venerdì 29 giugno 2012

Brando

Ieri sera stavo guardando alcuni video di animali su youtube e ne ho trovato uno molto carino in cui una persona accudisce una piccola scimmietta e le fa il bagno. Una scimmietta tenera e graziosa da morire. E così questa mattina, improvvisamente, mi è tornato alla mente un episodio che risale alla mia infanzia vissuta in un piccolo paese. 

C’era un signore un po’ eccentrico, il signor O., proprietario di un albergo-ristorante, che aveva preso una scimmietta. Non ricordo esattamente a quale specie appartenesse, non era uno scimpanzé comunque, era più piccola, probabilmente un macaco. Appena presa la portò subito in paese per mostrarla alle persone tenendola al guinzaglio come fosse un cagnolino. Io, da sempre amante degli animali, ricordo che non appena la vidi da lontano volli avvicinarmi curiosa per poterla meglio osservare e anche con la speranza di poterla accarezzare o magari prenderla in braccio. Ricordo che stavo mangiando un gelato e che mi avvicinai tenendo il cono in mano; la scimmietta, che era un maschietto e fu chiamato Brando, non appena mi vide avvicinare, di slancio si gettò su di me e mi tirò via il cono gelato dalla mano. Non mi aspettavo di certo un gesto fulmineo e deciso come quello e dopo qualche istante di stupore scoppiai in una grande risata e l’accarezzai tutta contenta. In poco tempo Brando divenne l’attrazione del paese. Tutti i bambini accorrevano a vederla da vicino, qualcuno meno timoroso si azzardava ad allungare la mano sulla sua testolina per una carezza, altri si limitavano a ridere contenti nell’osservare le sue strane smorfie, nell’ascoltare i suoi gridolini o nel prenderle la zampetta a mo' di saluto. Quando la portava in giro, il signor O. la teneva al guinzaglio e durante il resto del giorno e la notte la teneva libera nel giardino, che era sul retro dell’albergo e che aveva provveduto a chiudere con una recinzione. Si arrampicava sugli alberi e giocava. Ricordo che ogni volta che mi capitava di passare da quelle parti mi fermavo a cercarla con lo sguardo, oppure la chiamavo. Mi ci ero affezionata. Ogni volta che incontravo il signor O., quando era da solo, non perdevo occasione per fargli un sacco di domande su Brando: “dov’è adesso? Cosa fa? Cosa mangia? E dove dorme? Se vengo a casa tua mi ci fai giocare? Me lo saluti?”.

Dopo qualche mese dal suo arrivo nel paese si cominciò a parlare del fatto che fosse un po’ troppo selvatica, che il proprietario non fosse riuscito ad addomesticarla come avrebbe dovuto. Si sparse la voce che una volta lo avesse persino morso e che avesse cercato di aggredire alcune persone che si erano avvicinate un po’ troppo alla recinzione del giardino. Sapete come funziona nei paesi, da un particolare ci si costruisce una leggenda urbana le cui proporzioni aumentano nel passare di bocca in bocca. 

Fatto sta, che improvvisamente mi fu vietato di avvicinarla e accarezzarla: 
- “È pur sempre un animale selvatico, non si sa mai” - diceva mia madre;
- “meglio che non le vai troppo vicino, se ti morde poi è un problema” - diceva mio padre; 
- “è cattiva, aggredisce le persone” - diceva la gente; 
- “è una bastarda irriconoscente, gli do da mangiare e mi rigranzia con un morso” - diceva il signor O..

E poi venne quel giorno. Era un pomeriggio. Ero uscita per andare in paese con mia madre - abitavamo un po’ fuori dal centro e per raggiungerlo dovevamo giust’appunto costeggiare il giardino dell’albergo, quello in cui stava la scimmietta. A un certo punto vedemmo sopraggiungere il signor O., in senso opposto al nostro. Camminava a passi veloci, l’espressione torva e preoccupata, un fucile in spalla. Non appena ci vide fece segno a me e a mia madre di fermarci e di fare silenzio:
 - “Shhh... non vi muovete, state ferme lì”;
 - “signor O., che succede?” - fece mia madre allarmata;
- “Brando è scappato dal giardino, ha scavalcato la recinzione”-  rispose il Signor O. in maniera concitata;
- “oh mio Dio, ma dov’è adesso? E dove sta andando lei con quel fucile? Non vorrà mica...
 -  “tranquilla signora, è tutto sotto controllo, ho già chiamato anche rinforzi... vede, l’animale è come impazzito, è fuori di sé, già da qualche giorno era molto nervoso, oggi poi, quando mi sono avvicinato per dargli da mangiare mi è saltato addosso come per aggredirmi, ho fatto giusto in tempo a ripararmi in garage, temo che per riprenderlo non ci sia altro modo che...”;
- “ma come, ma com’è possibile, è solo una scimmietta... “ -  disse mia madre;
- “sì, è piccola, ma ha denti forti e una mascella fortissima, se aggredisse qualcuno passerei guai... anche voi... ecco, tornate indietro, aspettate che sia tutto finito”.
-  “Mamma, ma non vuole uccidere Brando, vero?” - dissi io con una vocina flebile;
-  “no, sta tranquilla, non vuole ucciderlo, sai, non spara cartucce vere quel fucile, vuole solo addormentarlo per poterlo riprendere”;
- “ma perché, lui non ci voleva stare in giardino?”;
 - “no, si vede di no”;
- “forse vuole tornare libero?
- “può essere, forse, non lo so, sai sono animali...“;
 - “ma non può lasciarlo andare dove gli pare e basta?”;
non può no, potrebbe mordere qualcuno, sai, è diventato cattivo”;
ma lui non è cattivo...“. 

Passarono i giorni, le settimane, i mesi e di Brando presto si perse il ricordo.
Solo io ogni volta che scendevo in paese mi fermavo ancora a cercarlo con lo sguardo in mezzo agli alberi del giardino, speranzosa di poterlo rivedere. Non mi dissero infatti che fu ucciso quel giorno. Mi dissero che quel fucile era servito ad addormentarlo e che poi l’avevano riportato sano e salvo nella foresta dove era nato. Cosa che mi riempì di gioia.

In realtà, come avrete immaginato, Brando finì di vivere quel pomeriggio in cui io e mia madre incontrammo il signor O. con il fucile. Altri tempi. Oggi davvero lo si sarebbe potuto addormentare e poi riportarlo sano e salvo in un luogo a lui congeniale. Forse oggi a nessuno, nemmeno a un signore un po’ eccentrico, verrebbe in mente di prendere una scimmietta selvatica e di pretendere che si comporti come un cagnolino. Forse oggi alcune specie sono più tutelate rispetto al passato. Quel che non è cambiata è l’arroganza tutta umana. Quella di giudicare “cattivo” un povero animale selvatico estirpato dal suo ambiente naturale e di volerlo punire per un “danno” che in realtà è imputabile solo all’uomo. E mi viene in mente King Kong, il celebre gorilla dell’omonimo film - e quanto piansi quando lo vidi al cinema - strappato ai suoi affetti e alla sua foresta, portato nella grande metropoli come attrazione turistica e poi ucciso perché dopo essere riuscito a liberarsi mette a soqquadro l’ambiente circostante e danneggia cose e persone.
Che colpa hanno avuto Brando e King Kong? Nessuna. L’uno nella realtà, l’altro nella finzione, era animali che vivevano liberi nel loro habitat, felici, secondo quelle caratteristiche di specie che gli sono proprie. Poi un bel giorno è arrivato l’uomo, li ha catturati, li ha imprigionati, li ha schiavizzati. Loro magari si sono ribellati, o magari hanno semplicemente cercato di vivere in accordo con la loro natura, reagendo alla paura, a determinati stimoli. 
E l’uomo, cosa vi aveva visto in loro? Non l’espressione di una meraviglia, non l’unicità del vivente, ma solo l’oggetto del proprio desiderio, solo il riflesso della propria bramosia di dominio sulla natura e sull’altro. Una volontà di dominio e di assoggettamento subito pronta a trasformarsi in paura non appena diventa ingovernabile, non appena l’altro risponde a reclamare il proprio diritto alla vita.
Dominio e paura. Intercambiabili. Per questo Brando è dovuto morire. Perché sfuggito al dominio, si è trasformato nel mostro da abbattere. 

