un certo punto, incalzata dalla Winslet, ammetterà l’inciviltà e ignobiltà del gesto), autentica la sua convinzione di combattere con ogni mezzo i gesti e i comportamenti violenti in quanto “civiltà significa affrancarsi dalla violenza”, salvo poi tirar fuori ella stessa un’inaudita natura privatamente esplosiva in cui arriva persino ad alzar le mani contro il marito, cedendo a una scomposta crisi isterica, dal basso della quale cominciare a intravedere le crepe di una civiltà  - quella occidentale - ormai prossima ad andare in frantumi, così come quelle della propria anima, una volta preso atto del fallimento di ogni tentativo di confronto con l'altro, compreso suo marito.
Ed a proposito di frantumi, un ruolo quasi di primo piano spetta - sintomaticamente - ad uno dei simboli per eccellenza della nostra avanguardistica civiltà ipertecnologizzata: il telefono (cellulare e non). Sarà infatti il suo ripetuto squillo a fare da contrappunto alle voci dei quattro protagonisti, a stabilire cambi di prospettiva e ad introdurre nuovi argomenti, rassicurante giocattolo a memoria di una dimensione ludica cui eventualmente rifugiarsi come ultima speranza.
In maniera ambigua sarà proprio il ricorso alla tecnologia l’ultima risorsa cui affidare infatti la speranza, non del tutto sopita, di rendere l’umanità in grado di responsabilizzarsi grazie allo sforzo congiunto di comunicare, anziché farsi la guerra.  
L’ultima scena è in fondo, a dispetto di tanto cinismo dispensato da mani adulte, di inattesa - seppure ambigua - speranza. I due bambini, di fronte allo schermo del telefonino, sembrano essere in procinto di riconciliarsi, mentre, nel chiuso di un appartamento (sintomatico il contrasto del luogo aperto - scena iniziale e finale - in cui si muovono i bambini e quello chiuso che appartiene al mondo degli adulti) i loro genitori continuano forsennatamente a litigare.
Forse i veri bambini irragionevoli sono gli adulti che non sono mai cresciuti e che non riescono a farsi carico delle loro responsabilità, più infantili dei loro stessi figli, compressi ed imprigionati nei loro microcosmi, tele di ragno che essi stessi hanno costruito per poi finire imprigionati. E cosa salverà l’umanità allora? L’accesso a una sana dimensione ludica, in cui, messa da parte la rivalità, non resta che affidarsi al progresso tecnologico come terreno comune per una comunicazione fra i popoli (siamo in fondo nella cosiddetta era della comunicazione e dei social network)? O non sarà, la sfida della comunicazione affidata alla tecnologica, l’ennesimo castello di carta a crollare sotto al peso delle ataviche e insopprimibili pulsioni egoistiche dell’essere umano e di quel nucleo incondivisibile del sé che alla fine ci condanna tutti ad una condizione di eterna solitudine?
E allora forse il vero messaggio di Carnage, o quantomeno una delle possibili letture, è proprio quello di rivelare l'intima natura dell’essere umano, che oltre a essere egoista e votata allo spirito di sopraffazione instillato dallo spietato istinto di sopravvivenza, è anche destinata a restare irrimediabilmente circoscritta entro le mura di un’atavica solitudine; così, nella cosiddetta era della comunicazione, beffardamente e paradossalmente ingannata ed illusa, la solitudine dell’anima è messa spietatamente e satiricamente  a nudo dai bagliori di questo piccolo tagliente gioiello che Polanski ci ha regalato.

sabato 8 ottobre 2011

Drive di Nicolas Winding Refn


In genere prediligo i film dal contenuto polisemantico, quelli di cui si potrebbe stare ore a discuterne per sviscerarne tutta la complessità simbolica e metaforica: film le cui immagini, dialoghi, scene continuano nei giorni successivi alla visione a suggerirmi riflessioni, pensieri, spunti di lettura inediti.
