lunedì 25 aprile 2011

Olocausto invisibile (VII)

E' tempo di continuare a parlare di questioni urgentissime ed importantissime.
Quando ho aperto questo blog mi sono ripromessa di porre l'attenzione su questa tregedia - silente ed invisibile - che è lo sfruttamento animale; e mi sono ripromessa di farlo non solo raccontando l'orrore che vi è dietro ma anche tentando di dare una risposta a quelle che sono le obiezioni più frequenti che vengono rivolte a noi antispecisti.
Sono giunta alla conclusione che molte di queste obiezioni nascano dal senso di inadeguatezza da molti provato di fronte alla dimostrazione - tangibile, concreta, provata - che vivere nel rispetto di tutte le forme di vita sia oggi un fatto possibile e non più soltanto utopico: inadeguatezza che scaturisce nel vedere la loro posizione - avvertita come non più difendibile ed ammissibile - vacillare di fronte alla dimostrazione di un vivere sostanzialmente più etico.
La storia dell'umanità in fin dei conti può essere paragonata a l'età del singolo individuo: esiste per tutti un tempo dell'infanzia, in cui si vive in assenza di consapevolezza, perlopiù rispondendo a determinati istinti e pulsioni vitali. Poi si passa attraverso l'ineludibile percorso di formazione, in cui ci si confronta con la realtà esterna e con gli altri e da cui - tramite le esperienze - si apprendono i confini della propria finitezza e ci si assume il peso delle proprie responsabilità e proprie azioni. Si diventa consapevoli di noi stessi come agenti attivi e come individui - dalle cui scelte - derivano effetti e conseguenze spesso inimmaginabili ma, a volte anche, invece, facilmente prevedibili.
In maniera (forse fin troppo ottimistica?) voglio credere che l'età dell'umanità di oggi equivalga a quella dell'adolescenza dell'essere umano. E' un'età in cui si comincia ad acquisire un minimo di consapevolezza (certo, resistono ancora credenze e pensieri di superstizione, frammenti di ignoranza diffusa, manipolazione mediatica e culturale e momenti di oscurantismo tesi a mettere in discussione le certezze scientifiche fin qui acquisite, ma poca cosa in confronto all'oscurantismo della ragione di ben altre epoche), in cui si cominciano ad avere mezzi e strumenti per la costruzione di un minimo di capacità critica, un'età in cui si può cominciare a rendersi conto degli esiti e del valore delle proprie scelte, e soprattutto si può essere in grado di mettere in discussione e ribellarsi a tutto ciò che di fatto inizia a non essere più percepito come scontato o "dato una volte per tutte" in una concezione atemporare, assolutistica, immodificabile, inopinabile (simile a quella portata avanti dalle varie religioni).
Di questo è facile renderci conto anche riguardo la questione dello sfruttamento degli animali. C'è stato un tempo in cui davvero - per quanto gli antispecisti siano sempre esistiti e ce ne sono di notissimi e famosissimi anche appartenenti al passato - parlare dei diritti animali sarebbe sembrata una follia. E del resto - come ho già avuto modo di scrivere in passato - "tutte le grandi rivoluzioni di pensiero conoscono inevitabilmente tre stadi: quello del ridicolo, del dibattito ed infine dell'accoglimento" (J.S. Mill).
Oggi il dibattito è aperto. Noi antispecisti veniamo spesso criticati ed attaccati, anche duramente. Il segnale è quanto mai positivo: significa che finalmente le nostre considerazioni vengono prese sul serio; significa che finalmente qualcosa si sta smuovendo, che la posizione dei cacciatori, degli allevatori, dei vivisettori non è più solida come un tempo.
E non posso fare a meno di constatare quante delle molte obiezioni che vengono rivolte a noi antispecisti non possano che derivare da un autentico sussulto di consapolezza, dal principio di una presa di coscienza che però continua a scontrarsi e ad opporsi a principi ed abitudini ancora fin troppo radicati e resistenti.
Io mi arrabbio moltissimo proprio quando mi trovo di fronte a persone che, pur avendo tutti i mezzi per capire si ostinano a porre resistenza in virtù di alcune scarse considerazioni, le quali - lungi dall'essere elementi dialettici validi - raggiungono a malapena lo status di incongruenti e deboli giustificazioni.