Povero Brando. Nei miei ricordi tornerò ancora a cercarti, là tra gli alberi. E quando riuscirò a scorgere il tuo musetto simpatico, ti offrirò ancora un cono gelato. E ti chiederò perdono per quello che l’uomo ti ha fatto. E poi ce ne andremo via insieme. Liberi. Ognuno per la sua strada. Tu per la tua, nella foresta dove sei nato. Io per la mia, qualunque essa sia. Uniti nel ricordo di esserci sfiorati e amati per quello che siamo.

martedì 26 giugno 2012

La guardia giurata

Non sono di quelle che cercano sempre di cucire una vita addosso alle persone che si incrociano per strada, o sugli autobus, o in altri luoghi in cui c'è la possibilità di osservare. Però devo ammettere che ci sono individui che per una loro particolare fisionomia si prestano particolarmente a questo esperimento. È il caso della guardia giurata di servizio presso la banca in cui vado ogni tanto (vado, ahimé, non per piacere, ma per dovere). È un tipetto magrolino, minuto, talmente minuto che sembra quasi sparire dentro la divisa che indossa. I pantaloni troppo grandi oscillano mentre si muove, come agitati da un vento invisibile ed il rumore della stoffa di una gamba che struscia a contatto con l'altra dà come l'impressione che al loro interno non vi sia nient'altro che aria. Da sotto la giacca - segnata in vita da un cinturone talmente stretto a formare un vitino di vespa da far invidia alle modelle che sfilano in passerella e dal quale pende una pistola aggressiva - spunta un collo lungo e striminzito simile a quello di un tacchino, anche per il colore della pelle, leggermente rossastra, come irritata da un dopobarba scadente. Sulla testa una peluria grigiastra appena accennata, come di rasatura che comincia giust'appunto ad aver bisogno di una ripassatina. Ai piedi degli anfibi pesanti - pure con questo caldo! -  quelli da militare, allacciati stretti stretti e lucidati con cura, dai quali sbuffano i pantaloni che vi sono infilati dentro a forza. Volto scarno, guance rossastre, un sorriso sghembo che in un lampo riscatta l'impressione di profonda mestizia emanata dalla sua figura. Sempre in movimento, si sposta da un angolo all'altro dell'entrata, lo sguardo aguzzo su persone e oggetti come di chi vuole avere sempre tutto sotto controllo; e, del resto, è quello il suo lavoro. 

Ma la cosa più bella e più buffa di tutte è la voce, anzi, non propriamente la voce - sottile e stridula come ci aspetterebbe proprio da un fisico mingherlino - ma le parole, la lingua che emana da quella voce, una lingua dialettale lontana anni luce  dall'italiano standard, un dialetto così stretto ed immediato che giusto approssimativamente potrebbe essere avvicinato al napoletano, o comunque ad un dialetto campano. Non è il napoletano, il napoletano - quello di Totò, di Troisi - io lo capisco; magari non tutte tutte le parole, ma il senso globale della frase sì. No, il suo è qualcosa di più di un dialetto, è un dialetto appreso da generazioni e generazioni. È la lingua di chi in casa, sin da quando era bambino, non ha mai saputo sentir parlare altro che in dialetto, la lingua di chi non è andato a scuola regolamente, la lingua di chi non si è mai confrontato con altre realtà al di fuori di quelle del proprio quartiere. 

Una volta ho dovuto chiedergli un'informazione - mi pare sull'orario della banca, o qualcosa di simile - mi ha risposto farfugliando qualcosa per me incomprensibile che non sono riuscita a capire nemmeno dopo essermela fatta ripetere per tre volte consecutive; alla fine, non saprei se più imbarazzata per me che non riuscivo a capire o per lui che non riusciva ad esprimersi, ho annuito sicura, ringraziando per l'informazione (che non sono riuscita a capire!). 

Eppure c'è dell'altro che emana da questa figura. Un senso di orgoglio e di dignità che non saprei descrivere, ineffabile eppure concretamente percepibile. Svolge il suo lavoro con serietà e dovizia, con impegno profuso a cuor leggero, quello di chi ama il proprio lavoro. È sempre gentile, sempre cortese, sempre servizievole: sta lì pronto ad aprire la porta, a richiuderla - l'ultima volta non avevo l'euro che serve per poter usufruire dell'armadietto porta-oggetti e lui me l'ha prestato senza neanche pensarci due volte - ad offrire - in quella sua lingua stramba - tutte le informazioni di cui i clienti hanno bisogno. Sempre sorridente, di quel sorriso un po' sghembo che riscatta tutta la modestia della sua figura. Si vede che è fiero del lavoro che svolge, che è felice, realizzato, che sente di essere al suo posto, al posto giusto nel momento giusto, è proprio uno che ha trovato il suo posticino nel mondo. E tante volte mi sono immaginata come potrebbe essere ad essere lui. Uno che si alza la mattina e sa cosa deve fare, dove deve andare e perché. E un po' lo invidio. Giuro. Non importa che sia ignorante, che non abbia studiato, che non sappia parlare. È uno che quando la mattina si alza sa esattamente cosa fare e qual è il suo posto là fuori, nel mondo. E mi sono anche immaginata che questa sua sicurezza gli provenga da una certezza inconfutabile: quella di sapere di essere sfuggito da un luogo e da un'esistenza altrimenti disgraziati. Me lo sono immaginato proveniente dall'entroterra campano, da uno di quei posti in cui nasci con il destino già praticamente segnato. Una vita fatta di miseria - spirituale e materiale - in cui non hai altra scelta che quella di fare da manovalanza della camorra; oppure di scappare. E allora me lo sono immaginato quel giorno che è partito, ha salutato i suoi "ciao mà, ciao pà, statem' bbuon" (o qualcosa di simile) e poi è andato a cercar fortuna in città. E ora che l'ha trovata la sua fortuna, quella che per lui è l'alzarsi la mattina e sapere esattamente cosa fare ed avere un proprio posticino nel mondo, se la tiene stretta e con quel suo sorriso sghembo sembra proprio che voglia ricordarlo a tutti. 

E provo una certa gratificazione nell'osservarlo perché ci sono cose nel mondo che possono essere fatte solo nell'unica maniera in cui richiedono di essere fatte. Cose che hanno un unizio ed una fine. Come lavare i piatti. Si comincia e si finisce. Come tutto in fondo. E ci sono persone che hanno impressi sulla loro pelle l'inizio e la fine della loro esistenza. E vedere l'inizio e la fine di qualcosa è gratificante. O almeno lo è per me. Io, che non so mai dove sono iniziata, che forse devo ancora iniziare e che a volte però ho come l'impressione di scorgere già la fine.

Lucernario di José Saramago

È uscito un nuovo romanzo di Saramago. Sì, proprio lui, José Saramago, morto esattamente due anni fa, uno dei più grandi scrittori del novecento, Premio Nobel nel 1998, autore di alcuni capolavori tra cui Il Vangelo secondo Gesù Cristo, Cecità, Le intermittenze della Morte ed ora questo, Lucernario, che non è un romanzo qualsiasi, ma è il primo romanzo che scrisse, tra il 1949 ed il 1952, rimasto inedito fino ad oggi.
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martedì 19 giugno 2012

Maialini


(tratto dal sito La Vera Bestia).

