venerdì 11 dicembre 2020

Legati i maiali di Teodora Mastrototaro

 


Una volta Teodora mi disse che scrivere poesie significa prendere un'immagine che è rimasta impressa nella nostra mente e renderla universale.

In Legati i maiali, le immagini che ci vengono presentate sono immagini di dolore. Un tipo peculiare di dolore, che non è quello dello struggimento per un amore non corrisposto o per la perdita di un affetto, ma è quello innanzitutto fisico. Il dolore dei corpi. Della reclusione, del freddo, o del  caldo, della prigionia, della lama che incide la carne, delle viscere che cadono a terra, dei liquidi corporei, sangue, lacrime, sudore, pus che colano da corpi squartati, dilaniati, tumefatti.

Freddo e caldo non sono però meramente delle sensazioni che vengono enunciate, ma ci vengono trasmessi attraverso l'effetto che producono sui corpi. Se si dice "faceva un freddo terribile", infatti, dobbiamo fare uno sforzo d'immaginazione per arrivare a sentire quel freddo; ma se invece si racconta della pelle rimasta attaccata al metallo a causa del gelo, come nella poesia che segue, ecco che quel freddo diventa immediatamente palpabile, che i nostri percorsi neurali subito richiamano alla memoria un'esperienza similare in cui abbiamo provato una sensazione di quel tipo e l'immagine si trasforma in qualcosa di più del semplice coinvolgimento emotivo: diventa compartecipazione, compassione intesa nel senso di empatia, di soffrire con; e allora noi diventiamo quei maiali, quei corpi, e sentiamo la nostra pelle staccarsi dal corpo per restare attaccata alle pareti di metallo gelate.

Alcuni maiali arrivano congelati 

per aver viaggiato vicino alle pareti del carro bestiame.

La realtà dell'inverno è nella durezza dei pezzi di pelle 

rimasti attaccati alle pareti di metallo quando

legati i maiali vengono strappati con forza e portati fuori.

Gli operai li gettano sulla pila dei morti, tanto moriranno

prima o poi, con la stagione del freddo.

Oppure, è un altro tipo di dolore che si racconta, quello di sapersi invisibili, di sentirsi annientati senza che si abbia avuto la possibilità di vivere, ma anche in questo caso ciò che si ricerca è la produzione di un effetto, di un sentimento, attraverso la descrizione di un dettaglio. Ed ecco che l'immagine di un fiore tagliato diventa scoperta e meraviglia agli occhi di un essere, un individuo, cui è negato lo scorrere delle stagioni, ossia, il divenire, il semplice esistere nel mondo.

Madre, non ho il permesso per le stagioni: 

devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole.

Nella trappola la verità di un fiore tagliato mi meraviglia

la sua crudeltà: siamo orfani da quando siamo stati partoriti.

Madre, andrò a dormire senza invecchiare, senza avere armi,

senza leccare la neve se mai arriverà.

Madre che infliggi la vita, guardami!

Non piango più, ormai ci somigliamo.

La raccolta è divisa in due sezioni: nella prima sono gli animali a esprimere il proprio dolore, sconcerto, stupore eppure consapevolezza precoce del destino che li attende; se per noi esseri umani la vita è una scoperta continua, una serie di rivelazioni in successioni, ossia quel che chiamiamo esperienza, per gli altri animali si consuma tutta in pochi attimi: il tempo di aprire gli occhi sul mondo e già l'inferno li inghiotte, senza esperienza alcuna se non quella di un dolore cui è negata la speranza del sollievo che arriva con la morte violenta; nella seconda parte il punto di vista si sposta dalla vittima all'aguzzino, o meglio su alcuni, feroci, particolari che l'aguzzino vede o di cui ci parla in prima persona, per mezzo dei quali la tragedia dell'olocausto animale esplode in tutto il suo significato.

Ci sono storie di bovini 

che cercano di scappare

infilando la testa sotto le grate

rimanendo incastrati.

Ci sono poi storie 

di liberazione degli animali

quando l'unico modo

per salvargli la vita

è mozzargli la testa

mentre sono lì

ancora in vita.

I dettagli sono ciò che ci rende possibile immedesimarci nella sofferenza degli altri. 

Parlare della tragica questione animale in generale, elencare dati, numeri, talvolta, rimane un esercizio astratto.

Le poesie di Teodora Mastrototaro invece arrivano fin dove è inimmaginabile arrivare: superano la soglia dei mattatoi, entrano nelle celle frigorifere e fin dentro le carni di quegli animali che la nostra umanità divora senza aver mai conosciuto davvero.

La speranza è che ci sia uno scuotimento interiore, in chi legge, un lampo di rivelazione improvvisa che possa arrivare a fargli sentire la tragedia di quello che facciamo agli altri animali in tutta la violenza fisica. Perché di questo si tratta: di violenza che noi perpetriamo, ininterrottamente, sugli altri animali.

C'è una pistola, prima dello stordimento

c'è un coltello, prima della iugulazione

prima della depilazione, ci sono vasche di acqua bollente

ci sono macchine a trazione, prima dello scuoiamento

prima dell'eviscerazione, c'è una pedana automatica

c'è una sega elettrica, prima del sezionamento.

Prima ci siamo noi.

Un libro come questo è più che bello: è importante. È necessario.

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