venerdì 8 marzo 2019

La casa di Jack di Lars von Trier


Attenzione: contiene spoiler.

La psicopatologia dell'umanità, l'orrore di cui la nostra specie è capace, raccontata attraverso le gesta di un serial-killer; il problema ontologico del male, la perdita dell'innocenza, le narrazioni razionali con cui siamo pronti a giustificare le peggiori nefandezze. Mostri dell'umanità che dopo aver compiuto azioni inenarrabili la sera tornano ad abitare le loro splendide casette, in compagnia della famiglia, costruite col sangue delle vittime che hanno massacrato. 
Serve fare esempi? 
Ecco, appunto, se proprio devo trovare una debolezza nell'ultimo film del regista danese è proprio l'essere stato troppo esplicito nella spiegazione di alcuni punti che avviene duranti i dialoghi tra Jack e colui che poi scopriremo essere Virgilio, la guida che lo condurrà all'inferno. Sembra accorgersene anche lui, ridendoci sopra, a volte. L'ironia è un elemento presente, spero, anche, nell'auto-citazione. Del resto, che von Trier sia un narcisista lo si era capito anni fa. Ma gli si perdona, anche solo per quei venti minuti finali che, rompendo - e irrompendo - visivamente con quanto visto fino a quel momento, ci regalano una "catabasi" che è anche catarsi. Un mix tra von Trier stesso, Lynch e Tarkowskij e una scena che ricorda persino alcuni dei lavori di La Chapelle. Matt Dillon è bravissimo, il compianto Bruno Ganz si vede pochissimo, notevolissima anche l'interpretazione di Uma Thurman.

Uno dei film più maturi e lucidi di von Trier, nulla a che vedere con le esagerazioni, anche kitsch di Antichrist o con la ricerca di spettacolarizzazione di Melancholia (film che comunque ho molto amato), ricorda semmai più il rigore di Dogville o di Nymphomaniac e la dimostrazione di una tesi presente in altre opere. Suddiviso in cinque capitoli, pardon, "incidenti" e "spiegato" attraverso il dialogo tra il protagonista, un serial-killer freddo e spietato che simula le emozioni quel tanto che basta a stringere un contatto con le vittime, e una figura di cui per quasi tutto il film sentiamo soltanto la voce e pensiamo essere uno psicoanalista.
Jack non ha pietà di un'umanità che è mostrata come sostanzialmente stupida, noiosa, irritante, avida, banale. 
Il male di cui si parla però non è semplicemente banalità del male, ossia un male compiuto senza che se ne abbia la piena contezza, ma un male giustificato, un male perseguito in nome di tutte quelle stupide e irrazionali giustificazioni che l'umanità riesce a darsi perché comunque è un male che essa ha presente dentro di sé, se non altro come possibilità, insieme a quella di realizzare arte e tutte le cose cose grandiose che sappiamo (o che ci raccontiamo come tali). L'auto-narrazione della propria grandezza, non è anche questo forse un elemento di psicopatologia? Un narcisismo patologico con cui il regista gioca, in riferimento anche a se stesso, come detto sopra.

La visione pessimista, tragica, nichilista di von Trier qui però sembra introdurre un elemento di speranza, che è la possibilità della scelta.

Cita William Blake, un po' frettolosamente devo dire, o meglio didascalicamente (c'era bisogno? Di fare lo spiegone, intendo, un po' come se non si fidasse della capacità di capire degli spettatori, un po' come se ci trattasse alla stregua di come Jack tratta le sue vittime) e con questo sembrerebbe risolvere la questione ontologica del male. Invece prosegue e introduce l'elemento della scelta, il famoso libero arbitrio, che ci consente di sottrarci al male e di perseguire il bene; la scelta, quale essa sia, richiede immenso coraggio e Jack, in fondo un eroe, anche se negativo, rispetto alla banalità di tanta umanità, la persegue fino in fondo.

Certamente le tematiche che affronta non sono nuove e a tratti, come detto, le banalizza. Ma non nell'impianto totale del film, che rimane comunque un grande affresco dell'umanità leggibile nello sguardo vitreo di Jack, nelle sue mani, nelle sue ossessioni-compulsioni, nella sua grandezza del sé. C'è da dire che la visione proiettata nelle sale italiane è quella tagliata, non integrale, e a tratti si percepisce la mancanza di equilibrio tra le scene e la narrazione fuori campo, tra l'immagine e la didascalia. In particolare nella scena della caccia c'è un salto tra il momento in cui la madre e i bambini sono ignari di cosa stia per accadere e poi nello stacco successivo fuggono in preda al terrore, il tutto senza soluzione di continuità. Sono particolari che rovinano un po' la visione del film. Immagino che abbiano tagliato le scene più truculente, eppure, il senso del film non dovrebbe essere proprio quello di mostrare l'orrore di cui è capace l'umanità? Non sono forse queste le cose che sono accadute e che accadono ogni giorno dentro i mattatoi, i lager, i laboratori per la vivisezione (notare: Jack perde l'innocenza facendo del male a un piccolo anatroccolo, ricorderà poi quel momento sul finale, guardando i campi Elisi senza possibilità di accedervi: il mondo dell'innocenza perduto per sempre. E notare che è l'unico momento in cui Jack ha un vero sussulto di empatia, verso se stesso, piange, l'unico momento in cui sembra pentirsi per ciò che ha fatto. La nostalgia, il dolore per l'impossibilità di tornare al passato, è forse il sentimento più straziante di tutti, l'unico che ci mette di fronte ai rimpianti e pentimenti, a noi stessi), dicevo, non sono forse queste le cose che accadono ogni giorno, ma che siamo pronti a giustificare come necessarie, giuste, importanti, anche se potremmo scegliere diversamente? Non è questo quello che hanno fatto i nazisti e che fanno ogni giorno coloro che sfruttano, opprimono ecc.? Non sono queste le scene che vediamo ogni giorno in televisione, di persone disperse in mare, di bambini affogati, di disperati, di martoriati, di derelitti, di donne uccise dai propri compagni o stuprate, mentre ce ne stiamo al calduccio dentro le nostre belle casette, costruite comunque con il sangue di innocenti, anche se meno visibile? In nome di cosa? Di un contraltare che è l'arte, il sublime, la capacità di creare opere immense? Un po' pochino, in effetti. Scusate, non potevo fare a meno di commentare esprimendo un giudizio morale, ma, come dico sempre, se rifuggiamo l'empatia, la morale, l'etica, il rispetto dell'altro, cosa ci resta? Ci resta il male. E la Cappella Sistina. Una magra consolazione, tutto sommato.
Non bisogna temere di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Di dire cosa è male e cosa no. Altrimenti, in nome del relativismo etico, potremmo svegliarci una mattina e scoprire di essere diventati proprio come Jack e di star abitando proprio la sua stessa casa.

2 commenti:

Giovanni ha detto...

che recensione potente, Rita. Io il film non lo vedrò - non è il il mio genere - perciò ho un motivo in più per ringraziarti di quello che hai scritto, che ne fa capire il senso profondo.
Tra l'altro, sospetto che tu sia l'unica critica cinematografica ad aver parlato con la dovuta evidenza e impotanza dell'episodio dell'anatroccolo.

Rita ha detto...

Grazie Giovanni, in realtà ci sarebbero da dire tante altre cose su questo film, più ci penso e più mi vengono in mente riflessioni. Sì, la scena dell'anatroccolo è una scena su cui magari ci soffermiamo in pochi, penso che i più la vedano come il momento in cui lui inizia a far del male, potendolo fare, cioè, avendone la capacità; poi prende anche posizione sulla caccia, molto esplicitamente. In un modo che ai più parrà folle, appunto perché lui è un folle, ma che la dice lunga sulla follia di chi appunto caccia... dato che non vedrai il film posso dirtelo: lui caccia anche una famiglia di umani, bambini compresi, mettendo in atto "l'etica" folle dei cacciatori, cioè uccidere prima i cuccioli, poi la madre. Ma lui non fa differenza, animali umani, animali non umani... mentre la follia dei cacciatori è che invece fanno questa differenza, non ucciderebbero mai persone umane, ma non si fanno scrupolo di abbattere gli altri animali. Insomma, il messaggio arriva, per chi vuol capirlo.