lunedì 24 febbraio 2020

Quell'attivismo così rassicurante...

L'homo sapiens trova difficile cambiare. Che si tratti di abitudini quotidiane rodate da anni, quale quella di prendere un caffè appena alzati la mattina e di farlo svolgendo un preciso rituale, o che si tratti di idee, credenze, opinioni confermate e supportate dalla maggioranza, quindi spacciate per "normalità", il risultato non cambia.
Il cervello fa fatica a pensare in modo critico, ad accogliere e mettere in dubbio, a stravolgere, a cambiare, appunto. Trova più semplice confermare le proprie idee perché ciò è rassicurante. E cercare conferma di esse, prestando attenzione a tutto ciò che in qualche modo assolve questo compito e ignorando, dimenticando, negando, rimuovendo il resto. Stare nella zona comfort, si dice. Anche se alcune abitudini possono essere nocive, anche se una parte di noi le percepisce magari come discutibili o addirittura sbagliate, comunque sia, se sono quelle cui siamo abituati, ci danno comunque conforto e protezione.

Ora, vediamo di applicare questo discorso allo specismo.
Da quando nasciamo ci dicono e ci comunicano in ogni modo possibile che mangiare e usare animali sia una cosa normale; rinchiudiamo e forziamo alcuni animali in ruoli precisi e pensiamo che questi ruoli siano naturali (naturalizzare, si dice, funzioni che invece sono frutto di cultura e non biologiche); così alcuni li mangiamo, mentre altri li consideriamo da compagnia, altri ancora li sfruttiamo come fossero macchine, o li usiamo in spettacoli di intrattenimento o li rinchiudiamo per andare a guardarli o ancora li torturiamo e facciamo ammalare per farci gli esperimenti. Quale che sia la funzione cui li destiniamo, consideriamo normale usarli per i nostri interessi e scopi perché sin da quando siamo venuti al mondo abbiamo visto farlo, sappiamo che è legale, lo facevano anche la nonna, la mamma, il papà, e tantissime altre brave persone che di certo non sono dei mostri nazisti. Questo ci dice ogni fibra del nostro cervello. E questo tendiamo a conservare.

Ora, quando una minoranza arriva a mettere in discussione tutto ciò è importante che lo faccia andando a intaccare il cuore di queste credenze errate e usando anche un certo tipo di argomentazioni logiche e chiare. È molto importante che i nostri messaggi e le nostre comunicazioni non siamo ambigue e che, soprattutto, non contengano elementi che possano invece rassicurare e confermare proprio quelle credenze che vogliamo scalfire.
Secondo quanto detto sopra, infatti, il cervello, pigro nel cambiare, a suo agio nelle abitudini e credenze della zona comfort, si comporterà come una bambino spaventato che di fronte alle novità che lo disorientano e spaventano - perché mettono in discussione tutto ciò cui aveva creduto fino a quel momento e fanno crollare la sua scala di valori, che poi è la scala di valori della società antropocentrica e specista, cioè quella che dice che l'umano viene prima di ogni cosa - cercherà riparo proprio in quella piccola ambiguità e frasetta che gli conferma e ribadisce che in fondo quello che pensa e fa non sia sbagliato.
Dunque, se noi portiamo avanti un'idea di antispecismo che contempla l'amicizia con gli allevatori, il pietismo nei loro confronti, la riduzione dell'uso degli animali (anziché l'abolizione), le gabbie più grandi (anziché la loro totale eliminazione) o che si appella ad argomentazioni indirette in cui gli altri animali sono comunque ancora inseriti, a livello discorsivo e di immagine, dentro il paradigma specista che ne conferma l'uso, non solo non andremo a scalfire il cuore dello specismo, ma daremo un appiglio al cervello per confermare e rafforzare quanto già sa. Il cervello riceverà conferma del fatto che in fondo gli allevatori non fanno poi delle cose così terribili e che in fondo non sia poi così sbagliato usare gli animali, basterà trattarli meglio, ucciderli pietosamente, non picchiarli, non abusarli (ma l'abuso è già nell'uso poiché il corpo degli altri non dovrebbe appartenerci).

In questi giorni si è parlato molto del salvataggio di una mucca e di un vitellino a opera di Joaquin Phoenix (che comunque ha agito all'interno di una cornice di attivismo che ormai sta andando per la maggiore), il quale si è recato presso un noto allevamento e dopo aver parlato con il proprietario si è fatto regalare questi due individui.
Tutti si sono focalizzati sull'azione del salvataggio. Nei giorni successivi l'allevatore addirittura se ne è vantato sui suoi social, affermando che per lui era tutto un ritorno in pubblicità positiva e quindi business; poi Phoenix si è fatto una foto con lui, come fossero grandi amiconi, e si è sperticato in lodi della suddetta persona, affermando di aver trovato un amico, che era una persona di buon cuore ecc.
Ora, indovinate un po' il cervello su cosa si sofferma? Ovviamente, non sul fatto che in quell'allevamento ci sono migliaia di individui che verranno mandati al macello di lì a poco, che le mucche saranno sfruttate e munte fino allo sfinimento, che i vitellini saranno ingrassati per qualche mese e poi inviati al macello anche loro, né, tanto meno, si sofferma sulla messa in discussione dello specismo in generale. No, si sofferma sulla buona azione dell'allevatore, sulla pacca della spalla di Phoenix all'allevatore, sulla normalità di essere un allevatore, cioè uno che fa nascere individui deputati alla sola funzione di essere macchine e prodotti. L'allevatore è uno di noi, allevare è un lavoro come un altro, lo dicono persino gli animalisti, lo dice persino uno come Phoenix.

Ma questo di Phoenix è in fondo un aneddoto come tanti. Come troppi in questa nuova era di attivismo che sta totalmente stravolgendo il concetto di liberazione animale, servendo all'industria dello sfruttamento animale la soluzione per rinnovarsi e rafforzarsi tramite campagne incentrate su:
- riduzionismo;
- macellazione etica (magari con controlli effettuati dagli stessi attivisti o proponendo di mettere telecamere);
- salvataggio di pulcini maschi;
richiesta di metodi meno cruenti di uccisione per i pesci, di stordimento ecc.;
- richiesta di eliminazione delle gabbie (ma non degli allevamenti);
- richiesta di buone pratiche di allevamento tramite applicazione di miglioramenti per il "benessere animale" (termine coniato dagli allevatori stessi e funzionale in realtà all'ottenimento di un buon prodotto, salubre ecc.).
In aggiunta a tutto ciò; confusione sul termine di veganismo (per l'ambiente, la salute ecc.).

E tutto ciò lo stiamo facendo noi attivisti, noi che ci dichiariamo antispecisti, le associazioni animaliste più blasonate in termini di visibilità. Lo stiamo facendo d'accordo con aziende che lucrano sugli animali, che li usano, vendono, commerciano. Lo stiamo facendo in anticipo, servendo soluzioni al mercato della carne, latte ecc.;
Il welfarismo, riduzionismo e tutto quanto decritto sopra NON dovremmo introdurlo noi, ma dovrebbe essere una risposta reattiva dell'industria dello sfruttamento degli animali.
E noi dovremmo farci trovare pronti a combattere tutto questo, non a incoraggiarlo, proporlo, confermarlo. Noi siamo quelli che dovremmo alzare l'asticella, non metterci sullo stesso piano di allevatori e macellai con tanto di pacca sulla spalla.

Il nostro fine deve essere quello di abolire lo specismo, di bloccare questo ciclo di riproduzione forzata di individui che vengono messi al mondo solo per essere trasformati in prodotti e usati nei più svariati modi, combattere questa agghiacciante normalità, questa assurda banalità del male. Se al contempo riusciamo a salvarne qualcuno tramite azione diretta va bene, ma il fine non è il salvataggio di qualche singolo per poi rafforzare e mantenere intatto il paradigma specista. Attenzione quindi ai messaggi che accompagnano le liberazioni, alle modalità con cui lo si fa e a come lo si comunica.

I piccoli passi, il riduzionismo, il protezionismo e le collaborazioni con gli allevatori e i macellai sono la zona comfort del cervello della maggioranza che cerca conferma delle proprie idee speciste.

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