Perché i sostenitori della sperimentazione animale hanno evidenziato gli insulti di qualche scemo spostando così il discorso dal vero dibattito che è quello (o almeno dovrebbe essere) della liceità o meno di usare e uccidere migliaia di esseri senzienti provocandogli sofferenze atroci? Perché hanno voluto farci apparire (ci provano da sempre, in realtà) come dei violenti, aggressivi, sadici, cinici, quando la vera violenza reale è quella che si effettua dentro i laboratori?
Perché in tutto questa battage mediatico ci siamo dimenticati delle vere vittime della sperimentazione animale - tra cui non è certo la ragazza malata, ammalatasi per pura sfortuna - le quali vengono fatte ammalare appositamente?
Semplice.
Perché l'unico punto su cui i pro-vivisezione sono davvero in difficoltà, quello difficilmente difendibile, quello inaccettabile oramai per la maggior parte della collettività rimane, al solito, quello etico, che è, guarda caso, quello su cui noi battiamo sempre ed anche quello che riconoscono non esser in grado di controbattere efficacemente.
Per cui hanno spostato efficacemente il piano del discorso - debbo ammettere riuscendoci - dall'insostenibilità etica della vivisezione, all'insostenibilità etica degli insulti alla ragazza. Strumentalizzando vergognosamente le immagini sofferenti di Caterina, strumentalizzando la sua malattia e la sua speranza di guarire. Ma del resto da chi non si fa scrupolo di usare esseri senzienti come fossero cose, non è che c'è da aspettarsi molto di più.
Gli insulti e gli auguri di morte, come già detto, li condanniamo anche noi, ma nulla c'entrano con la giustificazione, di per ciò solo, della vivisezione.
Per favore, siamo furbi, riportiamo la discussione sul tema che ci sta a cuore: la difesa degli animali uccisi nei laboratori, l'insostenibilità etica della vivisezione.
L'operazione mediatica che i pro-test hanno provato a fare è questa: facciamo apparire gli animalisti come violenti, quindi li condanniamo eticamente, e quindi, per sillogismo, definiamo ingiusta anche la loro condanna della vivisezione.
Eh no! Se anche chi ha insultato Caterina ha mostrato di non avere rispetto per una malata, questo non significa che allora, di default, la vivisezione diventi per magia accettabile eticamente.
(Due esseri senzienti con la stessa voglia di vivere, riposano insieme)
di Veganzetta, Gallinae in Fabula, Manifesto Antispecista, Mappa Vegana Italiana, Forum Etici, Campagne per gli Animali, Ippoasi, Dariavegan, Progetto Vivere Vegan, Veganierranti
Vivere nonostante i problemi di salute che l’affliggono non deve essere facile per Caterina, e a lei, contrariamente a quello che è accaduto sul web, va la nostra solidarietà di antispecisti. Avere 25 anni e non poter godere appieno della vita, e dipendere da macchinari e farmaci è una tragedia personale, alla quale però Caterina Simonsen ha voluto rispondere avallando una tragedia collettiva.
La tragedia collettiva di cui parliamo è la vivisezione o sperimentazione animale, come preferiscono definirla coloro che la difendono, comunque la si voglia chiamare, facciamo riferimento a una vergogna per l’umanità tutta, una pratica a cui soggiace un concetto allucinante: il fine giustifica i mezzi; qualunque scelta o azione è lecita pur di ottenere un risultato utile o positivo per chi la compie.
Caterina dice di amare gli Animali, è vegetariana (cosa lodevole), si fa fotografare abbracciata al suo compagno canino, studia per diventare una veterinaria, insomma la si potrebbe definire una persona a cui stanno a cuore gli Animali, allo stesso tempo per far fronte alla sua situazione difficilissima, e umanamente comprensibile, non esita a utilizzare metodologie derivanti dallo sfruttamento degli Animali. Ma chi non lo farebbe se fosse al suo posto? Ben pochi avrebbero il coraggio di spingere la propria coerenza personale sino a tali limiti. Se quindi di comprensione e di empatia si può parlare in questo caso, non possiamo, in tutta onestà, condividere il suo appello in favore della strage di milioni di Animali in nome di un “bene supremo” che sarebbe la salute umana (e nello specifico la sua).