Drive non è un film di questo tipo. E’ però uno di quei rari film in grado di affascinare per la maestria tecnica, il cui risultato è un riuscitissimo connubio di inquadrature, montaggio, fotografia, cast, scenografia e colonna sonora, superbamente ottenuto grazie alla regia del danese Nicolas Winding Refn; una menzione a parte va alla colonna sonora di Cliff Martinez,  la quale mantiene un ruolo di primaria importanza, talvolta quasi in sostituzione dei dialoghi (molto stringati, ridotti all’essenziale) e che comunque sostiene ed amplifica la visione globale, conferendo alla pellicola quello spessore, originalità ed individualità cui una sceneggiatura molto convenzionale, da sola, non avrebbe potuto in alcun modo ambire.
Drive è un film che merita di essere visto perché ogni singola scena si trasforma in un gioco di seduzione formale divenendo uno sfrontato esercizio di estetizzante richiamo per i nostri sensi; uno di quei film in cui non è esatto dire che banalmente la forma si sostituisce al contenuto, ma in cui l’effimero dell’estetica riesce a raggiungere il portento di una valenza in grado di far affiorare archetipi universali.
In questo senso l’esistenza del protagonista (il termine “drive” in inglese significa “guidare”, ma anche “pulsione”, “istinto”), di cui non si sa nulla, nemmeno il nome (bravissimo Ryan Gosling - peraltro da me già notato nel poco conosciuto, ma bellissimo e commovente Stay - nel mantenere la lucidità di un’espressività menomata di qualsiasi indizio mirato a decifrarne l’animo e le emozioni), affiora come pura funzione deterministica a veicolare (egli, appunto, è colui che guida, facendosi strumento e veicolo di qualcosa) ciò che è necessario; più una figura astratta, ma nella sua astrazione è evidente l’attribuzione di un carattere eroico, strumento di pulsioni irrefrenabili, che un carattere ben definito con precise connotazioni individualistiche; così come nell’astrattezza di una passione mai realmente consumata o realizzata, ma che si fa archetipo dell’indecifrabilità dell’attrazione stessa, si mantiene il rapporto tra lui e Irene (la bravissima, come sempre, Carey Mulligan).
Sullo sfondo una Los Angeles anch’essa astratta (riprese notturne dall’alto o, al contrario, riprese che stringono sull’asfalto delle strade, quasi a restituirne attraverso lo sguardo la percezione materica), teatro dell’avvicendarsi di umane passioni e pulsioni, confuse ed indistinte, perse sullo sfondo di atmosfere che, personalmente, mi hanno ricordato moltissimo quelle di Michael Mann. Ecco, se proprio dovessi accostare il protagonista di Drive ad un altro personaggio cinematografico sarebbe proprio al Vincent di Collateral (anch’egli di mestiere, guarda caso, guida auto, più specificamente taxi), così come la storia, in cui ad essere protagonista è l’agire e l’agitarsi delle pulsioni nel determinismo di un rapporto di causa-effetto più che il singolo carattere contrassegnato da un passato ed una storia individuali, la trovo molto vicina anch’essa appunto a quelle di Michael Mann. L’analogia tra i due registi mi sembra evidente anche nell’uso dominante e significante della colonna sonora, nella predilizione per una fotografia cupa ed al tempo stessa estetizzante, nell’interesse per l’essere umano che inevitabilmente cede al dominio delle pulsioni.
Come ho scritto all’inizio, Drive non ha in definitiva chissà quali e quanti significati, racconta però una storia di grande valenza archetipica, e riuscendo a farlo esclusivamente attraverso l’uso virtuoso delle immagini, gli conferisce una potenza narrativa ed emozionale che lo rende un quasi capolavoro.
La trama non la riporto, mi sembra superfluo, così come superflua appare in definitiva nell’economia del valore complessivo del film, la cui sceneggiatura diviene quindi solo una traccia scritta - quasi irrilevante - a fare da sfondo alla messa in scena di azioni dettate dalle umane passioni ed ineludibili pulsioni.

