martedì 27 marzo 2018

Petit Paysan, ovvero uno spot del buon allevatore compassionevole


Suona la sveglia, Pierre apre gli occhi, si alza e si fa strada tra i corpi delle Mucche che ingombrano l’appartamento, poi va in cucina, dove si prepara il caffè sotto lo sguardo curioso degli Animali. Una scena di intimo calore domestico. 
Dissolvenza. La sveglia suona di nuovo, questa volta nella realtà e non in sogno, e inizia la giornata lavorativa di Pierre.
Nella prima scena c’è già tutto l’intento del primo lungometraggio di Hubert Charuel, figlio di allevatori. Le Mucche occupano totalmente la mente del protagonista, sono il suo lavoro, la sua vita, non c’è spazio per altro, né per gli amici, né per l’amore, né per lo svago e nemmeno per i genitori. 
Il titolo italiano aggiunge una frase all’originale, “un eroe singolare”. 
Ed è così che ci viene descritto questo giovane allevatore che non esita ad uccidere con le sue stesse mani due Mucche che hanno contratto la febbre emorragica – una con un colpo di accetta, chiedendole “scusa”, l’altra con un colpo di fucile – e poi a nasconderne i corpi per evitare che la sanità pubblica abbatta l’intera mandria. 
Rispetto alla dimensione onirica della scena d’apertura, il resto ha un taglio molto realistico; la macchina da presa segue Pierre nelle sue mansioni quotidiane: la mungitura meccanica delle Mucche, la nascita di un vitellino – che viene subito allontanato dalla madre e costretto a bere il suo primo latte da un secchio di plastica -, la foratura delle orecchie per attaccare le marche auricolari, il pranzo a casa dei genitori, le visite della sorella veterinaria. Apprendiamo che Pierre è il miglior allevatore della zona, primo per qualità del latte. Un primato che lo rende orgoglioso e che non vuole assolutamente perdere. 

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