giovedì 2 maggio 2024

Zoologia Abitativa di Teodora Mastrototaro (recensione)

 

Zerbino, entrata, uscita, porta d’emergenza. Parti di un’abitazione, certo, ma anche movimenti nello spazio, quindi nel tempo che presuppone evoluzione e allora cambiamento. Una casa senza viventi, senza vita che la abita non sarebbe tale, sarebbe solo una struttura vuota e comunque per passare dallo zerbino all’entrata e poi fino all’uscita e porta d’emergenza c’è bisogno di un soggetto vivente che attraversi varie stanze in più momenti: c’è bisogno di una Zoologia Abitativa, appunto. Questo il titolo dell’ultima silloge di Teodora Mastrototaro pubblicata da Arcipelago Itaca esattamente un anno fa. 

La lettura di queste poesie è profondamente suggestiva: un’esperienza che facciamo insieme ai soggetti evocati e narrati attraverso parole misurate, ma anche potenti che divengono immagini: l’impressione è proprio quella di addentrarsi in uno spazio, quello delle pagine del testo, che da bidimensionali – fogli bianchi solcati da segni – prendono vita a poco a poco fino a conquistare una dimensione tridimensionale e quindi senso; da sema – la più piccola unità di significato (la singola parola, il singolo verso) a struttura polisemantica; un po’ come quelle immagini chiamate stereogrammi che presentano un disegno, ma che a saperle fissare in un certo modo, in un certo punto, rivelano poi un’altra immagine che sembra acquistare corpo, farsi appunto tridimensionale e in cui sembra di entrare, precipitare quasi. Da singolarità a pluralità. Un po’ come le case che da fuori appaiono strutture regolari, parallelepipedi o cubi, pareti, vetri, porte, finestre, poi, una volta entrati, diventano famiglia, calore, affetto, comunità, ma anche perdita, dolore, assenza, comunque divengono esperienza. Non più strutture, ma forme che accolgono l’esistere.

Ogni poesia è dedicata, anzi no, descrive, no, nemmeno, presenta forse, lascia che si manifesti, meglio, scopre, rivela, disvela un piccolo animale, di quelli che abitano, coabitano con noi nelle nostre abitazioni: mosca, ragno, formica, cimice, gatto, cane, acari, ma anche geco, serpente, lucciola, civetta, animali più selvatici che tuttavia non è difficile trovare nei pressi delle abitazioni, magari nei giardini o sugli alberi di fronte alle finestre.  In questo coabitare manifesto ci siamo noi e loro – forse noi in altri tempi, ere lontanissime nel tempo, noi nel futuro e nel passato – e le emozioni, sentimenti, stati d’animo, condizioni che attraversano i nostri corpi, che quindi si fanno esistenza, epifenomeni di un comune principio che è la vita e che imprimono i loro segni sulle case, così come i segni grafici, le parole, imprimono il loro senso sulla carta.

La casa è anche ciò cui si fa ritorno o da cui tutto ha inizio. Nascita e morte. L’origine e la fine allo stesso tempo, in una circolarità che è anche quella delle stagioni o dei giorni o delle ripetitività confortante dei gesti del quotidiano o la prigione nella malattia.

“(…) Cadi nei movimenti e lenta ruoti perché ti piace il nascere nel tramontare (...)” (gatta) oppure “(…)Torni ogni sera come una foto dove colgo la misura dell’ascolto, perché è bene disperdere ogni cosa come fai tu che mi domini il volto. Dal bordo del presente ti senti al sicuro e ripeti l’immobilità lì dove, colpevole del mio marcire e del tuo segreto (...)” (geco), ma anche “(…) Il sole tramonta o dà le spalle al cortile ed è tardi agli spigoli dei nostri cespugli (...)” (cane).


Spazio, tempo, corpi animali, vicissitudini, lutti, malattie e punto di vista che si sdoppia e da soggetto che quasi si fonde con il proprio spazio abitativo personale (un po’ come i gechi che sembrano appunto farsi tutt’uno con il muro, o i camaleonti che si mimetizzano su ogni piano ove riposano) diventa soggetto che percepisce l’alterità; un’alterità che è esistenza oggettiva e che quindi ci attraversa in quanto esperienza comune. I versi da intimisti, quasi ermetici, nella seconda parte si fanno più distesi e volgono lo sguardo altrove: 

“Lavori da casa – sei smart – 

ogni due ore puoi pisciare

 la pausa delle sette è per cenare 

(mangi tu mangia il gatto) 

Più di tre minuti la telefonata 

non deve durare 

ma tu ascolti la vecchietta 

che ha bisogno di raccontare. (...)

(gatto). 

Tornano quindi gli stessi animali evocati, manifestati nella prima parte, ma ora di segno diverso, “(…) La mosca che ti ronza sulla testa per il lamento del fetore della pala fa più di cento battiti al secondo. La sua vita è più veloce del tuo battito di ciglia: venti volte al minuto per salutare chi ti viene a trovare al capezzale (...)” (mosca).


Come in una sorta di filogenesi evolutiva le vite degli animali umani e non umani si intrecciano e si fondono e talvolta sembra quasi che ci parlino, che siamo noi, che lo siamo stati o che lo saremo in questa esperienza condivisa che è l’esistenza in una casa che è la terra stessa. In una zoologia abitativa, appunto, terra che abitiamo, ma che anche siamo.

Mi viene in mente un film horror giapponese a episodi dal titolo Ju-On; in uno di questi episodi c’è una coppia in un minuscolo appartamento che ogni sera è disturbata dal rumore di un battere ritmico sulla parete accanto che poi scopriamo essere – in una dimensione altra, onirica, ectoplasma materializzatosi dalle paure dell’inconscio –, il battere dei propri stessi corpi morti appesi, impiccati, al soffitto. Protagonista non è la coppia, ma la casa, una casa infestata, maledetta. 

Ecco, in Zoologia Abitativa non si parla di case maledette, ma di case che nell’atto stesso di ospitare la vita ne accolgono anche il divenire, quindi la morte, la vecchiaia, la malattia. In quella stanza ci siamo nati e un giorno ci moriremo, noi diversi in tempi diversi, oppure noi diversi nello stesso attimo, il tempo non esiste. Senza divenire però non ci sarebbe nemmeno la possibilità della vita stessa; si muore solo da vivi, in fondo. E allora la porta d’emergenza, il quarto atto della silloge, è in fondo una luce, una speranza. Le porte d’emergenza si aprono per fuggire (da un incendio, un terremoto, un pericolo), ma qui, a me pare che siano porte di speranza a dirci che qualcosa, di noi, resta.

Questi versi di Teodora Mastrototaro richiedono impegno perché si prestano a molteplici significati (e questa in fondo è solo la mia personale interpretazione, magari diversa dalle intenzioni dell’autrice), ma restituiscono moltissimo. Ne consiglio la lettura ad alta voce perché, al di là del significato, la poesia – o almeno questa di Teodora – è anche e soprattutto musica, suono, versi. Versi, come quelli che fanno gli altri animali, come quelli che lei ha scritto, in una continuità e uno svelare e svelarsi che è sempre nel riflesso degli altri – una coabitazione dei vivi e dei morti, avrebbe detto Capitini – perché senza questo nulla avrebbe senso, nemmeno nascere e morire. 

Ci sono parole che a forza di ripeterle perdono senso, come nei giochini che a volte abbiamo fatto da piccoli. E poi ci sono quelle della poesia di Teodora Mastrototaro che più le ripeti e più si aprono al significato, alla meraviglia, all’epifania. 

“Il vivaio sotto casa è sempre aperto,

trecentosessantacinque giorni all’anno

moltiplicati per i morti

l’unica risposta è questo eterno.


Gli acari e le cimici che infestano le foglie

camminano ammassati ma ordinati

sono gli invitati

al funerale.

(acari).”


Nessun commento: