martedì 15 marzo 2011

Sunset Park di Paul Auster (e divagazioni varie)

Un altro degli scrittori che seguo e di cui compro ogni libro che esce - vale a dire "sulla fiducia" - è Paul Auster: autore americano, proveniente da Newark, New Jersey, guarda caso la stessa città in cui è nato anche Philip Roth, altro autore cui sono molto affezionata (e per me tra i più grandi contemporanei).  
E' un caso che due tra i miei autori preferiti siano nati nella stessa città?
Non lo so. Comunque sia del caso (o destino) piace sicuramente molto parlare a Paul Auster, anzi, buona parte della sua produzione letteraria si basa proprio su questo tema. Ci ha scritto anche un saggio che si intitola Esperimento di verità, in cui riporta la stranezza e curiosità di eventi - tutti documentati - verificatisi in circostanze di inaudite coincidenze o di improbabili accadimenti fortuiti. Paul Auster però si limita a riportarli con l'occhio distaccato di chi osserva, senza trarne delle conclusioni affrettate.
Si potrebbe parlare della sincronicità - su cui ha scritto molto anche Jung - o del destino, o del semplice caso, inteso proprio come caos, ma penso che - fuori da ogni atteggiamento fideistico - la maniera migliore per considerare questi piccoli, o grandi che siano, accadimenti "curiosi" sia quello di valutarli a posteriori, ossia negli esiti, più che negli intenti; vale a dire negli effetti slegati da qualsiasi contingenza causale.
Il percorso letterario di Paul Auster, in merito al tema del destino, assomiglia moltissimo al mio. In Moon Palace, che è uno dei suoi primi romanzi, il protagonista impara a prestare attenzione a quelli che definisce piccoli segnali del destino; le cose, gli oggetti, la realtà circostante sembrano volerci comunicare qualcosa, avvisarci, metterci in guardia, o anche semplicemente suggerirci un percorso. Sta a noi, eventualmente, ascoltarli. Da qui si potrebbe dedurre che forse le cose non accadono a caso, e che magari qualcosa accade affinché qualcos'altro possa o non debba accadere. Per un po' mi sono ritrovata anche io in questa riflessione, specialmente quando ero più giovane: a sette anni fui investita da una macchina, poi a 14 ebbi un altro incidente con il motorino e sempre ho reagito cercando di dare un senso a quello che era accaduto, cercando di trovarvi - per così dire - una giustificazione, una motivazione: chissà, pensavo, magari quell'incidente è servito a scongiurare qualcosa di più grave; magari rompermi la gamba e dover stare per un mese a letto immobile è servito ad impedire che mi accadesse qualcosa di peggio. Ero una bambina. Certamente. E così nell'incidente, in un evento tutto sommato "tragico" io ci vedevo quasi come l'intervento salvifico di un angelo (eh... cosa non si fa per reagire a ciò su cui non si può avere controllo...) ;-) In questa accezione il destino diveniva così per me qualcosa di eventualmente preordinato (non in senso religioso, ma senz'altro mistico).
Poi ho cambiato idea: crescendo sono diventata molto più scettica e meno disincantata, e così', mettendo da parte ogni atteggiamento fideistico, accantonando ogni ipotesi destinica, ho imparato a considerare ciò che accade esclusivamente nei suoi effetti. Ciò che accade è quello che è accaduto. Punto.
Anche Paul Auster oggi sembra aver declinato l'invito della realtà ad ascoltare i suoi segnali affinché si compia il nostro destino e sembra aver assunto una posizione molto meno "fiabesca". Non ha perso per questo la vena poetica dei primi lavori, solo che si tratta di un tipo diverso di "poesia", più esistenziale e meno metafisico.
Già da Esperimento di verità, e specialmente in questo suo recente romanzo, che è Sunset Park, gli eventi della vita o le coincidenze, più che assumere una valenza deterministica, sulla base di chissà quale significato, sembrano semplicemente essere fatti che accadono e basta, imponderabilmente, del tutto casualmente e, ciò che conta è che - dall'ampio ventaglio di opportunità che si spalanca davanti ai nostri occhi in seguito a questi casi fortuiti - noi siamo chiamati a compiere delle scelte, a reagire,  a comportarci in un certo qual modo piuttosto che in un altro, ed in questo senso, solo in questo senso,  si può parlare ancora di una parabola del destino, dalla libertà che abbiamo appunto di scegliere come reagire o se reagire di fronte alla danza caotica della casualità che, attimo dopo attimo, ci sottrae il presente, vanificandolo, e trasformandolo in futuro, in un incessante movimento che è il procedere della vita stessa.
Ne La notte dell'oracolo , Paul Auster scrive: "viviamo nel presente, ma il futuro è dentro di noi in ogni momento", come a dire che nell'attimo stesso in cui ci muoviamo, in cui compiamo anche il più banale ed insignificante dei gesti, stiamo disegnando i contorni del nostro futuro.
Non c'è quindi determinismo. Non c'è un destino predefinito che prima o poi si verificherà comunque e le cose non accadono perché era stabilito che accadessero ma solo quello che è accaduto - in una visione "a posteriori" si potrà leggere poi come destino. Il destino è quello che è avvenuto.