Non possiamo e non vogliamo condividere un appello che trasforma una persona umana affetta da rare patologie in uno spot vivente pro-vivisezione, divenendo lei stessa strumento propagandistico (si spera del tutto inconsapevolmente, ma dubitare è lecito) nelle mani di chi gli altri è abituato a strumentalizzarli – a usarli - quotidianamente; e ciò perché siamo assolutamente convinte/i che mai i fini possano giustificare i mezzi. Perché se ciò accadesse, se tale paradigma divenisse consuetudine universalmente condivisa (ma forse lo è già), non ci sarebbe limite alla violenza, alla sofferenza e al dominio sull’altro. Molti in ambito animalista hanno accomunato le pratiche mediche naziste inflitte agli ebrei ai protocolli sperimentali con l’utilizzo di Animali, se il paragone può sembrare esagerato o retorico (ma del resto adeguato alla situazione visto e considerato che la stessa Caterina ha usato pubblicamente il termine “nazi-animalisti”), a sgombrare il campo dagli indugi basterebbe elencare le numerose conoscenze mediche, biochimiche e fisiologiche, le sostanze chimiche, che ancora oggi vengono utilizzate per il “bene supremo” umano, e che sono derivanti da torture inflitte agli ebrei nei campi di concentramento e sterminio nazisti: come il comune test di Clauberg sulla fertilità (per maggiori informazioni si legga: http://www.veganzetta.org/?p=3756), o sostanze di derivazione ormonale come il Progynon e il Proluton, largamente impiegate nei casi di sterilità e di rischio di aborto nella donne; sostanze che possono salvare la vita di un nascituro, o dare la gioia a una persona di avere un figlio. Chi siamo noi per giudicare delle persone che ricorrono a queste soluzioni nella speranza di guarire da una patologia che le ha colpite? Ma allo stesso modo chi siamo noi per giustificare i metodi raccapriccianti che hanno portato alla messa a punto di tali sostanze? Per Caterina le medicine che assume significano vivere, per molti altri esseri senzienti hanno significato dolore e morte. Caterina diviene vittima di malattie che possono, a oggi, essere curate solo con sostanze che hanno causato vittime non umane a migliaia: lei non ha colpa di tutto ciò. Ma ne diviene complice nel momento in cui decide di difendere pubblicamente tali metodi: non ne ha alcun diritto né come persona umana, né come malata. E’ questo il suo grande errore, ed è questo che non possiamo e non vogliamo condividere, e che anzi condanniamo fermamente. Nessun fine può giustificare i mezzi, nessuno oserebbe affermare ciò che afferma Caterina se le vittime sacrificali fossero i propri cari, la propria famiglia, o anche il proprio Cane (lo stesso della foto di cui si parlava prima, per esempio), questo perché saremmo colpiti nei nostri sentimenti, nei nostri affetti più profondi: meglio che accada ad altri, lontani, distanti da noi, diversi. In fin dei conti le vittime di Clauberg erano per i nazisti “solo ebrei”, quindi meno che umani, e le vittime dei farmaci che assume Caterina erano “solo animali”, quindi nemmeno umani.
Di sicuro molte persone si sentono più sicure perché protette da eserciti e da servizi segreti pronti a tutto pur di difendere un determinato modello di vita, anche a costo di torturare Umani, di imprigionarli, di ucciderli, di richiuderli ed espellerli come si fa con oggetti non desiderati. Ma ciò può essere sopportato solo da chi da queste vergogne trae giovamento, da chi ha la fortuna di trovarsi dalla parte del più forte. Ma a quale prezzo? Ci sarà mai fine a questo macello quotidiano che smembra Animali, Umani e il Pianeta stesso? E’ questo egoismo assurdo che abbiamo il dovere morale di sconfiggere, partendo da chi è l’ultimo degli ultimi: il non umano, vittima anche delle cure che salvano Caterina e in definitiva tutte/i noi.