giovedì 6 ottobre 2011

Tomboy di Céline Sciamma

Oggi vorrei segnalarvi questo interessante film vincitore del Teddy Award al Festival di Berlino e di cui certamente si sentirà molto parlare anche qui da noi (il film uscirà nelle sale domani 7 ottobre, io ho avuto modo di vederlo in anteprima la scorsa settimana), divenuto già un “caso” in Francia. La regista è la giovane francese Céline Sciamma (di origini italiane) ed il tema che sceglie di affrontare in questo suo secondo lungometraggio è quello dell’identità sessuale nella tarda infanzia, (mentre nel suo primo lungometraggio, dal titolo Naissance des Pieuvres, purtroppo non uscito in Italia, ma reperibile in dvd con il titolo Water Lilies, affronta quello dell’identità sessuale nell’adolescenza).
Tomboy, girato in soli venti giorni, con un budget ridotto, riesce a conquistare per la freschezza e naturalezza delle scene, per la bravura e spontaneità degli attori bambini (degna di particolare nota è proprio la protagonista, Zoé Héran, dal visino espressivo e dalla fisicità in grado di aderire totalmente alle prestazioni che le esigenze filmiche le richiedono, scongiurando così ogni pericolo di artificiosità), nonché per gli interessanti spunti che riesce a suggerire in maniera leggera e divertente, senza cadere nel pedagogico e senza sciogliere quei quesiti cui, probabilmente, una risposta univoca e definita non possono avere; ed il bello del film è proprio questo lasciare lo spettatore nella sospensione di tutta una serie di riflessioni e domande inerenti il discorso della costruzione delle identità del maschile e del femminile: come si formano, a partire da quando, in che modo e perché, sono innate o soltanto riflessi ed imitazioni scaturiti dall’osservazione della cultura che ci circonda?
La regista ci prende per mano, quasi fossimo bambini anche noi, e ci introduce pian piano nel mondo e nell’atmosfera giocosa dei suoi piccoli protagonisti, rendendoci al contempo osservatori e partecipi di tutta una serie di comportamenti, i quali, a partire dal microcosmo del gioco - primo esempio di aggregazione sociale in cui si impara a sottostare al rispetto di regole, norme e ruoli - contribuiscono all’elaborazione ed alla formazione delle identità sessuali. E del resto, culturalmente, è proprio a partire dalla distinzione e differenziazione dei giochi e dei giocattoli che le femminucce iniziano a distinguersi dai maschietti, e che gli stereotipi dei comportamenti maschili e femminili iniziano a consolidarsi, rafforzandosi e trovando conferma a vicenda.
Chiunque avrà avuto modo di entrare in un qualsiasi negozio di giocattoli, a testimonianza di quanto dico, avrà certamente notato la separazione tra lo scompartimento dei giochi per i bambini e quello per le bambine: se sugli scaffali del primo è tutto un proliferare di automobiline, soldatini, armi dalle più svariate fogge, robot e guerrieri vari che si fronteggiano in guerre interplanetarie, nel secondo, dove è il colore rosa a predominare, l’illusione di essere una principessa delle fiabe, appannaggio dei primi anni di età,  (e sarà tutto un sommergerci di coroncine, tulle, bacchette magiche e cavalli bianchi), verrà presto soppiantata dall’imitazione di quel mondo domestico a confermare e ribadire il ruolo che ogni bambina - futura donna - dovrà occupare (ferri da stiro giocattolo, lavatrici giocattolo, fornelli giocattolo, supermercati giocattolo, più carrozzine, passeggini, lettini in cui riporre teneri bambolotti dalla fattezze quasi umane a ricordare quello che culturalmente resta ancora il ruolo principale della donna per antonomasia: quello di divenire madre e mettere al mondo tanti bei pargoli-cicciobello, donna che lavora anche fuori casa quindi, forse interessata a far carriera, ma senza che debba trascurare la cura della casa e quella delle tante mansioni che vengono appunto definite mansioni femminili).
