martedì 9 novembre 2021

Lo specismo nell'arte

 


L'antefatto. Vittorio Sgarbi si fa fotografare di fronte a una vetrina con parti di corpi di animali squartati. I vegani lo criticano. Lui liquida la questione dicendo che i vegani dovrebbero studiare la storia dell'arte e cita La bottega del macellaio di Carracci.* 

Vittorio Sgarbi dice che noi vegani dovremmo studiare la storia dell'arte perché di dipinti che raffigurano macellerie o animali squartati è piena l'arte.

Che novità!

E dunque? La storia dell'arte è anche piena di donne uccise, seviziate, martirizzate, di neonati abbandonati, gettati giù dalla rupe, di schiavi, di racconti mitologici. 

Non per questo oggi giustifichiamo certi orrori del passato, cioè non perché grandi artisti li hanno riprodotti sulla tela facendoli diventare dei capolavori. Un conto è raccontare la realtà, un altro è giustificarla, infatti, specialmente se questa realtà inizia a essere messa in discussione per tutta una serie di motivi assai significativi.

Io posso anche riconoscere il capolavoro di un Carracci, ma ne contestualizzo la scena in riferimento ai tempi. Tempi in cui degli altri animali non si sapeva nulla e si credeva che fosse necessario mangiarne i corpi per vivere. 

L'arte infatti riflette e riproduce i valori dell'ideologia dominante, rappresenta precise visioni del mondo e della società. Il fatto che gli altri animali siano sempre stati riprodotti come esseri al servizio dell'uomo, che siano cadaveri esposti sui banchi delle macellerie, o buoi che tirano l'aratro o anche cavalli montati da cavalieri in guerra, non è di per sé indicativo di qualcosa di necessariamente giusto, normale e  naturale; è invece il racconto di un dominio, di un'oppressione, di un rapporto egocentrico, antropocentrico e specista con il resto dell'animalità.

La storia dell'arte, come il resto della produzione culturale (libri, film, filosofia) ci racconta una storia: una storia appunto fatta di dominio e di attribuzione arbitraria di valore secondo una scala rigidamente antropocentrica in cui la nostra specie si erge a capo del resto dei viventi. Ci racconta lo specismo. Anzi, studiare l'arte - e analizzarla magari da una prospettiva antispecista - è interessante proprio per capire meglio lo specismo e come l'idea che abbiamo maturato nel corso dei secoli degli altri animali sia stata veicolata proprio anche grazie ad essa che nel riproporre valori e idee del mondo attuali li normalizza e naturalizza consegnandoli ai posteri. 

Ma i posteri dovrebbero avere la capacità critica appunto di contestualizzare quei valori e quelle idee del mondo che per fortuna nello scorrere dei secoli mutano, o dovrebbero, con il mutare della sensibilità e in accordo con le nuove scoperte scientifiche, etologiche ecc.

Sarebbe ora di mettere in discussione questa visione arcaica in cui la nostra specie si arroga il diritto di usare tutte le altre solo perché ha la forza e i mezzi per farlo e di approfondire un po' quello che dicono i vegani senza liquidarli con frasi fatte. Il problema infatti non è che i vegani non studino l'arte (poi quali vegani? Perché etichettare e ridurre così un movimento eterogeneo?), ma che non si studino abbastanza gli altri animali, o meglio, che li si continui a guardare soltanto attraverso il filtro dello specismo, quindi non vedendoli quali gli individui senzienti che sono, ma come prodotti da consumare, come massa di carne indistinta.

Che Sgarbi studi un po' l'antispecismo, quindi, quanto meno, prima di definire i vegani esaltati o talebani. 

Che legga i testi dei principali filosofi prima di dire la sua e che abbia il coraggio di confrontarsi sui contenuti senza buttare tutto in caciara, come si dice a Roma. 

Quella del vegano esaltato è una fallacia, la fallacia dello straw man, per l'esattezza. Cioè, si crea un fantoccio e lo distrugge con sarcasmo senza prendersi la briga di riflettere sui contenuti che propone.

Liquidare le critiche delle persone vegane definendo queste ultime come persone ignoranti che non studiano l'arte non è un argomento. 

E anzi che ci ha risparmiato almeno il suo "Capra, capra, capra!", frase indicativa di un linguaggio antropocentrico che si serve degli altri animali per insultare la nostra specie, indicativo quindi di un'attribuzione arbitraria di inferiorità che nell'uso reiterato viene interiorizzata, senza riflettere sul fatto che ogni specie ha la sua intelligenza specie-specifica e che paragonare intelligenze diverse, intese come sforzo di adattamento all'ambiente, è non solo sbagliato, ma proprio scientificamente insensato.

*Di macellerie (e pescherie) nella storia dell'arte ho accennato anche in un capitolo di "Ma le pecore sognano lame elettriche?"

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