Sunset Park prende il nome da un quartiere di Brooklyn, in cui, occupando una casa disabitata - con il rischio di essere sfrattati e denunciati per occupazione abusiva - si riuniscono quattro giovani (tutti sui trent'anni): due uomini e due donne. E' un romanzo corale, anche se nelle prime pagine - e anche da come viene descritta la trama nella traduzione italiana - sembra che ci siano un protagonista ed una storia centrali. O forse sì. Magari c'è anche un personaggio preminente ma se lo è, lo è nella misura in cui il lettore si sentirà più in sintonia con le vicende ed il carattere di uno piuttosto che di un altro, nella misura in cui ognuno sarà colpito da un personaggio piuttosto che da un altro. E, molto intelligentemente, l'intero romanzo è narrato in forma indiretta da una voce narrante fuori campo che in maniera neutra osserva prima uno e poi l'altro dei personaggi, passa a raccontare prima una storia e poi un'altra, senza omettere nulla, né le emozioni dei singoli, né i sentimenti messi pian piano a nudo, ma in maniera neutra, conferendo quindi all'intera vicenda una forma corale.
 La verità è che l'esistenza di ogni personaggio, descritta in capitoli separati per ognuno, diviene ad un certo punto il centro attorno a cui sembrano ruotare gli altri e le loro storie individuali, ma appena cambia la prospettiva - ossia appena la voce narrante passa a narrare la storia di un altro personaggio - è quest'ultimo che si fa centrale e, da satellite che era, diventa protagonista. Ogni evento è narrato così da più punti di vista, quasi a voler indicare la relatività di ogni verità.  Non esiste quindi un protagonista assoluto, esistono tanti piccoli centri che vanno a costituire questa entità vivente unitaria che è, materialmente ma anche metaforicamente,  rappresentata dalla casa in Sunset Park. La casa in Sunset Park diviene così un cuore pulsante che batte il tempo e scandisce l'organizzazione dell'esistenza. E questa casa è un cuore proprio perché è abitata, vissuta, perché nelle sue stanze circolano le emozioni ed i sentimenti di coloro che la abitano. Non a caso, il ragazzo dalla cui vicenda si parte per iniziare il romanzo, di mestiere, prima di venire a stabilirsi a New York,  fotografava gli oggetti abbandonati nelle case che devono essere messe all'asta ed i cui inquilini sono stati sfrattati. Il tema della casa - come luogo abitato, come luogo in cui hanno origine e si dipanano delle storie, come luogo fisico dell'esistenza, ossia di un esistere tout court, ritorna costante anche a fine romanzo. Ciò che conta però, dice Paul Auster, è che non importa tanto avere una casa quanto sapere che ognuno di noi può essere una "casa", deve imparare ad esserlo, per se stesso e per coloro che gli vogliono bene. L'io visto come un luogo da cui partire e a cui ritornare, anche dopo essersene allontanati, anche se capita di smarrirsi.
Sunset Park è un romanzo piuttosto ambizioso, nel senso che affronta tante tematiche importanti: parla del senso di colpa, del dolore, della solitudine, di cinema, di letteratura, del desiderio e della necessità di continuare a raccontare ed ascoltare le storie, questo passatempo che ha origine dall'inizio dei tempi e di cui sembra non ci si stanchi davvero mai... il richiamo delle storie, sempre le storie, le migliaia di storie, i milioni di storie, eppure nessuno ne è mai stanco, c'è sempre posto nel cervello per un'altra storia, un altro libro, un altro film...  ; e poi è un romanzo che parla soprattutto delle ferite, sia fisiche che psichiche, le ferite da cui si può guarire e quelle da cui non si guarisce mai, ma con cui si può - si deve - imparare a convivere: con l'avanzare degli anni non diventiamo più forti. L'accumulo di sofferenze e dolori indebolisce la nostra capacità di sopportare sofferenze e dolori, e dato che le sofferenze ed i dolori sono inevitabili, anche un piccolo rovescio nella fase più avanzata della vita può riecheggiare con la stessa forza di una tragedia quando siamo giovani. E succede che ad un certo punto si diventa persone ferite, come lo sono un po' tutti, sebbene molto giovani, chi per un motivo, chi per un altro, i personaggi di Sunset Park, eppure, tutti loro, anche e soprattutto specchiandosi negli altri, dopo essere andati alla deriva per un po', si riapproprieranno della loro esistenza, facendosi portatori attivi, consapevoli, responsabili di quel filo che conduce al nucleo più intimo di loro stessi. Le ferite, sembra dire Paul Auster, possono allontanarci da noi stessi, spezzandoci a metà, trasformandoci nella metà di quel che eravamo un tempo ed è solo costringendoci a tornare su di esse - riappropriandoci di quella parte di noi di cui ci siamo automutilati - che potremo ricominciare a percepirci di nuovo come esseri completi; ancora feriti ma non più mutilati.
Se è vero che non possiamo evitare il caos degli eventi, che non possiamo sfuggire agli imprevisti anche tragici - ed in questo senso siamo tutti marionette in balia di qualcosa di incomprensibile, e non di incomprensibile perché ce ne sfugge il senso ma proprio perché non c'è nulla da comprendere di questo caos assoluto che ci sovrasta - possiamo però farci portatori sani - e qui, in questa precisa accezione - ci facciamo artefici del nostro destino, del cammino che scegliamo di intraprendere. Vale a dire che, per quanto il destino possa essere stato crudele con noi, per quanto ci sembri di non aver avuto scelta e di aver commesso, a nostra insaputa, non volendo, errori irreparabili, possiamo però imparare a reagire, valutando gli effetti (lasciando perdere i perché ed i percome delle cause, ormai avvenute, ormai appartenenti al "passato"), compiendo scelte nel presente che potranno influire e determinare il nostro futuro.
Ciò che conta, la lezione che impareranno tutti i personaggi del romanzo, è però l'importanza del presente, l'unico davvero reale e su cui si può pensare ragionevolmente di agire. Le speranze per il futuro sono inutili almeno quanto i sensi di colpa del passato. Esiste solo il presente: la casa di ognuno, il solo luogo certo nel quale svegliarsi ogni giorno e al quale far ritorno la sera.    

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