Nel film della Sciamma il discorso tuttavia è molto più sottile, e più attento ai comportamenti sociali - imitazioni del mondo adulto da parte dei bambini - che alle induzioni di tipo consumistico dei ruoli sessuali; i protagonisti hanno un’età compresa tra i nove e gli undici anni ed il cammino verso la costruzione e definizione delle loro identità sessuali è nella fase in cui a contare sono gli abiti, i comportamenti e la gestualità (tipo di camminata, gesti, modo di atteggiarsi, reazioni).
La protagonista principale è Laure, una ragazzina di dieci anni, appena trasferitasi nel nuovo quartiere della periferia di Parigi insieme ai suoi genitori ed alla sua sorellina minore, la quale approfittando di un errore commesso da Lisa, una bambina vicina di casa, che la scambia per un maschietto, decide di fingersi e di farsi presentare ed introdurre al gruppo degli altri bambini, esattamente come Michael.
La scelta della sua identità sessuale quindi inizia a partire proprio dal nome, Michael anziché Laure, e prosegue poi nella scelta di abiti di foggia maschile, o quantomeno neutra, e nell’ostentazione di tutta quella gestualità, vezzi ed azioni che da sempre caratterizzano il mondo maschile (sputare per terra, fare a pugni, giocare a calcio, portare i capelli corti, mantenere le spalle rigide ed il petto in fuori, camminare con falcate ampie e decise ecc.: molti sono stereotipi sì, ma efficaci nella costruzione della propria identità, sessuale e non).
Laure riesce benissimo a farsi passare per Michael. Così tanto che la sua amichetta Lisa si prende persino una cotta per lei credendola lui. Ma le scuole stanno per ricominciare (il film è ambientato sul finire dell’estate)... e non rivelerò altro.
In quella fase di passaggio dall’infanzia alla pubertà, in cui tutto è ancora molto sfumato, a partire proprio dalla fisicità, in cui i segni esteriori dei caratteri sessuali secondari (barba, seno, tonalità della voce, peluria) non sono ancora manifesti, in sostanza, sembra suggerire la regista, si è ancora in quel mondo magico ed indistinto della favole in cui si può immaginare, credere, fingere di essere e di poter divenire qualsiasi cosa. Si può giocare - perchè forse solo di questo per Laure si è trattato - ad essere altro rispetto a quello cui la cultura e la società, più tardi, forse, ci costringeranno ad essere, imprigionandoci in ruoli e stereotipi che finiremo per assumere come naturali, pur essendo soltanto, in definitiva, mere costruzioni culturali.
Ed il bello del film sta proprio in questa aleatorietà del gesto della bambina, per la quale la scelta di fingersi maschietto potrebbe essere stata soltanto veramente una parentesi giocosa, ma anche invece il sintomo e la rivelazione della sua vera identità profonda che riesce ad emergere a dispetto dell’attribuzione dei caratteri primari femminili. La regista, volontariamente, non ce lo dice, lasciando un finale aperto a più di un’interpretazione ed alla grazia e poesia dello sguardo di Lisa che scruta Michael/Laure per una seconda/prima volta.
In Tomboy non c’è una condanna esplicità della costruzione culturale delle identità sessuali (è una riflessione che scaturisce secondariamente, semmai), quanto una divertita osservazione di questa attribuzione di ruoli di cui pian piano i bambini si appropriano, più ad imitazione di un mondo adulto, sembrerebbe, che non per esigenza naturale, più per gioco che non per rispondere ad una reale pulsione (essendo le pulsioni sessuali, a quell’età, ancora poco indirizzate, multiformi).
Ed è infatti sotto il dominio del gioco che avverrà la riappacificazione tra Laure/Michael e Lisa, i cui sentimenti e le cui emozioni alla fine prevarranno sulla definizione di qualsiasi identità sessuale; l’amicizia, l’attrazione, l’affetto, la complicità, la voglia di stare insieme, fortunatamente, non hanno sesso.
E’ un film semplice e girato con mano leggera, dal taglio quasi documentaristico,  interessante per la maniera divertente e diretta con cui affronta quella fase così particolare dell’esistenza in cui gli spettatori non tarderanno a riconoscere anche quelle prime curiosità, perplessità e turbamenti che hanno caratterizzato la loro stessa personale esperienza. Ed è facile identificarsi tanto in Laure quanto in Michael, in quello spazio ed in quel tempo che tutti noi adulti abbiamo perduto, quello infinito delle infinite possibilità.
   

sabato 1 ottobre 2011

A Dangerous Method di David Cronenberg


Con questo suo ultimo lavoro il regista canadese David Cronenberg conferma la sua predisposizione verso un cinema profondamente intellettuale ed indirizzato a quella che, sin dai primi esordi sperimentali, resta una ricerca costante in continua evoluzione: il connubio inscindibile tra corpo e mente.
Ad un artista da sempre così attento alle mutazioni dell’essere umano - tanto nei suoi esiti fisici quanto in quelli di natura psicologica - immerso ed a contatto con una realtà di cui, peraltro, non dimentica mai di sottolineare l’impossibilità a stabilirne uno statuto ontologico effettivo, certamente non sarà sfuggito l’antecedente causale di quella rivoluzione, prima medico-scientifica, poi culturale, che a partire dagli inizi del novecento, tenta di definire il ruolo che il nostro inconscio svolge nella genesi delle più svariate patologie, mentali e non. Certamente l’antecedente causale è dato, ed universalmente riconosciuto, dagli studi di Sigmund Freud, definito non a torto Padre della Psicanalisi, ma nella storia della stessa forse l’evento ancor più significativo e quello che ha permesso di ampliare le basi di un metodo cui Freud forse - con il senno di poi - si sarebbe attenuto un po’ troppo rigidamente e schematicamente, rischiando così di far implodere in se stesso l’enorme potenziale della sua scoperta, è stato l’incontro con il giovane Carl Gustav Jung, all’epoca - siamo agli inizi del primo decennio del novecento -  medico in un ospedale svizzero, sua patria natale, e con una paziente di quest’ultimo, Sabine Spielrein - in seguito anch’ella divenuta medico psicanalista, apportando importanti contribuiti alla materia, soprattutto in merito alla teorizzazione del concetto, poi in seguito rielaborato e ridefinito da Freud, della Pulsione di Morte.
E’ di questo straordinario incontro che parla A Dangerous Method, con Viggo Mortensen, straordinario nella mimica e nella trasformazione fisica, eccellente interprete del Professor Freud; Michael Fassbender, credibilmente calato nelle vesti e nei turbamenti sentimentali e sessuali del giovane Jung; Keira Knightley, in una convincente, quanto difficilissima, prova attoriale nel ruolo della giovane Sabine Spielrein; Vincent Cassel, in un piccola ma molto significativa parte in cui interpreta il medico Otto Rank, amico, collega e, a causa di un temperamento nevrotico, anche paziente sia di Freud che di Jung. Più altri attori, più o meno comprimari, come la bellissima  Sarah Gadon, nel ruolo della moglie di Jung.

L’intero film, per quanto si sviluppi apparentemente su un impianto quasi teatrale in cui a predominare sono i dialoghi, mostra un’elaborata struttura formale in cui la forza visiva non si limita semplicemente a sorreggere una ricca dialettica, resa ancor più viva peraltro dall’alternanza triangolare, bensì conferisce una vera e propria lettura in chiave oltretutto simbolica  - e del resto qui non potrebbe essere altrimenti - oserei dire anche psicanalitica.