Vorremmo vedere il sorriso di Caterina senza una maschera di plastica, ma allo stesso tempo vorremmo che tale sorriso non significasse lo strazio di milioni di altri esseri senzienti che hanno il suo stesso diritto a vivere una vita serena. Affermare che ora non si può fare altrimenti non può essere una giustificazione, sarebbe solo una resa ipocrita e una degradazione morale. Una scienza priva di un’adeguata riflessione etica è solo un’aberrazione della nostra propensione alla conoscenza, e può solo generare mostruosità, ingiustizie e dolore. La fine della sperimentazione sugli Animali non è una questione legata al superamento di necessità contingenti, ma è meramente una questione di volontà.
Per quanto esposto ci dissociamo da chi augura la morte a Caterina Simonsen, ma anche dalla sua presa di posizione a favore della tortura animale.
Saluti antispecisti.
Veganzetta, Gallinae in Fabula, Manifesto antispecista, Mappa Vegana Italiana, Forum Etici, Campagne per gli Animali, Ippoasi, Dariavegan, Progetto Vivere Vegan, Veganierranti.
Un
ragazzo conduce un’esistenza tranquilla e abitudinaria all’interno di un bagno.
Tutto ciò di cui ha bisogno si trova tra le pareti di questa stanza piuttosto
angusta. Ogni mattina il suono della sveglia lo riconduce a un eterno presente
sempre uguale a sé stesso, scandito da gesti e lavori consuetudinari che
mantengono l’ordine di quel microcosmo. Il lieve accenno di sgomento al
risveglio – appena un’increspatura a turbare la quiete, come un sintomo che non
appena si manifesti già scompare – si dissolve nell’esecuzione rasserenante del
proprio dovere.
Ma
un giorno accade qualcosa che ha dell’incredibile: dalle profondità dello
scarico del lavandino si diffonde una voce che coinvolge il ragazzo in uno
strano dialogo sulla natura delle cose e lo invita a lasciare la stanza per
mettersi alla ricerca della conoscenza.
Il
ragazzo appare inizialmente infastidito, poi incuriosito, infine, anche se
pieno di timori e dubbi, si decide ad uscire.
Scoprirà
così la realtà del mondo al di fuori della stanza.
La
Fatiscenza, secondo mediometraggio del giovane Mauro Cappiello - già autore del
precedente “L’oscuro cammino dell’inconscio” in cui la suggestione di atmosfere
decisamente lynchiane è al servizio di riflessioni metafisiche e anticipa
quelli che saranno gli stilemi e le tematiche più rappresentative dei suoi
lavori futuri, come ad esempio nel lungometraggio Tatami, autoprodotto con
un’etichetta chiamata Charyòt Film – riesce a catturare l’attenzione dello
spettatore sin dai primissimi secondi in piano-sequenza per poi mantenere un
continuo stato di tensione fino all’apertura, in ogni senso, della scena
finale.
L’ambientazione
claustrofobica iniziale nella stanza da bagno riflette la condizione
esistenziale del protagonista che vive in catene inconsapevole di esserlo: sei
uno schiavo, gli dice la voce che esce dallo scarico del lavandino, tutto ciò
che ti circonda è la tua patetica prigione. Molteplici sono i riferimenti che è
possibile cogliere in quest’opera, solo apparentemente surreale, in realtà
direi paradigmatica della condizione umana: dal mito della caverna di Platone
(evidente laddove il ragazzo ammette di scorgere talvolta strani luccichii al
di là della porta, attraverso il buco della serratura), ai tanti rimandi
cinefili, uno su tutti la scoperta della vera realtà in Matrix dopo che
l’assunzione della pillola rossa ha permesso lo strappo del Velo di Maya, ma
anche il crollo del mondo di cartapesta in The Truman Show.