Non mi arrabbio invece - paradossalmente - di fronte all'assenza totale di empatia (sintomo di una manifestazione di sadismo patologico), di fronte ad una forma di egoismo assoluto, di fronte al disinteresse totale camuffato con le più svariate motivazioni (ho cose più importanti a cui pensare, se anche avessi tempo allora mi dedicherei ai bambini che muoiono di fame... come se una scelta poi impedisse l'altra); ho conosciuto diverse persone che hanno avuto il coraggio di ammettere candidamente di non provare affatto pietà per la sofferenza degli animali. Persone così non meritano la mia stima, ma invero stimo la loro onestà intellettuale.
Sono sinceramente stanca invece di tutti coloro che - per restare fedeli alle loro abitudini, per pigrizia, per rassegnazione o per - a loro dire - un non meglio definito "quieto vivere" - si oppongono all'antispecismo (di cui la scelta vegetariana come primo passo e vegana poi come approdo finale, ne è la diretta conseguenza), contro cui riversano giustificazioni e scusanti che non hanno nulla di logico o di seriamente motivabile.
In particolare ultimamente ho notato che l'antispecismo (di cui, torno a ripetere, la scelta vegetariana e vegana è naturale, onesta e logica derivazione) tende ad essere considerato come "uno stile di vita", più simile ad una scelta individuale, ad un capriccio, che non ad una battaglia serissima. Detto in altre parole: sembra che decidere di non mangiare gli animali sia una questione di mero gusto personale, del tipo "io non mangio la cioccolata perché non mi piace, o perché mi fa ingrassare, o perché mi fa venire i brufoli", che non l'inevitabile conseguenza di una scelta essenzialmente etica, che non ha il suo principio ed il suo fine in se stessa ma nell'apertura verso l'altro.
 Io non scelgo di non mangiare gli animali e di non sfruttarli perché è una mia scelta individuale, per un mio capriccio, perché mi va di fare così, bensì perché mi faccio e divengo strumento di chi voce non ha, perché scelgo di lottare al posto di chi non riesce a difendersi da solo, perché mi faccio promotrice e portavoce di una questione di importanza capitale: nulla può essere più importante infatti della salvaguardia dei diritti della vita di tutte le specie viventi, proprio in quanto esseri che vivono, soffrono, amano, sentono ed hanno tutto il diritto di vedere rispettato il loro desiderio di continuare a vivere.
Io lotto per il maiale che sta per venire sgozzato, la mia voce si sostituisce a quella di tutte le creature viventi rinchiuse negli stabulari adibiti all'ignobile pratica della vivisezione, le cui corde vocali sono state recise e le cui urla strazianti non possono giungere fino all'esterno. Il mio urlo di indignazione dei giorni scorsi, ad esempio - contro la tradizione pasquale che prevede il sacrificio di milioni di agnellini - era, ed è, per dare voce a chi non ce l'ha avuta e non una presa di posizione che avviene per capriccio, per hobby, per un gusto "esotico" nell'essere alternativa, né è una moda, come molti purtroppo, tristemente, pensano; né ho smesso di mangiare gli animali per motivi salutistici (che poi l'alimentazione vegetariana e, meglio ancora vegana, sia anche la migliore per preservare un ottimo stato di salute è secondario, è una considerazione utilitaristica che si va ad aggiungere alle altre, ma non è la motivazione cardine), non essendo la "dieta vegetariana" una dieta tra le tante che si può scegliere indifferentemente o sulla base di considerazioni diverse da quelle etiche ed altruistiche che, unicamente, si basano sulla protezione e salvaguardia dei diritti animali.
Gli animali non possono difendersi da soli, sono creature indifese, che nulla possono contro la forza e le armi dell'essere umano. Quindi, quello che facciamo noi antispecisti non è scegliere un menù vegetariano o lottare contro la vivisezione, contro i circhi, contro gli allevamenti per le pellicce ecc., perché "ci gira così", perché "abbiamo questo hobby al posto di un altro", perché vogliamo essere "alternativi", bensì perché ci siamo assunti il compito ed il dovere di difendere chi è indifeso, di stare dalla parte dei più deboli, di porgere aiuto, amore, dedizione a chi è sfruttato e soffre. Perché non ne possiamo più di vedere ovunque sofferenza e dolore e morte e sangue - questo silente, continuo, straziante olocauso invisibile - causati dallo sfruttamento degli animali.
La nostra è una battaglia nobile. Non è un capriccio, un qualcosa per cui gli altri ci fanno il piacere di sopportarci e rispettarci.
Non ne posso più di sentire gente che mi dice: "io rispetto la tua scelta di essere vegetariana", perché io, di questo "rispetto" fatto cadere dall'alto come fosse un piacere, non so che farmene. Non voglio essere rispettata io e la mia scelta, io voglio che ad essere rispettati siano gli animali.  Io non li mangio non per una mia casuale decisione, ma unicamente perché è giusto che continuino a vivere.
 (Che poi, in che senso "rispetti la mia scelta"? Vuoi forse impormi altrimenti di mangiare a forza la carne? Ma che senso ha una frase così. E' priva di senso).
Altri mi dicono, spesso: "ma vedi, io rispetto la tua scelta, ma tu non puoi imporre agli altri questa tua decisione, siamo in democrazia, ognuno è libero di fare come vuole e se vuole mangiare gli animali è liberissimo di farlo".
Io vorrei vedere se la medesima frase fosse stata pronunciata al tempo in cui è stato denunciato e stigmatizzato l'orrore dei campi di concentramento nazisti: "io rispetto la tua scelta di voler salvare gli Ebrei e tutti i prigionieri detenuti nei campi, è una tua scelta, ma tu non puoi imporre agli altri il tuo punto di vista, ognuno è libero di fare come vuole, e se i nazisti vogliono mandare degli esseri umani nei campi di concentramento, dovrebbero poter essere liberi di farlo". Un simile discorso, fortunatamente, è inaccettabile. Oppure anche: "io rispetto la tua scelta di non uccidere i bambini, ma, cribbio, è una tua scelta, siamo in democrazia, se io invece volessi mangiarli a colazione voglio poter essere libero di farlo".
Ecco, chiunque sentisse un discorso del genere inorridirebbe (comprensibilmente), no? Perché è ovvio che quando si tratta del rispetto della vita e dei diritti degli esseri umani a nessuno viene in mente di metterli in discussione. E quindi questo rispetto non è visto come una "scelta" del singolo ma come un valore ed un dovere acquisito dalla comunità sociale tutta.
Al contrario, quando si ha a che fare con gli animali, allora la scelta se rispettare o no le loro vite, diventa un capriccio, "uno stile di vita individuale" che non deve essere sentito come necessario ma come "opzionale".
Ecco, io voglio dirlo una volta per tutte: l'antispecismo (quindi la considerazione del valore inerente di tutte le creature viventi ed il rifiuto della loro strumentalizzazione utilitaristica) NON è una scelta di vita raggiunta in base a considerazioni legate al benessere individuale del singolo che la porta avanti, ma è una battaglia importantissima combattuta consapevolmente per difendere, rappresentare e dare voce a chi non ce l'ha, ad esseri viventi che non sono capaci di difendersi da soli. Se di scelta si tratta quindi, è una scelta di valore etico ed assoluto, raggiunta grazie a percorsi che possono essere stati anche diversi per ognuno - c'è chi da sempre è stato in grado di provare un sentimento di empatia verso tutte le creature, chi ha aperto gli occhi dopo aver raggiunto un certo grado di consapevolezza, chi non sapeva e poi ha saputo, chi ha capito che tacere e restare indifferente era stare dalla parte degli aguzzini ed ha scelto di iniziare così a dare il suo piccolo contributo - ma che ha come unico fine quello di far finire la tragedia dello sfruttamento degli animali.
Quello che non si può più dire, che non si deve più dire è: "io rispetto la tua scelta ma tu rispetta quella dei carnivori", perché non si può rispettare una scelta che implica violenza, sofferenza, dolore fisico e mentale, prigionia, tortura.
Non mi si venga più a dire che: "per quieto vivere si deve essere democratici a tavola e tutti devono essere liberi di mangiare quello che vogliono", perché il costo di questa "democrazia" e "libertà" a tavola comporta il dolore, la sofferenza, la morte di milioni di esseri viventi. E quindi è una scelta profondamente sbagliata.
Io rispetto il mio prossimo nelle sue scelte di non-violenza, ma quando il mio prossimo sceglie di massacrare altri esseri viventi, allora non posso tacere e non posso che dissentire fermamente e criticare, mostrare le contraddizioni, rivelare e mettere a nudo tutta la follia, la pochezza, la miseria e l'inadeguatezza delle misere giustificazioni adottate da chi - per rassegnazione o indifferenza - preferisce continuare a scegliere la morte, il sangue, la violenza. Perché mangiare gli animali è violenza, è morte, è causa di dolore. Sempre. E non c'è giustificazione che regga. Non ci può essere più, in quest'epoca di informazione su quello che avviene e su come avviene a discapito degli animali, giustificazione alcuna.

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