David Cronenberg si muove, come sempre, su un duplice piano narrativo: se da una parte racconta la fin nota storia della stima reciproca tra Jung e Freud, poi sconfinata in un dissidio ed allontanamento reciproco a causa della divergenza in merito ai limiti da rispettare per mantenere l’oggetto dei loro studi entro i confini stabiliti dalla scienza, dall’altra - con un’enfasi che ricorda lo sconfinamento emotivo nel mondo asettico della clinica dei fratelli Mantle in Inseparabili - con il solito occhio indagatore da entomologo (nota è la passione di Cronenberg per gli insetti, sicché più volte egli stesso si è pregiato dell’analogia tra il suo cinema e l’entomologia: il primo, tramite l’occhio della cinepresa, indaga sui misteri dell’esistenza nelle sue declinazioni del rapporto tra l’uomo e la realtà, il secondo, tramite il microscopio, osserva il mondo misterioso degli insetti), mette a nudo le passioni, le pulsioni, le gelosie, finanche le nevrosi che, anziché distrarre dalla serietà di una vita dedicata all’impegno professionale ed agli studi, lo arricchiscono e ne esaltano il valore.
In A Dangerous Method, Freud e Jung non sono soltanto due medici che cercano di confrontare le rispettive posizioni, ma sono anche due uomini, uno più anziano, l’altro giovane, che - come un padre ed un figlio simbolici - si fanno portatori - con una vivacità e finezza dialettica senza pari - di due contrastanti teorie psicanalitiche a riflettere una duplice visione della vita.
Non è un caso che tutte le scene che introducono Sigmund Freud partano sempre da un oscuramento dello schermo, reso tale dal totale del personaggio ripreso di spalle ad invadere lo schermo e che si svolgano poi sempre sullo sfondo di una scenografia rigorosamente geometrica (il suo studio, delimitato e chiuso, interno quasi opprimente, dai rettangoli della scrivania e delle librerie stracolme di libri, primi piani di sghembi virtuosismi tecnici, il giardino viennese in cui il Prof. Freud ama passeggiare, ornato da siepi ed aiuole di stile settecentesco), mentre quelle con Jung e Sabine si aprono su laghi, mare, boschetti e giardini più selvaggi, a simboleggiare un’apertura mentale che ama spaziare oltre gli stretti confini della scienza.
Se le prime - mi riferisco alle scene con Freud - stanno a significare, ed a rendere visivamente, lo spirito estremamente razionale e rigido di Freud, fermamente ancoràto alla sua teoria del trauma di natura sessuale a cui far ricondurre ogni disturbo, malattia o comunque deviazione da quello che dovrebbe essere uno sviluppo psichico “sano” della persona in cui è da riconoscere il principale e fondamentale motivo di nevrosi a causa della tabuizzazione e rimozione delle pulsioni sessuali che si rendono “necessarie” nella nostra società, le seconde - quelle in cui appare Jung - suggeriscono invece il carattere di quest’ultimo, più aperto ad altre possibilità e teorie, convinto che sia deleterio e limitante applicare ai pazienti una schematizzazione così forzata e rigida delle teorie di Freud. Una mente, quella di Jung, più aperta dunque alle infinite manifestazioni di una realtà che resta, per sua natura, sfuggente e non del tutto conoscibile, sospesa in un mare di teorie (“più vicino a Galileo Galilei, convinto che l’universo non poggi su un unico perno”) incline ad ipotesi che sfiorano il misticismo, il paranormale, con una concezione della guarigione del paziente non destinata a restare sul solo piano clinico, ma esistenziale.
Interessante, a questo proposito, lo scambio in cui Jung dice a Freud: “tu vuoi mostrare al paziente la sua malattia, come un rospo spaventoso che se ne sta nell’angolo di una stanza, io invece voglio potergli mostrare tutto ciò che egli potrebbe diventare”.
Significativo il fatto che Freud, in presenza del giovane Jung, abbia sempre un sigaro acceso in mano - evidente simbolo fallico - proprio a simboleggiare la sua autorità paterna, alla quale - seppure in chiave professionale - teneva in particolar modo (tanto di rifiutarsi di raccontare a Jung un suo sogno proprio per paura che la sua autorità potesse essere minata o messa in discussione), così come singolare è il fatto che invece l’allievo-figlio Jung, invitato a mangiare a casa del padre-Freud, si serva riempendosi il piatto in maniera spropositata, a rimarcare il bisogno primario di essere nutrito, allevato, cresciuto per poter poi diventare, una volta sazio, autonomo ed indipendente. Come sempre, in Cronenberg, ogni particolare è sintomo di qualcosa.
E simbolico è allora  anche il sogno che Jung racconta a Freud, quello in cui immagina se stesso come un cavallo appesantito da un tronco che deve trascinarsi dietro e da vari ostacoli che gli si frappongono davanti: i vari ostacoli sono certamente, come ben interpreta Freud, la famiglia, i figli, ma il tronco è un evidente simbolo di un’eredità - quella che gli verrà lasciata dal padre-maestro - pesante da sostenere.
Ogni immagine, ogni scena, ogni parola di ogni dialogo acquisiscono una valenza di chiara matrice psicanalitica, tale da rendere A Dangerous Method, non solo un film sulla nascita della psicanalisi, ma un vero e proprio trattato di psicanalisi, parente stretto quindi di quell’altro capolavoro, ancora sulla malattia mentale, che è Spider.
Non solo: se, come evidenzia Sabine Spielrein nel momento in cui arriva alla teorizzazione del concetto della Pulsione di Morte, la vera sessualità è tentativo di distruzione dell’ego, distruzione dalla quale emerge una pura forza, dirompente e creatrice, siamo allora molto molto vicini al discorso di Vaughan in Crash: “il rimodellamento del corpo ad opera della tecnologia non è ciò che mi interessa veramente, quello è un discorso buono per distrarre le masse; in realtà il mio interesse per gli incidenti stradali è legato alla fertilità anziché alla distruzione, è una liberazione d'energia sessuale che trasmette la sessualità di quelli che sono morti con un'intensità che è impossibile in ogni altra forma”, confermandosi quindi, A Dangerous Method, a dispetto di quelli che lo hanno definito il film meno cronenberghiano di Cronenberg, l’ennesima invece rielaborazione di quelle che sono le sue tematiche ossessive di sempre.
In conclusione: un film apparentemente molto cerebrale ma che lascia emergere, poco a poco, queste tre figure, questi tre personaggi che tanto hanno apportato al novecento ed a cui non solo la scienza medica ma anche il cinema  e la letteratura sono debitori, personaggi che si scoprono fragili, preda delle medesime passioni, nevrosi, pulsioni autodistruttive che essi stessi ambivano ad analizzare, curare, infine guarire; dell’incontro e lo scambio di questi tre personaggi, Cronenberg racconta quindi non solo i loro successi professionali, prodotti anche sull’onda emozionale e vivificatrice della complessità dei loro caratteri e della loro relazione - anche di natura sentimentale e sessuale tra Jung e Sabine -, ma, soprattutto, il percorso verso la conquista di una maturità e di una saggezza che pone il film nella giusta prospettiva dalla quale partire per una riflessione sulle umane passioni, capace di andare oltre il mero oggetto del tema della psicanalisi e fino ad arrivare ad un’indagine sulle ferite cui l’essere umano è soggetto e dalle quali, per tutto il corso della propria esistenza, cerca disperatamente di guarire. Cos’altro è infatti la psicanalisi se non il tentativo di guarire dai traumi che l’esistenza stessa ci procura?
E chi, se non un medico che è stato a sua volta ferito, potrebbe aiutarci a guarire?
Per questo A Dangerous Method non è solo il racconto, dal piglio fortemente intellettuale, dell’incontro tra Freud, Jung e la loro paziente, poi collega Sabine, ma è soprattutto uno sguardo profondo sulle ferite della nostra anima, osservate dall’occhio attento, ma sempre partecipe e mai del tutto distaccato,  del grande David Cronenberg.