Se
le due opere succitate portano avanti un discorso più specificamente
metafisico, quasi mistico, direi – si svela l’inganno per accedere alla vera
realtà – ne La Fatiscenza invece riescono a fondersi diversi piani di lettura:
si passa dall’elemento intimista a quello più propriamente filosofico,
dall’esistenziale al metafisico e persino al sociale (innegabilmente la
squallida routine lavorativa del ragazzo all’interno del bagno riecheggia
l’automatismo delle tante esistenze condotte al solo fine di vivere per
lavorare e non viceversa).
Qui
comunque la cifra del vero vivere sembra mancare non tanto – non solo! – per la
mancanza di consapevolezza del protagonista di trovarsi in una sorta di
prigione, quanto per la paura stessa di abbandonare quello che sembra essere un
luogo sicuro. Così che la vera gabbia risulta essere alla fine l’imposizione
delle proprie paure, la presunta impossibilità del superarle. Paura del vivere
che è nell’esser coscienti della propria decadenza fisica (eccola la vera
fatiscenza!). Se vivere è riconoscimento del morire un po’ ogni giorno, allora
il rifiuto della vita è il rifiuto della morte, un rifiuto che però
paradossalmente conduce alla morte-in-vita, alla schiavitù di un’esistenza
ingabbiata nelle proprie paure e quindi a una morte assolutamente precoce. Solo
liberandosi della paura di morire, si impara davvero a vivere.
L’apertura
della porta del bagno e il procedere alla scoperta di ciò che si trova al di
fuori non sarà allora tanto la conquista della conoscenza ultima o la
rivelazione di chissà quale verità – del resto il ragazzo lo dichiara
esplicitamente alla voce, a lui non interessa dare un senso alla propria
esistenza, non gli interessano quelle cose – quanto l’acquisizione di un
desiderio fino a quel momento sopito: vivere senza più timore di morire, senza
più l’angoscia opprimente della propria finitudine e corruttibilità
fisica, ossia aprirsi alla qualità
epifenomenica del presente.
La
Fatiscenza non è quindi un’opera che ha pretese teleologiche, ma al contrario
indica una via nel presente per aprirsi al manifestarsi della realtà dopo aver
reciso le sbarre di quella prigione che è la decadenza fisica. Solo smettendo
di preoccuparsi per la propria incolumità, ci si apre all’esperienza del
sublime.
Le
bellissime note di Takemitsu (composte originariamente per La donna di sabbia)
sostengono i vari momenti del film, conferendogli una particolare eleganza e
atmosfere noir impreziosiscono gli elementi surreali di fondo, il tutto
confermando la padronanza registica di Mauro Cappiello, del resto già
annunciata nel suo primo lavoro: un autore che, da cinefila quale sono,
suggerisco senz’altro di tenere sott’occhio e magari di cominciare a conoscere
proprio a partire da questo piccolo gioiello che è La Fatiscenza. Note tecniche Regia: Mauro Cappiello Soggetto: Mauro Cappiello Sceneggiatura: Mauro Cappiello e Fabio Divietri Operatore di ripresa: Antonio Iurino Interpreti: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Questo è il mio primo post su Gallinae in Fabula. Chi mi
conosce, o ha lavorato con me, sa che, contrariamente a ciò che molti pensano,
la maggior parte dei progetti che ho contribuito a fondare, pensare, e via
dicendo, non mi ha mai visto troppo protagonista (penso ad Asinus Novus, che ho
fondato con Marco Maurizi, e basta vedere quanti articoli miei sono stati
pubblicati negli anni). Mi sembra che l'importanza di tutto ciò sia, più che
altro, fare emergere nuove voci - diverse prospettive - spesso inascoltate o
inadatte ad altri contesti: ed è così che, fortunatamente, il panorama
antispecista si è arricchito di autorevoli commentatori prima sconosciuti o
quasi: penso a Serena Contardi, Antonio Volpe, Rita Ciatti, Leonora Pigliucci,
Alessandra Colla, Andrea Romeo... e anche qui l'elenco è lungo. E piano piano
sentiremo parlare sempre più di loro, e di altri che ancora non conosciamo, ma
cominciano a problematizzare la questione animale con la loro testa.