Una volta, a tavola, durante una delle solite discussioni, un amico, intento a difendere le sue ragioni nel mangiare carne, ha detto: "ma tanto i maiali non soffrono, non si rendono conto di quello che gli sta accadendo, un attimo e via, sono morti". 
In realtà i maiali, così come tutti gli altri animali destinati al macello, sono esseri senzienti, pienamente consapevoli della realtà che li circonda e perfettamente in grado di rendersi conto cosa sta accadendo ai loro compagni che sono stati portati via prima di loro e quale la sorte che attende loro stessi; hanno il senso dell'olfatto molto sviluppato, sentono l'odore del sangue, della paura, della morte; avvertono l'angoscia. Ovviamente a tutto ciò si aggiunge la sofferenza fisica della loro prigionia, cui spesso si uniscono gesti di vero e proprio maltrattamento e di sevizie (tanto sono solo animali destinati ad essere trasformati in salsicce...). 
Il video sopra mostra benissimo l'angoscia ed il terrore nei loro sguardi, nella piena consapevolezza di ciò che li attende e che gli accadrà: essi non possono comprendere il perché di tanta cattiveria e crudeltà, capiscono solo che qualcosa di terrificante sta per accadere loro e, impossibilitati come sono a fuggire o a difendersi, incapaci persino di emettere il più flebile grugnito, affidano al loro sguardo tutta l'infinita disperazione e l'immane terrore che stanno provando, chissà, forse nell'illusione che qualcuno sappia, di rimando, restituirgli un barlume di compassione. E invece no, si procede nell'indifferenza più assoluta.
I loro occhi ci dicono tutto. 
Sulla fine del video poi, nel momento in cui evidentemente il loro aguzzino-macellaio entra nella stanza, fuggono spaventati e si rifugiano tutti insieme in un angolo, cercando di frapporre la massima distanza possibile tra lui e loro. Tra la morte e la vita. Tra l'indifferenza e la compassione.
Guardando questo video una sola domanda mi viene in mente: com'è possibile che dei miei simili facciano questo ad altri miei simili? 
Com'è possibile che un mio simile non riesca a scorgere - così evidente com'è - tutto il terrore e la disperazione che sono in quegli occhietti e non sappia muoversi a compassione? 
La prossima volta, prima di mettervi in bocca una salsiccia (o qualsiasi altra parte di qualsiasi altro animale), ricordatevi di questo sguardo, dello sguardo colmo di terrore di tutti gli animali indifesi che stanno per essere uccisi.
Il loro sguardo è lo stesso di come sarebbe il vostro in quel medesimo istante, in quelle medesime circostanze. Non è difficile da capire: basta solo sapercisi specchiare.

domenica 17 giugno 2012

Una giornata particolare



Come annunciato qui, ieri si è svolta a Roma la Manifestazione Nazionale contro la vivisezione e per chiedere la chiusura dell’allevamento di beagles destinati ai laboratori per la sperimentazione  situato a Montichiari (BS), organizzata dal Coordinamento Antispecista del Lazio ed Occupy Green Hill


Sotto un cielo terso, partito da Piazza della Repubblica il corteo ha attraversato alcune tra le principali e più suggestive strade e piazze romane (Via delle Terme di Diocleziano, Via Giovanni Amendola, via Cavour, Piazza Esquilino, Via Liberiana, Piazza Santa Maria Maggiore, Via Merulana, Largo Brancaccio, Viale Manzoni, Via Emanuele Filiberto) per poi radunarsi a Piazza San Giovanni. 


Eravamo in tanti, circa diecimila, donne, uomini, bambini di tutte le età, molti accompagnati dai propri amici pelosi, in fondo è per loro che ci siamo riuniti, decisi a far sentire la nostra voce; e le nostre voci non sono mancate: forti e chiare, accompagnate da slogan di protesta, condanna e soprattutto da una - inequivocabile - richiesta: porre fine alla sperimentazione animale, rispettare la vita di ogni essere senziente, aprire tutte le gabbie, quelle reali e quelli mentali - illusorie - della menzogna e della falsità. 


Difficile raccontare a parole la particolare atmosfera di vibrante partecipazione che si è potuta respirare, così come descrivere tutta l’energia e l’entusiasmo di noi tutti scesi sulle strade per esigere una società diversa, una società in cui nessun essere vivente dovrà più essere sfruttato ed ucciso per mano di altri esseri viventi, lascerò quindi che siano le foto (di Giorgio Cara) a farlo al posto mio.

 
 
 
 


mercoledì 13 giugno 2012

Le vie del cinema da Cannes a Roma: The We and the I di Michel Gondry

Michel Gondry è un regista che stupisce sempre, originale, creativo, almeno quando realizza opere indipendenti come nel caso di The We and the I, il suo ultimo lavoro presentato alla Quinzaine des Réalisateurs (selezione parallela, non in concorso, del Festival di Cannes).

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martedì 12 giugno 2012

Le vie del cinema da Cannes a Roma: Rengaine di Rachid Djaïdani

Girato quasi interamente con la macchina a mano, Rengaine – parola che in francese significa “ritornello”, “cantilena” – condensato in soli 75 minuti, estrapolati da ben 400 ore di girato, ha il valore di un piccolo saggio sui pregiudizi razziali e sull’incontro-scontro di diverse etnie.

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giovedì 7 giugno 2012

C'era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan

Un viaggio nel cuore delle steppe dell'Anatolia alla ricerca di un cadavere. 
La storia è semplice, ma le immagini dicono molto di più.
Ricordo che questo film ha vinto il Grand Prix al Festival di Cannes del 2011.
Qui potrete leggere la mia recensione.

martedì 5 giugno 2012

Manifestazione Nazionale contro Green Hill e contro la vivisezione

Sabato 16 giugno, a Roma, partenza ore 15,00 da Piazza della Repubblica (anche detta Piazza Esedra), ci sarà una manifestazione nazionale contro Green Hill e contro la vivisezione. 
Perché è importantissimo che partecipiate tutti e che sollecitiate più persone possibili ad essere presenti? Perché non sarà una manifestazione come le altre. Perché dopo il caso della liberazione dei beagles avvenuta il mese scorso avremo sicuramente tutti i riflettori della stampa puntati su di noi e sarà l'occasione giusta per far sentire, attraverso la nostra voce, la voce degli animali. 
Dunque è importantissimo far vedere che siamo tantissimi a volere non solo la chiusura di Green Hill, ma la fine della sperimentazione animale. La scienza e la ricerca medica hanno la possibilità di percorrere strade alternative, dunque che la smettano di versare il sangue di esseri senzienti. 
Vi prego di diffondere questo evento tramite Facebook, i vostri blog, email, sms e quant'altro vi verrà in mente. Portate tutti, parenti, amici, colleghi, amanti e vicini di casa. Dobbiamo essere tantissimi. 
Gli animali rinchiusi nei lager della vivisezione (che stanno soffrendo in questo preciso momento) contano su di noi; hanno solo noi. Facciamolo per loro.

lunedì 4 giugno 2012

L'inganno semantico


Da qualche tempo sono entrate in uso espressioni quali: “allevamenti biologici”, “carne biologica”, “benessere animale”, “allevamento a terra”, “allevamento all’aperto”, “macellazione etica” e così via.
La gente compra la “carne biologica” sentendosi la coscienza a posto nella ferma convinzione di non star contribuendo alla sofferenza degli animali.
Certo, il linguaggio ha una sua importanza. Anzi, direi che nella nostra cultura il linguaggio è tutto. Esso non serve a “dire” o rappresentare i concetti, ma è capace di crearli dal nulla. Basti pensare a parole come “libertà”, “dignità”, anche “amore”, parole che non designano nulla di concreto e preciso, ma che veicolano solamente idee astratte. La potenza evocativa delle parole è talmente forte che spesso basta solo chiamare le cose con un altro nome per illudere che esse siano diverse.
Il linguaggio politico e quello dei media è specializzato nel mettere in atto queste mistificazioni verbali. Quando ci si rende conto che la sensibilità della gente sta cambiando rispetto a determinate tematiche, allora, per non “disturbare” o “offendere” le coscienze e per non perdere credibilità presso l’opinione pubblica, si adottano diverse terminologie; così le guerre diventano “missioni di pace", l’uccisione di civili un “errore strategico”, l’invasione di un paese per l’accapparamento di risorse energetiche si fa “esportazione di democrazia”, gli zoo si trasformano - ma solo a parole - in “bioparchi”, i macelli sono “aziende per la lavorazione della carne” dove la sofferenza di migliaia di esseri senzienti si nasconde dietro la menzogna di “carne felice”, “carne biologica” e così via.
L’adozione di certi termini - studiati ad hoc proprio per evocare un certo tipo di immagini, magari neologismi di origine inglese così che la maggior parte della gente sia incapace di coglierne l’etimologia e ne apprenda solo in maniera indistinta ed assai imprecisa il concetto che si vorrebbe designato (ma quello della designazione è sempre comunque atto arbitrario, fatto che, al di là dell’intento mistificatorio vero e proprio sarebbe già di per sé sufficiente a rendere problematica l’attribuzione di significato) -  serve proprio a rimuovere e negare la vera realtà delle cose.
Cerchiamo di ragionare senza farci ingannare dall’uso tendenzioso (tendenzioso perché ha il fine di mistificare la verità) della semantica: cosa potrà mai significare il sintagma “carne biologica”? Esso sta a significare in realtà che il foraggio con cui è stato nutrito l’animale, destinato al macello per poi finire sulle tavole, è biologico, ossia non contaminato da pesticidi, coltivato in un terreno possibilmente al riparo da agenti inquinanti e non modificato geneticamente (non ogm). Il termine “biologico” può avere quindi una sola rilevanza di tipo salutista e al massimo ambientale, ma non di tipo etico nei confronti dell’animale cui quel cibo è destinato. Quel che interessa infatti non è salvaguardare la salute dell’animale, ma la salute di chi di quell’animale dovrà nutrirsi. Siamo all’interno di una logica antropocentrista per cui ciò che sta a cuore è unicamente il benessere dell’uomo. Eppure, accostando il termine “benessere” all’aggettivo animale si veicola falsamente l’idea che si sia salvaguardato anche il benessere dell'animale.
Analizziamo da vicino il termine “benessere animale”: esso indica lo “stare bene”, il “vivere bene” e vi include non solo l’assenza di malattia, dolore, disagio fisico e psichico, ma anche il raggiungere e mantenere il potenziale delle varie specie animali secondo quelle caratteristiche che gli sono proprie. Va da sé che in nessun allevamento di animali destinati ad essere uccisi per essere trasformati in cibo vi può essere il pieno soddisfacimento di quelle qualità che ineriscono al valore ultimo della loro esistenza che è quello, appunto, di vivere.
Oltre a questo livello particolarmente subdolo di mistificazione - o appannaggio della realtà - ci sono poi altri livelli di menzogne, più o meno deliberate. Ad esempio nelle confezione di uova si legge spesso: provenienti dagalline allevate a terra” e così il consumatore frettoloso e superficiale - e tale è perché non approfondisce - mette a tacere la voce della coscienza trastullando la propria immaginazione - rinforzata da immagini e slogan pubblicitari - con scenette di una natura bucolica in cui le galline razzolano libere e sono felici di deporre le uova per il contadino che le ama e le rispetta e, ovviamente, per noi.
Niente di più falso!!!
Recenti indagini svolte nei principali allevamenti di galline ovaiole dai quali provengono la maggior parte delle uova in commercio, hanno portato alla luce una realtà ben diversa: “allevate a terra” non significa che le galline sono libere di razzolare, ma che semplicemente le gabbie sono poste sul terreno. Oppure che gli animali sono effettivamente fuori da gabbie, ma ammucchiati a migliaia all’interno di un capannone chiuso, in numero talmente elevato da non riuscire ad avere l’autonomia di compiere nemmeno un passo: un vero e proprio inferno di penne, piume, zampe, becchi - questi ultimi dalla punta rigorosamente recisa alla nascita - operazione peraltro molto dolorosa ed effettuata senza anestesia - affinché non si cannibalizzino a vicenda a causa dello stress. Le galline, così sfruttate - sottoposte ad un ciclo interminabile di nutrizione perché i ritmi circadiani vengono alterati con l’ausilio di luci artificiali permanenti - compiuto il loro “ciclo di massima produzione” di uova, vengono poi uccise. I pulcini vengono selezionati alla nascita, quindi i maschi - inutili perché non producono uova - tritati vivi.
Dietro alla rassicurante ed ingannevole scritta “uova da galline allevate a terra” in verità si nasconde una realtà di orrore, sfruttamento, indicibile sofferenza, morte.
Eppure ciò che cattura l’attenzione del “consumatore” - al pari di una scritta fluorescente capace di stimolare i sensi e di solleticare l’immaginazione -
è la dicitura “allevate a terra”.
Io compro solo latte e formaggi biologici” ed ecco che pronunciando simili affermazioni la gente si illude di compiere una scelta di tipo etico e di zittire l’animalista di turno che sta cercando di sensibilizzare sulla sofferenza degli animali. Chissà cosa pensa del “biologico” il vitellino che appena nato viene strappato alla madre - e sia madre che figlio si disperano e piangono per giorni e giorni dopo essere stati separati - ingrassato a forza con foraggio effettivamente “biologico” e poi messo sui camion della morte con destinazione ultima macello?
Ah, ma io compro carne solo dall’allevatore di fiducia”. Sì, ma questo basta per impedire che un essere senziente venga comunque ucciso e soffra per mano dell’uomo? Forse la mano dell’allevatore di fiducia che cala la mannaia sulla testa dell’animale è una mano più pietosa di quella dell’allevatore anonimo? Come non capire che la sola pietà possibile è quella della sospensione e del rifiuto dell’atto di uccidere?
Può esistere una morte che non sia morte? Un’uccisione che sia più etica di un’altra? Uno sfruttamento di un essere senziente che sia compatibile con il desiderio di quest’ultimo di nascere e vivere libero?
Ad Auschwitz c’era scritto “Arbeit macht frei” - “il lavoro rende liberi”.
Eccolo, l’inganno semantico!!!
Lo stesso che oggi viene usato ogni qual volta si dice “carne biologica”, “benessere animale”, “animali allevati liberi”, “macellazione responsabile”.
Un luogo di reclusione - gabbia o “campo di lavoro”, prigione all’interno di mura o “arena” all’aperto che sia - sempre un luogo di reclusione, quindi di sofferenza, rimane.
La realtà non vuole essere “designata”, ma vuole essere esperita, conosciuta, svelata. Non fermiamoci allora ai caratteri cubitali - meri segni arbitrari - ma cerchiamo di approfondire, di conoscere, di vedere ciò che realmente avviene oltre le parole. Chiediamo ai servizi di informazione (i media) di mostrarci la realtà degli allevamenti, dei macelli e dei laboratori per la vivisezione - tramite video e inchieste trasparenti - e smettiamo di illuderci che dal cilindro della prestidigitazione delle parole, come per magia, quel che è sofferenza si tramuti improvvisamente in “benessere”.

venerdì 1 giugno 2012

Al supermercato

Un tizio in fila dietro di me non può fare a meno di osservare con interesse tutto ciò che tiro su dal carrello della spesa per metterlo sul rullo trasportatore della cassa:
- sei vegetariana? 
- Sì. 
- Ma non hai mica bisogno di stare a dieta!
- ah, ma no, non è per dimagrire, sai... è per gli animali...
- ahhh.... ho capito, gli hamburger di soia e il seitan li dai da mangiare agli animali...
- ehmmm...