lunedì 2 novembre 2015

Il disprezzo verso la "gattara": un tentativo di analisi


Non si tratta di casi isolati, ma accade invece abbastanza di frequente che le persone umane che si occupano della gestione delle colonie feline vengano schernite o che ricevano insulti che talvolta sfociano in veri e propri episodi di aggressione verbale e persino che siano oggetto di una sorta di mobbing, ossia importunate e osteggiate nello svolgere le proprie mansioni. A essere molestate sono quasi sempre le persone umane di sesso femminile – forse perché apparentemente più indifese e deboli fisicamente – vittime di battute sessiste e maschiliste; anche se ovviamente a prendersi cura dei Gatti randagi non sono solo le donne.
La gattara di turno viene spesso derisa e non di rado redarguita con toni aspri. Si contesta in particolare l’attività in sé dello sfamare i Mici randagi - anche se facenti parte di colonie opportunamente registrate e tenute numericamente sotto controllo con la sterilizzazione dei singoli individui - appellandosi a ridicole e talvolta fantasiose motivazioni che vanno dalla più comune “i gatti cacciano e provvedono a sfamarsi da soli” alla “i gatti portano malattie, sporcano ecc.”, fino a vere e proprie acrobazie mentali come “i gatti portano i topi” (sic!) e “finiremo per essere invasi da gatti”. 

L’astio che accompagna di solito queste recriminazioni è davvero significativo. Un astio che talvolta si concretizza in vere e proprie minacce contro la persona o contro i Gatti stessi. Se non si giunge a tali livelli, si percepisce comunque un fastidio generalizzato, una sorta quasi di ribrezzo e schifo sia verso i Gatti, che verso la persona umana che se ne occupa. Il cliché della gattara - di persona sciatta, generalmente di sesso femminile, anziana e sola, poco importa se tale immagine non corrisponda affatto alla realtà – e la superstizione nei confronti dei Gatti neri che li vede come portatori di sfortuna, contribuiscono non poco a generare il fastidio verso questo servizio sociale e compassionevole.

A differenza di altre forme di attivismo contro lo sfruttamento degli Animali, in cui le motivazioni dell’astio e del fastidio, se non giustificate, possono essere però comprensibili (è tutto un intero sistema che viene messo radicalmente in discussione, talvolta con metodi comunicativi poco efficaci), si fatica non poco a capire come mai ci sia tutta questa avversione per le persone umane che si occupano dei Gatti randagi.
Se da una parte questi atteggiamenti rientrano nel più ampio discorso dello specismo, dall’altra è probabile non sia sufficiente come risposta.
È evidente che tale avversione, sebbene apparentemente rivolta a chi si occupa dei Gatti, sia in realtà rivolta agli Animali stessi. La gattara è vista sì come colei che consente la sopravvivenza della colonia, ma è contro l’esistenza della colonia stessa che sono indirizzate le critiche.
Eppure i Gatti sono Animali considerati d’affezione: proprio molte delle persone umane che si lamentano delle colonie passeggiano con il loro Cane e magari fanno accenno al loro Gatto di casa. Inoltre, a differenza dell’attivismo contro lo sfruttamento degli Animali, qui non si chiede di cambiare abitudini, di smettere di mangiare Animali o altro. Non si chiede nulla. Ci si limita a fare, a prendersi cura di questi soggetti felini quasi sempre vittime di abbandoni e che poi trovano conforto in mezzo ad altri dalla sorte simile.
Che disturbi e infastidisca vedere che qualcuno si prenda l’impegno e la briga di “fare del bene” ad altri esseri senzienti? È chiaro che in molti permanga l’assurda convinzione che l’empatia e l’impegno sociali siano valori con scorte limitate, destinate a esaurirsi nel tempo e quindi da utilizzarsi con parsimonia indirizzandole solo verso gli individui appartenenti alla stessa specie, eppure non può essere ancora questa l’unica ragione di tanto disprezzo.

Tentiamo quindi di poter avanzare un’altra ipotesi: ci troviamo di fronte a un caso di teriofobia (lett. paura degli Animali) in cui ciò che spaventa, disturba, disorienta non è tanto l’Animale in sé, ma l’Animale libero, non addomesticato, non controllabile e quindi, di riflesso e per estensione, il concetto di animalità in sé visto come opposizione a quello di civiltà intesa come soppressione degli istinti, come controllo e ordine sociale.
La colonia felina, per quanto circoscritta e in realtà controllata molto di più di quel che si pensi (nel senso di contenimento degli individui tramite sterilizzazione, come detto sopra) è composta da Animali liberi di muoversi, di condividere gli spazi urbani, di abitare le strade e di essere, insomma, affrancati dal dominio della nostra specie. Iconiche le immagini di questi bellissimi Felini che al crepuscolo cominciano a fare la loro apparizione, muovendosi aggraziati e sinuosi, con un’eleganza e una grazia da far invidia a chiunque, eppure visti (attraverso la lente teriofobica) come sporchi, pericolosi, ingombranti. Notturni e quindi maggiormente ambigui.
Ora, un concetto, come quello di umanità, che si è andato nei secoli a costituire proprio in opposizione a quello di animalità, ha un continuo bisogno di essere rafforzato e confermato, anche ribadendo la propria, falsa, posizione di superiorità sulle altre specie. E quando la superiorità è fittizia, è solo schernendo e dipingendo come inferiore l’altro, che la si può continuare a sostenere. C’è poi un concetto di proprietà dello spazio e della Natura che è davvero emblematico: come se la strade fossero nostre, come se solo noi appartenenti alla specie umana avessimo il diritto di percorrerle.
La persona umana che investe tempo ed energie personali nella cura degli altri Animali è vista così come una sovvertitrice di senso e di un ordine sociale e gerarchico prestabilito. Sostenere e proteggere individui liberi ci ricorda che non tutto è domabile, che non tutto è assoggettabile a norme di controllo e mercificazione. Questi altri individui che, senza chiederci il permesso, osano abitare i nostri stessi spazi urbani, evidentemente turbano più di quanto si immagini e turbano proprio perché ci ricordano quanto abbiamo faticato – culturalmente parlando – per rimuovere e controllare la nostra, di animalità, percepita come negativa poiché è sulla negazione di essa che abbiamo eretto le fondamenta del nostro antropocentrismo. Forse quindi, in definitiva, la persona che inveisce contro la gattara di turno, sta cercando di distanziarsi da qualcosa, dal timore di veder riflessa all’improvviso la propria parte animalità - il proprio lato oscuro? - e di allontanarsi dal ricordo di tutto quello che abbiamo sacrificato per ottenere in cambio un’illusoria sicurezza e una parvenza di civiltà che in realtà è dominio, prevaricazione dell’altro, soppressione dell’empatia, negazione degli istinti.

Crediamo che l’antispecismo, inteso come lotta politica contro lo sfruttamento istituzionalizzato e il dominio degli altri Animali, nonché come battaglia etica contro la diversa considerazione degli Animali, non possa trascurare anche questo aspetto, ossia quello delle ragioni – antropologiche-psicologiche-storico-sociali-filosofiche, cultuali in senso ampio - che sono alla radice della teriofobia, intesa come paura della perdita della propria umanità, in realtà di quel concetto fallace di umanità che abbiamo costruito con violenza, dominio e allontanamento della Natura.
Nel frattempo, sul lato pratico, non dobbiamo assolutamente lasciarci intimidire da questi frequenti episodi, specialmente se accompagnati da minacce, aggressioni o offese.
Il cammino verso una società aspecista passa anche attraverso queste singole battaglie che solo apparentemente sembrano minori (rispetto al più ampio campo dell’attivismo contro lo sfruttamento), ma che in realtà contribuiscono a formare la cornice culturale entro la quale continuare a legittimare prevaricazioni, abusi e violenza di ogni genere.

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