Scrivo questo mio post, breve, perché gli ultimi anni hanno condotto a un
contrasto, troppo spesso forte, tra diverse posizioni antispeciste: complice
anche la mia partecipazione al dibattito, i toni, spesso, sono stati sgradevoli
e poco filosofici. Ma in un qualche senso abbiamo dimenticato l'obiettivo comune
che è, era e resta, quello della liberazione animale. Credo che ci sia da
chiedere scusa a tutti gli attivisti, ma soprattutto a tutti gli animali, per
questa perdita di rotta.
Scrivo questa pubblica lettera, umilmente, per chiamare a raccolta per il 2014
"Gli stati generali dell'antispecismo": un cantiere aperto di lavoro
comune, tra antispecisti politici, deboli, animalisti, liberazionisti,
attivisti e filosofi, volto a costruire insieme un edifico comune, in un
territorio sicuro. Credo che i tempi siano maturi per lavorare insieme,
rispettosamente, e far sentire la voce degli animali attraverso la nostra -
verso un ripensamento complessivo delle categorie politiche attuali.
Dal 2014 mi impegnerò personalmente, attraverso conferenze ed eventi, a promuovere
quanto qui ho brevemente abbozzato: chiedo a chiunque volesse partecipare, come
associazione o singolo, a questo evento di scrivere a gallinainfabula@gmail.com
- per cominciare questo laboratorio dell'antispecismo.
Qui ci sarà la lista aggiornata di attivisti e associazioni, e degli eventi che
avranno aderito - basterà poi mettere come banner, o dove si preferisce
(locandine, ecc.), il logo semplice con cui è aperta questa lettera.
In questi anni, dalla redazione di Liberazioni alla fondazione di Asinus Novus,
fino alla direzione di Animal Studies - la conoscenza di tanti attivisti, in
giro per l'Italia e per l'Europa, l'amicizia meravigliosa con le amiche di
questo nuovo progetto che è Gallinae in Fabula - mi sono convinto che è
possibile, davvero, provare non soltanto a "dire" la liberazione
animale ma anche a "farla".
Spero che, anche se per adesso sono stato breve, molti aderiranno a questa
iniziativa - l'anno prossimo, quello che sta per iniziare, potrebbe davvero
essere diverso - ma dobbiamo essere uniti, e sulla base di un nucleo comune
antiautoritario, libertario e antispecista.
Nel
saggio Crimini in tempo di pace di Filippi e Trasatti ho trovato questo
passo tratto da un testo di Grossman e siccome mi è piaciuto
particolarmente lo trascrivo qui; un augurio a modo mio di buon Natale, a
tutti voi. È vero, viviamo in un'epoca folle (o forse tutte le
epoche lo sono state a modo loro) in cui tutto sembra perdere senso,
eppure continuo a credere che l'unica salvezza possibile,
se mai ce ne possa essere una, sia quella di tenere in vita, preservare
e valorizzare a mo' di testimonianza i piccoli grandi gesti di "bontà
illogica" o "bontà spicciola", come li chiama Grossman: "La gente
comune ha nel cuore l'amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha
cura [...]. E dunque oltre al bene grande e minaccioso [quello
propugnato dallo Stato e dalle sue istituzioni] esiste la bontà di tutti
i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un
prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un
nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la
bontà del contadino che nasconde un vecchio Ebreo nel fienile [...]. È
la bontà dell'uomo per l'altro uomo, una bontà senza testimoni, senza
grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla [...]. A ben
pensarci, però, ci si accorge che la bontà illogica, fortuita del
singolo uomo, è eterna. Che si estende a tutto quanto è vivo, al topo o a
un ramo che un passante si ferma a sistemare perché possa attecchire
meglio al tronco. In quest'epoca tremenda, un'epoca di follie commesse
nel nome della gloria di Stati nazioni o del bene universale, e in cui
gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d'albero e sono
come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempendo
fosse e burroni, in quest'epoca di terrore e di follia insensata, la
bontà spicciola, granello radioattivo nella vita, non è scomparsa".
Reggie è un tacchino consapevole del
triste destino cui la sua specie è condannata: essere allevati e
ingrassati per finire sulle tavole degli umani in occasione delle tante
festività, in particolare quella del Ringraziamento. In svariate
occasioni prova ad aprire gli occhi ai suoi compagni sulla realtà in cui
sono immersi, ma essi preferiscono cullarsi nell’illusione che tutto
ciò che li circonda sia buonissimo mais e che quando gli esseri umani
vengono a prenderli in ultimo sia per condurli in quel posto magico che è
il paradiso dei tacchini.
Dopo l’ennesimo tentativo fallimentare
Reggie viene scacciato dal suo gruppo, fino a che, per una serie di
coincidenze fortuite, non viene catturato e destinato a essere il
tacchino graziato dal Presidente degli Stati Uniti in occasione della
festa del Ringraziamento.
Si ritrova così a vivere un’esistenza
privilegiata in cui scopre tutti gli agi della specie umana: camere da
letto, comodi divani, calde pantofole, televisione e pizza a domicilio.
Si potrebbero documentare centinaia di casi di animali che
hanno tentato la fuga dagli allevamenti o da altri innumerevoli luoghi di
reclusione quali zoo, circhi e quant’altro; così come di eclatanti tentativi di
sottrarsi al dominio ribellandosi e aggredendo i loro aguzzini (domatori o
addetti ai pasti, agli spostamenti ecc.), talvolta anche ferendoli gravemente
e, raramente, provocandone addirittura la morte.
Esiste un saggio, purtroppo non ancora tradotto in italiano,
di Jason Hribal, dal titolo “Fear of the animal planet: the hidden history of
animal resistance” che raccoglie molti di questi episodi di ribellione,
raccontando le varie forme di resistenza e “disobbedienza” che animali reclusi
e vessati hanno deliberatamente messo in atto contro chi li schiavizza. Non si
tratta di casi isolati e fortuiti, ma di ripetuti e talvolta anche pianificati
ed elaborati tentativi di sottrarsi alla condizione di schiavitù in cui sono
stati relegati dalla nascita o dopo essere stati catturati in natura.
Da tutti questi esempi se ne evince la piena consapevolezza
degli animali di essere stati coercitivamente privati della libertà, così come
la capacità di riconoscere nel domatore, allevatore ecc. l’artefice della loro
oppressione. Ciò è importante per ribadire che essi non sono passivi al
dominio, bensì tentano in ogni modo di ribellarvisi e sottrarvisi.
Sono quella che sono. Un caso inconcepibile come ogni caso. In fondo avrei potuto avere altri antenati, e così avrei preso il volo da un altro nido, così da sotto un altro tronco sarei strisciata fuori in squame. Nel guardaroba della natura c’è un mucchio di costumi: di ragno, gabbiano, topo campagnolo. Ognuno calza subito a pennello e docilmente è indossato finché non si consuma. Anch’io non ho scelto, ma non mi lamento. Potevo essere qualcuno molto meno a parte. Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante, una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento. Qualcuno molto meno fortunato, allevato per farne una pelliccia, per il pranzo della festa, qualcosa che nuota sotto un vetrino. Un albero conficcato nella terra, a cui si avvicina un incendio. Un filo d’erba calpestato dal corso di incomprensibili eventi. Uno nato sotto una cattiva stella, buona per altri. E se nella gente destassi spavento, o solo avversione, o solo pietà? Se al mondo fossi venuta nella tribù sbagliata e avessi tutte le strade precluse? La sorte, finora, mi è stata benigna. Poteva non essermi dato Il ricordo dei momenti lieti. Poteva essermi tolta L’inclinazione a confrontare. Potevo essere me stessa – ma senza stupore, e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso.